Posted by altaterradilavoro on Apr 8, 2019
E’arrivata l’imperatrice, col figlio! “. Questa era la notizia che, il mattino del 2 settembre 1814, gli abitanti di
Portoferraio, nell’isola d’Elba, si comunicavano con fare misterioso e che rapidamente si sparse per tutta
l’isola e di là, varcato il mare, per
tutte le Corti europee.
Ma non era una notizia
esatta. Da una nave ancoratasi,
la sera prima, nella piccola rada di San Giovanni, erano sbarcati, al calar
della notte, una giovane signora ed un bambino, accompagnati da un’altra
giovane dama e da un signore in
uniforme. Non si trattava, però, dell’imperatrice Maria Luisa, ma di Maria
Walewska, l’amante di Napoleone e del figlio ch’ella ne aveva avuto, il piccolo Alessandro
Walewski, che l’Imperatore aveva creato conte dell’Impero e che sarà, più
tardi, ministro degli esteri di Napoleone III.
Si sa come Napoleone avesse
conosciuta a Varsavia, nel 1807, in un ballo dato in suo onore da Talleyrand,
la giovane e bella Maria Laczynska,
terza moglie dell’allora più che settantenne Anastasio Colonna Walewski,
discendente dai Colonna di Roma, un ramo dei quali si era trapiantato in
Polonia. Fra le belle dame che partecipavano a quel ballo e che cercavano in
ogni modo di piacere all’Imperatore, Maria non era certo la più appariscente :
di piccola statura, bionda, pallida, con gli occhi azzurri, vestita
semplicemente, timida ed impacciata (viveva, quasi sempre, in campagna, a
Walewice). Nessuno avrebbe pensato che
proprio lei avrebbe attratto l’attenzione di Napoleone, allora al sommo della
gloria e sul quale i Polacchi riponevano tante speranze per la liberazione
della loro patria. Eppure fu proprio lei la prescelta, quella che doveva aver
fatto sull’Imperatore una ben profonda
impressione, se questi, all’indomani mattina, appena risvegliato, le scriveva :
“Non ho visto che voi, non ho ammirato che voi, non desidero che voi. Una
risposta molto sollecita per calmare l’mpaziente ardore di N. ”.
Dopo la passione giovanile per
Giuseppina, si può dire che l’amore, per Napoleone, non fosse che un capriccio,
presto appagato e presto finito. L’amore, com’egli si esprimeva brutalmente,
non era che “un affare da canapè”. Donne ne aveva conosciute parecchie, certo;
comunque, non era abituato ad incontrare resistenze. Proprio in quei giorni,
anzi, era stato informato della nascita di un figlio, da Eléonore Denuelle de
la Plaigne, dama di corte e lettrice di sua sorella Carolina, e la notizia gli
aveva fatto piacere, perché lo riaffermava
in certe speranze dinastiche ed in certi suoi progetti che sino ad allora erano
rimasti un po’ vaghi e indecisi.
Ma, forse per la prima volta, il suo biglietto alla contessa Walewska
rimase senza risposta. Una nuova missiva non ebbe miglior successo.
Maria era spaventata dell’impressione che aveva fatto su Napoleone, per
il quale, ora, provava ammirazione ed orrore. Ma il capriccio dell’Imperatore
per lei cominciava già ad essere noto. Ecco lo stesso principe Poniatowski, il
nipote dell’ultimo re di Polonia, venire da lei a pregarla di cedere “ per il
bene della Polonia”. Un messaggio le fu fatto pervenire addirittura dai membri
del governo, in cui, ricordato l’esempio di Ester, sacrificatasi ad Assuero per
salvare la patria, la si invitava abbastabza chiaramente a fare lei pure lo
stesso sacrificio, anche se penoso.
Circuita, adulata, fatta centro di tutto un armeggio di intrighi,
esaltata, spinta, ella sentiva la sua volontà vacillare. La vinse un nuovo biglietto dell’Imperatore,
in cui vi era anche un accenno alla Polonia e la promessa che “tutti i suoi
desideri sarebbero stati esauditi”. La sua resistenza era durata quattro
giorni, “ce qui fut consideré comme un acte inoui”.
E andò al palazzo reale, di notte; ma sembra che nemmeno allora si
concedesse a Napoleone. Vi furono molte lacrime, certo, quella notte, a palazzo
reale, molte preghiere. Forse anche furono fatte molte promesse. All’alba, il
fido Duroc la riaccompagnò a casa. Tanta resistenza aveva commosso
l’Imperatore, che uscì da quel convegno innamorato come un collegiale,
tanto da scriverle subito dopo,
mandandole un mazzo di bellissimi fiori, legato da un serto di brillanti : “Maria,
mia dolce Maria, il mio primo pensiero è per te, il mio primo desiderio è di
rivederti. Tornerai, non è vero? Me lo hai promesso. Altrimenti volerà l’aquila
da te. Ti vedrò a pranzo, l’amico (Duroc) me lo dice. Degnati dunque di
accettare questo mazzo di fiori; che esso diventi un legame misterioso
destinato a stabilire fra di noi un rapporto segreto in mezzo alla folla che ci
circonda. Esposti agli sguardi della moltitudine, potremo così intenderci lo
stesso. Quando mi premerò la mano sul cuore saprai che esso è tutto pieno di
te, e tu per rispondere premerai i tuoi fiori. Amami, mia graziosa Maria, e che
la tua mano non abbandoni mai i tuoi fiori”.
Maria trattenne il biglietto, ma respinse fiori e brillanti. Era
l’ultimo suo sforzo : subito dopo abbandonò il marito, che sembra non
apprezzasse molto l’onore del “cocuage impérial”, e seguì il suo amante , ormai
per sempre. Da Varsavia lo raggiunse al castello di Finckenstein,, dove
rimasero insieme per più settimane, quindi a Parigi. Dopo Wagram, è a Vienna,
dove potè annunziare a Napoleone la sua prossima maternità, quel figlio la cui
nascita deciderà l’Imperatore a divorziare da
Giuseppina.
“Voi ridete di vedermi così innamorato”, diceva Napoleone al fratello
Luciano in quel burrascoso incontro che ebbero a Milano. “Sì, lo sono infatti.
E’ una donna incantevole, un angelo. Ma il mio amore è subordinato alla mia
politica; la quale vuole che mi sposi
con una principessa, benché io preferirei molto incoronare la mia amante”. Né il matrimonio con Maria Luisa
separerà i due amanti. Più circospetta, certo, con maggiore segretezza, ella
salirà ancora più volte l’ “escalier noir” delle Tuileries.
Campagna di Russia, Mosca, Lipsia. L’Aquila è vinta e deve lasciare la
Francia. Nella notte dal 4 al 5 aprile 1814 Maria si recò a Fontaineblreau, di
nascosto, e giunse sino alla porta del
sovrano vinto e già quasi da tutti abbandonato.
Vi trovò il cameriere Constant, solo, che vegliava ancora e che entrò ad
annunziare la visita, ma l’Imperatore era come “immerso in un marasma di
insensibilità” e non rispose. Maria attese: tremante di freddo, immobile,
piangente, attese sino all’alba. Poi
dovette ritirarsi, partire, in preda alla disperazione. Quiando Napoleone apprese la cosa, ne fu addolorato :
“Poveretta ! si sarà sentita umiliata.
Constant, ne sono veramente spiacente. Se la rivedete, diteglielo”. Poi,
colpendosi la fronte con la mano :” Mais j’ai tant de choses là!”.
Si ritrovarono all’isola d’Elba, dove Maria, con il figlioletto, la
sorella e il fratello, rimase qualche giorno, all’Eremo, sopra Marciana, quasi
sulla cima del monte Capanne, da dove si poteva vedere lontano la Corsica e
dove Napoleone aveva fatto piantare alcune tende. Ne ripartì di notte, in piena burrasca. Si
ritrovarono ancora a Parigi, durante i Cento Giorni, e, dopo Waterloo, si rividero
alla Malmaison, per l’ultimo saluto. Maria era accompagnata dal figlio
Alessandro, che sempre conservò il ricordo di “quel volto triste che si chinava
su di lui a baciarlo”.
Poi Maria si ritirò in Belgio, dove, già da alcuni anni vedova, si sposò
nel 1816 con un cugino di Napoleone, il generale Filippo d’Ornano, conte
dell’Impero. Nel giugno 1817 diede alla luce un figlio, Rodolfo Augusto
d’Ornano, e, dopo pochi mesi, il 15 dicembre, morì. Nel cimitero del
Père-Lachaise, a Parigi, dove fu sepolta, una lapide la ricorda soltanto come contessa
d’Ornano.
Greta
Garbo in casa
Allo Studio di Culver City
tutti quanti, dal portiere al
vicepresidente della casa, fimngevano di ignorare dove Greta abitasse ed anche
i suoi pochissimi amici non tradivano il segreto. Durante i periodi doi lavoro,
nelle quattro o cinque settimane che occorrevano per girare un film, la Garbo
dimorava entro il recinto dello studio, in un “bungalow” appartato.
Quiando Greta Garbo iniziò “Margherita Gautier”, vi venne trasportata
ancora febbricitante. Appena ella fu in grado di reggersi in piedi, il film venne subito incominciato dalle
ultime scene, per approfittare delle condizioni fisiche dell’attrice, che ben
si prestavano per farla comparire sullo schermo consunta dal male.Greta in
realtà non aveva sofferto che qualche giorno di influenza.
In quel periodo alcuni
giornalisti studiavano il modo di penetrare nel 2bungalow”, ma la cameriera,
l’infermiera e l’autista della diva si mostrarono incorruttibili. Solo il regista ed il capo di produzione
avevano la possibilità di entrare nel “bungalow”, oltre ad un medico. Nulla da
fare. Del resto, che cosa avrebbero potuto apprendere ? Nel “bungalow” Greta
Garbo non abitava che nei periodi di lavoro, durante i quali ella pensava soltanto
a studiare il suo ruolo, oppure a riposarsi,
mentre ai cronisti premeva di sapere come Greta vivesse quando non faceva l’attrice.
Il caso aiutò Allen Alien, che, un giorno, notò che l’autista della diva
si accingeva ad uscire, dopo aver caricato sulla macchina un baule di vimini.
Dove poteva recarsi ? Allen pensò di seguirlo. L’inseguimento durò circa
mezz’ora , a grande velocità. Finalmente l’auto della Garbo imboccò una
stradicciuola in salita e varcò il cancello di legno di una modesta casetta in
stile coloniale, che sorgeva a metà collina, in mezzo ad un giardino. Sotto
di loro splendeva l’Oceano e si distinguevano i bagnanti sulla spiaggia
di Santa Monica. Cento passi più su
c’era un’altra villetta : era chiusa e da affittare. Tre giorni dopo,
Allen Alie ne prendeva possesso. E prima
che Greta Garbo terminasse di girare “Margherita Gautier”, egli era diventato
un buon amico del suo giardiniere, per il quale era un borghese di mezza età,
strapazzato dagli affari, al quale i medici avevano consigliato un lungo
soggiorno in California e al quale nopn importava affatto di sapere chi
realmente fosse la sua vicina di casa, dal nome così difficile, che non è
quello famoso di Garbo, né quello di Gustafson, ma quello della cameriera
svedese dell’attrice che figurava affittuaria della villetta.
Le serate erano lunghe sulle colline di Santa Monica e i giardinieri in
genere non si intendevano solo di fiori e di piante, ma anche di buone
bottiglie di Whisky. Sulla padrona non c’era da lamentarsi, ma c’era sempre
qualche cosa da dire sul conto di chi li pagava. Per esempio, se fosse meno
lunatica, si saprebbe con certezza quali sarebbero i fiori da piantare. L’anno
prima le violacciocche la mandavano in estasi, cogliendone delle bracciate,
mentre ora non le può sopportare.
Stramba ! Certi giorni veniva fuori in giardino, con le sopracciglia incrociate
e le labbra strette, non spiccicando parola, non guardando nulla, sospirando,
sgridando tutti. Poi Greta tornava in
casa, si rinchiudeva in camera, non mangiava e leggeva. Leggeva troppo. Aveva
la casa piena di libri. Erano quelli, o la mancanza di un uomo.
Come tutti i semplici che vivono vicino alla natura, anche il
giardiniere annetteva una grande importanza a certi fatti, parafrasando il
divino Ippocratre : “nubat illa et morbum effuget”. Ma per sanare l’umore bizzoso, Greta Garbo
avrebbe soltanto bisogno di una briciola d’amore ? La leggenda creata intorno a
lei le attribuiva soltanto un marito e un grande amore per un
altro uomo. Senza tradirsi, Allen non potè insistere sull’argomento con il giardiniere, ma egli
gli chiarì il suo punto di vista : i capricci, le fiammate passeggere, non sono questi che assestano la vita di una
donna, ma la compagnia costante di un uomo solo. Insomma egli era un partigiano
del matrimonio, ma forse non lo sarebbe più se avesse coscienza della doppia
esistenza che è costretta a condurre la
sua padrona, prigioniera di una gloria e di un’illusione, che per una donna deve
essere tragica. Chi delle due amerebbe il suo uomo, l’attrice che lo
schermo rende tanto bella e
affascinante, l’illusione, oppure la realtà, la donna che ella è veramente, dal
fisico sgraziato?
La villetta che Greta abitava ormai da qualche anno era un’abitazione
d’affitto. Neanche i mobili le
appartenevano. Una discreta “living room”, uno studiolo con un divano e molti libri, una camera da
letto che sembrava una stanza d’albergo, una sala da pranzo. Nessuna fotografia sui mobili. Greta
doveva odiare certo la sua immagine. Era
immensamente ricca, ma nulla lì lo rivelava.
Greta non amava i gioielli, non le vesti e le ppellicce preziose. In
casa indossava sempre una sottana di lana scozzese, un golf, scarpe gialle, con
il tacco basso, da passeggio. Il suo guardaroba di lusso, quello di scena , era
tutto negli armadi del “bungalow”, allo studio di Culver City. Si sapeva che
lei aveva orrore delle feste e dei ricevimenti mondani.
Quando Greta non lavorava, passava le sue giornate a leggere. Era
piuttodsto pigra, non praticava nessuno sport, tranne lunghe passeggiate
solitarie per le colline, o qualche corsa sul panfilo ancorato giù al porto.
Rarissimamente accoglieva qualche amico, sempre nel pomeriggio. Uno era un
vecchio medico svedese che aveva una barbetta bianca e che era il più assiduo. Una volta venivano spesso lassù anche due
signori francesi, marito e moglie, poi tornati in Europa. Nello studiolo
c’erano le loro fotografie : Jacques Feyder e
la consorte.
Il giardiniere rivelò ad Allen che lui andava sempre a letto presto e la
sua padrona faceva altrettanto.
Greta non fumava. Era ghiotta? Piuttosto, ma di poche cose : molto
latte, pane nero e burro, aringhe affumicate, “roll moops”, uova di pesce,
prosciutto e birra. Mai vino, sempre birra. In casa non c’era altro. Maledetta
birra. Al giardiniere non piaceva. A noi
piace, invece, immaginare la divina interprete dei più romantici amori mentre
fa colazione con aringhe affumicate, cetrioli salati e un bel bicchiere di
birra chiaretta, come una sana massaia svedese che non ha grilli per il
capo.
Alfredo Saccoccio
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