Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Emigrazione e tratta minorile in Basilicata nella seconda metà dell’Ottocento

Posted by on Mar 24, 2019

Emigrazione e tratta minorile in Basilicata nella seconda metà dell’Ottocento

Il problema della tratta minorile in varie nazioni europee, soprattutto Francia e Inghilterra, era tristemente presente, nella seconda metà dell’ottocento, in varie zone d’Italia. Il territorio dell’attuale provincia di Frosinone, ad esempio, fu coinvolto nell’incetta di fanciulli da impiegare come garzoni nelle vetrerie francesi e non furono pochi i casi di coloro che, per i massacranti turni di lavoro e per la vita di stenti, morirono o si ammalarono gravemente, specialmente di tubercolosi1.

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155°anniversario della morte del guerrigliero legittimista “NINGHE NANGHE”

Posted by on Mar 14, 2019

155°anniversario della morte del guerrigliero legittimista “NINGHE NANGHE”

Il 13 Marzo 1864 a Frusci (AVIGLIANO) il capo banda legittimista Giuseppe Nicola Summa alias “Ninco Nanco” viene giustiziato dalla Guardia Nazionale. Il capitano Ninco Nanco è uno dei più devoti luogotenenti di Carmine Crocco, protagonista di numerose rappresaglie ai danni di ricchi possidenti e militari sabaudi. Era conosciuto per le sue brillanti doti di guerrigliero, per la sua freddezza e brutalità, attributi che lo resero uno dei briganti più temuti di quel tempo. Nonostante la sua efferatezza, viene da alcuni considerato un eroe popolare, da parte di quella schiera di popolani che si ribellarono ai soprusi e alle repressioni sabaude. In una rissa venne pestato e pugnalato ad una gamba da quattro o cinque persone che lo costrinsero a tre mesi di guarigione. Giuseppe, anziché denunciare l’accaduto alla polizia, preferì la vendetta personale. Qualche mese dopo, uccise uno dei suoi aggressori a colpi di ascia.
L’omicidio gli costò dieci anni di carcere a Ponza, ma riuscì ad evadere nell’agosto 1860. Recatosi a Napoli, tentò di arruolarsi nell’esercito di Giuseppe Garibaldi per poter ricevere la grazia ma fu scartato. Tentò la stessa cosa sia presentandosi a Salerno da Nicola Mancusi, comandante della colonna insurrezionale di Avigliano, e sia facendo domanda di arruolamento nella Guardia Nazionale ma entrambi gli esiti furono negativi. Costretto al brigantaggio, Ninco Nanco iniziò a vivere di rapine e furti, rifugiandosi nei boschi del Vulture. Il 7 gennaio 1861, incontrò Carmine Crocco, del quale divenne uno dei più fidati subalterni. Il brigante aviglianese, assieme a Crocco, partecipò a numerosi saccheggi, conquistando prima tutto il Vulture, senza mai riuscire a prendere la sua città natia, Avigliano, poi gran parte della Basilicata, spingendosi fino all’avellinese e il foggiano. Si distinse soprattutto nella battaglia di Acinello, comandando la cavalleria dei briganti e dimostrando la sua padronanza in campo bellico. Non esitava ad aggredire le famiglie borghesi, ricorrendo al sequestro, all’omicidio e alla devastazione delle proprietà in caso di mancato sostegno. Nel gennaio 1863, isieme ad alcuni membri della sua banda uccisero brutalmente il delegato Costantino Pulusella, il capitano Luigi Capoduro di Nizza e alcuni suoi soldati, dopo che Capoduro, sperando di indurre il brigante alla resa, si era avviato con i suoi uomini nel bosco di Lagopesole. I loro cadaveri furono scoperti alcuni giorni dopo. Il 12 marzo 1863 nei dintorni di Melfi, massacrò un gruppo di cavalleggeri di Saluzzo, guidati dal capitano Giacomo Bianchi. All’agguato parteciparono anche le bande di Crocco, Caruso, Giovanni “Coppa” Fortunato, Caporal Teodoro, Marciano, Sacchetiello e Malacarne. Solamente due soldati piemontesi sopravvissero, mentre il capitano Bianchi venne ucciso da Coppa con una pugnalata alla nuca e la sua testa fu troncata dal busto. La falcidia avvenne in risposta alla morte di alcuni briganti avvenuta nei pressi di Rapolla, i quali vennero catturati, uccisi e i loro cadaveri bruciati dai regi soldati.
Carmine Crocco durante un interrogatorio, negò torture e scempi da parte del brigante aviglianese ai danni dei militari prigionieri, asserendo che era «terribile solo per la propria defesa», infatti Ninco Nanco si rese protagonista anche di atti generosi. Aiutava economicamente le sue sorelle, le quali versavano in condizioni misere ed, essendo profondamente religioso, mandava soldi ai preti affinché celebrassero messe in onore della Madonna del Carmine, la cui effigie portava sempre con sé al collo. Durante l’assedio di Salandra, risparmiò un sacerdote che, in passato, aveva aiutato la sua famiglia e gli garantì la sua protezione. Ninco Nanco depositò alcuni oggetti di valore nella cappella del Monte Carmine, che furono sequestrati e venduti per ordine della commissione antibrigantaggio nel 1863; con il ricavato vennero effettuati lavori di ristrutturazione dell’edificio.
Una volta, fermò un mercante di panni di Potenza confiscandogli una manciata di ducati ma, subito dopo, gli restituì la somma. L’antropologo di scuola lombrosiana Quirino Bianchi, autore di una biografia su Ninco Nanco, nonostante lo considerasse un «brigante tanto feroce e di indole perversa», appartenente ad una «famiglia degenerata», sostenne che, avendo pietà della miseria, intimò il capobrigante Giuseppe Pace, detto il Castellanese, di smettere di minacciare di morte i poveri, i quali non avevano la possibilità di sostenere le bande. Per cinque anni in tutto il Vulture-Melfese e la valle di Vitalba (da Atella fino al castello di Lagopesole) non ci fu un viaggio non disturbato dai briganti o che non sfuggisse alla loro vigilanza.
Chi si avventurava senza una adeguata scorta armata (per esempio agli operai addetti ai lavori di costruzione della strada Moliterno-Montalbano fu predisposta una scorta armata) veniva sistematicamente depredato, come capitó al corriere postale ai primi di giugno 1861 nel territorio di Venosa, o a quello proveniente da Melfi nell’aprile 1864, o al saccheggio effettuato a scapito di un carretto carico di sale e tabacco nel luglio 1862 ad opera delle bande di Ninco Nanco e di Tortora. L’attività di Ninco Nanco iniziò a perdere colpi l’8 febbraio 1864, quando la sua banda fu decimata presso Avigliano e 17 dei suoi uomini furono uccisi. Il 15 febbraio dello stesso anno, venne emessa una taglia di 15.000 lire sul brigante. Circa un mese dopo, il 13 marzo, Ninco Nanco e 2 dei suoi fedeli (uno di questi era suo fratello Francescantonio) furono braccati nei pressi di Lagopesole dalla Guardia Nazionale di Avigliano. Vennero giustiziati subito presso Frusci (frazione di Avigliano) e Ninco Nanco morì per mano del caporale della G.N., Nicola Coviello, con due colpi di cui uno dritto nella gola, per vendicarsi dell’assassinio del cognato compiuto dal brigante aviglianese il 27 giugno 1863. Tuttavia, altre ipotesi ritengono che il brigante venne ucciso per ordine del comandante della G.N. aviglianese, Don Benedetto Corbo, appartenente ad una delle maggiori famiglie gentilizie della zona, per evitare che venissero alla luce sue presunte connivenze con le bande. Due mesi dopo, lo stesso Corbo fu coinvolto in un’altra vicenda di complicità con i briganti e venne accusato dal generale Baligno, comandante delle truppe di Basilicata, di aver rilasciato senza permesso alcuni briganti della banda Ninco Nanco. Carmine Crocco raccontò nelle sue memorie che, venuto a conoscenza della morte del suo luogotenente, decise di vendicarlo e, trovandosi nelle vicinanze del posto in cui avvenne l’assassinio, preparò la punizione da infliggere ai suoi esecutori ma, vedendo l’arrivo di un reggimento di soldati, dovette abbandonare il piano. La salma di Ninco Nanco fu trasportata, il giorno dopo, ad Avigliano e fu appesa all’Arco della Piazza come monito. Il giorno seguente, il suo corpo fu portato a Potenza, ove venne seppellito. Deceduto il brigante, i suoi uomini confluirono nella banda di Gerardo De Felice detto “Ingiongiolo”, brigante di Oppido Lucano.
Per la morte di Ninco Nanco l’avv. De Carlo che ricopriva all’epoca la carica di Sindaco del Comune di Avigliano, compose questo originale acrostico:
Ero e non son più, di sangue intriso
Corsi i campi ove sorge il Sacro Monte
Col ferro, il fuoco, lo sterminio e l’onte
O’ l’uman diritto e quel di Dio deriso.

Nessun mi guardi con pietade in viso
Il nome di Cain mi bolle in fronte ;
Non rispettai del mio battesimo il fonte;
Crudel mi son su cento tombe assiso
Or del Carmelo la Patrona e Diva,

Non più soffrendo la mia fausta sorte,
Arcano, ausilio ad AViglian largiva;
Negar non posso che Colei può molto,
Che al di qua di quel Monte ebb’io la morte.
Oltre quel Monte è mio fratelsepolto.




«Il governo italiano ci manda contro la forza a perseguitarci; ebbene, facciamogli vedere fin da oggi che noi non abbiamo intenzione di prestargli obbedienza.» (Ninco Nanco)

fonte https://unpopolodistrutto.com/

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LA CALATA DEGLI OSTROGOTI di NICOLA ZITARA

Posted by on Gen 25, 2019

LA CALATA DEGLI OSTROGOTI di NICOLA ZITARA

La parola italianità significa, più o meno,  che qualcosa o qualcuno, per il suo atteggiarsi, porta i segni dell’appartenenza alla cultura, al costume, al carattere degli italiani. Ma l’Italia, il paese che detta agli uomini o alle cose il suo segno, qual è? Quella del Sud o quella del Nord? Perché, in effetti, è chiaro a tutti, che di Italie ce ne sono due: quella degli itagliani e quella dei taliani.

La confusione è cominciata al tempo di Roma repubblicana, allorché gli italici erano romani per i doveri militari e non lo erano per l’arricchimento provenienti dai saccheggi che illustrano (anche se non lo si dice) la civiltà romana. La confusione è andata così avanti che è difficile stabilire se furono i Romani a conquistare l’Italia o se furono gli Italici a conquistare Roma.

Comunque una certa alterità (o doppiezza) tra chi sta dentro l’Itaglia a pieno titolo e chi non possiede il titolo pieno, ma solo una specie di usufrutto, c’è sempre stata. Pensate al significato etnico e politico della frase “Temo i Greci e i doni che essi portano” (o quando portano doni. Esattamente: Timeo Danaos et dona ferentes), che circolava a Roma-urbe al tempo di Scipione l’Emiliano.

Ora, questi Greci della  frase erano essenzialmente taliani del Sud, i quali, vinti e sottomessi dai Romani, portavano doni ai vincitori e padroni, al fine di ingraziarseli in vista di un lavoro o di un favore (al tempo di Cicerone si diceva clientes, da cui l’itagliano clientela, in taliano ‘amici’). In buona sostanza, i Romani, non paghi di esercitare una padronanza sui Taliani, li giudicavano anche male.

La cosa si è ampiamente ripetuta dopo l’unità cavourrista. Raffaele Cadorna, intrepido generale milanese, nel 1866, assediò, bombardò, conquistò  e sottomise Palermo insorta contro l’unità. Nella sottostoria d’Itaglia, Palermo non fu la prima città bombardata, ma la seconda dopo Genova (dal grande Lamarmora Alfonso, inventore dei bersaglieri).

La quarta fu Gaeta (un tempo città, anche se oggi è un insignificante borgo taliano), la quarta Reggio Calabria, la quinta  – non appena Caldiroli avrà assunto il comando dello Stato Maggior Generale (ed anche Ammiraglio), sicuramente Napoli. Non tutta, però; solo quella abitata dai Taliani. Perché, come tutti sanno, a Napoli ci sono anche molti Itagliani (Bassolino, Jervolina, Pomicino, Mussolina, etc.). Il seguito si vedrà. Forse Augusta, forse Mazara del Vallo, forse Agrigento, non so.

Anche al tempo dell’eroico Cadorna c’erano ambivalenze italiche. Palermitani nemici della patria e palermitani patrioti. Leoluca Orlando Cascio non era ancora nato, ma viveva e operava un suo antenato e precursore come sindaco di una città (e forse antenato anche nel senso proprio di stipite familiare), il quale patriotticamente guidò la mafia nell’opera di liberazione della decaduta capitale federiciana, in ciò seguendo l’esempio del Generale Garibaldi, che pochi anni prima, alla testa di venti idealisti, 980 avanzi di galera, un assegno scoperto e 3000 mafiosi (per pudore detti ‘picciotti’, ancorché analfabeti e non capaci di capire altro se non il tintinnio delle piastre – chissà perché turche? – generosamente distribuite dai consoli inglesi di stanza), aveva liberato l’intera Sicilia dall’odiato Borbone.

Qualche decennio dopo, il  marchese Di Rudinì fu elevato per i suoi meriti a presidente del consiglio dei ministri itagliano e taliano, aprendo la strada a un mafioso più illustre ancora, un componente della seconda generazione di patrioti, il prof. Vittorio Emanuele Orlando,  presidente della vittoria nel 1918. 

Cornuti e mazziati, il nome dell’illustre guerriero, generale Cadorna,  ce lo ritroviamo nella toponomastica dei nostri paesi e città bombardate, insieme a quello del Generale Lamarmora, che non pago della carneficina di Genova, si esibì nella patriottica opera di liquidare i briganti taliani.

Leggo su Corriere Economia del 7 febbraio 2005 il fondo di Edoardo Segantini dal titolo “Quella cosa del Sud che nessuno vuole dire”.

A lettura fatta, mi resta da capire se sono taliano o itagliano. Infatti, io vivo immerso nella mafia, che sicuramente non è cosa italiana, in quanto l’italianità è definita dall’aeroporto della Malpensa, dall’EuroStar (non so se “E’ bello Star in Europa” o se Stella d’Europa), dalla Scala, da Giuseppe Verdi, da Maria Callas e, perché no, anche da Giovanni Verga e dall’Opera palermitana dei Pupi.

Tuttavia potrei anche essere itagliano anch’io, perché sono stato prima fascista e poi antifascista, subito dopo, forse per redimermi, ho fatto  l’emigrazione a Melano, sono transitato per Piazza Cairoli e accanto alla Scala, quando vi cantava la Callas e Toscanini vi dirigeva l’orchestra, e anche accanto  al Piccolo quando era guidato da Strehler. Insomma sono mezzo taliano e mezzo Itagliano. Ma non tutto Itagliano, come Segantini.      

La mafia è taliana e non conosce l’itagliano. E tuttavia intrattiene gran rapporti d’amicizia  con i banchieri e i costruttori di Milano, che, come ben si sa, sono Itagliani cosmopoliti (o forse Itagliani apolidi), comunque parlano una lingua EuroUNiversal).

Per combatterla, il collega Segantini suggerisce l’invio dell’esercito. Personalmente sono d’accordo. La  mafia, o la si vince militarmente o i vari De Gasperi, Einaudi, La Malfa, Saragat e i Comitati di Liberazione Alta e Bassa Italia continueranno a nasconderla nel sottoscala.

Resta il tema dei Dona Ferentes, dei regali o regalie (o anche sportule o tangenti, vulgo intrallazzi). Cioè il tema di Benetton, Zonin, Melagatti, Pelagatti, Filogatti, Carlusconi, Bruttusconi, Perlusconi, Merlusconi, Pittusconi, che stanno comprando le case a Ortigia e le terre viticole della mafiosa Sicilia, come insegna lo stesso numero di Corriere Economia in altra pagina. Quo vadis, Domine?  Questa è la strada maestra dell’itaglianità. Lo anticipai nel 1971, ma nessuno mi credette.

Predissi (L’unità d’Italia, nascita di una colonia) che per redimerci pienamente, gli avremmo venduto   la terra come i nostri megaellenici progenitori,  e portato doni che li avrebbero messi in sospetto. “Cu nesci, arrinesci”, chi va fuori fa fortuna, cita il Corriere. Stiamo nescendu, anzi nescsimu da 150 anni. Però non pensavo di vivere tanto da fare in tempo a vendere la casa avita a un Serluschese del Trecento. Ecce Domine!

PS. Secondo me, la perfetta talianità dei meridionali si ha con Totò Riina e con questo Cuffaro, di cui – chiedo scusa – mi sfugge il nome di battesimo. Quella degli Itagliani, di edificare dei taliani simili a loro è un pio e cavourristico proponimento, che mai potrà realizzarsi, perché la talianità è dell’Oriente mentre l’itaglianità è dell’Occidente. Se e quando i taliani si faranno anche loro le fabbriche, tutt’al più torneranno a essere come i Danaos prima che intraprendessero l’esercizio di portare doni, non mai Itagliani.

Perché c’è il risvolto dei Dona Ferentes. Anche questo in latino: Graecia capta ferum vincitore cepit, frase che tradotta a senso (storico) dice: i taliani – i quali non vollero combattere a loro difesa, e perciò noi Romani li abbiamo vinti e assoggettati – con i loro artifici (o altro) stanno mettendosi sotto gli Itagliani.  Le case, la terra, prendete anche questo. I nobili prediligono gli ambienti storici.

Senza il citato Cadorna, Giovanni Paolo II benedirebbe  i credenti dal balcone del Quirinale. Ma i preti, bene o male, furono pagati. A Napoli e in Sicilia, i sabaudi si beccarono non meno di una decina di regge, senza sborsare un centesimo. Il nostro lavoro se prendono già, pagandolo male. Il nostro sottosuolo è loro sin dal maledetto giorno dell’unità. Adesso anche le case, le spiagge, il sole, la terra. 

L’attuale caduta della capacità d’acquisto, per salariati e stipendiati, a questo mira. Ma il giorno in cui non vi porteremo più doni (forse) non è lontano.

Nicola Zitara

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ATLANTIDE

Posted by on Gen 11, 2019

ATLANTIDE

Un viaggio nella memoria. Smentito ad ogni passo, vuoi per un asfalto recente vuoi per un tetto o una facciata rifatti. Solo le candele di una centa sembravano sempre le stesse, quelle di oltre sei lustri fa, quando seguimmo una delle tante vie aperte da chi se ne era andato prima di noi, verso l’isola felice del socialismo italiano, regione modello per eccellenza.

Altre volte eravamo riandati a Sud, nei decenni passati, spinti dalla nostalgia o da impegni familiari. Stavolta però il viaggio nella memoria era denso di presunzioni e di illusioni “duosicilianiste”.

Come prima tappa l’omaggio ad un maestro, Nicola Zitara, uno storico che ha fatto della dignità meridionale una ragione di vita ed un progetto politico: la indipendenza del paese meridionale quale soluzione unica e improcrastinabile al problema dei problemi, l’assenza di lavoro.

L’incontro si snoda tra appassionate ed estenuanti discussioni notturne e viaggi in luoghi simbolo della cultura e della storia meridionale, Gerace, Stilo, la ferriera di Ferdinandea, le fabbriche di armi e gli altiforni di Mongiana.

Appassionate discussioni notturne

Sullo sfondo sia delle parole che dei passi sempre lei, l’isola felice. Per noi, immagine-ricordo ingombrante, dove ormai sostano tanti affetti. Per gli altri, immagine-modello di un nord ordinato, opulento, invidiato e invidiabile. 

Da imitare. 

Modena, ah Modena, Reggio Emilia… gli asili all’avanguardia. Lo avremmo sentito dire tante volte nel corso di questo viaggio nel Sud, tra Campania, Calabria e Lucania.

A sud, invece, tutto da rifare, non funziona nulla. Solo mafia, corruzione, insipienza politica. Iniziative zero.

“Questo sud ha bisogno di uno scossone morale. I destini dei meridionali della diaspora e di quelli che oggi vivono al sud si divaricheranno sempre di più, per interessi contrapposti.”

La necessità di una scossa morale la condividiamo, le modalità  per generarla un po’ meno. Forse da lontano si vede male, distorto, non si percepiscono appieno la profondità e la vastità delle contraddizioni di una società devastata dalla emigrazione prima e dal mito dei soldi facili poi. Un mito che ha coinvolto tanti: a testimoniarlo una militarizzazione veramente impressionante del territorio [la Locride].

Le scorribande tra passato, presente e futuro si inseguono e si intersecano nei pochi giorni – o, meglio, soprattutto nelle notti! quando Zitara dava il meglio di sé nelle discussioni – di permanenza a Siderno

Uno dei filoni d’indagine che meriterebbe di essere esplorato – secondo il nostro ospite – è il “trattamento riservato alle opposizioni” nei primi anni di vita unitaria. Sicuramente si usarono maniere forti ed era pressoché impossibile opporsi. 

Noi suggeriamo che fu il “brigantaggio” la vera rovina del Sud: la paura dei briganti impedì alle classi dirigenti meridionali di far valere le proprie ragioni nei confronti del nuovo stato. Giocarono di rimessa, consegnando l’ex regno nelle mani dei piemontesi, senza contropartite.

Tra una discussione e l’altra riusciamo a convincere Zitara a postare un messaggio – intanto un amico napoletano dà un preavviso per informare gli iscritti che eventualmente vogliano replicare o porre delle domande – nel forum di Terra e Libertà. 

Zitara percepisce la potenza del mezzo e le possibilità di dialogo fra persone lontane che esso offre ma non ha un accesso personale diretto a internet e dopo la nostra partenza non ci risulta abbia proseguito il dialogo.

Per chi è interessato a leggere le repliche che non riportiamo in quanto dovremmo chiedere le autorizzazioni agli iscritti al forum, basta collegarsi a https://www.ngsoft.it/forum/ e leggersi – finché non verranno archiviati – i messaggi della discussione intitolata: Sondaggio: autonomia o indipendenza?

Gerace

La Firenze del Sud, deve il suo nome a Jerax, sparviero, secondo altri all’antico nome Bizantino “aghia kiriaki’” (S. Ciriaca). Il borgo poggia su un rilievo arenario da cui si domina la quasi totalità del territorio della Locride.

Il centro urbano conserva l’originaria struttura medioevale, è ricco di chiese, palazzi, e strutture architettoniche particolari (Gotiche, Bizantine, Normanne e Romaniche), i portali, le stradine, i monumenti, la bellissima cattedrale Normanna, il castello, le chiese del X, XII sec.

Di Gerace oltre alla straordinaria vista panoramica, ci ricordiamo di uno “strano” particolare, l’essere rimasti al sole per diverso tempo senza aver avuto alcun problema – quando a Siderno si trovava difficoltà a fare una passeggiata sotto il sole anche alle sei del pomeriggio.

Stilo

Situata alle pendici del Monte Consolino, dette i natali a Tommaso Campanella. Centro di storia e cultura tra i più rappresentativi di tutta la Calabria, tra le varie chiese e monumenti, di notevole interesse la cattedrale detta “Cattolica“, esempio unico di arte bizantina.

Ci siamo immersi nel respiro del silenzio che invita alla meditazione all’Eremo di Monte Stella, risalente all’epoca dei primi insediamenti di eremiti.

Nella chiesa bizantina di San Giovanni Theristis, risalente al X sec., officiata dai monaci greci, oltre a Padre Kosmas Aghiorita abbiamo incontrato Francesco, giovane e altero calabrese, reduce dalla partecipazione alla Fiera di Rimini, giugno 2005, al “Premio per il miglior sito comunale” per il sito https://www.bivongi.com.

Ferdinandea

Chi ama la storia di questo sfortunato paese e passa per le Calabrie non deve sottrarsi a questa sorta di pellegrinaggio che noi – assolutamente ignari di cosa avremmo trovato – abbiamo intrapreso tra fitti e verdi boschi di faggi, guidati dall’instancabile Franco Z. e dalla vulcanica Antonia C., insostituibili compagni di viaggio.  

Ma questa è Atlantide!” ha esclamato mia moglie di fronte all’imponenza del complesso che prorompe dalla vegetazione che l’ha sommersa e nascosta alla vista in più parti.

Ferdinandea, emblema di un glorioso passato sconosciuto alla stragrande maggioranza degli stessi meridionali – lo avremmo verificato nel prosieguo di questo viaggio a sud. Un nome che non è finito sui libri di storia, almeno quella insegnata nelle scuole e nelle accademie, rimanendo perciò ignota. Venne destinata, nella prima metà del 1800 a sede della direzione delle Regie Ferriere e della Fonderia, stabilimenti già in funzione da tanto tempo, e costituenti fonte di reddito per tutta la zona.

Il complesso residenziale comprende una Cappella o Oratorio, che esiste tuttora ma a cui è vietato accedere.

All’interno della tenuta, dimora estiva di Ferdinando II, accanto al laghetto artificiale, abbiamo incontrato due giovani con un gruppo di scout. Siamo rimasti piacevolmente sorpresi nello scoprire che essi avevano un opuscoletto contenente alcuni appunti su Ferdinandea [ringraziamo Maria Federica di Bovalino per averci dato copia delle due pagine che riproduciamo per intero]. Una prova tangibile che a Sud la vulgata risorgimentale si sta incrinando, che iniziano a circolare documentazioni storiche che negli scorsi anni erano appannaggio di pochi isolati cultori di storia meridionale.

Mongiana

Per evitare di tornare indietro, vista la distanza da Siderno, lasciamo la visita a Mongiana per il giorno della partenza, del ritorno in Campania, destinazione Vallo di Diano.

A Mongiana sono ancora visibili i resti di un vero e proprio complesso siderurgico sulle rive del fiume Allaro, di un altoforno sopravvissuto alle intemperie e alla incuria degli uomini e di una fabbrica d’armi, destinata alla produzione di cannoni, doppiette, sciabole, ma anche di utensili (bracieri, mortai) e balconi – mia moglie faceva notare, passeggiando per il paese, le personalizzazioni delle ringhiere visibili nei balconi meno recenti di quasi tutte le case.

Dopo la visita alla fonderia [vedi foto] , in Via Carbonile incontriamo un gentilissimo signore del luogo che ci chiede se abbiamo bisogno di passare dietro casa sua. Noi non resistiamo alla tentazione di domandargli cosa avesse sentito dire da piccolo dagli anziani del paese. Ne nasce una intervista non programmata, dove la storia con la esse maiuscola si incrocia con quella personale di emigrante prima e di forestale dopo, con tanti rimpianti per una vita che sarebbe stata diversa se non avessero smantellato la fabbrica di Mongiana e portato tutto a Brescia [forse la storia non andò proprio così ma ci è andato molto vicino]

Tra le altre cose che il signor Angelletta dice – durante la conversazione che riportiamo per intero – è che “a quei tempi quando suonava la campana si passava a prender la paga, non come adesso che ti fanno aspettare anche sei mesi“.

La fabbrica d’armi, edificio essenziale, la cui entrata è sormontata da due enormi colonne doriche di ghisa massiccia, è in restauro e non abbiamo potuto visitarla. In questa fabbrica furono fusi i binari della prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici.

L’altra tappa è stata la fabbrica dei cannoni, di cui si è persa finanche la memoria negli stessi abitanti di Mongiana. Dopo alcune domande senza risposta, un anziano signore ci ha indirizzati per un sentiero che porta a valle, lungo il fiume Allaro. Ci siamo incamminati in cinque ma un giovane abitante incontrato lungo la strada ci ha vivamente sconsigliato di proseguire. E così siamo andati avanti solo in due, chi vi scrive e l’infaticabile Franco. Solo una buona dose di follia o una grande passione può spingerti sotto lo schioppo del sole del primo pomeriggio, per giungere qualche chilometro più in basso, oltre il ponte di cui aveva parlato l’anziano signore delle prime indicazioni, ad un muracene che solamente una pietra rossastra tipico scarto da fusione testimoniava l’antica esistenza di una fabbrica di cannoni. Vana la ricerca di qualche segno più evidente tra le siepi che ricoprivano tutto.

Poco prima del ponte l’insegna del famoso “Sentiero naturalistico Frassati” un sentiero che per i luoghi che tocca costituisce una sorta di crocevia in cui s’intrecciano le vie del monachesimo, del naturalismo e della civiltà industriale.

Sul tardo pomeriggio giunge quell’ora – triste  per ogni viaggiatore – in cui dobbiamo salutare i nostri ospiti che se ne tornano verso la costa jonica, a casa propria. Noi decidiamo di pernottare. Una decisione davvero, saggia, in quell’albergo di Mongiana abbiamo riassaporato il piacere del silenzio dopo aver sofferto la chiassosa Siderno notturna.

All’indomani di nuovo sull’A3 – stavolta oltre i cantieri esistenti tra Lamezia e Rosarno – verso il Vallo di Diano. Il solito mistero dell’obbligo di procedere a 60 km all’ora  nella zona di Sibari lungo un pezzo di autostrada in cui i lavori parevano terminati. Ovviamente nessuno rispettava quell’assurdo e incomprensibile limite – avremmo scoperto di lì ad una settimana che era dovuto – parola di giovane camionista conoscitore del tratto che percorre spesso – alla cedevolezza del fondo stradale appena realizzato [verità o leggenda metropolitana?].

La capitale

Napoli, bella e maledetta. Vi capitiamo in uno dei giorni più torridi di luglio. Lasciata la stazione, dalle parti di via Torino finiamo in un dedalo di vie,  una delle quali completamente colonizzata da extracomunitari, dai marciapiedi ai negozi, al via vai di camion che scaricavano e caricavano merci.

Abbandoniamo l’idea di proseguire a piedi. Ad una fermata dei bus incontriamo il “solito napoletano” che ti spiega con dovizia di particolari cosa prendere per andare dove vuoi andare. Si tratta probabilmente di una questione fortuna, ma tutte le volte che passiamo per Napoli incontriamo sempre non i soliti scippatori ma i soliti napoletani gentili che se potessero ti accompagnerebbero direttamente alla tua destinazione. Con questo non vogliamo dire che Napoli sia la città più sicura del mondo, ma quando si gira in una qualsiasi metropoli del mondo bisognerebbe muoversi con un po’ di circospezione invece che con i paraocchi del pregiudizio.

Il nostro primo appuntamento è col direttore de “ilbrigante” col quale riusciamo finalmente a incrociarci in Piazza Municipio  per poi andare a rifugiarci via Partenope a due passi dal mare, al ristorante  “Anema e Cozze” dove resteremo per qualche ora a parlare del Nord e del Sud, ovviamente. E anche qui, un nostro interlocutore occasionale col cuore che batte a destra – politicamente parlando – si spertica in lodi del modello emiliano-romagnolo. Praticamente una rivisitazione riveduta e corretta del “FUJETEVENNE” di eduardiana memoria. E noi venuti dal nord ordinato e opulento, finiamo per dover erigere barricate contro i soliti luoghi comuni sul malcostume e il malgoverno meridionali, cercando di sostenere le ragioni di un sud da cui siamo lontani da decenni e di cui forse conserviamo una visione mitologica e intellettualistica.

Il nostro secondo appuntamento – sempre a Piazza Municipio, dove ci conduce il direttore de “ilbrigante”, a cui ormai abbiamo bruciato, pur senza volerlo, tutto il pomeriggio – è con un giovane amico dell’agro nocerino-sarnese strappato al ristoro delle acque del Tirreno e catapultato a Napoli in pieno solleone. Un altro gesto di sincera amicizia difficile da dimenticare. Andiamo in un bar a Mergellina,  dove nonostante la calura insopportabile, trascorriamo due ore piacevoli, finalmente con un paio di meridionali – G. ed E. – che non fanno professione di autorazzismo e non hanno timori reverenziali verso alcun nord.

Era il sud che cercavamo, anche se si tratta di un sud minoritario. Per ora.

Quando su Mergellina cala la sera, dobbiamo abbandonare i nostri amici e riprendere il treno verso Battipaglia. E finire sull’inferno della A3, un vero incubo tra Contursi e Atena lucana, un corridoio strettissimo con le macchine che ti abbagliavano contro ed un disgraziato (sudico o nordico che fosse, si trattava di un vero delinquente) che ci tampinava ad una paio di metri col suo camion –  e non è che noi potessimo andare più veloci visto che a un centinaio di metri ci precedeva un gruppo di auto ad andatura regolare. Ad Atena Lucana termina l’incubo e ci salutiamo con un reciproco e sonoro “vaffan….”.

Il Cilento

Per noi il Cilento è il luogo dell’anima, perché è il luogo dell’adolescenza: vi abbiamo frequentato elementari, medie, secondaria superiore.

Partendo da Teggiano, la cittadina della “Congiura dei Baroni”, ci siamo mossi tra Sacco, Piaggine, Roscigno vecchia, passando il più delle volte per la Sella di Corticato. Una volta per il passo della Sentinella, partendo da San Rufo, il paese di Nicola Marmo, poeta e scrittore, autore dell’amara satira postunitaria “Roma liberata”.

Prima di partire per il Sud, mi diceva per telefono un amico napoletano che ora risiede in Lombardia “dove son nato io, ora c’è un gommista”, ebbene dove son nato io, nel Vallo di Diano, ora c’è un posto macchina! Ma la nostalgia non è per quel posto macchina, è tutta per il Cilento, terra dei tristi al tempo dei borbone, terra d’emigrazione dai piemontesi ai giorni nostri.

Il terremoto ha stravolto il paesaggio urbano facendo fare un salto di decenni negli standard abitativi, ma ora diversi angoli del paese si riconoscono a fatica e tante case rimesse a nuovo sono completamente disabitate! 

Una classe politica incapace e soggiogata al centro politico padano-romano ha dilapidato una occasione sprecando un fiume di miliardi in assurde e inutili ricostruzioni di case oggi rifugio di qualche barbagianni.

Scrive Alessandro Cavalli in “COME REAGISCE LA COMUNITA’”, 1998:  

“E qui la variabile cruciale è la cultura delle élites locali – politiche, economiche e culturali – che sono in fondo le depositarie della memoria e dell’identità collettiva, e che guidano, magari attraverso processi dialettici e conflittuali, il processo della ricostruzione. Perché un disastro è sempre un’occasione, peraltro non cercata, per riflettere su se stessi, per riflettere su cosa si è e su cosa si vuole essere nei confronti del proprio passato e del proprio futuro.”

E ci siamo chiesti e continuiamo a farlo perché il modello Friuli che pur si è cercato di adottare – secondo noi sbagliando perché si trattava di un modello importato, estraneo alla nostra cultura e alla nostra storia – da noi non ha avuto successo: si ricostruiscono o si creano ex-novo le attività produttive, poi con i redditi da lavoro si ricostruiscono anche le case. 

Una ricetta semplice, per un’area contigua alle aree economicamente forti, forse meno praticabile in un sud bloccato tanti anni fa da una guerra civile nel suo percorso verso la modernità.

Non è stato poco e non è vero che non è cambiato niente, è cambiato eccome” ci scriverà poi, in questi giorni, il giovane amico dell’agro nocerino-sarnese, a proposito del tracollo del Regno delle Due Sicilie e della sua annessione al Piemonte. Ma per molti è roba vecchia passata. Non ne vogliono sentir parlare, secondo tanti meridionali col Sud di oggi non c’entra granché. Oggi i problemi del Sud sono altri, non certo come si è formato questo paese.

A questo ci hanno ridotto.

Peccato che si tratti di un passato che non passa. Da cui tutto discende, sottosviluppo ed emigrazione. Una guerra civile che ha visto migliaia di uomini in armi combattersi con ferocia e crudeltà e che ha lasciato un astio profondo tra il nord e il Sud del paese, che ha alimentato le diffidenze reciproche e non ha mai aiutato a far decollare uno sviluppo armonico dell’intera Italia. 

Anche la terminologia testimonia lo scontro decennale tra esercito e guardia nazionale da una parte e guerriglieri meridionali dall’altra, “quelli del Nord” e “quelli del Sud” sono le espressioni migliori del vocabolario nazionale postunitario. Anche oggi, o no? Pensate alla vostra esperienza personale e datevi una risposta.

Noi, in questo ennesimo viaggio dei luoghi della memoria, nel salutare amici che non vedevamo da otto-dieci anni ci siamo sentiti rivolgere battute tipo: “sei ancora neoborbonico”, “fai ancora parte del movimento di liberazione del Sud”  e altre amenità del genere. Ovviamente non siamo né iscritti al Movimento Neoborbonico [nel caso, non ce ne vergogneremmo e comunque abbiamo amici carissimi che ne fanno parte] e né siamo separatisti, anzi non lo siamo mai stati. Anche di questo non ci vergogneremmo, ovviamente,  nel caso lo fossimo.

Abbiamo solo fatto qualche lettura che non accetta la vulgata risorgimentale, tutto qui. Riteniamo che questo paese sia nato sopra un imbroglio e che sarebbe da rifondare sottoponendo ad una operazione di verità la sua storia fondante. Solo così i meridionali avrebbero qualche ragione per non vergognarsi di se stessi e i settentrionali qualche ragione per non sentirsi superiori ad essi.

Cosa non da poco.

Anche stavolta, estate 2005, siamo finiti impantanati nelle solite discussioni, nelle solite visioni palingenetiche e messianiche in cui non crede più nessuno, ma qualche amico meridionale invece sì. Stiamo parlando della sinistra, nel caso non lo si fosse capito. L’emigrazione sarebbe ripresa solo ora, con questo governo [di cui a noi importa meno di nulla, ma i fatti sono fatti] e non negli anni 1997-98 quando le statistiche già parlavano di 60-70mila persone che abbandonavano il Sud ogni anno, ma sui giornali non se ne parlava, ora invece si fanno i paginoni sul “fenomeno in ripresa”. 

Del decreto fiscale 56/2000, approvato dal governo di centrosinistra e applicato da quello di centrodestra, non sa niente nessuno. Se parli di Vera Lutz [che tanto piace al nostro presidente del consiglio] e delle sue teorie sulla necessità di concentrare al nord lo sviluppo,  ti guardano come un marziano.

Il destino dei popoli è simile a quello degli individui: esistono persone fortunate, a cui va tutto per il verso giusto e altre, invece, a cui la sorte matrigna riserva bocconi amari in quantità.

Il popolo meridionale prima della unificazione nazionale viveva in uno stato indipendente, che marciava con un suo particolare ritmo verso la modernità, possedeva una delle migliori marinerie del tempo, alcuni insediamenti industriali, delle buone leggi, un’agricoltura in trasformazione.

Una serie di sfortunate coincidenze storiche e geopolitiche [da tempo l’Inghilterra voleva dare una sistemata al Mediterraneo, a testimoniarlo un articolo apparso su “The Globe” del 12 maggio 1849, dove si tracciava una nuova configurazione dell’Europa che prevedeva, tra l’altro, in Italia un regno dipendente da casa Savoia] ne decretarono il tracollo militare, politico ed economico e resero questo paese una delle zone più arretrate dell’Europa occidentale.

Se il problema – su questo possiamo essere d’accordo – è quello della formazione di una nuova classe dirigente, come si fa a generarla o a farla emergere senza uno scatto di orgoglio che parta dalla propria storia?

Lo si potrà fare non certo rimestando i soliti luoghi comuni, ma chiarendo quelli che sono stati i punti cardine della formazione dello stato unitario prima e della ricostruzione del secondo dopoguerra poi.

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Altre due tappe di un’estate in bilico tra memorie d’infanzia e ricerca storica avrebbero dovuto essere una seconda visita a Rionero in Vulture, patria di Crocco (di cui quest’anno ricorreva l’anniversario della morte), e una visita all’Archivio di Stato di Salerno nel quale si troverebbero notizie sul processo seguito ai fatti di Pontelandolfo e Casalduni, ma dei banali problemi tecnici alla nostra vettura lo hanno impedito.

fonte https://www.eleaml.org/sud/atlantide/atlantide.html

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