Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
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Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura.
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E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei.
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Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio: E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Giacomo Leopardi
Autore della trasposizione l’Ing. Paolo Martino di Napoli
CHELLO CA NUN TENE FINE
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L’aggio tenuto sempe dint’ ’o core stu pizzo ’e muntagnella sulitaria e st’arravuoglio ’e frasche ch’è nu muro ca m’annasconne addó fernesce ’o mare.
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Ma si m’assetto e guardo i’ me figuro ’na luntananza ca nun tene fine, ’nu silenzio ca mai nisciuno ha ’ntiso, ’na pace ’e Dio ca manco mparaviso. Troppo pe’ n’ommo, quase fa paura.
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E quanno ventulea mmiez’ a ’sti fronne chillu silenzio ca me dà ’o scapizzo cu ’sta voce d’ ’o viento se cunfronna e me veneno a mente ’e ccose eterne ’nzieme cu chelle ca se so’ perdute e penzo ’e tiempe ’e mo e ne sento ll’eco. ======================================
Cu ’o penziero me sperdo int’ ’o sprufunno e doce doce me ne vaco ’nfunno.
Traduzione di Paolo Martino
Paolo Martino è professore ordinario di linguistica e glottologia all’Università LUSMA di Roma;
La fortuna di Giacomo Leopardi si
sa quanto ha variato fra noi. I lettori italiani per tutto un secolo, mentre magari
l’onoravano come un poeta del Risorgimento, finivano con il trascurarlo,
intenti a diverse letture e ciò è ben
comprensibile, se si pensa come Alessandro Manzoni , nato prima, gli abbia
sopravissuto e come, dopo Manzoni,
stesso, si siano avuti in Itala poeti
non più grandi, ma almeno tali da
avere un’eco rara nell’animo dei cittadini della nuova
nazione. Leopardi, per anni, è restato,
appena di nome, un grande poeta: Ha avuto i suoi lettori, eppure è restato, sia
come lirico, sia come prosatore in
disparte. Il suo insegnamento cadeva senz’altro nel vuoto.
Cose che non avvenivano senza ragione. Gli insegnamenti di Leopardi prosatore
potevano dare l’avvio ad una
prosa moderna, di cui l’Italia pare che non abbia avuto necessità fino al 1915. Il
Leopardi lirico poi non poteva essere inteso che a metà. Ora quello delle canzoni all’Italia,
l’altro un po’ seicentista: sfuggiva ai letterati il punto dolente di un poeta tanto moderno. Strano a dirsi, Leopardi, che non è certo il poeta che piacque di più a
Pascoli e a d?Annunzio, è divenuto comprensibile appieno dopo Pascoli e d’Annunzio: Dopo di loro,
quando la poesia italiana, esauriti per sempre
o momentaneamente che sia, certi schemi tradizionali, si è volta ad effetti
che potremmo dire musicali : “Se mai fu dato d’avvertire”, scrive De Robertis nel capitolo del suo saggio dedicato ai
Canti, “stato d’animo “musicale”, nello spirito dico della musica,
indeterminato e reale insieme, questa è
la volta che un poeta gli diede espressione con la sostanza più
elementare e lontana delle parole, e con le modulazioii più arcane. ”
Così è De Robertis di fronte a Leopardi. Giuseppe De Robertis è, a modo
suo, e, diremmo quasi nascostamente, un umanista, un critico di lettere che
tutti sanno. Da noi raramente è
possibile affidare l’edizione di un
classico ad un critico di cose vicine.
La nostra letteratura è grandissima agli occhi di tutti, ma resta cosa
lontana allo spirito di tanti. Spesso si
legge un classico solo per il gusto e per la nobiltà della lingua: insomma per
trovarci insegnamenti formali. Si è
parlato tanto di romanzo in questi ultimi anni e poco di Boccaccio, Sacchetti,
Lasca,, Basile. Riguardo a Leopardi, le
cose non stanno diversamente. Se c’è un poeta che può aiutare quei pochi poeti giovani che ci sono in Italia è Leopardi. Mentre spesso,
appena un poeta italiano lo accosta, non ne trova che accorgimenti di metrica e di forma. La musicalità che
diceva De Robertis sta invece altrove: non nella canzone, non
nell’endecasillabo di Leopardi, che spesso è visto di fianco e sempre
parzialmente. Lo si dice poeta e prosatore moderno, mentre poi non si cava da
lui che quegli esempi di lingua e di stile
che si possono cavare da scrittori assai più inattuali. Mentre
l’insegnamento di Leopardi ora meno che mai può essere scolastico.
De Robertis, di fronte a Leopardi, non è uno scrittore in cerca di
novità. Vuole essere di Leopardi lo studioso
o al massimo il lettore. Legge e
non mira all’articolo; anzi ad un’ideale
antologia. E’ sempre il suo abito
mentale del ricercatore di pezzi, sicché l’articolo da rivista, quando salta
fuori, risulta come trama di appunti per una scelta da fare. Quasi viene un sospetto: che De Robertis, se
non avesse certa consuetudine per le lettere contemporanee, non lo scriverebbe
nemmeno l’articolo. Ma quella consuetudine dura da anni e gli deriva da assai
lontano : dai tempi de “La Voce” e dell’amicizia con Serra, che non fu
un’amicizia casuale, di quella che nasce o sui banchi di scuola o al caffè.
Un’amicizia volontaria, diremmo : raggiunta soltanto per elezione.
De Robertis sempre di un autore ti dà la trama, la rete. Va annotando i
punti che poi gli serviranno non per
tirarne fuori un saggio discorsivo, anzi tutto il contrario. Se c’è nella
nostra letteratura un critico che sfugge il bozzetto, privo addirittura del
gusto per la cronaca letteraria, è lui. Come di fronte all’ultimo volume di un
giovane, così è De Robertis di fronte a Leopardi. Con Leopardi maggiore è
l’impegno, perché maggiore è stato lo studio. La rete sarà più vasta. E il saggio
premesso al primo volume delle opere di Giacomo Leopardi è veramente una trama
vastissima. Sono cinque lunghi capitoli : sul “primo Leopardi”, sullo
“Zibaldone” (dove utilizza, in parte, certi suoi studi già pubblicati), sulle
“lettere come storia di un’anima”, sulle “Operette morali” e, infine, sui
“Canti”. Rete fittissima e prova fittissima. Addirittura un sommario di
Leopardi.
Quando all’aria molle dei centenari i prati sovrabbondano di malva e di camomilla, punge lo spirito un’acerba nostalgia di sapori forti, d’erbe piccanti, e , se si è un poco umanisti, ci si sorprende a scandire i due esametri di Virgilio, che esaltano, nei secoli, la panzanella: “Thestylis et rapido fessis messoribus aestu / allia serpillumque herbas contundit olentes.”
Napoleone Bonaparte fu forse il primo a capire che per conquistare il potere in una società moderna non basta la forza delle armi; occorre il consenso. Ebbe perciò l’accortezza di presentarsi all’opinione pubblica con il presitgio di un sovrano illuminista.
Il 10° reggimento di linea “Abruzzo” nella I guerra d’indipendenza
La I guerra d’indipendenza italiana, scoppiata il 23 marzo 1848 con la dichiarazione di guerra del Regno di Sardegna all’Impero Asburgico, era stata anticipata da alcuni moti rivoluzionari, tra i quali quello delle Cinque Giornate di Milano che scacciò le truppe austriache dalla capitale del Lombardo-Veneto.