Posted by altaterradilavoro on Apr 27, 2019
Nell’agosto
del 1863 le armi avevano smesso di rimbombare da tempo anche a Gaeta e a Civitella del Tronto, ultimi baluardi
borbonici. Il trono che era stato di Carlo d’Angiò, Alfonso il Magnanimo e Carlo III di Borbone
fu assimilato da quello di Casa
Savoia. Il Regno delle Sicilie non esisteva più già da un paio d’anni. Il presente era così diverso e lontano da quel
passato, il quale aveva reso in maniera unica Napoli e il Mezzogiorno protagonisti della
grande storia, che tutto appariva caduco, invivibile ed
impensabile fino a qualche mese prima.
In questo mondo nuovo, sorto dalle ceneri di un’età irripetibile,
c’era però chi voleva continuare ad ancorarsi ardentemente a quel tempo. C’era
chi non aveva esitato a mettere in discussione tutto, anche la propria vita, affinché
quel passato potesse esistere ancora. Uomini innamorati della propria
terra, identità e libertà, per la storiografia dominante: briganti.
L’Unità d’Italia era
divenuta realtà, ma nel Mezzogiorno d’Italia si continuava a combattere. Malgrado la
disparità di risorse, mezzi ed uomini, erano proprio i briganti a creare
numerosi grattacapi all’esercito italiano con azioni di guerriglia ed avventurose
scorribande in molti paesi con l’intento di portare la
popolazione locale alla ribellione. Col passare del tempo un numero sempre
maggiore di persone si aggregò al movimento di resistenza postunitario e la
cosa preoccupò le autorità competenti.
Già nell’estate del 1862 re Vittorio Emanuele II aveva
proclamato lo stato d’assedio per le regioni dell’Italia
meridionale, al fine di reprimere il fenomeno. Non ottenendo risultati
soddisfacenti, a distanza di dodici mesi, si decise di promulgare la legge
Pica. Era il 15 agosto 1863.
Il provvedimento fu emanato in deroga agli articoli 24 e 71
dello Statuto albertino, garanti dell’uguaglianza di tutti i sudditi
davanti alla legge, ed introdusse il reato di brigantaggio. Per i colpevoli di
tale crimine era previsto il giudizio dei Tribunali Militari che sorsero in
tutte le regioni meridionali. Le pene previste erano la fucilazione, lavori
forzati a vita o lunghi anni di carcere.
È stato notato che alla sospensione dei diritti costituzionali,
la nuova disposizione governativa introdusse misure come la
punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto
di rappresaglia contro i villaggi. Veniva
giustificato il concetto di responsabilità comune. La legge diede, in sostanza,
un potere abnorme all’autorità militare su quella civile. Se su qualcuno
ricadeva il sospetto di essere brigante, o era semplicemente il parente di un
sospettato, veniva fucilato senza processo
e senza possibilità alcuna di dimostrare la propria innocenza.
Moltissimi furono i soprusi e le prepotenze arbitrarie;
intere famiglie vennero arrestate senza motivo, uomini assolti
dai giudici continuarono a marcire in carcere e così via. Anche in Parlamento,
viste le ingiustizie che si erano verificate, si sollevò un forte ma
inconcludente dibattito. La legge Pica non faceva nessuna distinzione ed
affrancava i militari, e i loro fucili, da ogni tipo di vincolo morale e
giuridico. Il brigantaggio, movimento dagli ideali politici e legittimisti,
venne ufficialmente assimilato al più becero banditismo.
Si pensi che nel breve lasso di tempo nel quale
la legge speciale fu in vigore eliminò, tra esecuzioni ed arresti, 14000
briganti o presunti tali. Malgrado la durezza del provvedimento
il governo non ottenne i risultati sperati. I briganti continuarono a lottare,
con eroica ostinazione, la loro guerra ineguale contro l’esercito italiano fino
al 1870.
Fonti:
– Cesare Cesari, Il Brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal 1860 al 1870.
– Mario D’Addio, Politica e magistratura (1848-1876).
– Gigi Di Fiore, Controstoria dell’Unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento.
– Francesco Saverio Nitti, Eroi e briganti. deuse
Antonio Gaito
fonte https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/storia/210743-legge-pica-brigantaggio/?fbclid=IwAR16j_UE5p14mq1-ny2zE5EKbq3BhVh2an9rFDL4d85k1SHxXqI0nNhTifo
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Posted by altaterradilavoro on Feb 5, 2019
Le Due Sicilie erano lo stato italiano preunitario più esteso territorialmente e comprendevano tutto
il Sud continentale d’Italia, l’Abruzzo, il Molise, la parte meridionale del
Lazio e la Sicilia, nel 1860 vi erano poco più di nove milioni d’abitanti (poco
più di un terzo di tutta la Penisola)
Era
diviso in 22 province di cui 15 nel Sud continentale e 7 in Sicilia: Napoli e
la sua provincia; Abruzzo Citeriore con capoluogo Chieti; Primo Abruzzo
Ulteriore con capoluogo Teramo; Secondo Abruzzo Ulteriore con capoluogo
L’Aquila; Basilicata con capoluogo Potenza; Calabria Citeriore con capoluogo
Cosenza; prima Calabria Ulteriore con capoluogo Reggio; Seconda Calabria
Ulteriore con capoluogo Catanzaro; Molise con capoluogo Campobasso; Principato
Citeriore con capoluogo Salerno; Principato Ulteriore con capoluogo Avellino;
Capitanata con capoluogo Foggia; Terra di Bari con capoluogo Bari; Terra
d’Otranto con capoluogo Lecce; Terra di Lavoro con capoluogo Capua e poi
Caserta;
in Sicilia i capoluoghi di provincia erano: Palermo, Trapani, Girgenti (Agrigento),
Caltanisetta, Messina, Catania, Noto.
La storia delle Due Sicilie era cominciata nel
lontano 1130 con i Normanni e il loro sovrano Ruggero II, il regno durò 730
anni e i suoi confini rimasero in pratica invariati comprendendo comuni che
avevano spesso origine greca; le dinastie che si susseguirono ebbero origini
straniere e questo avvenne per l’oggettiva incapacità di generarne una propria
ma occorre rilevare che i loro sovrani divennero in breve dei Meridionali a
tutti gli effetti, assumendone la lingua e le usanze.
Ai
Normanni (1130-1194), seguirono gli Svevi (1194-1266), gli Angioini (1266-1442)
e gli Aragona (1442-1503); a loro subentrarono gli Spagnoli (1503-1707) e poi
gli austriaci per solo ventisette anni (1707-1734);
i più importanti sovrani delle varie casate furono nell’ordine: Ruggero II
d’Altavilla , Federico II di Svevia, Carlo I d’Angiò, Alfonso I d’Aragona e il
vicerè spagnolo Pedro de Toledo.
Nel 1734 la Spagna rioccupò il Regno strappandolo agli Asburgo e iniziò l’era
borbonica con i suoi re: Carlo (1734-1759), Ferdinando I (1759-1825), Francesco
I (1825-1830), Ferdinando II (1830-1859) e Francesco II (1859-1861).
Carlo, figlio di Filippo V, re di Spagna e di
Elisabetta Farnese, entrò in Napoli il 10 maggio 1734, sconfisse il 25 maggio
gli Austriaci nella battaglia di Bitonto e restituì alla Nazione la piena
indipendenza, sotto uno scettro
“che
unisce ai gigli d’oro della Casa di Francia ed ai sei d’azzurro di Casa Farnese
le armi tradizionali delle Due Sicilie: il cavallo sfrenato, vecchia assise di
Napoli e la Trinacria per la Sicilia” ;
l’incoronazione di Carlo si celebrò nel duomo normanno di Palermo nel 1735, a
testimoniare la continuità della monarchia meridionale nata nello stesso luogo
nella notte di Natale del 1130 con Ruggero II.
Nella successiva guerra contro l’Austria, del
1744, Carlo fu vittorioso a Velletri, e si confermò nuovo interprete e simbolo
della secolare Nazione: il Sud d’Italia non aveva più a capo un semplice vicerè
ma un sovrano tutto suo:
A.Genovesi,
Lettera a Giuseppe De Sanctis, 3 agosto 1754
“Amico, cominciamo anche noi ad avere una patria e ad intendere quale vantaggio
sia per una nazione avere un proprio principe. Interessianci all’onore della
nazione. I forestieri conoscono, e il dicono chiaro, quanto potremmo noi fare
se avessimo miglior teste. Il nostro augusto sovrano fa quanto può per
destarne” .
Successivamente, con la Prammatica del 6
ottobre 1759, re Carlo stabilì la definitiva separazione tra la corona spagnola
e quella delle Due Sicilie.
L’opera dei sovrani della dinastia borbonica
fu, per molti versi, meritoria, con loro il Sud non solo riaffermò la propria
indipendenza ma ebbe un indiscutibile progresso nel campo economico, culturale,
istituzionale; grazie a ciò, all’epoca dell’ultimo re, Francesco II,
l’emigrazione era sconosciuta, le tasse molto basse come pure il costo della
vita, il tesoro era floridissimo per non parlare poi dello sviluppo culturale
che fece contendere a Napoli la supremazia culturale europea di Parigi; al
momento dell’unità la percentuale dei poveri nel Sud era pari al 1.34% (come si
ricava dal censimento ufficiale del 1861) in linea con quella degli altri stati
preunitari.
“La rappresentazione del Mezzogiorno come un
blocco unitario di arretratezza economica e sociale non trova fondamento sul
piano storico ma ha genesi e natura ideologiche. I primi a diffondere giudizi
falsi sugli inferiori coefficienti di civiltà su quell’area sono gli esuli
napoletani che, nel decennio 1850-1860, con la loro propaganda antiborbonica non
solo contribuiscono a demolire il prestigio e l’onore della Dinastia, ma
determinano anche una trasformazione decisiva nell’immagine del Sud”.
“La storiografia ufficiale continua ancora oggi
a sostenere che, al momento dell’unificazione della penisola, fosse profondo il
divario tra il Mezzogiorno d’Italia e il resto dell’Italia: Sud agricolo ed
arretrato, Nord industriale ed avanzato.
Questa tesi è insostenibile a fronte di
documenti inoppugnabili che dimostrano il contrario ma gli studi in proposito, già
pubblicati all’inizio del 1900 e poi proseguiti fino ai giorni nostri, sono
considerati, dai difensori della storiografia ufficiale: faziosi,
filoborbonici, antiliberali e quindi non attendibili “ .
Dopo la caduta del regno del Sud al coro di
lagnanze degli esuli rientrati in Patria si aggiunsero anche gli uomini che
avevano servito i Borbone e, come faceva rilevare Francesco Saverio Nitti ai
primi del 1900:
“Una delle letture più interessanti è quella
dell’Almanacco Reale dei Borboni e degli organici delle grandi amministrazioni
borboniche. Figurano quasi tutti i nomi di coloro che ora esaltano più le
istituzioni nostre [del regno d’Italia] o figurano, tra i beneficiati, i loro
padri , i loro figli, i loro fratelli, le loro famiglie“ .
“La memoria dei vinti è stata sottoposta ad
un’incredibile umiliazione … più grave è stato il taglio del filo genetico per
cui c’è un pezzo d’Italia che ha dovuto vergognarsi del proprio passato, e poi
ci si lamenta che manca la dignità, ma la dignità proviene dal riconoscimento
della propria ascendenza … bisogna prima di tutto ridare al Mezzogiorno il
senso della sua precedente grandiosità, riscattare questa presunta inferiorità
etnica del Sud da operazioni di tentata cancellazione della sua memoria.
Ricordo che Rosario Romeo scrisse nella sua
storia su Cavour un elogio a Ferdinando II, confrontandolo con il vincitore
Vittorio Emanuele II, con grande scandalo dei risorgimentalisti che
consideravano ciò intollerabile”
In realtà la “Questione meridionale”, tutt’oggi
irrisolta, nacque dopo e non prima dell’unità; persino un ufficiale piemontese,
il conte Alessandro Bianco di Saint-Joroz, capitano nel Corpo di Stato Maggiore
Generale, scrisse nel 1864 che
“Il 1860 trovò questo popolo del 1859, vestito,
calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta e
vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la
famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato
materiale. Adesso è l’opposto. La pubblica istruzione era sino al 1859
gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di
ogni provincia. Adesso veruna cattedra scientifica……Nobili e plebei, ricchi e
poveri, qui tutti aspirano, meno qualche onorevole eccezione, ad una prossima
restaurazione borbonica” .
La popolazione dai tempi del primo re della dinastia borbonica Carlo III (1734) a quelli di Ferdinando II (1859) si era triplicata ad indicare l’aumentato benessere (è chiaro che si parla di livelli di vita relativi a quei tempi quando il reddito pro capite in Italia era meno di un quarantesimo di quello di oggi e molte delle comodità attuali erano inesistenti), la parte attiva era poco meno del 48%.
Giuseppe Ressa
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