Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

L’OMBRA DELLA MASSONERIA SULLA MARCIA SU ROMA

Posted by on Ago 26, 2019

L’OMBRA DELLA MASSONERIA SULLA MARCIA SU ROMA

Può la massoneria aver avuto un ruolo incisivo nella presa del potere fascista? Perché Mussolini incontrò fugacemente i vertici di un ramo massonico pochi giorni prima della fatidica Marcia su Roma? Quale fu la natura dei rapporti tra il Duce e il “gran maestro” della loggia di Piazza del Gesù, Raul Palermi? Le influenze massoniche, presenti anche nei vertici dell’Esercito, potrebbero aver indotti il Re a cedere al colpo di mano fascista?
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Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (V)

Posted by on Ago 21, 2019

Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (V)

Parte quinta: L’Età Giolittiana (1898-1921)

L’impronta di Giovanni Giolitti nella politica italiana è stata innegabilmente importante, tanto che questo periodo politico passò alla storia come “Età Giolittiana”. Furono gli anni delle concentrazioni industriali, delle formazioni delle masse popolari socialiste e cattoliche, dell’attività coloniale italiana in Eritrea, Libia e Dodecaneso, delle rivolte per il pane e della nascita del Partito Fascista.

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Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (IV)

Posted by on Ago 20, 2019

Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (IV)

Mentre il nord, dopo gli avvenimenti del 1898 mette le ali, il sud diventa sempre più sud e la Sicilia sempre più Sicilia. (1898-1900)

Il quadro generale degli avvenimenti nel Regno d’Italia

Dopo le dimissioni di Crispi, avvenute nel 1896, fu gioco forza per il Parlamento orientarsi verso una soluzione di destra: infatti, una parte della sinistra costituzionale, facente capo al senatore Giuseppe Saracco, si era troppo compromessa, appoggiando l’ultima, squalificata ed impopolare esperienza governativa di Crispi, mentre l’altra componente, guidata da Zanardelli e Giolitti, oltre ad essere malvista dal Re, era bloccata dal veto incrociato della destra democratica e della sinistra crispina. La presidenza del Consiglio toccò alla fine ad un altro siciliano, Antonio di Rudinì, che possiamo definire un “moderato di centro”, non particolarmente vicino alla corona, la cui dote politica più importante consisteva nell’essere un avversario di Crispi. Di Rudinì impostò la propria azione di governo su una linea di “raccoglimento e di economia”. Tentò di porre un freno all’avventura coloniale, di varare una politica prudente e di realizzare qualche forma di pacificazione sociale, concedendo l’amnistia ai condannati politici.

Il modello sociale cui si ispirava era quello di una “democrazia conservatrice” a base agraria, in cui fossero garantiti sia la supremazia della grande proprietà terriera nella politica locale, attraverso l’attuazione del cosiddetto “decentramento conservatore” (una riforma dell’ammi-nistrazione comunale che prevedeva l’elettività del sindaco anche nei comuni minori), sia il primato del potere esecutivo su quello legislativo. Furono altresì varate una serie di riforme, come l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni nell’industria e l’istituzione della Cassa Nazionale di Previdenza per l’Invalidità e la Vecchiaia.

Al progetto Di Rudinì se ne contrapponeva un altro, più autoritario, diretto a provocare una vera e propria riforma del sistema costituzionale, proposto da Sonnino in un articolo pubblicato nel 1897, dal titolo Torniamo allo Statuto: in esso si suggeriva di salvare l’integrità dello Stato, minacciato secondo l’autore dall’azione convergente dei socialisti (i “rossi”) e dei cattolici (i “neri”), sottraendo prerogative al Parlamento e tornando ad affidare il pieno potere al re, secondo il modello imperiale tedesco.

In realtà, la linea politica proposta dal Sonnino, una vera e propria svolta autoritaria, mirava a rassicurare la classe dominante dalla preoccupazione di non riuscire più a controllare le tensioni emergenti nella società italiana.

L’avanzata dell’estrema sinistra alle elezioni del marzo 1897, le violente agitazioni sociali della primavera del 1898, i moti contro il carovita, e in particolare contro l’aumento del prezzo del pane provocato dai cattivi raccolti del 1897, avevano infatti segnato una vera e propria frattura nella vicenda politica di fine secolo.

Le masse contadine vennero a trovarsi in una spaventosa condizione di miseria e ben presto si unirono alle proteste delle classe industriale urbana, acquistando un carattere sempre più politico. Iniziati nel centro-sud e in Sicilia con le rivolte di Troina e Modica, i moti dilagarono in tutto il paese tra marzo e maggio del 1898 quando, per effetto dell’aumento dei noli marittimi in conseguenza della guerra ispano-americana, il prezzo del pane salì alle stelle.

Ovunque forni, mulini, magazzini del grano furono presi d’assalto e furono organizzate manifestazioni di protesta sotto i palazzi dei Comuni, le esattorie, i tribunali e le abitazioni degli aristocratici e dei grandi proprietari. Si richiedeva a gran voce l’abolizione del dazio del grano e la gestione municipale dei forni. Il culmine si raggiunse a Milano, il 6 maggio 1898, quando la protesta assunse decisamente carattere politico. Fu allora che l’intero fronte conservatore, con la scusa di sedare i tumulti, decise di ricorrere alla repressione dura contro ogni forma di opposizione organizzata, vuoi dagli anarchici o dai socialisti, come dai radicali o dagli stessi cattolici. Di Rudinì, non esitò, il Re consenziente, a inviare a Milano il generale Bava Beccaris, che le represse nel sangue, usando i cannoni contro la folla, e che per questo fu insignito da Umberto I di una medaglia e nominato senatore.

Contemporaneamente Di Rudinì cercava di mantenere in vita il governo, in crisi per il rifiuto dell’assemblea dei deputati a rendere permanenti i provvedimenti repressevi assunti in via provvisoria. Di Rudinì propose al re lo scioglimento della camera e l’esecutività del nuovo bilancio per decreto regio. Se il re avesse accettato, si sarebbe trattato di un vero e proprio “colpo di stato” e si sarebbe compiuto il progetto di rifondazione autoritaria delle istituzioni, vagheggiato da Sonnino, e sostenuto da buona parte della classe dirigente.

Ma il re, dissuaso da Farini, non osò sfidare apertamente la legalità costituzionale, per cui Di Rudinì fu costretto alle dimissioni e il 29 giugno 1898, il generale Luigi Pelloux fu incaricato di costituire il nuovo governo. Il re intendeva tuttavia continuare di fatto la precedente politica. Infatti, il generale continuò l’azione repressiva, senza però suscitare particolare clamore. Quando però tentò di dare veste legislativa alle restrizioni delle libertà statutarie e di ripristinare, in pratica, i “provvedimenti politici” già approvati dal Di Rudinì, si scontrò con l’opposizione della sinistra parlamentare (socialisti e repubblicani), contraria all’ipotesi di un governo forte sostenuto dalla Destra, dal centro sonniniano e dalla sinistra crispina, mentre i liberali di Giolitti assunsero un atteggiamento di prudente attesa.

Lo scontro divenne aspro quando l’estrema sinistra passò all’ostruzionismo, prolungando all’infinito il dibattito parlamentare con interventi lunghissimi e paralizzando in tal modo l’attività legislativa. Pelloux, per tutta risposta fece promulgare, con provvedimento illegale e lesivo delle prerogative del Parlamento, il “decreto del 22 giugno” che limitava pesantemente la libertà di stampa e di manifestazione. La lotta per le libertà costituzionali divenne allora il fatto preminente della politica italiana, finché il 6 aprile 1900 il governo fu costretto a ritirare il decreto e pochi giorni dopo, sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. Il Pelloux era stato indebolito anche dagli errori commessi in politica estera, come l’inutile tentativo espansionistico perseguito dalla diplomazia italiana in Cina, e dalla nascita, all’interno del blocco dominante, di una componente più moderna e dinamica, in polemica con le forze più conservatrici del fronte, costituito, come al solito, dalla proprietà terriera meridionale e dall’industria pesante del nord.

Il risultato elettorale del giugno 1900, fu un grande successo per l’estrema sinistra. Tale rafforzamento convinse la componente più avanzata della borghesia della necessità di dare una svolta radicale alla politica italiana. Pelloux dovette dimettersi nel giugno 1900, si aprì una fase travagliata e il governo fu affidato, provvisoriamente a Giuseppe Saracco. Nel frattempo, il 29 luglio, venne ucciso, a Monza, il re Umberto I dall’anarchico Bresci che voleva vendicare i morti di Milano. Salì al trono Vittorio Emanuele III. A Genova venne sciolta la Camera del Lavoro, ma poi Saracco revocò lo scioglimento e si dimise. Il re a questo punto affidò il governo a Zanardelli che prese con sé Giolitti, rimasto in prudente attesa per tutto questo tempo.

Questo il quadro generale degli avvenimenti nel Regno d’Italia in quell’ ultimo scorcio del secolo XIX.

Il Regio Commissario Civile Straordinario per la Sicilia

Intanto in Sicilia fin dal 5 aprile 1896, per decreto, era stato inviato il Regio Commissario Civile Straordinario per la Sicilia nella persona di Giovanni Codronchi-Argeli. Il Commissario Civile (così chiamato per distinguerlo dal Commissario militare voluto da Crispi) venne investito dei “poteri politici e amministrativi che spettavano ai Ministeri dell’Interno, delle Finanze, dei Lavori Pubblici, dell’Istruzione, dell’Agricoltura, dell’Industria e Commercio”.Con il Commissario si cercò di superare la militarizzazione voluta da Crispi in risposta alle lotte operaie e contadine e, contemporaneamente di salvaguardare gli interessi delle classi sociali dominanti, sostituendo lo strumento militare con un più efficiente governo delle istituzioni locali. La speranza era di risanare e riordinare le finanze locali mantenendole però sotto il controllo del governo di Roma.

I poteri del Commissario erano teoricamente molto vasti sul piano dell’autorità e della rappresentatività dello Stato, ma limitati sul piano finanziario. Il che vuol dire che, in pratica, il potere era molto limitato. Le eventuali spese, infatti, dovevano essere autorizzate per decreto dal governo centrale. Inoltre, la nomina del commissario era a tempo determinato tempo: solo per un anno, troppo poco per realizzare qualunque riforma. Non si trattava quindi, come avevano sperato i socialisti, di un decentramento del potere statale.

Dopo aver affossato il progetto di Riforma Agraria pensato dal Crispi, Di Rudinì si preoccupò soprattutto di mantenere da una parte una politica repressiva nei confronti del movimento sindacale siciliano, vietando la ricostituzione dei Fasci siciliani, e dall’altra di risanare i bilanci delle amministrazioni locali, considerati la fonte principale del malcontento. Infatti, per soddisfare le loro “clientele”, i comuni continuavano da un lato ad elargire prebende ai notabili e dall’altro imponevano crescenti tributi alle classi meno abbienti.

Il compito di Codronchi non era facile. La repressione crispina aveva accentuato il malcontento non solo nei ceti lavoratori, ma anche nei ceti medi e piccolo borghesi delle città e delle campagne, rovinati dallo sviluppo del capitalismo settentrionale e dalla politica protezionistica del governo centrale.

Non poco, inoltre, influì sull’impoverimento l’errata progettazione ed esecuzione della rete ferroviaria. Palermo, ad esempio, non fu collegata con Messina se non dopo il 1895. Lo sviluppo di estesissime contrade della Sicilia centro-occidentale fu privato del concorso ferroviario. Malumore e insoddisfazione colpirono i settori più disparati: dai braccianti ai sarti, dai fornai ai minatori delle zolfatare.

Nella città di Palermo all’incertezza ed alle inquietudini di una massa artigiana che si impoveriva sempre più, si aggiunse il problema della disoccupazione. Da questa necessità nacque il progetto, caldeggiato da Ignazio Florio, di costruire un cantiere navale e non soltanto di ampliare il bacino di carenaggio. [1] Codronchi ne coglie immediatamente l’importanza per le conseguenze sociali e politiche di cui può essere foriera. Ma, come vedremo, questo grande progetto non riuscirà a risollevare le sorti della Sicilia, quasi l’isola soffrisse di un deficit politico e morale che, come un cancro, rodesse (e che ancora oggi corrode) la dirigenza politica municipale e provinciale. Codronchi aprì una serie di inchieste, segnalò i guasti ma non pose alcun rimedio, né poteva farlo. Allo scadere del mandato il Commissario lasciò la Sicilia e tutto tornò come prima.

L’inizio dell’emigrazione di massa

È in questo periodo che inizia l’emigrazione transoceanica,che coinvolse tutte le regioni meridionali, divenendo il fenomeno più imponente della condizione del Mezzogiorno. Nel giro di pochi anni più di un milione di siciliani abbandonò l’isola, più di due milioni di meridionali “continentali” erano andati a cercar fortuna in America. Una volta messa in crisi la sinistra come forza di governo, cessò lo sviluppo virtuoso che vi si era accompagnato o che, almeno, si era tentato di intraprendere (come, ad esempio, nel caso dei feudi dei conti di Modica dati in enfiteusi ai contadini). Sembrò che la Sicilia ed il Meridione avessero raggiunto il punto di saturazione demografica che le strutture economiche-sociali potessero consentire. Secondo Napoleone Colajanni, l’emigrazione siciliana “è il prodotto di una densità eccessiva (114 abitanti per km quadrato) della popolazione e delle sue cattive condizioni economiche e riesce perciò benefica anche astraendo dalla elevazione dei salari e dal beneficio grande delle rimesse… Naturalmente in tema di emigrazione, come del resto in tutti i fenomeni sociali, il bene si trasforma in male al di là di certi limiti.” (N. Colajanni, Prefazione a Giuseppe Brucculeri, La Sicilia di oggi. Appunti economici. Roma, Atheneum, 1923).

Il fenomeno della grande emigrazione contribuì all’affermarsi di una potentissima realtà: la formazione di una mafia intercontinentale. Il milione di emigranti siciliani concorse a modernizzare la mafia ed a renderla più efficiente come delinquenza organizzata. A discolpa dei siciliani e dei luoghi comuni che vogliono sia stata l’emigrazione a portare la mafia in America, dobbiamo ricordare che il crimine organizzato per diffondersi e affermarsi negli USA non aveva certo atteso l’arrivo dei mafiosi siciliani o dei camorristi napoletani. Molti storici americani collocano la nascita delle organizzazioni criminali attorno al 1830 e altri ancora prima, con il prosperare della tratta degli schiavi, a dispetto dell’abolizione formale avvenuta nel 1808, e che coinvolgeva addetti alle dogane del sud e marittimi del nord. Non fu pertanto l’Italia ad esportare la mafia, ma indubbiamente vi fu un fondersi e un proficuo (per loro) scambio di esperienze e di metodi.

Questione meridionale

A cavallo tra i due secoli la situazione del Meridione si era già tanto deteriorata da indurre il Parlamento a costituire una commissione parlamentare di inchiesta, che si limitò a constatare l’insufficienza della azione governativa. Nel 1903 Francesco Saverio Nitti sostenne che la necessità di evitare la deindustrializzazione di Napoli, presentando alla Camera un programma di interventi. Non se ne fece nulla. Nel 1908 i deputati Porzio e De Nicola cercarono di insistere perché fossero affrontate le questioni più urgenti di Napoli, ma appartenendo alla destra governativa, dovettero rientrare nei ranghi e conformarsi alla politica liberista, che ormai aveva il suo radicamento nel capitalismo del nord. In quel periodo, infatti, il nord fece un decisivo passo in avanti, sia nella modernizzazione che nell’industrializzazione, potendo contare anche sul completo reinvestimento delle rimesse in valuta degli emigranti. Già allora infatti, gli istituti di credito applicavano tassi di interesse agevolati solo al nord.

Così, i politici meridionali di destra assunsero una posizione subordinata al potere capitalistico anche quando ebbero incarichi – talvolta importanti – a livello governativo. Per questioni ideologiche, non sostennero l’azione dei socialisti e del blocco popolare, che anzi trovò nei monarchici e nei cattolici i più feroci avversari. La sinistra continuò da sola la battaglia per il sud: Antonio Labriola, e poi Arturo Labriola, per esempio, si impegnarono a fondo per affrontare i problemi, ottenendo un qualche risultato non solo nella industrializzazione, ma anche nel campo dell’istruzione popolare, delle abitazioni e della riforma giudiziaria. La responsabilità storica, se tali risultati non compensavano il divario nord-sud che si stava creando, ricade pertanto in buona parte sui politici meridionali della destra allora al governo, che non seppero né vollero fare gli interessi dei territori che li avevano espressi quali propri rappresentanti in Parlamento.

Il declino di Napoli

Agli albori del XX secolo, la popolazione di Napoli era in aumento, cominciava a fiorire una nuova industria culturale, quella del cinema, di cui la città divenne la principale protagonista italiana, almeno fino a quando non sarà stroncata dal “romanismo” di Mussolini. Ma circa due terzi della popolazione viveva nella miseria, con il costo della vita che si era triplicato negli ultimi 10 anni. Anche da Napoli l’emigrazione diventò notevole.

Il Meridione era diventato “una immane colonia di sfruttamento umano, dove nuovi negrieri razziavano ogni anno, non più africani ma un crescente contingente di disperati bianchi il cui numero salì progressivamente da 107 mila – media annua del periodo 1876-1880 a 310 mila – media annua del periodo 1896-1900; 554 mila – media annua del periodo 1901-1905; 651I mila – media annua del periodo I906-191O; 711 mila – media dell’anno 19I2; 872 mila – nell’anno I913, anno di vigilia della prima guerra mondiale, che troncò questa tratta; sino alla fine delle ostilità  per fornire carne da cannone in abbondanza alle offensive, negazione della strategia […]. Nessun documento meglio di queste cifre potrebbe illustrare i risultati economici e sociali della politica della borghesia italiana “liberale” di quegli anni”.[2]

Fara Misuraca e Alfonso Grasso

Note

[1] L’anno 1897 è anche l’anno in cui il “football” arriva a Palermo grazie ai marinai dei mercantili inglesi. Si ingaggiano vere e proprie sfide con i portuali nello spiazzale fangoso del porto di Palermo. Solo tre anni dopo tuttavia, il primo novembre 1900, nasce l’Anglo Panormitan Athletic and Football Club, fondato da Ignazio Majo Pagano. I primi colori sociali sono il rosso e il blu nel pieno rispetto delle linee cromatiche della bandiera britannica. La prima uscita ufficiale della squadra è datata 30 dicembre, giorno in cui l’Anglo Panormitan Athletic and Football Club, in via Emanuele Notabartolo al giardino Inglese, affronta una formazione inglese. Il match, diretto dal cavalier Ignazio Majo Pagano, finisce 5-0 in favore degli Inglesi.

[2] Ritter F., La via mala, Milano, 1973, p. 13 e seguenti.


Bibliografia aggiuntiva della parte quarta

Di Matteo, F., Storia della Sicilia, Edizioni Arbor, 2006

Lupo Salvatore, Quando la Mafia trovò l’America, Einaudi 2008

Mack Smith, D., Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, 1971

Renda Francesco Storia della Sicilia, Sellerio Editore 2003

Betocchi A., L’evoluzione nel socialismo, Napoli, 1891.

Ritter F., La via mala, Milano, 1973.

Pozzuoli fine 800

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Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (III)

Posted by on Ago 12, 2019

Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (III)

Parte terza: Il Periodo Crispino (1887-1896)

L’avvento della sinistra al potere era stata definita dai contemporanei “rivoluzione parlamentare”. La definizione può sembrare oggi esagerata, ma in effetti una rivoluzione ci fu davvero perché si affermò in quegli anni un nuovo equilibrio di potere. Una “rivoluzione passiva”, secondo la definizione di Vincenzo Cuoco, nei riguardi del Risorgimento. Si verificò una progressiva assimilazione delle classi dirigenti regionali nel processo di unificazione. In pratica, le classi dirigenti meridionali si amalgamarono con quelle del centro-nord. Naturalmente da parte degli storici del nord la penetrazione delle classi dirigenti meridionali, elette con la sinistra, nel sistema di potere del nord è stato descritta come un fatto negativo. Come sempre, quando si vuole screditare qualcuno, sono state usate frasi del tipo “l’uno vale l’altro”, “sono tutti corrotti”, e così via. Frasi e definizioni che ancora oggi sono di gran moda, come possiamo facilmente constatare aprendo qualsiasi giornale. In realtà non è così, la destra non vale la sinistra e viceversa, e il peso nel progredire della società è ben diverso. Fin dal 1860 infatti la parte più conservatrice dell’aristocrazia meridionale confluì nel partito di Cavour, mentre la parte più innovatrice divenne garibaldina. In Sicilia ci fu sempre una dialettica tra la parte più conservatrice dell’aristocrazia terriera, latifondista e la borghesia imprenditrice.

La borghesia imprenditrice del Sud

Nel 1876 l’iniziativa politica passò in mano alla borghesia progressista. Fondamentale per l’ancor giovane unità d’Italia è stato il fatto che questa sorta di rivoluzione si compisse nel meridione, in nome degli interessi fino ad allora calpestati del sud. Le classi proprietarie meridionali, raccolte sotto la bandiera della sinistra furono determinanti nel garantire l’unità politica e territoriale del neonato Stato italiano.

Non dobbiamo dimenticare che l’unità era figlia di una brutale annessione militare delle regioni meridionali ed era stata gestita e governata esclusivamente dal nord. Il meridione non era stato altro che una terra di conquista da sfruttare ai fini dello sviluppo delle regioni dominanti del nord. La vittoria della sinistra meridionale fu indubbiamente un fatto di “democratizzazione” dell’intero Paese e aiutò la crescita della sinistra anche nel nord. Sbaglia nel giudizio Benedetto Croce nella sua Storia d’Italia quando afferma che “il governo della sinistra fu lo stesso di quello della destra ma peggiorato”, così come sbaglia Tomasi di Lampedusa con il suo gattopardesco “Cambiare tutto per non cambiare niente”. I cambiamenti profondi in una società non si colgono nell’immediato e i loro effetti si vedono a lungo termine. Un tessuto sociale di tipo feudale non mostra chiari segni di democrazia solo perché ha un governo di sinistra. Occorrono decenni se non secoli per “svezzare”le nuove generazioni [1]. Il partito della sinistra si propose come il partito “della riparazione e della giustizia”dei torti consumati ai danni della Sicilia e del meridione. La piattaforma del riparazionismo trovò in Sicilia il suo ideologo in Camillo Finocchiaro Aprile… “per noi democrazia non importa (comporta, N.d.R.) agitazione ad ogni costo né sfrenato eccitamento delle masse popolari, importa rispetto ai diritti e alle opinioni di tutti, importa ordine e libertà…..E’ giusto, è ragionevole, che, come degli oneri, abbia l’isola nostra la sua parte di benefici, e che i voti di queste popolazioni siano ascoltati. E la difesa di codesti interessi non sarà soltanto una questione economica ma anche una questione politica” [2]. Questa impostazione del Finocchiaro Aprile rispecchiava, dopo un secolo, un reale cambiamento del clima politico. Fin dagli inizi dell’800, infatti, la Sicilia si era sempre trovata all’opposizione, con i Borbone prima e con i Savoia dopo il 1860. Con l’avvento della sinistra finalmente la Sicilia poteva entrare a far parte di un nuovo disegno politico, sostenuto non solo da Finocchiaro Aprile ma anche da Crispi e da Francesco Ingrao. che per prima cosa reclamava una riforma del sistema elettorale che desse voce anche ai lavoratori della terra [3].

Le riforme della Sinistra

Tra le riforme effettuate dalla sinistra una volta salita al potere ricordiamo: la scuola elementare obbligatoria (riforma Coppino del 1877); la soppressione della tassa sul macinato; l’abolizione del corso forzoso; la riforma elettorale: votavano gli uomini con più di 21 anni con il biennio elementare o paganti almeno un’imposta annua di 19,80 lire; le prime riforme sul lavoro: infortuni, sciopero, lavoro minorile e orari. L’avvento della sinistra inoltre favorì la diffusione del positivismo e rese possibile intraprendere anche una unificazione culturale oltre che politica perché coinvolse gli uomini di cultura e di scienza di tutte le regioni italiane; da ciò nacque l’esigenza di usare uno stesso linguaggio. Si ripropose pertanto la questione della lingua, questa volta non più con intenti separatisti come nel settecento ma con intenti unitaristi. Tra le due opposte posizioni, quella di Manzoni e quella di Isaia Ascoli (l’Ascoli prese posizione riguardo alla questione della lingua italiana, opponendosi alla soluzione di Alessandro Manzoni di usare il fiorentino parlato come lingua nazionale e proponendo invece di utilizzare l’italiano sovra regionale, che era già la lingua comune della scienza, e che di fatto veniva già utilizzato da secoli da tutti gli scrittori d’Italia, avendo anche il pretesto per innalzare il livello culturale della popolazione), in Sicilia prevalse la posizione dell’Ascoli. Gli scambi linguistici tra siciliano e italiano divennero più intensi che mai e fiorirono studiosi linguisti come Salomone Marino, Guastella, Vigo e Pitré. Tra il 1880 e il 1890 si ebbe una fioritura culturale di prim’ordine: letterati, architetti, sociologi, storici e giuristi, come Verga, De Roberto, Basile, Colajanni, Mosca, Orlando, Cannizzaro, Amari, ecc. espressero il meglio della loro produzione. L’ambiente culturale era vasto e gradevole e apprezzato dagli studiosi che anche dall’estero venivano a insegnare o ad apprendere nelle Università siciliane. Clamoroso è il caso del poeta Mario Rapisardi, un ateo radicale amato anche dai ceti popolari a tal punto che durante le celebrazioni del 1° Maggio, a Catania, era d’obbligo sostare sotto le sue finestre.

Nel raggruppamento politico denominato Sinistra confluivano in realtà uomini di diversa provenienza e orientamento: vi erano liberali riformatori, come il nuovo capo del Governo Agostino Depretis; rappresentati della borghesia settentrionale, terrieri meridionali; ex garibaldini e mazziniani, come Francesco Crispi; professionisti e intellettuali meridionali, come Francesco De Sanctis.

La pesante eredità lasciata dalla Destra

Gli ambiziosi programmi del governo cozzarono contro una situazione internazionale sfavorevole e, per quanto durante l’età di Depetris (1876-87) si registrasse un inizio di industrializzazione, lo sviluppo economico generale dell’Italia fu inferiore alle speranze e coincise con la grave crisi agricola degli anni Ottanta. Inoltre la Destra aveva lasciato in eredità alla Sinistra una serie di scottanti questioni: l’ordine pubblico inesistente, la lacerazione nei rapporti tra le forze politiche, le inchieste parlamentari non concluse, il brigantaggio che imperversava da sedici anni e che la destra più che combatterlo aveva arginato criminalizzando intere popolazioni. Con la Destra il sud era stato criminalizzato in toto, con la sinistra si chiedeva invece al sud la spinta a ricostruire il paese: una spinta soprattutto culturale e progressista. In tutto questo però, a causa delle lacerazioni tra le forze politiche, per assicurarsi di volta in volta una maggioranza in parlamento, Depretis cominciò a favorire il cosiddetto trasformismo, contribuendo a rendere ancora più incerta la linea di demarcazione tra destra e sinistra e tra i vari gruppi basati su antagonismi regionali e clientelari.

Il deterioramento dei rapporti italo-francesi, favorì intanto l’orientamento della diplomazia italiana verso Berlino e Vienna, così da portare nel 1882 alla stipulazione della Triplice Alleanza [4]. Questo indirizzo politico ebbe il suo sostenitore più intransigente in Francesco Crispi. Inoltre per adeguare la politica estera italiana a quelle delle potenze europee venne iniziata un’azione coloniale[5] che nel 1885, dopo la forzata rinuncia della Tunisia [6], si indirizzò verso la conquista dell’Eritrea.

Il Periodo Crispino

Dopo aver abbandonato la sinistra, Crispi era entrato nel gioco del trasformismo, che nel 1887 gli consentì di subentrare a Depretis. Crispi accentuò il protezionismo economico in chiave essenzialmente antifrancese, provocando una guerra doganale che ebbe effetti disastrosi sulla produzione agricola, soprattutto meridionale [7]. Egli cercò inoltre di instaurare un regime forte non privo di aperture riformatrici, ma soprattutto teso alla ricerca di una nuova grandezza coloniale nel tentativo di risolvere i problemi relativi alla povertà nel mezzogiorno e a tal fine firma il trattato di Uccialli con Menelik, in base al quale era riconosciuto il controllo italiano in Eritrea ed un ambiguo protettorato sull’Etiopia. La politica coloniale porterà invece al disastro di Adua (marzo 1896). Al di là della fallimentare impresa coloniale, il governo di Francesco Crispi indirizzò il sistema politico italiano in direzione di un rafforzamento dello stato e di un marcato autoritarismo. Nonostante ciò Crispi realizzò importanti riforme (miglioramento dell’efficienza della burocrazia; ampliamento del diritto di voto nelle elezioni locali; eleggibilità dei sindaci; riforma della sanità e della pubblica assistenza).

Per Crispi, un modello da imitare era Bismark: egli ai valori risorgimentali aggiunge il conservatorismo e il nazionalismo. I punti cardine della sua riforma furono: Il nuovo Codice Penale e l’abolizione della pena di morte; Il riconoscimento della libertà di associazione, pensiero, sciopero per i lavoratori. Tra le altre varie riforme, sono da ricordare: la nuova legge comunale e provinciale, che comprendeva l’elettività del sindaco. A causa della crisi economica del 1892 il governo Crispi cade e sale Giolitti. A sud intanto, prendono corpo i Fasci dei Lavoratori, che chiedono un contratto di lavoro e una soluzione riguardante la questione dello zolfo siciliano invenduto, a causa della invasione dei mercati di quello americano. Giolitti non interviene, neanche quando la situazione degenera in guerriglia. A contribuire al suo declino interviene lo scandalo della Banca Romana. Travolto dallo scandalo, Giolitti si dimette e Crispi torna al governo. Con fare autoritario, da vastissimi poteri alla Polizia. Reprime nel sangue rivolte in Sicilia, toglie il diritto di voto a 800.000 persone e si attira perplessità sul suo operato. L’ambiguità del trattato con Menelik fece scoppiare una guerra che si concluse con la disfatta italiana ad Adua, nel 1896, e con le dimissioni di Crispi.

Ma torniamo al 29 luglio del 1887, quando, morto De Pretis, Francesco Crispi fu nominato presidente del Consiglio. Ebbe così inizio quello che da molti viene definito come periodo “crispino”, caratterizzato da un predominio siciliano nell’alternanza tra Crispi e Di Rudinì. Questo decennio fu fondamentale per la storia italiana, fu un salto in avanti nonostante i traumi, le crisi economiche e finanziarie, la guerra coloniale persa, un colpo di stato sventato. Alla fine l’Italia ne uscì più matura e, almeno il nord, economicamente più forte.

Non così si può dire della Sicilia e del meridione d’Italia. Alla fine del decennio “crispino”, la Sicilia ne uscì indebolita e i livelli culturali, economici e politici si abbassarono di conseguenza. A provocare il tracollo economico furono principalmente la guerra commerciale con la Francia che causò il tracollo dell’esportazione dei prodotti agricoli pregiati, la fillossera che distrusse la gran parte dei vigneti, la protezione daziaria in favore dell’industria e della cerealicoltura e la crisi dello zolfo. L’industria zolfifera fu messa in ginocchio sul mercato estero dalla concorrenza dello zolfo americano. La capacità di iniziativa che la Sicilia aveva mostrato fu duramente colpita da questi eventi. Non a caso è proprio in questo periodo che inizia la fase discendente della famiglia più rappresentativa della economia siciliana: i Florio. Mentre nel resto del paese l’industrializzazione avanzava in Sicilia e nel meridione in genere si ebbe una regressione. L’intero sud, protagonista dell’ascesa della sinistra al potere, fu quello che pagò il pedaggio perché il nord si sviluppasse. Lo stesso Francesco Saverio Nitti tristemente notava “Tra il 1870 e il 1888 l’importanza del mezzogiorno era molto maggiore nella vita sociale ed economica dell’Italia che oggi non sia” [8]. Ma perché avvenne questo?

Nascita del divario Nord-Sud

Con l’avvento della sinistra e dei politici siciliani. la Sicilia divenne fulcro dei problemi fondamentali del paese: la crisi economica esplosa nell’85-86 che determinò i provvedimenti doganali colpì essenzialmente la Sicilia e le regioni meridionali, gli avvenimenti internazionali che coinvolgevano l’area mediterranea, portarono al militarismo e le riforme della società italiana che portarono alla riorganizzazione dei settori fondamentali della vita istituzionale come la promulgazione dell’enciclica Rerum novarum nella chiesa e la nascita del Partito socialista italiano e del Movimento sociale cattolico nello Stato, diedero lo slancio alla affermazione dei Fasci dei lavoratori che ebbero il loro culmine tra il giugno del 1892 e il dicembre 1893. I Fasci furono il primo esempio di organizzazione popolare, operaia e contadina insieme. I primi Fasci operai sorti nell’Italia centrale erano prevalentemente costituiti da proletariato urbano, prevalentemente di matrice anarchica, i Fasci siciliani si rivolsero invece a tutta la classe proletaria e popolare di città e di campagna. Non erano più, come i fasci operai dell’Italia del centro-nord, agenzie politiche ed elettorali di certa borghesia “illuminata”, ma diedero voce a rivendicazioni economiche più ampie del semplice mutuo soccorso tra i soci, e soprattutto sul piano politico non rispondevano ad alcun esempio governativo. Erano difficili da collocare e non a caso furono diversamente giudicati dagli studiosi dell’epoca: Il filosofo marxista Antonio Labriola li definì “..il primo atto del socialismo proletario italiano”[9], lo storico e politologo Gaetano Salvemini, con molta asprezza e poca comprensione, li definì “…una convulsione isterica, nella quale il socialismo ci entrò solo perché, essendovi nel resto del mondo un partito socialista rivoluzionario, questi affamati saccheggiatori di casotti daziari cedettero di essere socialisti anche loro.” [10]. Il filosofo Benedetto Croce arrivò a giustificarne la feroce repressione con un giudizio su quegli uomini che cercavano equità sociale a dir poco “classista”: “Il Crispi stroncò un movimento che non conteneva nessun germe vitale ed era privo di avvenire… Il torto di quegli uomini, di quei giovani era di eccitare e tirarsi dietro masse ignoranti e inconsapevoli, credendo di potersene valere per attuare idee che quelle non comprendevano… Cioè di tentare, sia pure a fin di bene un imbroglio che non è cosa che possa mai partorir bene e, tessuta con l’inganno, merita di essere distrutta con la forza”[11]. Lo studioso inglese Hobsbawm [12] definì invece i Fasci “un movimento diretto ad ottenere particolari miglioramenti economici” e li paragona al “cartismo” [13] inglese.

Checché ne dica Croce, i Fasci siciliani non sorsero dal nulla e nonostante la terribile repressione non finirono nel nulla. La Sicilia e tutto il meridione d’Italia è stata, dopo l’unità, la palestra in cui muove i primi passi il socialismo marxista rivoluzionario ed è proprio grazie ai Fasci Siciliani che viene proposto un marxismo creativo che con Antonio Labriola acquista rilevanza internazionale. Tutto il meridione, stava cercando di ridurre la disuguaglianza ed il rapporto di semidipendenza istauratosi tra sud e nord dopo il 1860 e la nascita dei Fasci siciliani si colloca proprio in quest’ottica. Solo la loro repentina esplosione e diffusione, ma non la loro nascita, è determinata dalla crisi del 1887. Con la crisi la Sicilia diventa il punto può vulnerabile: tagliate le esportazioni, distrutti i vitigni, costrette a chiudere le zolfare… I Fasci diventano l’opportunità per una ristrutturazione del sistema economico e sociale non solo siciliano ma nazionale, sono una opportunità per modificare il rapporto nord-sud. Purtroppo molta colpa nella sconfitta dei Fasci è da attribuire al comportamento del Movimento socialista internazionale, che in un primo tempo fu favorevole ai Fasci siciliani, ma poi non ne accettò la forte presenza contadina. Una tale distorsione nella visione socialista in Italia fu contrastata fortemente dal Labriola, ma fu anche avallata da Croce e da Salvemini. Ma quanto avveniva in Sicilia si verificava anche in Francia, In Belgio, In Olanda, in Germania. Nonostante il Congresso socialista di Marsiglia avesse equiparato i contadini agli operai delle fabbriche ci si pose il problema se costoro e il proletariato urbano potessero realmente partecipare alla formazione di una società socialista.

L’intervento di Engels e la fine della “via meridionale” all’emancipazione

Fu chiesto anche il parere a Engels il quale, purtroppo e con poca lungimiranza, rispose che bisognava considerare i contadini come piccoli proprietari o come compartecipanti, nelle vesti di affittuari o mezzadri del capitale e pertanto non potevano essere considerati proletari! Il parere di Engels fu accolto senza discussione anche in Italia. Intanto il socialismo siciliano aveva ottenuto una serie di successi. Fra l’agosto e l’ottobre del 1893 aveva organizzato e portato alla vittoria il primo grande sciopero italiano riuscendo a trasformare il terraggio in mezzadria . A seguire, stava conducendo una battaglia contro le tasse municipali chiedendone l’abolizione o la drastica riduzione, ma nel bel mezzo di questa galoppata vittoriosa irruppero i divieti e i voltafaccia del Partito socialista nazionale e internazionale. L’isolamento dei fasci portò inevitabilmente alla sconfitta.

Alla luce di quanto avvenuto in seguito il Partito socialista non avrebbe potuto commettere errore più grande. E le conseguenze di tale errore non sono state mai più riparabili. I Fasci dei lavoratori rappresentavano la continuazione dell’iniziativa meridionale sbocciata nell’80. La loro violentissima repressione determinò la esclusione della Sicilia e in parte anche del meridione dalla vita politica di sinistra. Il mancato sostegno o meglio l’abbandono del Partito socialista italiano lasciarono libere le mani ai ceti dominanti isolani che ripetutamente chiesero al governo lo scioglimento dei Fasci dei lavoratori. Giolitti, presidente del consiglio e ministro dell’interno dal maggio del ’92 al novembre del ’93 si era sempre rifiutato di intervenire, ma le sue dimissioni in seguito allo scandalo della Banca romana, cui non fu estraneo il Crispi, aprirono nuovamente le porte a quest’ultimo che ritornato alla presidenza accondiscese facilmente a quell’atto liberticida proclamando lo stato d’assedio. I contadini furono considerati alla stregua di pericolosi sovversivi capaci di rovesciare lo Stato. La stampa nazionale poi cominciò a sfornare una serie di articoli volti a denigrare i dirigenti socialisti siciliani. Si scriveva anche di complotti tra la Francia e i socialisti siciliani volti ad azioni anti-italiane. L’opinione pubblica fu pilotata contro i contadini siciliani che venivano dipinti come esseri primitivi, affamati, saccheggiatori e inconsapevoli! Nel 1893 la Sicilia fu lasciata sola. Ebbe contro i latifondisti, i conservatori e i reazionari di tutta Italia e l’Internazionale socialista. Crispi prestò orecchio a tutto ciò e non solo volle vincere ma volle stravincere. Le si schierò contro, la mise a ferro e a fuoco, stroncò nel sangue i Fasci che vennero sciolti e i loro dirigenti furono processati e condannati al carcere duro. La Sicilia e con essa tutto il mezzogiorno cessarono di aver peso nella vita politica italiana.

La sconfitta di Adua

La pessima annata del 1897 e il rincaro della vita esasperano gli animi: il 1898 segna l’esplosione di una irrefrenabile collera popolare accumulatasi in quarant’anni. L’anno si apre con una vittima proprio in Sicilia: è il 2 gennaio quando, a Siculiana, la polizia spara sulla folla che protesta per avere pane e lavoro uccidendo un contadino. Ma le manifestazioni e le rivolte si susseguono in tutta Italia per l’aumento del prezzo del pane, per il lavoro e contro le imposte. Scioperi e tumulti si contano a decine in Sicilia, in Campania, nelle Marche, in Puglia. Il 16 febbraio la polizia interviene contro una manifestazione a Palermo. Il 18, a Troina, la truppa spara su disoccupati, donne e ragazzi: il bilancio è di cinque morti e ventotto feriti. Il paese, posto in stato d’assedio, viene invaso da due compagnie di fanteria. Il 22 febbraio, a Modica, soldati e carabinieri fanno cinque morti. In marzo anche il nord scende in campo: a Bassano sono gli alpini a intervenire contro la popolazione, mentre a Molinella vengono arrestati un sindacalista e cinquanta mondine, e sciolte le cooperative.

I cannoni contro il popolo che manifesta

In aprile scoppia la guerra ispano-americana, col risultato di far aumentare il prezzo del grano e della farina, anche grazie all’indifferenza del governo che avrebbe potuto benissimo evitare il rincaro del pane sospendendo, almeno temporaneamente, il dazio sulla farina. La protesta divampa in tutto il paese, e Di Rudinì, cedendo alle pressioni del re Umberto I e degli ambienti di Corte che reclamavano una politica più dura, chiama le forze dell’ordine a intervenire dovunque. Da Sud a Nord fino a culminare nelle cannonate del generale Bava Beccaris sugli scioperanti di Milano e mettendo in campo altre misure restrittive che portarono all’arresto di molti esponenti dell’estrema sinistra. Senza comprendere l’importanza crescente dell’opinione pubblica che gli era contraria, il Rudinì cercò di far approvare dal Parlamento una serie di leggi illiberali, che limitavano il diritto di sciopero, la libertà di stampa e di associazione. Ma fu ben presto abbandonato dal Re e data l’ostilità della maggioranza parlamentare, il 29 giugno 1898, fu costretto a dimettersi.

La verità è che Di Rudinì non aveva la statura politica di Crispi e le sue misure restrittive stavano colpendo violentemente anche il nord. Fu sostituito dal generale Luigi Pelloux (già responsabile della gestione militare della Puglia in occasione dei disordini del 1898). Milano e il nord non ebbero contro come la Sicilia tutte le forze politiche e sociali, Milano e il nord ebbero l’opportunità di riprendere la crescita economica a spese di un sud ancora una volta devastato e calpestato.

Note [1] Analoghi discorsi si sentono spesso fare nei confronti del ’68 (1968). Ma come è possibile paragonare le condizioni della donna e dei lavoratori che si sono sviluppate in seguito a quell’evento a quelle precedenti? E chi si sognerebbe di dire che la restaurazione imposta dal congresso di Vienna cancellò la ventata di progresso che seguì all’illuminismo e alla rivoluzione francese? [2] Il testo del discorso è consultabile in “L’Amico del popolo” del 21 marzo 1876. [3] In Italia c’erano due sinistre: quella “Meridionale”, formata da piccola e media borghesia artigianale e commerciale, proprietari terrieri, ceti professionali che si vedevano svantaggiati dall’unità; e quella “Settentrionale”, formata da media borghesia che invece godeva dei vantaggi dell’unità. Gli industriali in pectore del nord chiedevano al governo di attuare provvedimenti protezionistici al fine di proteggere il debole mercato interno dalle importazioni straniere ma la crescita industriale si accompagnava alla arretratezza delle strutture di credito. Lo Stato pertanto si limitava a sostenere lo sviluppo industriale, tassando i cittadini e poiché le maggiori entrate venivano dall’agricoltura e quindi dal sud, le tasse penalizzavano il sud e finivano regolarmente a finanziare il nord. [4] Con la Triplice Alleanza, l’Italia ottenne la rottura dell’isolamento diplomatico e l’impegno dell’Austria a compensi territoriali in caso di sua espansione balcanica. L’alleanza con l’Austria sembrava sancisse pure una definitiva rinuncia a Trento, Trieste e all’Istria. [5] Sotto la pressione inglese, nel 1882 l’Italia acquista la baia di Assab e comincia la sua avventura coloniale (in contrapposizione ai principi risorgimentali). Se da un lato i latifondisti meridionali vedevano risolto il problema delle terre ai contadini, dall’altro era evidente l’impreparazione italiana dovuta sia alla mancanza di capitale e di industrie. Nel 1887 l’Italia tenta di conquistare l’Eritrea, ma a Dogali furono trucidati 500 soldati italiani. [6] La Francia invase la Tunisia, che subiva da sempre l’influenza italiana, e ciò ruppe definitivamente i rapporti tra le due potenze. L’Italia, ancora giovane non poteva rimanere isolate diplomaticamente, così il governo firmò la Triplice Alleanza con Austria e Germania, che impegnava le potenze a difendersi solo in territorio europeo. [7] La crisi agraria dovuta al ribasso dei prezzi a causa dei prodotti importati, rese necessario il protezionismo, iniziando una guerra di dazi con la Francia.Contro il protezionismo si schierarono i proprietari terrieri che esportavano merci (agrumi, olio, vino) e l’industria tessile e meccanica (che importava materiali meno costosi e migliori). [8] Ne “Il bilancio dello Stato”, 1900; cit da G. Giarrizzo, in “La Sicilia e la crisi agraria, I, 7 [9] Cit. in Renda Storia della Sicilia, III, 1061 [10] Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale, Feltrinelli, 1968, 26 [11] B. Croce, Storia d’Italia, pg 108 [12] Hobsbawm, I ribelli; forme primitive di lotta sociale. P.34 [13] Il Cartismo nasce in Inghilterra nel 1836, grazie a un gruppo di operai e di artigiani londinesi che rivendicano, nella propria “carta del popolo”(People’s Charter), un programma politico per tutto il movimento operaio. Le rivendicazioni principali erano le seguenti: suffragio universale (per gli uomini), elezione annuale del parlamento, votazione segreta dei deputati , divisione del paese in circoscrizione elettorali uguali in modo da assicurare un’eguale rappresentanza , abrogazione del censo per essere eletti e remunerazione dei deputati.

fonte http://www.ilportaledelsud.org/1887-1896.htm

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