Posted by altaterradilavoro on Gen 25, 2019
La parola italianità significa,
più o meno, che qualcosa o qualcuno, per il suo atteggiarsi, porta i
segni dell’appartenenza alla cultura, al costume, al carattere degli italiani.
Ma l’Italia, il paese che detta agli uomini o alle cose il suo segno, qual è?
Quella del Sud o quella del Nord? Perché, in effetti, è chiaro a tutti, che di
Italie ce ne sono due: quella degli itagliani e quella dei taliani.
La confusione è cominciata al
tempo di Roma repubblicana, allorché gli italici erano romani per i doveri militari
e non lo erano per l’arricchimento provenienti dai saccheggi che illustrano
(anche se non lo si dice) la civiltà romana. La confusione è andata così avanti
che è difficile stabilire se furono i Romani a conquistare l’Italia o se furono
gli Italici a conquistare Roma.
Comunque una certa alterità (o
doppiezza) tra chi sta dentro l’Itaglia a pieno titolo e chi non possiede il
titolo pieno, ma solo una specie di usufrutto, c’è sempre stata. Pensate al
significato etnico e politico della frase “Temo i Greci e i doni che essi
portano” (o quando portano doni. Esattamente: Timeo Danaos et dona ferentes),
che circolava a Roma-urbe al tempo di Scipione l’Emiliano.
Ora, questi Greci della
frase erano essenzialmente taliani del Sud, i quali, vinti e sottomessi dai
Romani, portavano doni ai vincitori e padroni, al fine di ingraziarseli in
vista di un lavoro o di un favore (al tempo di Cicerone si diceva clientes, da
cui l’itagliano clientela, in taliano ‘amici’). In buona sostanza, i Romani,
non paghi di esercitare una padronanza sui Taliani, li giudicavano anche male.
La cosa si è ampiamente ripetuta
dopo l’unità cavourrista. Raffaele Cadorna, intrepido generale milanese, nel
1866, assediò, bombardò, conquistò e sottomise Palermo insorta contro
l’unità. Nella sottostoria d’Itaglia, Palermo non fu la prima città bombardata,
ma la seconda dopo Genova (dal grande Lamarmora Alfonso, inventore dei
bersaglieri).
La quarta fu Gaeta (un tempo
città, anche se oggi è un insignificante borgo taliano), la quarta Reggio Calabria,
la quinta – non appena Caldiroli avrà assunto il comando dello Stato
Maggior Generale (ed anche Ammiraglio), sicuramente Napoli. Non tutta, però;
solo quella abitata dai Taliani. Perché, come tutti sanno, a Napoli ci sono
anche molti Itagliani (Bassolino, Jervolina, Pomicino, Mussolina, etc.). Il
seguito si vedrà. Forse Augusta, forse Mazara del Vallo, forse Agrigento, non
so.
Anche al tempo dell’eroico Cadorna
c’erano ambivalenze italiche. Palermitani nemici della patria e palermitani
patrioti. Leoluca Orlando Cascio non era ancora nato, ma viveva e operava un
suo antenato e precursore come sindaco di una città (e forse antenato anche nel
senso proprio di stipite familiare), il quale patriotticamente guidò la mafia
nell’opera di liberazione della decaduta capitale federiciana, in ciò seguendo
l’esempio del Generale Garibaldi, che pochi anni prima, alla testa di venti
idealisti, 980 avanzi di galera, un assegno scoperto e 3000 mafiosi (per pudore
detti ‘picciotti’, ancorché analfabeti e non capaci di capire altro se non il
tintinnio delle piastre – chissà perché turche? – generosamente distribuite dai
consoli inglesi di stanza), aveva liberato l’intera Sicilia dall’odiato
Borbone.
Qualche decennio dopo, il
marchese Di Rudinì fu elevato per i suoi meriti a presidente del consiglio dei
ministri itagliano e taliano, aprendo la strada a un mafioso più illustre
ancora, un componente della seconda generazione di patrioti, il prof. Vittorio
Emanuele Orlando, presidente della vittoria nel 1918.
Cornuti e mazziati, il nome
dell’illustre guerriero, generale Cadorna, ce lo ritroviamo nella
toponomastica dei nostri paesi e città bombardate, insieme a quello del
Generale Lamarmora, che non pago della carneficina di Genova, si esibì nella
patriottica opera di liquidare i briganti taliani.
Leggo su Corriere Economia del 7
febbraio 2005 il fondo di Edoardo Segantini dal titolo “Quella cosa del Sud che
nessuno vuole dire”.
A lettura fatta, mi resta da
capire se sono taliano o itagliano. Infatti, io vivo immerso nella mafia, che
sicuramente non è cosa italiana, in quanto l’italianità è definita
dall’aeroporto della Malpensa, dall’EuroStar (non so se “E’ bello Star in
Europa” o se Stella d’Europa), dalla Scala, da Giuseppe Verdi, da Maria Callas
e, perché no, anche da Giovanni Verga e dall’Opera palermitana dei Pupi.
Tuttavia potrei anche essere
itagliano anch’io, perché sono stato prima fascista e poi antifascista, subito
dopo, forse per redimermi, ho fatto l’emigrazione a Melano, sono
transitato per Piazza Cairoli e accanto alla Scala, quando vi cantava la Callas
e Toscanini vi dirigeva l’orchestra, e anche accanto al Piccolo quando
era guidato da Strehler. Insomma sono mezzo taliano e mezzo Itagliano. Ma non
tutto Itagliano, come Segantini.
La mafia è taliana e non conosce
l’itagliano. E tuttavia intrattiene gran rapporti d’amicizia con i
banchieri e i costruttori di Milano, che, come ben si sa, sono Itagliani
cosmopoliti (o forse Itagliani apolidi), comunque parlano una lingua
EuroUNiversal).
Per combatterla, il collega
Segantini suggerisce l’invio dell’esercito. Personalmente sono d’accordo.
La mafia, o la si vince militarmente o i vari De Gasperi, Einaudi, La
Malfa, Saragat e i Comitati di Liberazione Alta e Bassa Italia continueranno a
nasconderla nel sottoscala.
Resta il tema dei Dona Ferentes,
dei regali o regalie (o anche sportule o tangenti, vulgo intrallazzi). Cioè il
tema di Benetton, Zonin, Melagatti, Pelagatti, Filogatti, Carlusconi,
Bruttusconi, Perlusconi, Merlusconi, Pittusconi, che stanno comprando le case a
Ortigia e le terre viticole della mafiosa Sicilia, come insegna lo stesso
numero di Corriere Economia in altra pagina. Quo vadis, Domine? Questa è
la strada maestra dell’itaglianità. Lo anticipai nel 1971, ma nessuno mi credette.
Predissi (L’unità
d’Italia, nascita di una colonia) che per redimerci pienamente,
gli avremmo venduto la terra come i nostri megaellenici
progenitori, e portato doni che li avrebbero messi in sospetto. “Cu
nesci, arrinesci”, chi va fuori fa fortuna, cita il Corriere. Stiamo nescendu,
anzi nescsimu da 150 anni. Però non pensavo di vivere tanto da fare in tempo a
vendere la casa avita a un Serluschese del Trecento. Ecce Domine!
PS. Secondo me, la perfetta
talianità dei meridionali si ha con Totò Riina e con questo Cuffaro, di cui –
chiedo scusa – mi sfugge il nome di battesimo. Quella degli Itagliani, di
edificare dei taliani simili a loro è un pio e cavourristico proponimento, che
mai potrà realizzarsi, perché la talianità è dell’Oriente mentre l’itaglianità
è dell’Occidente. Se e quando i taliani si faranno anche loro le fabbriche,
tutt’al più torneranno a essere come i Danaos prima che intraprendessero
l’esercizio di portare doni, non mai Itagliani.
Perché c’è il risvolto dei Dona
Ferentes. Anche questo in latino: Graecia capta ferum vincitore cepit, frase
che tradotta a senso (storico) dice: i taliani – i quali non vollero combattere
a loro difesa, e perciò noi Romani li abbiamo vinti e assoggettati – con i loro
artifici (o altro) stanno mettendosi sotto gli Itagliani. Le case, la
terra, prendete anche questo. I nobili prediligono gli ambienti storici.
Senza il citato Cadorna, Giovanni
Paolo II benedirebbe i credenti dal balcone del Quirinale. Ma i preti,
bene o male, furono pagati. A Napoli e in Sicilia, i sabaudi si beccarono non
meno di una decina di regge, senza sborsare un centesimo. Il nostro lavoro se
prendono già, pagandolo male. Il nostro sottosuolo è loro sin dal maledetto
giorno dell’unità. Adesso anche le case, le spiagge, il sole, la terra.
L’attuale caduta della capacità
d’acquisto, per salariati e stipendiati, a questo mira. Ma il giorno in cui non
vi porteremo più doni (forse) non è lontano.
Nicola Zitara
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Posted by altaterradilavoro on Gen 11, 2019
Un viaggio nella memoria. Smentito ad ogni passo, vuoi per un
asfalto recente vuoi per un tetto o una facciata rifatti. Solo le candele di
una centa
sembravano sempre le stesse, quelle di oltre sei lustri fa, quando seguimmo una
delle tante vie aperte da chi se ne era andato prima di noi, verso l’isola
felice del socialismo italiano, regione modello per eccellenza.
Altre volte eravamo riandati a Sud, nei decenni passati, spinti
dalla nostalgia o da impegni familiari. Stavolta però il viaggio nella memoria
era denso di presunzioni e di illusioni “duosicilianiste”.
Come prima tappa l’omaggio ad un maestro, Nicola Zitara, uno
storico che ha fatto della dignità meridionale una ragione di vita ed un
progetto politico: la indipendenza
del paese meridionale quale soluzione unica e improcrastinabile al problema
dei problemi, l’assenza di lavoro.
L’incontro si snoda tra appassionate ed estenuanti discussioni
notturne e viaggi in luoghi simbolo della cultura e della storia meridionale,
Gerace, Stilo, la ferriera di Ferdinandea, le fabbriche di armi e gli altiforni
di Mongiana.
Appassionate discussioni notturne
Sullo sfondo sia delle parole che dei passi sempre lei, l’isola
felice. Per noi, immagine-ricordo ingombrante, dove ormai sostano tanti
affetti. Per gli altri, immagine-modello di un nord ordinato, opulento,
invidiato e invidiabile.
Da imitare.
Modena, ah Modena, Reggio Emilia… gli asili all’avanguardia. Lo
avremmo sentito dire tante volte nel corso di questo viaggio nel Sud, tra
Campania, Calabria e Lucania.
A sud, invece, tutto da rifare, non funziona nulla. Solo mafia,
corruzione, insipienza politica. Iniziative zero.
“Questo sud ha bisogno di uno scossone morale. I destini dei
meridionali della diaspora e di quelli che oggi vivono al sud si divaricheranno
sempre di più, per interessi contrapposti.”
La necessità di una scossa morale la condividiamo, le
modalità per generarla un po’ meno. Forse da lontano si vede male,
distorto, non si percepiscono appieno la profondità e la vastità delle
contraddizioni di una società devastata dalla emigrazione prima e dal mito dei
soldi facili poi. Un mito che ha coinvolto tanti: a testimoniarlo una
militarizzazione veramente impressionante del territorio [la Locride].
Le scorribande tra passato, presente e futuro si inseguono e si
intersecano nei pochi giorni – o, meglio, soprattutto nelle notti! quando
Zitara dava il meglio di sé nelle discussioni – di permanenza a
Siderno.
Uno dei filoni d’indagine che meriterebbe di essere esplorato –
secondo il nostro ospite – è il “trattamento riservato alle
opposizioni” nei primi anni di vita unitaria. Sicuramente si
usarono maniere forti ed era pressoché impossibile opporsi.
Noi suggeriamo che fu il “brigantaggio” la vera
rovina del Sud: la paura dei briganti impedì alle classi dirigenti
meridionali di far valere le proprie ragioni nei confronti del nuovo stato.
Giocarono di rimessa, consegnando l’ex regno nelle mani dei piemontesi, senza
contropartite.
Tra una discussione e l’altra riusciamo a convincere Zitara a
postare un messaggio – intanto un amico napoletano dà un preavviso per
informare gli iscritti che eventualmente vogliano replicare o porre delle
domande – nel forum di Terra e Libertà.
Zitara percepisce la potenza del mezzo e le possibilità di dialogo
fra persone lontane che esso offre ma non ha un accesso personale diretto
a internet e dopo la nostra partenza non ci risulta abbia proseguito il
dialogo.
Per chi è interessato a leggere le repliche che non riportiamo in
quanto dovremmo chiedere le autorizzazioni agli iscritti al forum, basta
collegarsi a https://www.ngsoft.it/forum/
e leggersi – finché non verranno archiviati – i messaggi della discussione
intitolata: Sondaggio: autonomia o indipendenza?
Gerace
La Firenze del Sud, deve il suo nome a Jerax, sparviero, secondo
altri all’antico nome Bizantino “aghia kiriaki’” (S. Ciriaca). Il borgo poggia
su un rilievo arenario da cui si domina la quasi totalità del territorio della
Locride.
Il centro urbano conserva l’originaria struttura medioevale, è
ricco di chiese, palazzi, e strutture architettoniche particolari (Gotiche,
Bizantine, Normanne e Romaniche), i portali, le stradine, i monumenti, la
bellissima cattedrale Normanna, il castello, le chiese del X, XII sec.
Di Gerace oltre alla straordinaria vista panoramica, ci ricordiamo
di uno “strano” particolare, l’essere rimasti al sole per diverso tempo senza
aver avuto alcun problema – quando a Siderno si trovava difficoltà a fare una
passeggiata sotto il sole anche alle sei del pomeriggio.
Stilo
Situata alle pendici del Monte Consolino, dette i natali a Tommaso
Campanella. Centro di storia e cultura tra i più rappresentativi di tutta la
Calabria, tra le varie chiese e monumenti, di notevole interesse la cattedrale
detta “Cattolica“, esempio unico di arte bizantina.
Ci siamo immersi nel respiro del silenzio che invita alla
meditazione all’Eremo di Monte Stella, risalente all’epoca dei primi
insediamenti di eremiti.
Nella chiesa bizantina di San Giovanni Theristis, risalente al X sec., officiata dai
monaci greci, oltre a Padre Kosmas Aghiorita abbiamo incontrato Francesco,
giovane e altero calabrese, reduce dalla partecipazione alla Fiera di Rimini,
giugno 2005, al “Premio per il miglior sito comunale” per il sito https://www.bivongi.com.
Ferdinandea
Chi ama la storia di questo sfortunato paese e passa per le
Calabrie non deve sottrarsi a questa sorta di pellegrinaggio che noi –
assolutamente ignari di cosa avremmo trovato – abbiamo intrapreso tra fitti e
verdi boschi di faggi, guidati dall’instancabile Franco Z. e dalla vulcanica
Antonia C., insostituibili compagni di viaggio.
“Ma questa è Atlantide!” ha esclamato mia moglie di fronte
all’imponenza del complesso che prorompe dalla vegetazione che l’ha sommersa e
nascosta alla vista in più parti.
Ferdinandea, emblema
di un glorioso passato sconosciuto alla stragrande maggioranza degli stessi
meridionali – lo avremmo verificato nel prosieguo di questo viaggio a sud.
Un nome che non è finito sui libri di storia, almeno quella insegnata nelle
scuole e nelle accademie, rimanendo perciò ignota. Venne destinata, nella prima
metà del 1800 a sede della direzione delle Regie Ferriere e della Fonderia,
stabilimenti già in funzione da tanto tempo, e costituenti fonte di reddito per
tutta la zona.
Il complesso residenziale comprende una Cappella o Oratorio, che
esiste tuttora ma a cui è vietato accedere.
All’interno della tenuta, dimora estiva di Ferdinando II, accanto al
laghetto artificiale, abbiamo incontrato due giovani con un gruppo di scout.
Siamo rimasti piacevolmente sorpresi nello scoprire che essi avevano un
opuscoletto contenente alcuni appunti su Ferdinandea [ringraziamo Maria Federica di Bovalino per averci dato copia
delle due pagine che riproduciamo per intero]. Una prova tangibile che a Sud la vulgata risorgimentale si sta
incrinando, che iniziano a circolare documentazioni storiche che negli scorsi
anni erano appannaggio di pochi isolati cultori di storia meridionale.
Mongiana
Per evitare di tornare indietro, vista la distanza da Siderno,
lasciamo la visita a Mongiana per il giorno della partenza, del ritorno in
Campania, destinazione Vallo di Diano.
A Mongiana sono ancora visibili i resti di un vero e proprio complesso
siderurgico sulle rive del fiume Allaro, di un altoforno sopravvissuto alle
intemperie e alla incuria degli uomini e di una fabbrica d’armi, destinata alla
produzione di cannoni, doppiette, sciabole, ma anche di utensili (bracieri,
mortai) e balconi – mia moglie faceva notare, passeggiando per il paese, le
personalizzazioni delle ringhiere visibili nei balconi meno recenti di quasi
tutte le case.
Dopo la visita alla fonderia [vedi
foto] , in Via Carbonile incontriamo un
gentilissimo signore del luogo che ci chiede se abbiamo bisogno di passare
dietro casa sua. Noi non resistiamo alla tentazione di domandargli cosa avesse
sentito dire da piccolo dagli anziani del paese. Ne nasce una intervista non
programmata, dove la storia con la esse maiuscola si incrocia con quella
personale di emigrante prima e di forestale dopo, con tanti rimpianti per una
vita che sarebbe stata diversa se non avessero smantellato la fabbrica
di Mongiana e portato tutto a Brescia [forse
la storia non andò proprio così ma ci è andato molto vicino].
Tra le altre cose che il signor Angelletta dice – durante
la conversazione che riportiamo per intero – è che “a quei tempi
quando suonava la campana si passava a prender la paga, non come adesso che ti
fanno aspettare anche sei mesi“.
La fabbrica d’armi, edificio essenziale, la cui entrata è
sormontata da due enormi colonne doriche di ghisa massiccia, è in restauro e
non abbiamo potuto visitarla. In questa fabbrica furono fusi i binari della
prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici.
L’altra tappa è stata la fabbrica dei cannoni, di cui si è persa
finanche la memoria negli stessi abitanti di Mongiana. Dopo alcune domande
senza risposta, un anziano signore ci ha indirizzati per un sentiero che porta
a valle, lungo il fiume Allaro. Ci siamo incamminati in cinque ma un giovane
abitante incontrato lungo la strada ci ha vivamente sconsigliato di proseguire.
E così siamo andati avanti solo in due, chi vi scrive e l’infaticabile Franco.
Solo una buona dose di follia o una grande passione può spingerti sotto lo schioppo del sole del primo pomeriggio, per
giungere qualche chilometro più in basso, oltre il ponte di cui aveva parlato
l’anziano signore delle prime indicazioni, ad un muracene che solamente una pietra rossastra tipico scarto da fusione testimoniava
l’antica esistenza di una fabbrica di cannoni. Vana la ricerca di qualche segno
più evidente tra le siepi che ricoprivano tutto.
Poco prima del ponte l’insegna del famoso “Sentiero naturalistico
Frassati” un sentiero che per i luoghi che tocca costituisce una sorta di
crocevia in cui s’intrecciano le vie del monachesimo, del naturalismo e della
civiltà industriale.
Sul tardo pomeriggio giunge quell’ora – triste per ogni
viaggiatore – in cui dobbiamo salutare i nostri ospiti che se ne tornano verso
la costa jonica, a casa propria. Noi decidiamo di pernottare. Una decisione
davvero, saggia, in quell’albergo di Mongiana abbiamo riassaporato il piacere
del silenzio dopo aver sofferto la chiassosa Siderno notturna.
All’indomani di nuovo sull’A3 – stavolta oltre i cantieri
esistenti tra Lamezia e Rosarno – verso il Vallo di Diano. Il solito mistero
dell’obbligo di procedere a 60 km all’ora nella zona di Sibari lungo un
pezzo di autostrada in cui i lavori parevano terminati. Ovviamente nessuno
rispettava quell’assurdo e incomprensibile limite – avremmo scoperto di lì ad
una settimana che era dovuto – parola di giovane camionista conoscitore del
tratto che percorre spesso – alla cedevolezza del fondo stradale appena
realizzato [verità o leggenda metropolitana?].
La capitale
Napoli, bella e maledetta.
Vi capitiamo in uno dei giorni più torridi di luglio. Lasciata la stazione,
dalle parti di via Torino finiamo in un dedalo di vie, una delle quali
completamente colonizzata da extracomunitari, dai marciapiedi ai negozi, al via
vai di camion che scaricavano e caricavano merci.
Abbandoniamo l’idea di proseguire a piedi. Ad una fermata dei bus
incontriamo il “solito napoletano” che ti spiega con dovizia di particolari
cosa prendere per andare dove vuoi andare. Si tratta probabilmente di una
questione fortuna, ma tutte le volte che passiamo per Napoli incontriamo sempre
non i soliti scippatori ma i soliti napoletani gentili che se potessero ti
accompagnerebbero direttamente alla tua destinazione. Con questo non vogliamo
dire che Napoli sia la città più sicura del mondo, ma quando si gira in una
qualsiasi metropoli del mondo bisognerebbe muoversi con un po’ di circospezione
invece che con i paraocchi del pregiudizio.
Il nostro primo appuntamento è col direttore de “ilbrigante” col
quale riusciamo finalmente a incrociarci in Piazza Municipio per poi
andare a rifugiarci via Partenope a due passi dal mare, al ristorante
“Anema e Cozze” dove resteremo per qualche ora a parlare del Nord e del Sud,
ovviamente. E anche qui, un nostro interlocutore occasionale col cuore che
batte a destra – politicamente parlando – si spertica in lodi del modello
emiliano-romagnolo. Praticamente una rivisitazione riveduta e corretta del
“FUJETEVENNE” di eduardiana memoria. E noi venuti dal nord ordinato e opulento,
finiamo per dover erigere barricate contro i soliti luoghi comuni sul
malcostume e il malgoverno meridionali, cercando di sostenere le ragioni di un
sud da cui siamo lontani da decenni e di cui forse conserviamo una visione
mitologica e intellettualistica.
Il nostro secondo appuntamento – sempre a Piazza Municipio, dove
ci conduce il direttore de “ilbrigante”, a cui ormai abbiamo bruciato, pur
senza volerlo, tutto il pomeriggio – è con un giovane amico dell’agro
nocerino-sarnese strappato al ristoro delle acque del Tirreno e catapultato a
Napoli in pieno solleone. Un altro gesto di sincera amicizia difficile da
dimenticare. Andiamo in un bar a Mergellina, dove nonostante la calura
insopportabile, trascorriamo due ore piacevoli, finalmente con un paio di
meridionali – G. ed E. – che non fanno professione di autorazzismo e non hanno
timori reverenziali verso alcun nord.
Era il sud che cercavamo, anche se si tratta di un sud
minoritario. Per ora.
Quando su Mergellina cala la sera, dobbiamo abbandonare i nostri
amici e riprendere il treno verso Battipaglia. E finire sull’inferno della A3,
un vero incubo tra Contursi e Atena lucana, un corridoio strettissimo con le
macchine che ti abbagliavano contro ed un disgraziato (sudico o nordico che
fosse, si trattava di un vero delinquente) che ci tampinava ad una paio di
metri col suo camion – e non è che noi potessimo andare più veloci visto
che a un centinaio di metri ci precedeva un gruppo di auto ad andatura
regolare. Ad Atena Lucana termina l’incubo e ci salutiamo con un reciproco e
sonoro “vaffan….”.
Il Cilento
Per noi il Cilento è il luogo dell’anima, perché è il luogo
dell’adolescenza: vi abbiamo frequentato elementari, medie, secondaria superiore.
Partendo da Teggiano,
la cittadina della “Congiura dei Baroni”, ci siamo mossi tra Sacco,
Piaggine, Roscigno vecchia, passando il più delle volte per la Sella
di Corticato. Una volta per il passo della Sentinella, partendo da San
Rufo, il paese di Nicola
Marmo, poeta e scrittore, autore dell’amara satira postunitaria “Roma
liberata”.
Prima di partire per il Sud, mi diceva per telefono un amico
napoletano che ora risiede in Lombardia “dove son nato io, ora c’è un
gommista”, ebbene dove son nato io, nel Vallo di Diano, ora c’è un posto
macchina! Ma la nostalgia non è per quel posto macchina, è tutta per il Cilento,
terra dei tristi al tempo dei borbone, terra d’emigrazione dai piemontesi ai
giorni nostri.
Il terremoto ha stravolto il paesaggio urbano facendo fare un
salto di decenni negli standard abitativi, ma ora diversi angoli del paese si
riconoscono a fatica e tante case rimesse a nuovo sono completamente
disabitate!
Una classe politica incapace e soggiogata al centro politico
padano-romano ha dilapidato una occasione sprecando un fiume di miliardi in
assurde e inutili ricostruzioni di case oggi rifugio di qualche barbagianni.
Scrive Alessandro Cavalli in “COME REAGISCE LA COMUNITA’”,
1998:
“E qui la variabile cruciale è la cultura delle élites locali –
politiche, economiche e culturali – che sono in fondo le depositarie della
memoria e dell’identità collettiva, e che guidano, magari attraverso processi
dialettici e conflittuali, il processo della ricostruzione. Perché un disastro
è sempre un’occasione, peraltro non cercata, per riflettere su se stessi, per
riflettere su cosa si è e su cosa si vuole essere nei confronti del proprio
passato e del proprio futuro.”
E ci siamo chiesti e continuiamo a farlo perché il modello Friuli
che pur si è cercato di adottare – secondo noi sbagliando perché si trattava di
un modello importato, estraneo alla nostra cultura e alla nostra storia – da
noi non ha avuto successo: si ricostruiscono o si creano ex-novo le attività
produttive, poi con i redditi da lavoro si ricostruiscono anche le case.
Una ricetta semplice, per un’area contigua alle aree
economicamente forti, forse meno praticabile in un sud bloccato tanti anni fa
da una guerra civile nel suo percorso verso la modernità.
“Non è stato poco e non è vero che non è cambiato niente, è
cambiato eccome” ci scriverà poi, in questi giorni, il giovane amico
dell’agro nocerino-sarnese, a proposito del tracollo del Regno delle Due
Sicilie e della sua annessione al Piemonte. Ma per molti è roba vecchia
passata. Non ne vogliono sentir parlare, secondo tanti meridionali col Sud di
oggi non c’entra granché. Oggi i problemi del Sud sono altri, non certo come si
è formato questo paese.
A questo ci hanno ridotto.
Peccato che si tratti di un passato che non passa. Da cui tutto
discende, sottosviluppo ed emigrazione. Una guerra civile che ha visto migliaia
di uomini in armi combattersi con ferocia e crudeltà e che ha lasciato un astio
profondo tra il nord e il Sud del paese, che ha alimentato le diffidenze
reciproche e non ha mai aiutato a far decollare uno sviluppo armonico
dell’intera Italia.
Anche la terminologia testimonia lo scontro decennale tra esercito
e guardia nazionale da una parte e guerriglieri meridionali dall’altra, “quelli
del Nord” e “quelli del Sud” sono le espressioni migliori del
vocabolario nazionale postunitario. Anche oggi, o no? Pensate alla vostra
esperienza personale e datevi una risposta.
Noi, in questo ennesimo viaggio dei luoghi della memoria, nel
salutare amici che non vedevamo da otto-dieci anni ci siamo sentiti rivolgere
battute tipo: “sei ancora neoborbonico”, “fai ancora parte del
movimento di liberazione del Sud” e altre amenità del genere.
Ovviamente non siamo né iscritti al Movimento Neoborbonico [nel caso, non ce ne vergogneremmo e comunque abbiamo amici
carissimi che ne fanno parte] e né siamo
separatisti, anzi non lo siamo mai stati. Anche di questo non ci vergogneremmo,
ovviamente, nel caso lo fossimo.
Abbiamo solo fatto qualche
lettura che non accetta la vulgata risorgimentale, tutto qui. Riteniamo che
questo paese sia nato sopra un
imbroglio e che sarebbe da rifondare sottoponendo ad una operazione di
verità la sua storia fondante. Solo così i meridionali avrebbero qualche
ragione per non vergognarsi di se stessi e i settentrionali qualche ragione per
non sentirsi superiori ad essi.
Cosa non da poco.
Anche stavolta, estate 2005, siamo finiti impantanati nelle solite
discussioni, nelle solite visioni palingenetiche e messianiche in cui non crede
più nessuno, ma qualche amico meridionale invece sì. Stiamo parlando della
sinistra, nel caso non lo si fosse capito. L’emigrazione sarebbe ripresa solo
ora, con questo governo [di cui a noi importa
meno di nulla, ma i fatti sono fatti] e non negli
anni 1997-98 quando le statistiche già parlavano di 60-70mila persone che
abbandonavano il Sud ogni anno, ma sui giornali non se ne parlava, ora invece
si fanno i paginoni sul “fenomeno in ripresa”.
Del decreto
fiscale 56/2000, approvato dal governo di centrosinistra e applicato da
quello di centrodestra, non sa niente nessuno. Se parli di Vera Lutz [che tanto piace al nostro presidente del consiglio] e delle sue teorie sulla
necessità di concentrare
al nord lo sviluppo, ti guardano come un
marziano.
Il destino dei popoli è simile a quello degli individui: esistono
persone fortunate, a cui va tutto per il verso giusto e altre, invece, a cui la
sorte matrigna riserva bocconi amari in quantità.
Il popolo meridionale prima della unificazione nazionale viveva in
uno stato indipendente, che marciava con un suo particolare ritmo verso la
modernità, possedeva una delle migliori marinerie del tempo, alcuni
insediamenti industriali, delle buone leggi, un’agricoltura in trasformazione.
Una serie di sfortunate coincidenze storiche e geopolitiche [da tempo l’Inghilterra voleva dare una sistemata al
Mediterraneo, a testimoniarlo un articolo apparso su “The Globe” del
12 maggio 1849, dove si tracciava una nuova configurazione dell’Europa che
prevedeva, tra l’altro, in Italia un regno dipendente da casa Savoia] ne decretarono il tracollo militare, politico ed economico e
resero questo paese una delle zone più arretrate dell’Europa occidentale.
Se il problema – su questo possiamo essere d’accordo – è quello
della formazione di una nuova classe dirigente, come si fa a generarla o a
farla emergere senza uno scatto di orgoglio che parta dalla propria storia?
Lo si potrà fare non certo rimestando i soliti luoghi comuni, ma
chiarendo quelli che sono stati i punti cardine della formazione
dello stato unitario prima e della ricostruzione del secondo dopoguerra poi.
* * *
Altre due tappe di un’estate in bilico tra memorie d’infanzia e ricerca storica avrebbero dovuto essere una seconda visita a Rionero in Vulture, patria di Crocco (di cui quest’anno ricorreva l’anniversario della morte), e una visita all’Archivio di Stato di Salerno nel quale si troverebbero notizie sul processo seguito ai fatti di Pontelandolfo e Casalduni, ma dei banali problemi tecnici alla nostra vettura lo hanno impedito.
fonte https://www.eleaml.org/sud/atlantide/atlantide.html
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