La Galleria Umberto I di Napoli, la maestosa architettura in ferro e vetro in pieno stile Liberty, cela alla vista dei passanti alcuni segreti: un tempio massonico, simboli e segni misteriosi che rimandano ad un profondo messaggio esoterico.
Pochi sono a conoscenza che la Galleria Umberto I di Napoli, oltre a rappresentare un piccolo e ingegnoso gioiello dell’architettura in ferro e vetro con chiaro riferimento al gusto eclettico di fine Ottocento, nasconde al suo interno un vero scrigno di simboli e allegorie, una sorta di tempio misteriosofico, nel quale l’iniziato passeggiando fra le sue braccia e al di sotto della grande cupola, riesce ad apprendere una conoscenza arcaica.
E’ la persistenza della Napoli velata, quella densa di aspetti ignoti che ridesta la memoria antica dell’uomo assopita dalla realtà; è come scriveva Giuliano Kremmerz«vi è qualcosa nell’uomo vivente, la quale a prima vista non appare: una riserva di forze ignorate che in certi momenti non precisabili possono dare fenomeni inaspettati ed effettivi».
La costruzione della Galleria Umberto I fu eretta nel 1887 a seguito del ricco programma di rinnovamento urbano che interessò la città nella seconda metà dell’Ottocento; in quest’area brulicante di vicoli stretti vi erano condizioni di vita molto precarie estremamente disagiate, dove spesso insorgevano epidemie di colera.
Nel 1885 fu approvata la Legge per il Risanamento che incise in particolar modo sulla zona di Santa Brigida per riscattarla dal degrado e per favorirne la viabilità. Furono presentate proposte e progetti per risanarla e fra questi si aggiudicò il progetto l’ingegnere Emmanuele Rocco, con la sua opera innovativa: la Galleria in ferro e vetro in pieno gusto eclettico a cui lavorarono anche Antonio Curri ed Ernesto di Mauro successivamente. Inaugurata nel 1890 fu un successo senza precedenti, impiegata ieri come oggi, come galleria commerciale di prodotti esclusivi.
La GalleriaUmberto fu concepita con due braccia che si intersecano a crociera con accessi sulle vie di Via San Carlo, Santa Brigida,Via Toledo, Via Verdi, sovrastate da una superba volta e dalla cupola centrale su progetto di Paolo Boubée. Al suo interno ospita il celebre teatro della Belle Époque, ovvero il Salone Margherita, il più importante salotto culturale di Napoli nonché sede principale attualmente dello svago notturno dei napoletani che inizio Novecento accolse personalità di spicco come: Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo, Gabriele D’Annunzio, Roberto Bracco, Ferdinando Russo, Eduardo Scarfoglio e Francesco Crispi.
Fra le varie attività commerciali indichiamo il Museo del Corallo della storica famiglia Ascione, rinomata per la lavorazione del corallo di Torre del Greco fin dagli inizi del XIX secolo.
Interpretazione dei simboli e lettura massonica
La nostra lettura si concentra sia all’interno che all’esterno della galleria, focalizzando l’attenzione su alcuni simboli; l’indagine inizia dall’ingresso principale che affaccia sul maestoso Teatro San Carlo, di cui la via prende il nome. La facciata ad esedra (l’incavo semicircolare sovrastato da una cupola) presenta un porticato architravato retto da colonne simile ad un tempio, e qui incontriamo i primi elementi simbolici poiché nell’architettura romanica le colonne identificavano l’uomo, il quale si erge verso l’alto, ossia il cielo, il divino. Secondo l’interpretazione massonica, le colonne stanno ad indicare il concetto di dualità, ovvero il limite tra sacro e profano, tra bene e male. Non è inusuale in Massoneria trovare colonne sormontate da alcuni elementi, come le melagrane per esempio che indicano l’Aria, l’elemento femminile che genera la vita, il soffio vitale.
In linea generale, la colonna è un simbolo predominante che indica solidità, fortezza ed equilibrio. Per gli iniziati alla Massoneria, la colonna sta a simboleggiare le fondamenta dell’edificio interiore, su cui poggia il ciclo della propria esistenza terrena, un percorso di costruzione e di elevazione proprio come un’architettura da edificare nel corso degli anni. Un riferimento molto esplicito e non oscuro, se si pensa che la Galleria Umberto I è sede storica della Loggia Massonica Grande Oriente d’Italia, sita precisamente al numero 27, fondata nel 1804 nel Regno di Napoli con il nome di “Grande Oriente della Divisione dell’Armata d’Italia esistente nel regno di Napoli” sotto la Gran Maestranza del generale napoleonico e patriota italiano Giuseppe Lechi. Giuseppe Bonaparte ne fu Gran maestro fino al 1841. [fonte Wikipedia]
Su l’ingresso principale di Via Verdi troviamo raffigurati sulle colonne i Quattro Continenti: la prima statua da sinistra è una donna che regge una lancia in mano e ai piedi una lapide riporta l’iscrizione Corpus Juris Civilis, e rappresenta l’Europa. La seconda figura che stringe a sé una coppa, rappresenta l’Asia. La terza statua abbigliata in stile etnico, ci mostra con una mano un casco di banane e con l’altra si sostiene sopra una sfinge, e questa rappresenta l’Africa. Infine l’ultimo soggetto regge nella mano destra un fascio littorio e ai piedi sono appoggiati un volume di tavole geografiche con un globo terrestre (il nuovo Continente) e rappresenta l’America. Altri elementi sono indirizzati alla cultura massonica: ilLavoro e il Genio della Scienza (legati alle quattro stagioni); nelle nicchie laterali sono illustrate la Fisica, la Chimica; sul frontone un gruppo scultoreo raffiguranti il Telegrafo, il Vapore, l’Abbondanza. Queste sculture sono un’invito incoraggiante di positività nella scienza e di fiducia nel progresso.
L’interno è un trionfo di stucchi e decori Liberty, contraddistinti dall’eleganza dello stile Neorinascimentale; un tema ricorrente è il ciclo delle Quattro Stagioni con le sue simbologie: l’Inverno, la Primavera, l’Estate, l’Autunno. Nella tradizione iconologica, queste suggeriscono i diversi mutamenti della vita dell’uomo e sono connesse alla tradizione astrologica, scandita da influssi celesti sotto l’opera della divinità e di simboli correlati.
Ogni Stagione governa tre segni zodiacali: la Primavera governa il segno dell’Ariete, del Toro, dei Gemelli; all’Estate è legata al segno del Cancro, del Leone e della Vergine; l’Autunno si manifesta nella Bilancia, nello Scorpione e nel Sagittario; per concludere il cerchio con l’Inverno che è connesso al Capricorno, all’Acquario e ai Pesci. Questi segni zodiacali li ritroviamo nel pavimento in mosaico realizzati dalla ditta Padoan di Venezia nel 1952 a seguito dei bombardamenti della seconda guerra che danneggiarono buona parte della struttura; oggi possiamo rimirarli nuovamente sotto la cupola in piena luce.
L’interno della Galleria Umberto I è un susseguirsi di richiami massonici; lo stesso incrocio ortogonale che da corpo a due strade delimitate da alcuni palazzi, disegnano un ottagono centrale. L’ottagono, e in generale il numero otto indica una figura geometrica di tradizione esoterica, che rimanda al concetto di equilibrio costruttivo delle forme e delle energie cosmiche (l’infinito). L’ottagono in massoneria rappresenta è il simbolo della resurrezione e della vita eterna, è per questo ricorre persistente all’interno della galleria: sono otto i pennacchi della cupola sulla quale sono rappresentate otto figure femminili in rame, che reggono otto lampadari. La luce è un’altro elemento prezioso che rischiara le ombre, sinonimo di Verità.
Ma degno di nota, simbolo caro alla tradizione esoterica e che cattura l’attenzione di noi profani è sicuramente la Stella di David, posta sul tamburo della cupola a ripetizione. Questo simbolo molto antico l’Esagramma, è formato dall’incontro di due triangoli equilateri (Maschile e Femminile) suggerisce l’equilibrio tra le forze cosmiche del Fuoco e dell’Acqua. E’ il famoso Sigillo di Salomone “Come in cielo così in terra” l’incontro tra la spiritualità e l’istinto, dal basso verso l’alto. La Stella di David, rappresenta la civiltà e la religiosità ebraica, e identifica lo stato di Israele. La presenza della Stella di Davide presente nella Galleria Umberto, in rapporto alla Massoneria napoletana, non è un caso: la chiave è da individuare nei documenti storici, infatti si deve a una famiglia ebraica ovvero i Rothschild che fecero riprodurre la Stella di Davide, per omaggiare le loro radici.
I Rothschild furono (e lo sono ancora) una delle più potenti famiglie di banchieri tedeschi di origine ebraiche, presente durante il Regno delle Due Sicilie, che poco dopo la morte di re Ferdinando ll, lasciarono Napoli. In Europa furono presenti cinque linee di ramo austriaco e una linea di ramo inglese e francese. A Napoli furono molto attivi stringendo grandi rapporti con il Vaticano fino al XX secolo. Si narra che il loro nome sia al centro di teorie complottistiche, riguardanti il controllo e il declino dell’intera finanza mondiale a cui oggi assistiamo. I Rothschild erano membri ed esponenti della Massoneria napoletana (ecco il legame con la galleria e le sue simbologie) e gli storici suppongono che essi finanziarono i Savoia per l’Unità d’Italia.
Intervista al Palazzo di Vetro dell’ONU con il Presidente dell’Accademia Napoletana, venuto recentemente a New York per salvare il napoletano
“Era arrivato il momento che qualcuno seriamente si occupasse di preservare un patrimonio dell’identità culturale italiana e non solo… A Napoli circa il 70% dei suoi abitanti parla ancora il napoletano come prima lingua… “Gomorra e Ferrante? In quanto storico e studioso della cultura, della lingua, dell’arte io non mi occupo di fictions…. puntare e sensibilizzare i giovani soprattutto, ad una lingua, quale quella napoletana che è quella dell’antifascismo, della democrazia e della resistenza al nazismo…
Il Molise, con il nome di “Contado di Molise” (in seguito, più semplicemente, “Provincia di Molise“), fu una unità amministrativa prima del Regno di Sicilia, poi del Regno di Napoli ed, infine, del Regno delle Due Sicilie. Il suo territorio originale comprendeva all’incirca l’attuale provincia di Isernia (Castel di Sangro inclusa, Venafro ed Agnone escluse), parte della provincia di Campobasso e alcuni comuni della provincia di Benevento (come Morcone e Sassinoro). Subì diverse variazioni territoriali, tanto da comprendere anche parte dell’attuale Abruzzo fino a Vasto, per poi restringersi tanto da non avere più sbocchi sul mare.
Differenti teorie esistono sull’origine del toponimo “Molise“. Di certa genesi medievale, la denominazione potrebbe derivare, secondo Francesco D’Ovidio, dalla forma aggettivata di molao molinum, da cui molenses, ovvero abitanti presso la mola o il mulino. Secondo altri, invece, deriverebbe dal nome di un feudo o di un castello o di una antica città sannita (la Melaecitata da Livio). Secondo la leggenda, infatti, il primo gastaldo di Bojano, Alczeco, avrebbe edificato il suo castello proprio sulle rovine di Melae. Un’altra ipotesi, ancora, fa risalire il nome Molise all’alterazione dei cognomi “Marchisio” e “de Molisio” presenti in un documento del 1195, dove il conte Corrado di Luzelinart, si firmò “Corradus Marchisium de Molisio”. Tale firma avrebbe generato un equivoco: essa, infatti, male interpretata, sarebbe stata intesa come: “Corrado, Marchese del Molise”. Giambattista Masciotta, invece, tenta di individuare una connessione tra il guerriero Alczeco e la famiglia de Molisio definendo una linea di discendenza diretta. Proprio dal cognome de Molisio, secondo la teoria più accreditata, è da farsi risalire l’origine del toponimo. Proveniente dal feudo di Moulins-la-Marche (parte del Ducato di Normandia), questa famiglia ebbe quale capostipite Rodolfo de Molisio. Costui, compagno d’armi di Roberto il Guiscardo, divenne feudatario supportando gli Altavilla nella conquista di alcuni dei territori sanniti che saranno parte del Regno di Sicilia. Studi basati sull’analisi di antichi testi pubblicati nell’Italia Meridionale ed in Europa individuano in “Conti de Molisio” la genesi di “Contado di Molise“, proprio in virtù di quella espansione territoriale della contea di Bojano della quale essi furono artefici intorno al XII secolo.
Bibliografia
Vincenzo Eduardo Gasdía, Storia di Campobasso, vol. 1, Linotipia Ghidini e Fiorini, 1960, pag. 306.
Giovanni Brancaccio, Il Molise medievale e moderno: storia di uno spazio regionale, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2005, pag. 40. ISBN 978-88-495-1163-5
La calunnia come arma politica: “negazione di Dio”
La politica
destabilizzante inglese continuò con William Gladstone, deputato e già ministro
delle Colonie del governo Peel, che fu inviato dal suo governo per seguire il
processo che si sarebbe dovuto svolgere nelle Due Sicilie contro gli aderenti
alla società segreta ”Unità d’Italia“ i cui scopi erano impliciti nella sua
stessa denominazione.
Le loro attività
sovversive andavano dalla diffusione di proclami antimonarchici che invitavano
alla disobbedienza civile, all’organizzazione di attentati come quello del
settembre 1849, quando un ordigno esplose davanti al palazzo reale di Napoli
mentre si svolgeva una festa di giubilo per Papa Pio IX il quale, fuggito a suo
tempo da Roma a causa dell’instaurarsi della Repubblica Romana, si apprestava a
benedire le centomila persone presenti.
“Qualsiasi governo
avrebbe perseguitato una setta segreta che minacciava la sua stessa esistenza e
propugnava l’assassinio politico con proclami come questo: “Voi soli, o
fratelli, voi soli rimanete indietro. È vero che voi avete cotesta tigre
Borbonica, che vi lacera le membra e vi beve il sangue, cotesto ipocrita,
cotesto furbo, cotesto scelleratissimo Ferdinando. Ma non siete italiani voi?
Non avete un pugnale? Nessuno di voi darà la sua vita per 24 milioni di
fratelli? Un uomo solo, una sola punta darebbe libertà all’Italia, farebbe
mutar faccia all’Europa. E nessuno vorrà questa bella gloria? “[1]
Il processo
iniziò il 1 giugno 1850 e si concluse il 1 febbraio del 1851 (non era quello
contro i 39 imputati per i disordini del 15 maggio 1848); tra gli imputati, in
tutto 42, ricordiamo i nomi di Agresti, Faucitano, Settembrini, Poerio,
Pironti, Romeo; condannati alla pena capitale furono i primi tre, subito
graziati da Ferdinando; ad altri due fu comminato l’ergastolo, ai rimanenti
condanne fra trent’anni e quindici giorni, otto furono assolti; in seguito
molti condannati, dopo pochi anni di carcere, furono liberati e costretti
all’esilio.
Tornato a Londra nel 1851, d’intesa col primo ministro Lord
Palmerston, Gladstone fece diffondere alcune lettere da lui inviate al ministro
degli esteri, lord Aberdeen, nelle quali si etichettava il regno del Sud come
la “negazione di Dio”; nella prima (del 7 aprile,
pubblicata l’11 luglio) il Gladstone riferiva di una visita, mai avvenuta, alle
carceri napoletane e così concludeva: «II governo borbonico rappresenta
l’incessante, deliberata violazione di ogni diritto; l’assoluta persecuzione
delle virtù congiunta all’intelligenza, fatta in guisa da colpire intere classi
di cittadini, la perfetta prostituzione della magistratura, come udii
spessissimo volte ripetere; la negazione di Dio, la sovversione d’ogni idea
morale e sociale eretta a sistema di governo»”.[2]
L’Inghilterra gridò così al mondo intero il proprio sdegno per le
asserite disumane condizioni in cui erano tenuti i detenuti politici e queste
notizie rimbalzarono da una cancelleria all’altra, trovando ampie casse di
risonanza sui giornali di Torino e nella stessa Napoli negli esterofili
ambienti degli oppositori; a nulla servirono le smentite del governo borbonico
che invitò anche commissioni di giornalisti a verificare de visu la
realtà, poi, a “giochi fatti”, cioè dopo l’annessione piemontese,
sarà lo stesso deputato inglese ad ammettere candidamente la menzogna:
“Gladstone, tornato a Napoli nell’anno 1888-1889, fu ossequiato e festeggiato
dai maggiorenti del cosi detto Partito Liberale, i quali non mancarono di
glorificarlo per le sue famose lettere con la negazione di Dio, che tanto
aiutarono la loro rivoluzione; ma a questo punto il Gladstone versò una vera
secchia d’acqua gelata sui suoi glorificatori. Confessò che aveva scritto per incarico di lord Palmerston, che
egli non era stato in nessun carcere, in nessun ergastolo, che aveva dato per
veduto da lui quello che gli avevano detto i nostri rivoluzionari”[3].
In quegli stessi
anni la “civilissima“ Francia inviava oltre 10 mila prigionieri politici in
Algeria e alla Cayenna, anche in Inghilterra i giudizi dei tribunali non
brillavano certo per imparzialità, per non parlare poi delle spietate
repressioni coloniali inglesi, negli Stati Uniti c’era lo schiavismo, tutto
questo non scandalizzò Gladstone.
In realtà la situazione nelle carceri napoletane non era peggiore
di quella del resto d’Europa [4],
anzi, leggendo alcune corrispondenze di noti liberali reclusi si potrebbe
pensare il contrario; da una lettera di Carlo Poerio:“ Ho ricevuto la vostra
lettera del 1 di questo mese, che mi è giunta non so dire quanto gradita. Sono
lietissimo di sentire che la vostra preziosa salute vada sempre di bene in
meglio e posso assicurarvi che è lo stesso di me. Oggi abbiamo avuto una
magnifica giornata di primavera e ho avuto la consolazione di passeggiare a mio
piacere. ….Vi ho scritto per la posta d’inviarmi, col corriere di Pasqua, dè
frutti, dè piselli, dè carciofi e del burro, come di costume.Vostro
affezionatissimo nipote.”[5]
Di contro il sistema giudiziario duo-siciliano è
stato riconosciuto da tutti gli studiosi come il più avanzato d’Italia
preunitaria, in linea con la grandissima scuola
meridionale di diritto, basti pensare al Codice Penale del 1819; i magistrati
erano reclutati per concorso e non per nomina regia come in altre parti
d’Italia; quelli che componevano le Gran Corti Criminali, presenti nei 15
capoluoghi della parte continentale e in 6 siciliani, erano in numero pari
poichè in caso di equilibrio nel giudizio “L’opinione è per il reo “.
Paolo Mencacci[6]
a proposito del sistema giudiziario in vigore nelle Due Sicilie, riporta che:
“A giudicare coi criteri odierni che ritengono la pena di morte una barbarie,
il Regno delle Due Sicilie, nel decennio che precede l’unificazione, è
senz’ombra di dubbio uno stato modello.“ Ferdinando II aveva inoltre abolito,
il 25 febbraio 1836, la pena dei lavori forzati perpetui che invece decenni più
tardi fu comminata, in gran copia, dal governo “unitario“ piemontese ai
cosiddetti “briganti“ meridionali.
Viceversa “Nel Regno di Sardegna la
realtà è molto diversa. Se assumiamo la pena di morte come indice della
violenza di un regime, il regno sardo è uno stato brutale perché da quando i
liberali vanno al potere, le esecuzioni capitali aumentano a dismisura, dal
1851 al 1855 sono ben 113 contro le 39 avvenute in un quinquennio di governo
assoluto (1840-44). Regno violento, pieno di debiti, con un altissimo tasso di
criminalità, il regno sardo, tramite il suo presidente del Consiglio, i suoi
ministri, la sua stampa, prosegue nella calunnia sistematica degli altri stati
della penisola su cui proietta la propria realtà e, contemporaneamente mitizza
le condizioni di vita dei paesi liberali”[7], va però osservato che
“Il governo borbonico non fu certo esente da colpe, come dimostra la sua
assoluta insensibilità nel comprendere la necessità della battaglia culturale
per contrastare attivamente con libri o pubblicazioni (che non mancavano ed
erano qualificatissimi) la calunniosa propaganda massonica e liberale che
invece dilagò presso le classi colte e conferì una giustificazione
intellettuale alla loro brama di potere “.[8]
[1] Harold Acton, “Gli ultimi Borboni di Napoli”, Giunti
[2] Carlo Alianello, La conquista del sud, Rusconi editore
[4] ricordiamo, comunque, per rendere l’idea della mentalità punitiva
dell’epoca ben diversa da quella riabilitativa dei giorni nostri, che l’obbligo
della catena al piede per i condannati ai lavori forzati fu abolito solo il 2
agosto 1902 nel nuovo regno d’Italia.
[5] riportata da O’ Clery, La rivoluzione italiana, Ares, 2000, pag.
374
[6] Nelle “ Memorie Documentate” citate da Angela Pellicciari “
L’altro Risorgimento“, Piemme, 2000, pag.188
L’ Ass. Id. Alta Terra di Lavoro sabato 23 marzo alle ore 17;00 presso il Castello Ducale di Minturno organizza in collaborazione con il “Comitato Luigi Giura” e con il Comune di Minturno un importante convegno “IL 1799 E LA REPUBBLICA NAPOLETANA TRAETTO E SCAVOLI:STRAGI E DEVASTAZIONE”
Interverranno Eduardo Esposito del Comitato “Luigi Giura”, Claudio
Saltarelli Pres. Ass. Id. Alta Terra di Lavoro, Fernando Riccardi storico,
saggista, membro della Società di Storia Patria di Napoli e Terra di Lavoro e
Pres. dell’Ist. Di Ricerca delle Due Sicilie.
Per i saluti istituzionali interverrà il Sindaco di Minturno Gerardo
Stefanelli
Nel convegno verrà presentato un importante testo che l’ Ass. Id. Alta
di Lavoro ha di recente ristampato, in copia anastatica, l’opera scritta da
Domenico Petromasi risalente al 1801, “Storia della spedizione del Cardinale
Ruffo”
E’ la prima volta che nel nostro paese si compie un’impresa del genere:
c’era già stata, infatti, in passato, qualche altra edizione della stessa
opera, ma mai una ristampa anastatica, riproducente il testo nella sua versione
originale.
Tale libro, che contiene un corposo ed assai circostanziato saggio
introduttivo a firma del suddetto storico Fernando
Riccardi, ricostruisce, passo dopo passo e in maniera dettagliata, la
straordinaria impresa che nel 1799 portò il cardinale calabrese Fabrizio Ruffo
a riconquistare il Regno di Napoli, invaso dai giacobini, con la sua “armata
reale e cristiana”, composta esclusivamente o quasi di volontari raccolti
strada facendo sotto l’emblema della Santa Croce.
Una vicenda che la vulgata storiografica dominante non ha trattato, nel
corso degli anni, con la dovuta obiettività, gettando sulla stessa una densa
patina di oblio.
La preziosa cronaca di Petromasi,
invece, restituisce la giusta proporzione a quegli accadimenti, che molto
interessarono anche il territorio del Cilento e la stessa Calabria senza mai
sconfinare nella partigianeria oppure distorcere gli eventi.
Considerata l’importanza dell’opera, che costituisce un “unicum”
a livello nazionale, considerato che “Michele
Arcangelo Pezza alias Fra’ Diavolo” e il Popolo
di Traetto sono stati principali protagonisti di quel tumultuoso semestre e
considerato che l’allora Traetto, oggi Minturno, anche in questa vicenda ha
scritto una importante pagina di storia universale è importante che i
Minturnesi si accostino ad una vicenda storica, quella del 1799, che ancora
oggi resta assai poco conosciuta.
Raimondo Rotondi reciterà in lingua Laborina monologhi teatrali