Nel 1815, quando i Borboni ritornarono a Napoli, la popolazione era di 5.060.000, nel 1836 di 6.081.993; nel 1846 la popolazione arrivò a 8.423.316 e dieci anni dopo a 9.117.050.
Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, dipinge opere meravigliose e inquietanti. Anche nella sua biografia c’è inquietudine, oscurità e mistero. Nato a Milano nel 1571, vissuto poi a Caravaggio, paese d’origine della sua famiglia, compare a Roma, nel 1595, quale esperto pittore, già molto stimato da notabili e alti prelati della Roma papalina, che gli commissionano opere importanti. Eppure, ed è molto strano, non si conosce nessuna sua opera dipinta prima del suo soggiorno romano. I critici hanno studiato a fondo le sue pitture romane e vi hanno evidenziato influenze, per quanto ipotetiche, di vari pittori lombardi esaltando, così, l’importanza della pittura lombarda. Viceversa, sono stati molto poco studiati i rapporti tra le sue pitture realizzate a Napoli e l’ambiente sociale e artistico di questa città. Anzi, ci è affrettati ad affermare soltanto l’influsso di Caravaggio sui pittori napoletani, che quindi sono stati definiti tout court caravaggeschi. Ma ecco, a Capodimonte, fino al 14 luglio, la mostra Caravaggio Napoli, che già nel titolo “paritario” si presenta come stimolo ad approfondire questo argomento, iniziando un nuovo discorso. E che, seduttiva e spettacolare nell’allestimento, curato dallo stesso direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte Sylvain Bellenger e dalla professoressa Cristina Terzaghi, può diventare una pietra miliare nella conoscenza di Michelangelo Merisi, della pittura seicentesca napoletana e, in fondo, pure di tutta la storia dell’arte. Caravaggio arriva a Napoli nel 1606. E’ in fuga da Roma, dove è stato condannato a morte perché, in una rissa, ha ucciso un uomo. Napoli è il suo rifugio. Vi resterà per quasi un anno. Vi ritornerà nel 1609 e se ne allontanerà l’anno dopo per sfuggire a un misterioso killer; ma nella fuga, invece, troverà la morte. Napoli, all’epoca, è una splendida capitale spagnola e la città di gran lunga la più popolosa d’Italia. In quegli anni è in piena attività anche edilizia e sta sostituendo il palazzo reale aragonese con un altro più grande e più bello, che dovrebbe accogliere Filippo III d’Asburgo, il Re, che però non vi giungerà mai. (lo stesso palazzo, ristrutturato e modificato, ora si trova nella piazza del Plebiscito, chiamata, un tempo, Largo di Palazzo) A Napoli, all’epoca, c’è un’ampia e vivace cerchia di letterati e di artisti, tra i quali Caravaggio è accolto. E possiamo immaginarlo dialogare con loro in un proficuo scambio di idee. Si ritrovano nella Taverna del Cerriglio. Tra gli avventori, c’è gente di nobile famiglia, come il grande Giovan Battista Basile, che la dice “casa de li spasse, dove trionfa Bacco, dove si scarfa Venere e s’allonga la vita ‘e chiù ‘e cient’anne”. Ma la taverna è frequentata anche da povera gente: è un ambiente napoletano, in cui ricchi e poveri si mischiano, perché il denaro e il ceto sociale non sono, per i napoletani di un tempo, il discrimine che li divide. Ricchi e poveri appaiono insieme, mischiati tra loro, anche nella prima opera che il pittore lombardo dipinge a Napoli: Le sette opere di misericordia.
LA MOSTRACaravaggio Napolial Museo di Capodimontefino al 14 luglio 2019, sala Causa (piano terra), aperta tutti i giorni dalle 8.30 alle 19.30 (compreso il mercoledì, tradizionale giorno di chiusura del Museo). La biglietteria chiude alle 18.30. Il biglietto della mostra dà diritto a un ingresso ridotto al Pio Monte della Misericordia e viceversa. Disponibili navette gratuite tra Capodimonte e Pio Monte della Misericordia messe a disposizione dal Comune di Napoli e dal Museo. Prenotazioni e acquisti online www.coopculture.it Per saperne di più http://www.museocapodimonte.beniculturali.it/
I Borbone furono meridionali. Erano come noi. Il Re ed il
“lazzaro”, nell’innegabile diversità di ruolo, erano parte di un
unico organismo sociale, che funzionava.
Ma lo Stato non era “borbonico”, era bensì il nostro Stato.
Eppure quando si ricordano gli avvenimenti risorgimentali, i più pensano che la
guerra la persero i Borbone da soli, assumendoli a simbolo convenzionale di
un’entità estranea e desueta, cui tutti i mali vanno ascritti, quale panacea
delle coscienze di ieri e d’oggi.
Così, in questa narcotica trasposizione, la Nazione
viene sostituita dalla stessa Monarchia, ed il Re considerato un estraneo
nemico del tessuto sociale.
Questa visione è presente anche tra gli eruditi: coloro che hanno immagazzinato
tantissimi dati, ma non hanno saputo sintetizzare una cultura propria,
omologandosi così a quella convenzionale.
Costoro sono
pronti a condannare, con severa sicumera, chi non si adatta a questa operazione
di rimozione della memoria storica, bollandone il pensiero quale revisionismo
“spazzatura”.
Sopravvive
pertanto la visione del passato distratta e rassicurante per le italiche
coscienze che il Borbone passasse le giornate assiso sul trono, in una
pittoresca e tragica rincorsa verso sempre più dispotici ed estemporanei
capricci.
Questa visione
risulta conveniente anche alle coscienze meridionali che, identificando
l’Antico Stato con la Dinastia, si affrancano dalla sconfitta e, soprattutto,
dal peso di ciò che i nostri padri avrebbero dovuto esprimere, in campo
politico sociale civile economico, e che invece non seppero esprimere.
Così è nata la trasposizione d’ogni responsabilità,
passata presente e futura, ai Borbone, compendio di un Male talmente
inamovibile, da spiegare e giustificare l’imperfezione dell’attuale Bene.
Ma la verità è che i Borbone non erano un tumore in un corpo sano.
Non erano gli
oppressori stranieri da sostituire con l’Italia: essi erano Meridionali, con
pregi e virtù, e se il Regno cadde, ciò fu anche dovuto alle colpe dei liberali
meridionali.
L’Antico Regno
era uno Stato costituito: aveva leggi, governi, ministeri, funzionari,
burocrati, magistrati, militari e tutti questi erano Meridionali, che
condividevano le responsabilità di Stato.
Sia ben chiaro: l’Antico Regno di Ferdinando II è
stato quanto di meglio il Sud ha saputo, in completa autonomia, esprimere in
campo istituzionale.
Ricordiamoci perciò che quando si dice “lo Stato borbonico, l’esercito
borbonico, la burocrazia borbonica, il dispotismo borbonico, ecc”, si
stanno usando simboli atti a rimuovere il ricordo del nostro passato, l’unico
che ci appartiene, e per far apparire naturale esigenza storica il confluire
nell’Italia dei Savoia, quelli sì stranieri.
La guerra del 1860 l’abbiamo persa noi Meridionali,
con la nostra incapacità e con i nostri traditori.
I soldati di Franceschiello non erano un esercito stravagante, un po’
sfortunato, un po’ ridicolo: era il nostro esercito formato da giovani
pugliesi, lucani, abruzzesi, calabresi, campani, ecc.
Tutti
ugualmente traditi da pochi e dimenticati dalla Storia nelle squallide prigioni
sabaude, o in un bosco di Ripacandida, in una infame e disperata guerra
partigiana. I morti di quella guerra furono i nostri morti, non quelli dei
Borbone.
Le conseguenze di quella sconfitta esplosero nelle nostre mani, come una
bomba a orologeria che scoppia ad intervalli successivi con deflagrazioni
sempre più laceranti: miseria, emigrazione, sottosviluppo, malavita,
imbarbarimento sociale e civile.
Il problema della tratta minorile in varie nazioni europee, soprattutto Francia e Inghilterra, era tristemente presente, nella seconda metà dell’ottocento, in varie zone d’Italia. Il territorio dell’attuale provincia di Frosinone, ad esempio, fu coinvolto nell’incetta di fanciulli da impiegare come garzoni nelle vetrerie francesi e non furono pochi i casi di coloro che, per i massacranti turni di lavoro e per la vita di stenti, morirono o si ammalarono gravemente, specialmente di tubercolosi1.
Il
13 Marzo 1864 a Frusci (AVIGLIANO) il capo banda legittimista Giuseppe Nicola
Summa alias “Ninco Nanco” viene giustiziato dalla Guardia Nazionale. Il
capitano Ninco Nanco è uno dei più devoti luogotenenti di Carmine Crocco,
protagonista di numerose rappresaglie ai danni di ricchi possidenti e militari
sabaudi. Era conosciuto per le sue brillanti doti di guerrigliero, per la sua
freddezza e brutalità, attributi che lo resero uno dei briganti più temuti di
quel tempo. Nonostante la sua efferatezza, viene da alcuni considerato un eroe
popolare, da parte di quella schiera di popolani che si ribellarono ai soprusi
e alle repressioni sabaude. In una rissa venne pestato e pugnalato ad una gamba
da quattro o cinque persone che lo costrinsero a tre mesi di guarigione.
Giuseppe, anziché denunciare l’accaduto alla polizia, preferì la vendetta
personale. Qualche mese dopo, uccise uno dei suoi aggressori a colpi di ascia.
L’omicidio gli costò dieci anni di carcere a Ponza, ma riuscì ad evadere
nell’agosto 1860. Recatosi a Napoli, tentò di arruolarsi nell’esercito di
Giuseppe Garibaldi per poter ricevere la grazia ma fu scartato. Tentò la stessa
cosa sia presentandosi a Salerno da Nicola Mancusi, comandante della colonna
insurrezionale di Avigliano, e sia facendo domanda di arruolamento nella
Guardia Nazionale ma entrambi gli esiti furono negativi. Costretto al
brigantaggio, Ninco Nanco iniziò a vivere di rapine e furti, rifugiandosi nei
boschi del Vulture. Il 7 gennaio 1861, incontrò Carmine Crocco, del quale
divenne uno dei più fidati subalterni. Il brigante aviglianese, assieme a
Crocco, partecipò a numerosi saccheggi, conquistando prima tutto il Vulture,
senza mai riuscire a prendere la sua città natia, Avigliano, poi gran parte
della Basilicata, spingendosi fino all’avellinese e il foggiano. Si distinse
soprattutto nella battaglia di Acinello, comandando la cavalleria dei briganti
e dimostrando la sua padronanza in campo bellico. Non esitava ad aggredire le
famiglie borghesi, ricorrendo al sequestro, all’omicidio e alla devastazione
delle proprietà in caso di mancato sostegno. Nel gennaio 1863, isieme ad alcuni
membri della sua banda uccisero brutalmente il delegato Costantino Pulusella,
il capitano Luigi Capoduro di Nizza e alcuni suoi soldati, dopo che Capoduro,
sperando di indurre il brigante alla resa, si era avviato con i suoi uomini nel
bosco di Lagopesole. I loro cadaveri furono scoperti alcuni giorni dopo. Il 12
marzo 1863 nei dintorni di Melfi, massacrò un gruppo di cavalleggeri di
Saluzzo, guidati dal capitano Giacomo Bianchi. All’agguato parteciparono anche
le bande di Crocco, Caruso, Giovanni “Coppa” Fortunato, Caporal Teodoro,
Marciano, Sacchetiello e Malacarne. Solamente due soldati piemontesi
sopravvissero, mentre il capitano Bianchi venne ucciso da Coppa con una
pugnalata alla nuca e la sua testa fu troncata dal busto. La falcidia avvenne
in risposta alla morte di alcuni briganti avvenuta nei pressi di Rapolla, i
quali vennero catturati, uccisi e i loro cadaveri bruciati dai regi soldati.
Carmine Crocco durante un interrogatorio, negò torture e scempi da parte del
brigante aviglianese ai danni dei militari prigionieri, asserendo che era
«terribile solo per la propria defesa», infatti Ninco Nanco si rese
protagonista anche di atti generosi. Aiutava economicamente le sue sorelle, le
quali versavano in condizioni misere ed, essendo profondamente religioso,
mandava soldi ai preti affinché celebrassero messe in onore della Madonna del
Carmine, la cui effigie portava sempre con sé al collo. Durante l’assedio di Salandra,
risparmiò un sacerdote che, in passato, aveva aiutato la sua famiglia e gli
garantì la sua protezione. Ninco Nanco depositò alcuni oggetti di valore nella
cappella del Monte Carmine, che furono sequestrati e venduti per ordine della
commissione antibrigantaggio nel 1863; con il ricavato vennero effettuati
lavori di ristrutturazione dell’edificio.
Una volta, fermò un mercante di panni di Potenza confiscandogli una manciata di
ducati ma, subito dopo, gli restituì la somma. L’antropologo di scuola lombrosiana
Quirino Bianchi, autore di una biografia su Ninco Nanco, nonostante lo
considerasse un «brigante tanto feroce e di indole perversa», appartenente ad
una «famiglia degenerata», sostenne che, avendo pietà della miseria, intimò il
capobrigante Giuseppe Pace, detto il Castellanese, di smettere di minacciare di
morte i poveri, i quali non avevano la possibilità di sostenere le bande. Per
cinque anni in tutto il Vulture-Melfese e la valle di Vitalba (da Atella fino
al castello di Lagopesole) non ci fu un viaggio non disturbato dai briganti o
che non sfuggisse alla loro vigilanza.
Chi si avventurava senza una adeguata scorta armata (per esempio agli operai
addetti ai lavori di costruzione della strada Moliterno-Montalbano fu
predisposta una scorta armata) veniva sistematicamente depredato, come capitó
al corriere postale ai primi di giugno 1861 nel territorio di Venosa, o a
quello proveniente da Melfi nell’aprile 1864, o al saccheggio effettuato a
scapito di un carretto carico di sale e tabacco nel luglio 1862 ad opera delle
bande di Ninco Nanco e di Tortora. L’attività di Ninco Nanco iniziò a perdere
colpi l’8 febbraio 1864, quando la sua banda fu decimata presso Avigliano e 17
dei suoi uomini furono uccisi. Il 15 febbraio dello stesso anno, venne emessa una
taglia di 15.000 lire sul brigante. Circa un mese dopo, il 13 marzo, Ninco
Nanco e 2 dei suoi fedeli (uno di questi era suo fratello Francescantonio)
furono braccati nei pressi di Lagopesole dalla Guardia Nazionale di Avigliano.
Vennero giustiziati subito presso Frusci (frazione di Avigliano) e Ninco Nanco
morì per mano del caporale della G.N., Nicola Coviello, con due colpi di cui
uno dritto nella gola, per vendicarsi dell’assassinio del cognato compiuto dal
brigante aviglianese il 27 giugno 1863. Tuttavia, altre ipotesi ritengono che
il brigante venne ucciso per ordine del comandante della G.N. aviglianese, Don
Benedetto Corbo, appartenente ad una delle maggiori famiglie gentilizie della
zona, per evitare che venissero alla luce sue presunte connivenze con le bande.
Due mesi dopo, lo stesso Corbo fu coinvolto in un’altra vicenda di complicità
con i briganti e venne accusato dal generale Baligno, comandante delle truppe
di Basilicata, di aver rilasciato senza permesso alcuni briganti della banda
Ninco Nanco. Carmine Crocco raccontò nelle sue memorie che, venuto a conoscenza
della morte del suo luogotenente, decise di vendicarlo e, trovandosi nelle
vicinanze del posto in cui avvenne l’assassinio, preparò la punizione da
infliggere ai suoi esecutori ma, vedendo l’arrivo di un reggimento di soldati,
dovette abbandonare il piano. La salma di Ninco Nanco fu trasportata, il giorno
dopo, ad Avigliano e fu appesa all’Arco della Piazza come monito. Il giorno
seguente, il suo corpo fu portato a Potenza, ove venne seppellito. Deceduto il
brigante, i suoi uomini confluirono nella banda di Gerardo De Felice detto
“Ingiongiolo”, brigante di Oppido Lucano.
Per la morte di Ninco Nanco l’avv. De Carlo che ricopriva all’epoca la carica
di Sindaco del Comune di Avigliano, compose questo originale acrostico:
Ero e non son più, di sangue intriso
Corsi i campi ove sorge il Sacro Monte
Col ferro, il fuoco, lo sterminio e l’onte
O’ l’uman diritto e quel di Dio deriso.
Nessun
mi guardi con pietade in viso
Il nome di Cain mi bolle in fronte ;
Non rispettai del mio battesimo il fonte;
Crudel mi son su cento tombe assiso
Or del Carmelo la Patrona e Diva,
Non più soffrendo la mia fausta sorte, Arcano, ausilio ad AViglian largiva; Negar non posso che Colei può molto, Che al di qua di quel Monte ebb’io la morte. Oltre quel Monte è mio fratelsepolto.