Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

La vera storia dell’impresa dei Mille 5/ Lo sbarco dei Garibaldini a Marsala vergognosamente protetti dagli Inglesi

Posted by on Apr 30, 2019

La vera storia dell’impresa dei Mille 5/ Lo sbarco dei Garibaldini a Marsala vergognosamente protetti dagli Inglesi

Quinta puntata del volume di Giuseppe Scianò sulla sceneggiata passata alla storia come “Impresa dei Mille”. Si parla dello sbarco a Marsala di Garibaldi e dei Mille che non ebbe nulla di eroico. Sbarcarono di giorno, protetti dalle navi Inglesi, che impedirono alle navi del regno delle Due Sicilia di bloccare e bombardare i due piroscafi garibaldini ‘Piemonte’ e ‘Lombardo’. La tragicomica commedia ‘scritta’ dagli Inglesi comincia la sua ‘avventura’ siciliana. I primi traditori Duosiciliani

di Giuseppe Scianò

Da Talamone alla Sicilia la navigazione dei Garibaldini non ha problemi. Vento in poppa in tutti i sensi. Anche se i Garibaldini fossero intercettati dai Duosiciliani, che peraltro dispongono di una buona Marina Militare, non succederebbe niente di grave. Le due navi, pur se rubate, hanno, infatti, le… carte in regola.

Come ci ricorda, infatti, lo storico Cesare Cantù (13), Garibaldi navigava
«regolarmente munito di patente per Malta» (14). Non è un salvacondotto di poco conto quel documento, perché Malta era un territorio inglese. E gli Inglesi, si sa, sono permalosi e pretestuosi nei confronti del Regno delle Due Sicilie, quanto (se non di più) il lupo di esopiana memoria nei confronti dell’agnello. Poca importanza ha il fatto che il Lombardo ed il Piemonte abbiano dichiarato una destinazione diversa o che portino a bordo gente armata ed in procinto di sbarcare in Sicilia.

Guai a fermare quei due vapori. Si sarebbe anticipato quello che sarebbe realmente accaduto, di lì a poco, alla spedizione Corte della quale parleremo più avanti. Gli Inglesi avrebbero gridato alla violazione del diritto internazionale da parte del perfido Re delle Due Sicilie!

È appena il caso di ricordare quindi che il compito di scorta dell’Ammiraglio Persano è assolutamente privo di rischi. La flotta militare sabauda, ovviamente, si discosterà soltanto quando il Lombardo e il Piemonte saranno entrati nelle acque territoriali Duosiciliane. Per recarsi, però, anch’essa nelle acque del porto di Palermo per dare manforte alle manovre di conquista della Sicilia.

Dubbio di Garibaldi: sbarcare col buio o no? – Dopo una navigazione più che tranquilla, i due piroscafi arrivano a poche miglia dalla Sicilia, di fronte alla costa marsalese. Per la verità lo sbarco a Marsala potrebbe avvenire anche nello stesso giorno: 10 maggio 1860… Ma ormai si avvicina la sera e Garibaldi ritiene che non sia prudente sbarcare al buio che, a suo giudizio, potrebbe, sì, anche giovare perché gli consentirebbe di non essere avvistato dai nemici, se non troppo tardi. Però il Nizzardo sa bene che il buio ha un inconveniente. Quello, cioè, di non far vedere bene, di non far riconoscere le persone e le bandiere, di non far vedere dove si mettono i piedi o… le navi.

Prudenza doverosa da parte di un buon vecchio marinaio, soprattutto se si considera che il Lombardo, in pieno giorno, l’indomani, sarebbe rimasto incagliato in un basso fondale. Cosa sarebbe successo se quell’incidente fosse capitato di notte?

Istruzioni… per lo sbarco – Il Fusco – con il suo linguaggio semplice e scorrevole – ci racconta che in vista di Marsala e nell’imminenza dello sbarco, Garibaldi dà incarico a Nino Bixio, per il Lombardo, e al Colonnello Sirtori per il Piemonte, di dare attuazione a quanto disposto con il «Foglio d’ordini operativo», compilato già da qualche giorno a Talamone, e più specificatamente al paragrafo che diceva che nell’imminenza dello sbarco, ai volontari bisognava parlare chiaramente dell’estrema diffidenza e della focosa suscettibilità… «che caratterizzano il temperamento de’ siculi, sovra tutto per ciò che riguarda le loro donne: spose, promesse tali, sorelle, cognate, cugine, e perfino di più lontana e indiretta parentela. A scanso di complicanze gravissime, cruente e perfino ferali, i volontari una volta a terra, dovranno astenersi da intraprendenze inopportune, corteggiamenti e galanterie disdicevoli all’uso locale. Provvederanno alla Suddetta bisogna, salvo imprevisti, il signor Colonnello Sirtori, sul Piemonte, e il signor Luogotenente Bixio, sul Lombardo» (15).

Dopo aver divagato su altri particolari dell’episodio, così continua:

«Invece, sul Lombardo, Bixio, ch’è tutto l’opposto di Sirtori, c’inzuppa il pane. La tira in lungo. Dritto, a gambe larghe, al centro della ‘ radunanza’, la visiera del cheppì calata di traverso, fino a nascondere mezza faccia, ha l’aria di sfottere. E si diverte a inventare le spaventose torture, le indicibili crudeltà e le raccapriccianti efferatezze con le quali, a suo dire, i gelosissimi mariti Siciliani (e specialmente, purtroppo, quelli della zona dov’è previsto lo sbarco) sono soliti vendicare le corna. Non solo quelle già messe, ma anche quelle intenzionali. Amanti squartati, scorticati, bruciati e sepolti vivi. Corteggiatori affogati nel pozzo nero, inchiappettati da tutti i maschi del parentado e poi tritati come carne da polpette. Rivali mangiati allegramente, in famiglia, sotto forma di spezzatino, oppure bolliti, a fuoco lento, in enormi pignatte che i calderai dell’isola fabbricano appositamente… I volontari di primo pelo, o addirittura imberbi, ascoltano quelle atrocità sgranando gli occhi e non riescono a nascondere la fifa. Mentre i più maturi e scafati sogghignano (ma è più che altro una smorfia) ed l’aria di sfottere. E si diverte a inventare le spaventose torture, le indicibili crudeltà e le raccapriccianti efferatezze con le quali, a suo dire, i gelosissimi mariti Siciliani (e specialmente, purtroppo, quelli della zona dov’è previsto lo sbarco) sono soliti vendicare le corna. Non solo quelle già messe, ma anche quelle intenzionali. Amanti squartati, scorticati, bruciati e sepolti vivi. Corteggiatori affogati nel pozzo nero, inchiappettati da tutti i maschi del parentado e poi tritati come carne da polpette. Rivali mangiati allegramente, in famiglia, sotto forma di spezzatino, oppure bolliti, a fuoco lento, in enormi pignatte che i calderai dell’isola fabbricano appositamente… I volontari di primo pelo, o addirittura imberbi, ascoltano quelle atrocità sgranando gli occhi e non riescono a nascondere la fifa. Mentre i più maturi e scafati sogghignano (ma è più che altro una smorfia) ed ammiccano. Insomma, giovanotti, i Siciliani hanno molto dei beduini!, sentenzia Bixio, che sospira, sì, un’Italia libera e unita, dalle Alpi al Lilibeo, ma che non riesce a digerire gli Italiani da Roma in giù. Tant’è vero che, proprio come fra i bedù, il taglio delle balle è la vendetta preferita dei becchi siculi!» (16).

Perché abbiamo parlato di questo aneddoto, per la verità molto marginale rispetto ai grandi fatti che avvenivano in quel giorno? Per fare conoscere meglio chi realmente fossero i futuri liberatori della Sicilia. Evidenziando come fossero, già nel 1860, forti i pregiudizi e i malintesi fra le popolazioni del Centro-Nord Italia ed il Popolo Siciliano, Bixio fra lo scherzoso ed il serioso dà voce ed alimenta i motivi di divaricazione psicologica e di incompatibilità.

E così, scherzando scherzando, allunga ai Siciliani pure le accuse di cannibalismo e di pratiche sodomitiche. Non ci sembra molto bello per un padre della Patria, che avrebbe potuto approfittare dell’esperienza siciliana per imparare qualcosa di buono. Per quanto riguarda l’epiteto beduino dobbiamo arguire che questo doveva essere molto diffuso per offendere i Siciliani. Lo incontreremo infatti pure nel linguaggio del Bandi, il giovane ufficiale addetto al servizio personale di Garibaldi, che pure è più colto di Bixio. Per la verità il Bandi usa anche, come epiteto, la parola arabo, mancando così contemporaneamente di rispetto alla nazionalità Siciliana ed alla nazionalità Araba. Quest’ultima è infatti tirata in ballo come termine di paragone assolutamente negativo.

C’è tuttavia una considerazione da fare. Come si vede, pur trovandoci nell’imminenza dello sbarco, di tutto si parla, tranne che delle tattiche da adottare per quella che, in teoria, è una vera e propria operazione bellica.
A bordo delle due navi garibaldine si dà infatti per scontato che lo sbarco avverrà nelle migliori condizioni di tranquillità e di sicurezza. Si dà per scontato, insomma, che non si dovrà combattere per conquistare metro per metro la costa siciliana. Così come sarebbe stato logico, se non si fosse trattato essenzialmente di seguire un copione.

11 maggio 1860. Sbarco dei Mille a Marsala
scortati da due gigantesche navi da guerra

Vietato sparare sui Garibaldini! – Come abbiamo già anticipato, Garibaldi segue le istruzioni che gli prescrivono di sbarcare a Marsala. E così l’11 maggio il Lombardo ed il Piemonte, ansimando rumorosamente, entrano nella rada di Marsala, inseguiti ad una certa distanza dalle tre navi della Marina militare Duo-siciliana Partenope, Capri e Stromboli. Quest’ultima si colloca in posizione molto più avanzata, ed è peraltro comandata da uno degli ufficiali più brillanti della Marina Duosiciliana, che è notoriamente abilissimo nell’usare l’artiglieria. Non avrà rivali degni di lui probabilmente in tutto lo scorcio di secolo. Parliamo di Guglielmo Acton, che farà parlare di sé, in bene ed in male, per tutta la durata della Spedizione per la conquista della Sicilia. Ed anche dopo.

Garibaldi non si scompone. Anzi, dà l’ordine di andare diritto dentro il porto di Marsala. Sa quello che fa. Questo è il porto della sua salvezza. È sicuro di poter comunque sbarcare, senza che le navi nemiche lo cannoneggino.

Intanto, alla fonda, nel porto di Marsala, si trovano due navi da
guerra della Mediterranean Fleet di Sua Maestà Britannica: l’Argus e
l’Intrepid, comandate rispettivamente da Winnington Ingram e da Marryat. Sono due le navi poderose. Due vere fortezze del mare. Gli equipaggi sono quasi al completo sulla tolda come se dovessero assistere ad uno spettacolo; ma abbastanza all’erta per entrare in azione immediatamente pure loro, se fosse arrivato un ordine in tal senso.

L’Armata Garibaldina sbarca, sotto protezione… – Il primo a dare spettacolo, per la verità non bello, è il piroscafo garibaldino Lombardo che si incaglia in un basso fondale. Tuttavia l’Acton non ne approfitta: così come tutti i suoi colleghi, ha un ordine ben preciso: non creare incidenti con navi straniere, né tantomeno con la flotta militare britannica, che è peraltro la più potente del mondo. Sulle banchine del porto si nota intanto uno strano movimento: un ammuìno di operai, in una tuta rossa che sembra una divisa inglese, attorno alle produzioni dello stabilimento Wodehouse. Tutto programmato, tutto predisposto. Quegli operai creano, infatti, altra confusione.

Diversi, troppi mercantili Inglesi sono pure ancorati nel porto. Come si fa a sparare con i cannoni senza metterli in pericolo? Bandiere Inglesi sventolano sulle navi ed anche sulle case, sugli uffici, sugli stabilimenti del Wodehouse, degli Ingham e dei tanti imprenditori e cittadini britannici che vivono ed operano a Marsala. Ma le bandiere Inglesi sventolano allegramente anche sugli edifici di coloro che Inglesi non sono, come vedremo meglio più in là. Dice Antonio Rosada:

«Sembrava una kermesse britannica. […] In quel giorno di maggio, quando il Comandante della pirocorvetta di Sua Maestà siciliana “Stromboli” ebbe in pugno il destino del “Lombardo”, incagliato su bassi fondali, e con esse di metà della spedizione garibaldina, il timore reverenziale che gli incuteva la vista della bandiera britannica fu l’usbergo invisibile che si frappose per quasi un’ora fra i cannoni della nave napoletana ed il trasporto genovese che le imbarcazioni costiere vuotavano febbrilmente del suo carico umano».

L’Acton, ufficiale napoletano di origini Inglesi, aduso ad obbedire, da buon militare obbedisce agli ordini ricevuti, da un lato. Ma, dall’altro, sa di avere a portata di mano un bersaglio facilissimo: il Lombardo incagliato ed un altro bersaglio, un poco più difficile, il Piemonte. Né l’uno né l’altro sarebbero per lui un problema tecnico. L’uno e l’altro sono, però, un enorme, insormontabile, problema politico e diplomatico.

Fa armare i pezzi, ma non si decide ad ordinare il fuoco. Teme le conseguenze… Si accosta allora all’Intrepid e fa chiedere se gli uomini che si vedono sul molo siano per caso soldati o cittadini britannici. La risposta è
«no». Ma è seguita da un secco avvertimento: i comandanti dell’Intrepid e dell’Argus sono a terra. Non si può rischiare di colpirli.

Acton capisce bene cosa significhi quell’avvertimento. Guai, infatti, se fosse stato messo in pericolo uno solo dei tanti capelli dei due ufficiali Inglesi… L’Acton decide, quindi, di aspettare che i due comandanti ritornino a bordo. Il tempo, intanto, trascorre velocemente, a tutto vantaggio di Garibaldi e dei suoi Mille.

Finalmente arrivano i commanders Marryat e Winnington Ingram, che salgono a bordo dello Stromboli. Il tempo continua a trascorrere senza che il bravo tiratore, Acton, riesca a fare qualcosa. La visita degli Inglesi gli fa capire che le cose possono andare soltanto di male in peggio. I due commanders, infatti, gli fanno un’altra e più severa ammonizione: attenzione a non danneggiare gli opifici britannici e i loro dipendenti! Tanto peggio, inoltre, gli dicono, sarebbe colpire i mercantili Inglesi ormeggiati nel porto e che non hanno intenzione di muoversi fino a che non verranno venti più propizi.

Trevelyan ci dà una notizia precisa al riguardo:

«Il “Piemonte” gettò l’ancora al sicuro dentro il molo nel bel mezzo dei bastimenti mercantili Inglesi…». A bordo, come sappiamo, c’era Garibaldi.

Ai due commanders non piacciono neppure i timidissimi tiri radenti che l’Acton ha cominciato ad ordinare. Tiri a pelo d’acqua che finiscono a mare prima di raggiungere il molo, sollevando – questi sì – acqua e fango. Insomma, l’Acton si dimostra meno efficace (anzi più innocuo) di quanto non lo sia stato fino a quel momento.

Più pericoloso è, invece, il Comandante della Partenope, Cossovich, intanto sopraggiunto, che può sparare in direzione dei Garibaldini, ormai messisi al sicuro dietro l’antemurale del molo. La sua mitraglia, tuttavia, fa qualche piccolo danno ad alcuni tetti di Marsala ed una palla di cannone osa danneggiare due botti di vino nel baglio del Wodehouse. Gli Inglesi sono indignati per la grave provocazione e diffidano pure il Cossovich, che aveva potuto fare, fino a quel momento, un po’ meglio il proprio dovere, perché, almeno, non aveva ufficiali Inglesi a bordo.

Il ridicolo sbarco dei Garibaldini a Marsala – È appena il caso di dire che lo sbarco dei Mille, sotto tutela degli Inglesi, avviene senza che alcun Siciliano dia loro il benvenuto o batta loro le mani. È uno sbarco che non manca di aspetti ridicoli. Sembra, infatti, che non pochi Garibaldini del Lombardo siano stati presi in braccio dai poveri dipendenti Wodehouse e portati in barca e a terra, fra una bestemmia e l’altra. Ai Duosiciliani, purché non facciano danno, viene consentito di sparare fino a sera, evitando però le proprietà e le navi Inglesi, secondo diffida. Vale a dire: si può sparare soltanto in aria e a mare. Poi, le autorità Inglesi daranno l’alt…

Si è fatto tardi. Non si può esagerare! – Mentre il buon Garibaldi ringrazia Dio e gli Inglesi per la grazia ricevuta, è opportuno fare qualche riflessione sulla vicenda dello strano sbarco.

Abbiamo già parlato dell’Acton e della sua Stromboli, efficientissima fregata forzatamente inoperosa. Abbiamo parlato del Cossovich, bravo o no che fosse, il quale riuscì almeno a sparare qualche colpo di mitraglia verso il porto, facendo indignare gli Inglesi. Insomma, la Partenope qualche fastidio riuscì a darlo, se non altro alla quiete pubblica. Fu l’unica, probabilmente.

Di Mariano Caracciolo, Comandante del Capri e della sua nave, non abbiamo ancora detto nulla. Precisiamo soltanto che i fatti successivi confermeranno la fondatezza di ciò che il Buttà insinua. E cioè che il Caracciolo non avrebbe sparato, dalla sua «Capri», neppure un colpo, perché in tal senso si era «appattato» con Garibaldi o con chi per lui.

L’affaire Marsala non finisce di stupire. – Se si andasse veramente a fondo si finirebbe con il mandare a picco i Padri della Patria e la mitologia risorgimentale. Lo dimostrano tutti quelli che, con un minimo di sincerità, parlano di quell’avvenimento. Così Padre Buttà descriverà la scena dello sbarco:

«Due legni Inglesi fecero la spia contro i Regi, e protessero lo sbarco di Garibaldi. Tre piroscafi di guerra Napoletani, che si trovavano in crociera nelle acque di Marsala, presero il largo fino a che non fosse stato effettuato quello sbarco. Uno dei piroscafi, il Capri, era comandato da Marino Caracciolo; il quale, come rilevasi dalla “Difesa Nazionale” di Tommaso Cava, a pag. 101, volle poi tenuto al fronte battesimale un figlio da Garibaldi, e costui, memore dei servizi ricevuti da quello in Marsala, accettò, con piacere, di farsi compare col primo che tradì Francesco II. Marino Caracciolo è quello stesso che poi entrò nel forte di Baia e prese possesso a nome del compare. Un altro legno era comandato da Guglielmo Acton, poi Ministro del Regno d’Italia».

E conclude, il Buttà, molto amareggiato:

«Nello sbarco di Marsala tanto celebrato da’ rivoluzionari, nulla trovo di straordinario, e neppure potrebbe dirsi audace». (1)

Lo sbarco a Marsala è una pagina di storia di cui vergognarsi? – Non diverse sono le stranezze che si riscontrano in ciò che è avvenuto intanto nella città di Marsala. Insomma: la commedia continua! Abbiamo già parlato della fiera ostentata indifferenza della cittadinanza tutta di Marsala, senza una sola eccezione. Ma c’è un aspetto particolare dei fatti che cercheremo di evidenziare, approfittando ancora dell’aiuto di padre Buttà.

Come mai nel regime poliziesco ed oppressivo dei Borbone in una città importante come Marsala (porto, produzione industriale, commercio, presenza di una comunità inglese numerosa, operosa, ricca, importante, ecc.) in un contesto così delicato, non si trova in quel momento un solo soldato Duosiciliano? Uno qualunque di quegli innumerevoli soldati Duosiciliani che alcuni operatori dell’agiografia risorgimentale ci fanno quasi sempre trovare, crudeli, cattivi e ben armati, nonché miseramente sconfitti dai valorosi Garibaldini («buoni, questi, ed inferiori numericamente e pressoché disarmati o male armati…»).

La spiegazione è semplicissima. La lasciamo dare allo stesso Buttà.
«Egli (Garibaldi) sbarcò a Marsala, quando già sapeva che la guarnigione era stata mandata a Girgenti (cioè ad Agrigento) per ordine del Comando Generale di Palermo:

quella guarnigione di un battaglione di “Carabinieri a piedi”, comandati dal Colonnello Francesco Donati, sembrò pericolosa allo sbarco garibaldesco e due giorni prima fu mandata altrove» (2).

Ed è vero. Gli alti ufficiali della Luogotenenza di Palermo, ben manovrati dai servizi segreti britannici, in previsione dell’arrivo dei Mille e ben sapendo quanto fosse importante che lo sbarco avvenisse nel migliore dei modi, avevano ordinato al Colonnello Donati di trasferirsi con la guarnigione tutta ad Agrigento. Cosa, questa, confermata da Padre Buttà, come ben sappiamo.
La responsabilità maggiore di tale disposizione sembrerebbe attribuibile al Generale Giuseppe Letizia (3).

(3) Chi era Letizia? Un Generale che incontreremo ancora molte volte e del quale, pertanto, anticipiamo qualche notizia biografica. Era nato a Napoli nel 1794. Ufficiale dell’Esercito Napoletano, ai tempi di Gioacchino Murat, aveva partecipato alle battaglie napoleoniche di Lutzen e Bautzen. Nell’ultima battaglia era stato pure ferito. Con la restaurazione borbonica fu radiato dall’esercito dal 1816 al 1820. In quest’ultimo anno venne riammesso in servizio in tempo per partecipare alle azioni dell’Armata Borbonica contro la rivoluzione siciliana e gli indipendentisti Siciliani, fu addirittura Aiutante di campo di Florestano Pepe. La cosa non deve meravigliare perché allora – così come avverrà in seguito – fra reazionari Borbonici e carbo- nari-liberali-unitari esisteva identità di vedute contro l’indipendenza della Sicilia. Il Letizia fu coinvolto in varie congiure carbonare e fu, quindi, nuovamente sospeso dal servizio e dal grado. Le raccomandazioni (e la tolleranza dei Borbone), però, fecero sì che lo stesso fosse, nel 1848, riammesso un’altra volta nell’esercito delle Due Sicilie. Non si tratta, quindi, di un Generale pavido e inetto, come talvolta la storiografia ufficiale lo vuole fare apparire, ma di un Generale ideologicamente ostile alla causa del Regno delle Due Sicilie ed agli stessi Borbone. Inaffidabile, certamente. E disponibile nei confronti del nemico. Anticipiamo qualche notizia sulla sua carriera successiva. Nel 1861 il Generale, ex borbonico, Letizia diventerà Generale effettivo dell’Esercito Italiano. Non fu l’unico, per la verità. Ma il suo fu un trattamento di eccezionale favore, se si considera che il Letizia, al momento dello sbarco di Garibaldi a Marsala, aveva già compiuto 66 anni. Età rispettabile anche oggi, ma che allora era considerata molto avanzata. Qualche benemerenza, nei confronti dei vincitori, il Letizia doveva pure averla. Almeno abbiamo il diritto di sospettarlo. E i sospetti aumenteranno quando, fra poco, lo vedremo a Palermo trattare con Garibaldi. E mai, come in questo caso specifico, il sospetto ci è sembrato l’anticamera della verità. Dobbiamo, con l’occasione, rivolgere un grato pensiero al grande studioso meridionale Roberto Maria Selvaggi, morto recentemente, per le notizie che ci ha fornito sul Generale Letizia e su moltissimi altri ufficiali dell’Esercito Duosiciliano, nel libro Nomi e volti di un esercito dimenticato. Gli ufficiali dell’Esercito napoletano del 1860- 61, Grimaldi, Napoli, 1990.

(13) Cesare Cantù nacque a Brivio (in provincia di Como) l’8 dicembre 1804. Cattolico ed antiaustriaco, fu, per la sua attività sovversiva, arrestato per un breve periodo dalla polizia del Lombardo-Veneto. Amico del Manzoni, scrisse alcuni commenti storico letterari ai Promessi Sposi. Le sue opere maggiori sono, tuttavia: La storia universale (1838-1846), in 35 volumi, Storia degli Italiani, Gli eretici d’Italiani, Il Conciliatore e i Carbonari, Ragionamento sulla storia lombarda del secolo XVII, ed altri testi a carattere storiografico. Critico verso il liberi- smo laico, fu deputato al Parlamento italiano, prima a Torino e poi, dopo il trasferimento della Capitale d’Italia, a Firenze, per 6 anni, nel periodo che va dal 1861 al 1867.

(14) Malta, com’è noto, era dal 1800 un possedimento inglese.

(15) G. Fusco, op. cit., pagg. 25 e 26.

(16) G. Fusco, op. cit., pagg. 26 e 27.

(1) G. Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861, Bompiani, Milano, marzo 1985, pag. 330.

(2) G. Buttà, op. cit., ibidem.

(3) Chi era Letizia? Un Generale che incontreremo ancora molte volte e del quale, pertanto, anticipiamo qualche notizia biografica. Era nato a Napoli nel 1794. Ufficiale dell’Esercito Napoletano, ai tempi di Gioacchino Murat aveva partecipato alle battaglie napoleoniche di Lutzen e Bautzen. Nell’ultima battaglia era stato pure ferito. Con la restaurazione borbonica fu radiato dall’esercito dal 1816 al 1820. In quest’ultimo anno venne riammesso in servizio in tempo per partecipare alle azioni dell’Armata Borbonica contro la rivoluzione siciliana e gli indipendentisti Siciliani, fu addirittura Aiutante di campo di Florestano Pepe. La cosa non deve meravigliare perché allora – così come avverrà in seguito – fra reazionari Borbonici e carbonari-liberali-unitari esisteva identità di vedute contro l’indipendenza della Sicilia. Il Letizia fu coinvolto in varie congiure carbonare e fu, quindi, nuovamente sospeso dal servizio e dal grado. Le raccomandazioni (e la tolleranza dei Borbone), però, fecero sì che lo stesso fosse, nel 1848, riammesso un’altra volta nell’esercito delle Due Sicilie. Non si tratta, quindi, di un Generale pavido e inetto, come talvolta la storiografia ufficiale lo vuole fare apparire, ma di un Generale ideologicamente ostile alla causa del Regno delle Due Sicilie ed agli stessi Borbone. Inaffidabile, certamente. E disponibile nei confronti del nemico. Anticipiamo qualche notizia sulla sua carriera successiva. Nel 1861 il Generale, ex borbonico, Letizia diventerà Generale effettivo dell’Esercito Italiano. Non fu l’unico, per la verità. Ma il suo fu un trattamento di eccezionale favore, se si considera che il Letizia, al momento dello sbarco di Garibaldi a Marsala, aveva già compiuto 66 anni. Età rispettabile anche oggi, ma che allora era considerata molto avanzata. Qualche benemerenza, nei confronti dei vincitori, il Letizia doveva pure averla. Almeno abbiamo il diritto di sospettarlo. E i sospetti aumenteranno quando, fra poco, lo vedremo a Palermo trattare con Garibaldi. E mai, come in questo caso specifico, il sospetto ci è sembrato l’anticamera della verità. Dobbiamo, con l’occasione, rivolgere un grato pensiero al grande studioso meridionale Roberto Maria Selvaggi, morto recentemente, per le notizie che ci ha fornito sul Generale Letizia e su moltissimi altri ufficiali dell’Esercito Duosiciliano, nel libro Nomi e volti di un esercito dimenticato. Gli ufficiali dell’Esercito napoletano del 1860- 61, Grimaldi, Napoli, 1990.

Fine quinta puntata/ Continua

read:https://www.inuovivespri.it/2018/12/24/la-vera-storia-dellimpresa-dei-mille-5-lo-sbarco-dei-garibaldini-a-marsala-vergognosamente-protetti-dagli-inglesi/

Read More

La vera storia dell’impresa dei Mille 4/ Da Talamone con vento in poppa alla volta di Marsala

Posted by on Apr 27, 2019

Dopo le prime tre puntate di questo libro scritto da Giuseppe ‘Pippo’ Scianò, leader storico degli Indipendentisti siciliani si comincino ad avvertire i primi musi storti. Della serie: “Ma come si permettono questi a mettere in dubbio la storia raccontata dagli storici?”. Li vogliamo tranquillizzare: gli ‘storici’, sul Risorgimento nel Sud Italia – e segnatamente sull’impresa dei Mille – hanno raccontato un sacco di bugie. Man mano che il racconto di questo libro andrà avanti ci sarà da divertirsi…   

di Giuseppe Scianò

Una originale parata militare… – Non mancherà, al centro della piazza di Talamone, una bella parata militare (o quasi), alla quale tutti i Garibaldini partecipano. Molti sono in camicia rossa. Non tutti. Nel corso della manifestazione ha luogo la lettura dell’ordine del giorno «Italia e Vittorio Emanuele» del quale abbiamo parlato.

Il momento più solenne è quello del sermone di Garibaldi, ricco di retorica patriottarda, sulla cui sincerità gli abitanti di Talamone cominciano a nutrire qualche dubbio. Finita la cerimonia, i Garibaldini si scatenano fra le vie del paese.

A questo punto non possiamo che constatare come se ne sia andato allegramente a quel paese il piano accuratamente preparato a monte, di far credere all’opinione pubblica internazionale che i comandanti della guarnigione di Talamone abbiano fornito le armi a Garibaldi soltanto perché ingannati dal Duce dei Mille travestito da ufficiale piemontese. Per il seguito più immediato della vicenda, ci affidiamo ancora una volta ad un pezzo di Giancarlo Fusco:

«Scende la sera. Traluce, dalle finestre, il giallore dei lumi a petrolio e dei candelotti a sego. Una tromba, da chissà dove, modula le note malinconiche della ritirata. Il Generale è già tornato a bordo. Ma il trombettiere, stasera, spreca il suo fiato. Le stradette di Talamone, i cortili, gli orti dietro le case, la piazza centrale e gli spalti affacciati al mare sono in piena battaglia. I futuri eroi di Calatafimi e di Ponte dell’Ammiraglio ribolliscono, su e giù, come fagioli in pentola. Si pestano fra monarchici e mazziniani, fra repubblicani unitari e con federalisti, fra monarchici intransigenti e monarchici provvisori. Già che ci sono, se le danno anche per motivi campanilistici; bergamaschi con bresciani, pavesi con milanesi, veronesi con padovani, i romagnoli un po’ con tutti. Ma tutti, a tratti, fanno fronte comune contro gli uomini di Talamone. Ai quali non va assolutamente giù che le ragazze e le sposine debbano difendersi con le unghie e con la fuga, già mezze discinte, dagli assalti e dagli aggiramenti delle assatanate ‘’camice rosse’’.
‘Annate al paese vostro, a fa’ le porcate, pelandroni!’.

‘Ma indove v’ha raccattato Garibaldi? In galera?’.
‘Altro che l’Italia volete fa’! Ve volete fa’ le donne nostre!’ .
‘Con la manfrina della patria, annate in giro a rovina’ le zite!’.
Un inferno. Inutili le trombe. Inutili il correre a destra e a sinistra degli ufficiali. Vane le minacce di arresti, di espulsione dal corpo e di ferri. Finché, avvertito, scende a terra Garibaldi. I suoi occhi chiari sembrano di ghiaccio. Brandisce la spada sguainata, rivolge agli ufficiali, pallidi e avviliti, rimproveri pesanti, quasi feroci:
‘Chi vi ha cucito i grandi sulle maniche, rammolliti! Avete le sciabole al fianco e non sapete tirarle fuori! Cominciamo bene! Credete che non sappia ordinare una decimazione?’ .
Poi, al centro della piazza principale, a gambe larghe, con la spada puntata al cielo già stellato, grida con tutto il suo fiato:
‘ A bordo!’ ». (11)

Avviene così – ci spiega il Fusco – che la gazzarra nel giro di pochi minuti si spenga. E che i valorosi Garibaldini si «ricompongano» nell’aspetto e nelle uniformi, e che, a poco a poco, risalgano sulle barche che li riporteranno a bordo dei due piroscafi. Un altro pezzo della «tragicommedia» è stato bene o male recitato (più male che bene, per essere sinceri).

Non è il caso di aggiungere altro. I fatti si commentano da sé.

Zambianchi sconfitto da contadini e gendarmi dello Stato Pontificio – Durante la sosta a Talamone, una sessantina di volontari vengono inviati verso i confini dello Stato Pontificio. Sono guidati da Callimaco Zambianchi, un ufficiale anziano che già negli anni 1848-1849 si era fatto onore a Roma. Non a caso lo stesso Abba lo definisce «…uno sterminatore di monaci, sanguinario».(12)

Il Macaulay Trevelyan precisa che lo Zambianchi «era un uomo di proporzioni e forza fisica immensa, probabilmente un sincero patriota ma uno spavaldo e un ribaldo e, se non un codardo, per le meno un arruffone incompetente, […] oltre che sterminatore di preti a Roma nel 1849».
Comunque la spedizione contro il Papa non avrà la solita fortuna. I Garibaldini vengono accolti, intanto, con diffidenza o con ostilità da parte della popolazione. Arrivano poi i Gendarmi Pontifici. Alle loro prime schioppettate, Zambianchi ed i suoi uomini se la danno a gambe disperdendosi per le campagne.
Non erano queste le aspettative. Gli «eroi» avevano sperato di andare ben oltre, tanto che Garibaldi aveva aggregato alla piccola spedizione ben tre medici.

Pessima, quindi, la figura con gli Inglesi, i quali avranno apprezzato il taglio politico dato alla spedizione, ma non lo squallido esito. Anzi gli Inglesi si sarebbero ulteriormente convinti del fatto che, se non si fossero preoccupati di controllare e di seguire nei minimi particolari le azioni rivoluzionarie e militari degli eroi del Risorgimento Italiano, questi ultimi avrebbero continuato a fare dei grandi pasticci. E soltanto pasticci.

Caricando le armi – La mattina del 9 maggio Garibaldi ed i suoi uomini, tutti ormai a bordo del Piemonte e del Lombardo, la trascorrono quasi interamente a caricare armi e viveri. Ed anche acqua, molta acqua. È un via vai di barche stracariche che fanno la spola fra la banchina e i due piroscafi. I barcaroli non sono, però, volontari né simpatizzanti. Hanno i loro ritmi ed una paga modesta. Lo intuisce Bixio che grida loro:
«Venti franchi ogni barile, se me li portate prima delle undici!».
«I barcaioli fanno forza di braccia e le barche volano», scrive in proposito Giuseppe Cesare Abba.
Insomma il denaro, specialmente in valuta straniera, comincia a fare i suoi miracoli.
Ed i Garibaldini ne sono ben provvisti…

Le navi garibaldine si fermano a poche miglia dal porto di Marsala… – Da Talamone alla Sicilia la navigazione dei Garibaldini non ha problemi. Vento in poppa in tutti i sensi. Anche se i Garibaldini fossero intercettati dai Duosiciliani, che peraltro dispongono di una buona Marina Militare, non succederebbe niente di grave. Le due navi, pur se rubate, hanno, infatti, le… carte in regola.

Come ci ricorda, infatti, lo storico Cesare Cantù,(13) Garibaldi navigava
«regolarmente munito di patente per Malta».(14) Non è un salvacondotto di poco conto quel documento, perché Malta era un territorio inglese. E gli Inglesi, si sa, sono permalosi e pretestuosi nei confronti del Regno delle Due Sicilie, quanto (se non di più) il lupo di esopiana memoria nei confronti dell’agnello. Poca importanza ha il fatto che il Lombardo ed il Piemonte abbiano dichiarato una destinazione diversa o che portino a bordo gente armata ed in procinto di sbarcare in Sicilia.

Guai a fermare quei due vapori. Si sarebbe anticipato quello che sarebbe realmente accaduto, di lì a poco, alla spedizione Corte della quale parleremo più avanti. Gli Inglesi avrebbero gridato alla violazione del diritto internazionale da parte del perfido Re delle Due Sicilie!

È appena il caso di ricordare quindi che il compito di scorta dell’Ammiraglio Persano è assolutamente privo di rischi. La flotta militare sabauda, ovviamente, si discosterà soltanto quando il Lombardo e il Piemonte saranno entrati nelle acque territoriali Duo-siciliane. Per recarsi, però, anch’essa nelle acque del porto di Palermo per dare manforte alle manovre di conquista della Sicilia.

Dubbio di Garibaldi: sbarcare col buio o no? – Dopo una navigazione più che tranquilla, i due piroscafi arrivano a poche miglia dalla Sicilia, di fronte alla costa marsalese. Per la verità lo sbarco a Marsala potrebbe avvenire anche nello stesso giorno: 10 maggio 1860… Ma ormai si avvicina la sera e Garibaldi ritiene che non sia prudente sbarcare al buio che, a suo giudizio, potrebbe, sì, anche giovare perché gli consentirebbe di non essere avvistato dai nemici, se non troppo tardi. Però il Nizzardo sa bene che il buio ha un inconveniente. Quello, cioè, di non far vedere bene, di non far riconoscere le persone e le bandiere, di non far vedere dove si mettono i piedi o… le navi.

Prudenza doverosa da parte di un buon vecchio marinaio, soprattutto se si considera che il Lombardo, in pieno giorno, l’indomani, sarebbe rimasto incagliato in un basso fondale. Cosa sarebbe successo se quell’incidente fosse capitato di notte?

Istruzioni… per lo sbarco – Il Fusco – con il suo linguaggio semplice e scorrevole – ci racconta che in vista di Marsala e nell’imminenza dello sbarco, Garibaldi dà incarico a Nino Bixio, per il Lombardo, e al Colonnello Sirtori per il Piemonte, di dare attuazione a quanto disposto con il «Foglio d’ordini operativo», compilato già da qualche giorno a Talamone, e più specificatamente al paragrafo che diceva che nell’imminenza dello sbarco, ai volontari bisognava parlare chiaramente dell’estrema diffidenza e della focosa suscettibilità… «che caratterizzano il temperamento de’ siculi, sovra tutto per ciò che riguarda le loro donne: spose, promesse tali, sorelle, cognate, cugine, e perfino di più lontana e indiretta parentela. A scanso di complicanze gravissime, cruente e perfino ferali, i volontari una volta a terra, dovranno astenersi da intraprendenze inopportune,

uai a fermare quei due vapori. Si sarebbe anticipato quello che sarebbe realmente accaduto, di lì a poco, alla spedizione Corte della quale parleremo più avanti. Gli Inglesi avrebbero gridato alla violazione del diritto internazionale da parte del perfido Re delle Due Sicilie!

È appena il caso di ricordare quindi che il compito di scorta dell’Ammiraglio Persano è assolutamente privo di rischi. La flotta militare sabauda, ovviamente, si discosterà soltanto quando il Lombardo e il Piemonte saranno entrati nelle acque territoriali Duo-siciliane. Per recarsi, però, anch’essa nelle acque del porto di Palermo per dare manforte alle manovre di conquista della Sicilia.

Dubbio di Garibaldi: sbarcare col buio o no? – Dopo una navigazione più che tranquilla, i due piroscafi arrivano a poche miglia dalla Sicilia, di fronte alla costa marsalese. Per la verità lo sbarco a Marsala potrebbe avvenire anche nello stesso giorno: 10 maggio 1860… Ma ormai si avvicina la sera e Garibaldi ritiene che non sia prudente sbarcare al buio che, a suo giudizio, potrebbe, sì, anche giovare perché gli consentirebbe di non essere avvistato dai nemici, se non troppo tardi. Però il Nizzardo sa bene che il buio ha un inconveniente. Quello, cioè, di non far vedere bene, di non far riconoscere le persone e le bandiere, di non far vedere dove si mettono i piedi o… le navi.

Prudenza doverosa da parte di un buon vecchio marinaio, soprattutto se si considera che il Lombardo, in pieno giorno, l’indomani, sarebbe rimasto incagliato in un basso fondale. Cosa sarebbe successo se quell’incidente fosse capitato di notte?

Istruzioni… per lo sbarco – Il Fusco – con il suo linguaggio semplice e scorrevole – ci racconta che in vista di Marsala e nell’imminenza dello sbarco, Garibaldi dà incarico a Nino Bixio, per il Lombardo, e al Colonnello Sirtori per il Piemonte, di dare attuazione a quanto disposto con il «Foglio d’ordini operativo», compilato già da qualche giorno a Talamone, e più specificatamente al paragrafo che diceva che nell’imminenza dello sbarco, ai volontari bisognava parlare chiaramente dell’estrema diffidenza e della focosa suscettibilità… «che caratterizzano il temperamento de’ siculi, sovra tutto per ciò che riguarda le loro donne: spose, promesse tali, sorelle, cognate, cugine, e perfino di più lontana e indiretta parentela. A scanso di complicanze gravissime, cruente e perfino ferali, i volontari una volta a terra, dovranno astenersi da intraprendenze inopportune,

Istruzioni… per lo sbarco – Il Fusco – con il suo linguaggio semplice e scorrevole – ci racconta che in vista di Marsala e nell’imminenza dello sbarco, Garibaldi dà incarico a Nino Bixio, per il Lombardo, e al Colonnello Sirtori per il Piemonte, di dare attuazione a quanto disposto con il «Foglio d’ordini operativo», compilato già da qualche giorno a Talamone, e più specificatamente al paragrafo che diceva che nell’imminenza dello sbarco, ai volontari bisognava parlare chiaramente dell’estrema diffidenza e della focosa suscettibilità… «che caratterizzano il temperamento de’ siculi, sovra tutto per ciò che riguarda le loro donne: spose, promesse tali, sorelle, cognate, cugine, e perfino di più lontana e indiretta parentela. A scanso di complicanze gravissime, cruente e perfino ferali, i volontari una volta a terra, dovranno astenersi da intraprendenze inopportune, corteggiamenti e galanterie disdicevoli all’uso locale. Provvederanno alla Suddetta bisogna, salvo imprevisti, il signor Colonnello Sirtori, sul Piemonte, e il signor Luogotenente Bixio, sul Lombardo».(15)

Dopo aver divagato su altri particolari dell’episodio, così continua:
«Invece, sul Lombardo, Bixio, ch’è tutto l’opposto di Sirtori, c’inzuppa il pane. La tira in lungo. Dritto, a gambe larghe, al centro della ‘ radunanza’ , la visiera del cheppì calata di traverso, fino a nascondere mezza faccia, ha l’aria di sfottere. E si diverte a inventare le spaventose torture, le indicibili crudeltà e le raccapriccianti efferatezze, con le quali, a suo dire, i gelosissimi mariti Siciliani (e specialmente, purtroppo, quelli della zona dov’è previsto lo sbarco) sono soliti vendicare le corna. Non solo quelle già messe, ma anche quelle intenzionali. Amanti squartati, scorticati, bruciati e sepolti vivi.

Corteggiatori affogati nel pozzo nero, inchiappettati da tutti i maschi del parentado e poi tritati come carne da polpette. Rivali mangiati allegramente, in famiglia, sotto forma di spezzatino, oppure bolliti, a fuoco lento, in enormi pignatte che i calderai dell’isola fabbricano appositamente… I volontari di primo pelo, o addirittura imberbi, ascoltano quelle atrocità sgranando gli occhi e non riescono a nascondere la fifa. Mentre i più maturi e scafati sogghignano (ma è più che altro una smorfia) ed ammiccano. Insomma, giovanotti, i Siciliani hanno molto dei beduini! sentenzia Bixio, che sospira, sì, un’Italia libera e unita, dalle Alpi al Lilibeo, ma che non riesce a digerire gli Italiani da Roma in giù. Tant’è vero che, proprio come fra i bedù, il taglio delle balle è la vendetta preferita dei becchi siculi!».(16)

Perché abbiamo parlato di questo aneddoto, per la verità molto marginale rispetto ai grandi fatti che avvenivano in quel giorno? Per fare conoscere meglio chi realmente fossero i futuri liberatori della Sicilia. Evidenziando come fossero, già nel 1860, forti i pregiudizi e i malintesi fra le popolazioni del Centro-Nord Italia ed il Popolo Siciliano, Bixio fra lo scherzoso ed il serioso dà voce ed alimenta i motivi di divaricazione psicologica e di incompatibilità.

E così, scherzando scherzando, allunga ai Siciliani pure le accuse di cannibalismo e di pratiche sodomitiche. Non ci sembra molto bello per un padre della Patria, che avrebbe potuto approfittare dell’esperienza siciliana per imparare qualcosa di buono.

Per quanto riguarda l’epiteto beduino dobbiamo arguire che questo doveva essere molto diffuso per offendere i Siciliani. Lo incontreremo infatti pure nel linguaggio del Bandi, il giovane ufficiale addetto al servizio personale di Garibaldi che pure è più colto di Bixio. Per la verità il Bandi usa anche, come epiteto, la parola arabo, mancando così contemporaneamente di rispetto alla nazionalità Siciliana ed alla nazionalità Araba. Quest’ultima è infatti tirata in ballo come termine di paragone assoluta- mente negativo.

C’è tuttavia una considerazione da fare. Come si vede, pur trovandoci nell’imminenza dello sbarco, di tutto si parla, tranne che delle tattiche da adottare per quella che, in teoria, è una vera e propria operazione bellica.
A bordo delle due navi garibaldine si dà infatti per scontato che lo sbarco avverrà nelle migliori condizioni di tranquillità e di sicurezza. Si dà per scontato, insomma, che non si dovrà combattere per conquistare metro per metro la costa siciliana. Così come sarebbe stato logico, se non si fosse trattato essenzialmente di seguire un copione.
(Fine della quarta puntata del volume di Giuseppe Scianò “… e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò ‘Colonia’ – Pitti edizioni Palermo/ Continua) 

(11) G. Fusco, op. cit., pagg. 18 e 19.

(12) G. C. Abba, op. cit., p. 25.

(13) Cesare Cantù nacque a Brivio (in provincia di Como) l’8 dicembre 1804. Cattolico ed antiaustriaco, fu, per la sua attività sovversiva, arrestato per un breve periodo dalla polizia del Lombardo-Veneto. Amico del Manzoni, scrisse alcuni commenti storico letterari ai Promessi Sposi. Le sue opere maggiori sono, tuttavia: La storia universale (1838-

1846), in 35 volumi, Storia degli Italiani, Gli eretici d’Italiani, Il Conciliatore e i Carbonari, Ragionamento sulla storia lombarda del secolo XVII, ed altri testi a carattere storiografico. Critico verso il liberi- smo laico, fu deputato al Parlamento italiano, prima a Torino e poi, dopo il trasferimento della Capitale d’Italia, a Firenze, per 6 anni, nel periodo che va dal 1861 al 1867.

(14) Malta, com’è noto, era dal 1800 un possedimento inglese.

(15) G. Fusco, op. cit., pagg. 25 e 26.

fonte

Read More

La vera storia dell’impresa dei Mille (II) La farsa di Quarto e i Repubblicani sul libro paga dei britannici

Posted by on Apr 15, 2019

La vera storia dell’impresa dei Mille (II) La farsa di Quarto e i Repubblicani sul libro paga dei britannici

Seconda puntata del libro di Giuseppe Scianò “… e nel maggio del 1860 la Sicilia diventò colonia” (Pitti edizioni Palermo). La prefazione nella quale si dà atto a Pino Aprile di avere aperto uno squarcio nella disinformazione italiana sulla storia del Sud nel Risorgimento. Quindi il primo capitolo con la sceneggiata della finta ‘cattura’ dei piroscafi ‘Lombardo’ e ‘Piemonte. Il viaggio verso la Sicilia scortati dai piemontesi e, soprattutto, dagli inglesi

di Giuseppe Scianò

PREFAZIONE

Pino Aprile, noto giornalista e scrittore pugliese (nato nel 1950), già vicedirettore di Oggi e direttore di Gente, che aveva lavorato con Sergio Zavoli nell’inchiesta a puntate «Viaggio nel Sud» e a Tv7, settimanale del Tg1, nel 2010 ha pubblicato il libro Terroni, incentrato sulla conquista del Sud-Italia, o, per meglio dire, dei territori del Regno delle Due Sicilie, da parte del Regno Sabaudo di Vittorio Emanuele II, il quale, a sua volta, agiva sotto la protezione e per mandato del Governo Britannico.

Il libro ebbe un successo immediato ed eclatante e non costituì soltanto un «caso letterario», ma divenne un evento storico, culturale e politico, i cui effetti sono ancora in piena evoluzione. Vi si comprende, infatti, come e perché il Sud divenne una colonia interna del neonato Regno d’Italia.
Anche se altri avevano affrontato lo «scottante» argomento, fra cui l’indimenticabile Carlo Alianello (e tanti altri Meridionalisti e Sicilianisti, molti dei quali viventi e con i quali ci scusiamo per non poterli citare tutti), considerato il capostipite del revisionismo «moderno» del Risorgimento, Pino Aprile ha avuto il grande merito di «prendere di petto» le tante, scottanti, «verità», che erano state occultate e spesso sostituite dalle favolette e dalle leggende della cultura ufficiale italiana.

TRA MASSACRI E GENOCIDI – Sono stati portati alla luce massacri, genocidi, persecuzioni, saccheggi, deportazioni ed, in una parola, le gravissime violazioni dei diritti dell’Uomo, soprattutto per l’uso spregiudicato di truppe mercenarie provenienti sia dall’Europa (da ricordare la «feroce» Legione Ungherese…) che dall’India e dall’Africa, che attuarono espoliazioni e rapine di ogni tipo. Delitti, questi, che si sarebbero protratti anche nel periodo successivo al fatale 1860…

Sono tornati così alla luce quei fenomeni di alienazione culturale e di lavaggio collettivo dei cervelli, di cui tanto aveva parlato Frantz Fanon per i Paesi del cosiddetto «Terzo Mondo» negli anni Cinquanta del secolo scorso.

Finalmente viene messo sotto accusa il Regno d’Italia per i crimini commessi nel 1860! Ed anche successivamente…

I GRANDI MERITI DI PINO APRILE – Con il «libro» di ricerca, di «documentazione» e di denunzia di Pino Aprile, sostanzialmente la verità è diventata ancora una volta «rivoluzionaria». Ed i popoli del «soppresso» Regno delle Due Sicilie hanno cominciato a capire che è, per loro, un diritto ed un dovere quello di uscire finalmente e decisamente dalla condizione di letargo (anzi: narcosi), nella quale sono stati regalati dal 1860 ai nostri giorni.

I nostri Popoli sono cioè diventati sempre più determinati nel fare i primi passi verso lo sviluppo, il progresso e verso quella civiltà che era un loro «bagaglio» e una loro ricchezza, un loro obiettivo prioritario. Soprattutto hanno compreso che devono lottare per ritornare in quei Consessi Internazionali e sovranazionali, dai quali ancora oggi sono esclusi proprio per l’antistorica condizione coloniale.

Per completare la «cronaca» di questo tormentato periodo della storia della Sicilia possiamo anticipare che con il «Plebiscito», falso e bugiardo, del 21 ottobre 1860, si confermò ciò che si sarebbe dovuto con ogni mezzo negare. E cioè che la Sicilia, già nel mese di maggio del 1860 era diventata una colonia di sfruttamento interna al Regno Sabaudo (in qualsiasi modo denominato)…

In questa sede ricostruiremo le principali vicende che avevano determinato e caratterizzato la «conquista» della Sicilia e la sua riduzione in colonia interna del Regno d’Italia. Il tutto al servizio del recupero della verità.

Con questo nostro lavoro, che sottoponiamo all’attenzione ed al giudizio dei lettori, non possiamo ovviamente parlare di tutto, ma abbiamo cercato di spiegare – in ordine logico e cronologico e con la speranza di non trascurare alcuno dei fatti principali – quanto avvenne in Sicilia e nella parte continentale del Regno delle Due Sicilie, appunto dal mese di maggio del 1860 e per il quinquennio successivo.

Ribadiamo che consideriamo il diritto alla verità come diritto fondamentale (fino ad oggi, di fatto, negato) dei Popoli del soppresso Regno delle Due Sicilie.

CAPITOLO PRIMO/  5 maggio 1860: da Quarto i Mille prendono il mare. La prima tappa sarà Talamone

Una sera nel porto di Genova…

La sera del 5 maggio 1860 dal porto di Genova fu allontanata la polizia portuale e furono allontanati anche curiosi e «perditempo». C’era nell’aria qualcosa di grosso che tutti ben conoscevano, ma della quale era assolutamente vietato fare cenno. Due piroscafi, il Lombardo ed il Piemonte, si dondolavano tranquillamente nella rada.
Avevano da poco cambiato proprietario. Il loro acquisto era stato trattato ed operato riservatamente da emissari del Governo Piemontese con il sig. Fauchet, amministratore della Società Armatrice Rubattino. Quei due piroscafi servivano, infatti, per trasportare in Sicilia Garibaldi ed un mi- gliaio di uomini. Si trattava del primo nucleo di quell’Armata che avrebbe conquistato la Sicilia.
Agli occhi del corpo diplomatico, dell’opinione pubblica e di non po- chi cronisti e dei futuri storici, il Lombardo ed il Piemonte, tuttavia, dovevano apparire catturati, nel corso di una imprevista ed audace azione piratesca, dai Garibaldini. Il finto colpo di mano verrà affidato a Nino Bixio (1) collaborato dal Capitano Castiglia (uno dei pochissimi Siciliani che partecipavano alla Spedizione garibaldina).
I due eroi, con un manipolo di volontari, penetrarono, quindi, nel porto, avanzando nell’oscurità. Successivamente, utilizzando una tartana, provvidenzialmente trovata ormeggiata nella banchina antistante a quel tratto di mare, si avvicinarono ai bastimenti.
A bordo del Piemonte e del Lombardo, in quel momento, si trovavano, al completo, i rispettivi equipaggi, che, però, guarda caso, stavano dormendo fin troppo sodo…
Il tutto con assoluta fedeltà al copione. Ovviamente.

LA ‘CATTURA’ DEI PIROSCAFI PIEMONTE E LOMBARDO – I volontari si arrampicarono sui due vapori (non casualmente privi di sentinelle) e, armati di revolver, finsero di svegliare dal loro sonno i marinai, compresi gli uomini che avrebbero dovuto fare la guardia. Quindi costrinsero «i fuochisti ad accendere le caldaie, i marinai a salpare l’ancora, i macchinisti a prepararsi al loro mestiere», «tutti a sgomberare, a pulire il bastimento, ad allestirlo in fretta per la partenza. E così avrebbero fatto – conclude un nostro testimone – col massimo ordine e silenzio e non senza molti sorrisi d’ironia per quella farsa con cui l’epopea esordiva».(2)
Aggiungiamo che Bixio, subito dopo, avrebbe fatto un discorsetto ai marinai, i quali, peraltro, avevano provveduto per tempo a salutare le ri- spettive famiglie, lasciando un gruzzoletto di soldi, maggiore di quello che di solito lasciavano per le frequenti lunghe assenze che la vita di marittimo comportava.
Quando si dice le coincidenze!

LA RECITA – In sostanza, il braccio destro avrebbe detto agli stessi marinai che potevano scegliere fra tornare a casa o arruolarsi con Garibaldi per conquistare (anzi: per liberare) il Regno delle Due Sicilie e per fare l’Unità d’Italia. I marinai, entusiasti, avrebbero detto di scegliere, seduta stante, la seconda opzione. Non a caso si erano portati anche la biancheria di ricambio.
Quarto, nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860, si parte!…
Le operazioni di messa in moto dei due piroscafi sarebbero state lente, complicate, confuse. E avrebbero richiesto diverse ore. Garibaldi, nella vicinissima borgata di Quarto, attende nervoso e preoccupato. Comincia già a sospettare che Bixio abbia fatto fiasco, nonostante tutto fosse stato preparato, per filo e per segno. Nei minimi dettagli, insomma.
Tuttavia, c’è da dire che anche la presenza a Quarto di Garibaldi, alloggiato a Villa Spinola, e la concentrazione di quegli oltre Mille volontari, con non pochi accompagnatori, erano ufficialmente un segreto. Così come era un segreto il fatto che gli alberghi di Genova e dintorni erano zeppi di clienti e che non tutti vi avevano trovato alloggio. Molti bivaccavano nei dintorni. Erano quei segreti all’italiana che avrebbero tanto affascinato i lettori dei giornali Inglesi in tutto il mondo. E avrebbero in seguito dato modo all’agiografia risorgimentale di avvalorare la tesi della spontaneità dell’iniziativa.
Finalmente, al largo dello «scoglio di Quarto», comparvero, sbuffando, i due piroscafi che si fermarono, però, prudentemente a debita distanza dalla riva. Non vi saranno problemi, perché, fortunatamente, sono già belle e pronte tante barche di ogni tipo per portare i Mille a bordo dei due colossi del mare. A questo punto entra in scena Garibaldi.
Ecco cosa scrive in proposito l’Abba:
«… Dinanzi, sullo stradale che ha il mare lì sotto, v’era gran gente e un bisbiglio e un caldo che infocava il sangue. La folla oscillava: “Eccolo! No, non ancora!”. E invece di Garibaldi usciva dal cancello qualcuno che scendeva verso il mare, o spariva per la via che mena a Genova. Verso le dieci la folla fece largo più agitata, tacquero tutti, era Lui!».(3)

I MILLE SCORTATI DA CAVOUR E DAGLI INGLESI – “Le numerose barche, poterono, così, avere l’ordine di procedere al traghettamento dei volontari sui piroscafi. Anche questa operazione durerà diverse ore. Ma non c’è fretta. Nessuno insegue i Garibaldini o minaccia di interromperne le manovre maldestre. Una sola condizione: la consegna del silenzio. Nessuno deve sapere niente… (quantomeno ufficialmente).
La prima sosta è prevista a Talamone, in Toscana. Ed in tale direzione i due piroscafi procedono tranquillamente. Appena si sono allontanati abbastanza dalle acque di Quarto, il Piemonte ed il Lombardo vengono seguiti con discrezione da alcune navi da guerra Piemontesi, agli ordini dell’Ammi- raglio Persano. Ufficialmente le navi da guerra Piemontesi dovrebbero inseguire e catturare quei pirati, che hanno avuto l’ardire di rubare le due navi.
Ma i veri ordini in merito li ha dati riservatamente e per iscritto il Capo del Governo, Camillo Benso conte di Cavour, allo stesso Persano e sono fin troppo chiari, anche per il politichese dell’epoca:
«Vegga di navigare – gli scrive – tra Garibaldi e gli incrociatori napolitani. Spero m’abbia capito».
In sostanza, la flotta piemontese non dovrà assolutamente raggiungere né bloccare la spedizione garibaldina. La dovrà soltanto proteggere da eventuali attacchi della Marina da Guerra Duosiciliana. L’Ammiraglio Persano non è certamente un’aquila, ma sa comprendere fin troppo bene ciò che Inglesi e Governo Piemontese gli ordinano di fare, di volta in volta.
Prescindendo dall’affidabilità del Cavour e del Persano, gli Inglesi, a loro volta, avevano adottato già qualche precauzione. A debita distanza della flotta piemontese, infatti, vi erano alcune navi da guerra britanniche che avevano preso sotto protezione i nostri eroi e le navi Piemontesi.
E li scorteranno fino alle acque territoriali siciliane. Qui avrebbero trovato altre navi britanniche.

L’ACCORDO TRA GARIBALDI E VITTORIO EMANUELE II – Insomma: le precauzioni del Governo di Londra non sono mai troppe. E saranno sempre utili, se non necessarie.
Il giorno 7 maggio 1860, l’Abba ci descrive, con i soliti intenti agiografici, il momento della lettura dell’ordine del giorno:
«La missione di questo corpo sarà, come fu, basata sull’abnegazione, la più completa davanti alla rigenerazione della patria. I prodi Cacciatori servirono e serviranno il loro paese colla devozione e disciplina dei migliori corpi militanti, senza altra speranza, senz’altra pretesa che quella della loro incontaminata coscienza. Non gradi, non onori, non ricompensa, allettarono questi bravi; essi si rannicchiarono nella modestia della vita privata, allorché scomparve il pericolo; ma suonando l’ora della pugna, l’Italia li rivede ancora in prima fila ilari,

volenterosi e pronti a versare il loro sangue per essa. Il grido di guerra dei Cacciatori delle Alpi è lo stesso che rimbombò sulle sponde del Ticino or sono dodici mesi: “Italia e Vittorio Emanuele!”, e questo grido ovunque pronunziato da noi incuterà spavento ai nemici dell’Italia».(4)
Un particolare poco evidenziato: i Garibaldini sono a tutti gli effetti incorporati nell’Esercito Sabaudo, nel Corpo dei «Cacciatori delle Alpi».
Ed è questa una situazione a dir poco scandalosa.
Dai punti di vista morale, politico, giuridico e costituzionale resta il fatto che il proclama, che tanto fa commuovere l’Abba, altro non era che un’altra dimostrazione di come, fin dall’inizio, si fosse progettato di imporre alla Sicilia l’annessione al Regno di Vittorio Emanuele II. A prescindere dalla volontà dei Siciliani ed a prescindere dal plebiscito che, falso e spudorato, si sarebbe svolto soltanto il 21 ottobre di quell’anno.
Alcuni repubblicani intransigenti, indignati (pochissimi, per la verità), avrebbero successivamente tagliato la corda e se ne sarebbero andati. Altri, ben sistemati nella macchina unitaria, sarebbero rimasti.
Per Garibaldi il problema non esisteva. Fra l’altro il Nizzardo era legato, oltre che dalle tante affinità culturali e morali, anche da sincero affetto a Vittorio Emanuele II. Con questi aveva addirittura un filo diretto di costante intesa e di reciproca complicità. Senza però escludere qualche rivalità per il ruolo di prima donna del Risorgimento. Rivalità che però non riusciva a scalfire l’amicizia né i vincoli di consorteria… se non per brevi periodi.

ANCHE I REPUBBLICANI SUL LIBRO PAGA DEI BRITANNICI – Luigi Russo così scrive: «Il proclama fondeva in una sola unità i Mille ed i Volontari della campagna alpina dell’estate precedente; ma non tutti furono contenti delle parole del Generale. Il motto “Italia e Vittorio Emanuele!” garbò poco ai mazziniani, i quali avevano sperato che in Garibaldi, una volta in mare e con la camicia rossa, risorgesse la fede e l’istinto repubblicano.» […] (5)
E lo stesso Abba, giudicando quell’episodio a distanza di anni, così lo racconta con la sua consueta benigna equanimità:
«Molti non si sapevano liberare da certo scontento che aveva la- sciato loro il motto monarchico; ma la disciplina volontaria era forte. Difatti si staccarono poi dalla spedizione e se ne tornarono di là, alle loro case, soltanto sei o sette giovani cari. Seguivano il sardo Bruno Onnis che del motto “Italia e Vittorio Emanuele!” era rimasto quasi offeso. Repubblicano inflessibile, si era imbarcato a Genova sperando forse che Garibaldi, una volta in mare, si ricordasse d’essere anche egli repubblicano; ma deluso, ora se ne andava e se ne andavano con lui quei pochi, però senza che fosse fatto a loro nessun rinfaccio. Rinunciavano per la loro idea ad una delle più grandi soddisfazioni che cuor di allora potesse avere, e il sacrificio meritava rispetto».(6)
Quello che i memorialisti omettono, talvolta, di puntualizzare è che non pochi repubblicani, taluni diventati poi Padri della Patria, erano (pure loro!), nel libro paga del Governo Britannico già da tempo. Non si possono più dissociare, quindi, dal grande progetto unitario, proprio nel momento in cui questo sta per essere realizzato.
E sono costretti a fare buon viso a cattiva sorte…(Fine seconda puntata/continua)

Foto tratta da felicitapubblica.it

(1) Nino Bixio (nato a Genova nel 1821 e morto a Sumatra nel 1873) era di fatto il numero due della spedizione dei Mille, Luogotenente e uomo di fiducia di Garibaldi. Personaggio molto discusso. Diventò decisamente impopolare in Sicilia, soprattutto per la fucilazione, ordinata a Bronte il 10 agosto del 1860, di cinque cittadini (fra cui l’avvocato Nicolò Lombardo) sospettati di essere coinvolti nella sanguinosa sommossa di qualche giorno prima. Il tutto senza prove e per compiacersi gli Inglesi che avevano tanto aiutato l’impresa garibaldina. Sia durante la spedizione garibaldina del 1860, sia nella sua attività politica successiva, Bixio usò sempre toni sprezzanti verso i Siciliani

(2) Giuseppe Guerzoni, Vita di Bixio, pag. 158, Barbera, 1875. Testimonianza, questa, ripresa da Lorenzo Bianchi nel commento all’edizione del 1955 del testo Da Quarto al Volturno, di Giuseppe Cesare Abba, pagg. 28-29, Zanichelli.

(3) G. C. Abba, op. cit., pag. 18.

(4) Lo stesso proclama sarà letto, come vedremo, da Garibaldi in persona, dopo lo sbarco a Talamone, di fronte a tutto l’esercito garibaldino schierato. Peccato che in Sicilia troppi intellettuali e troppi scrittori continuino a parlare di un Garibaldi uomo sincero ed in perfetta buona fede, democratico, repubblicano e persino autonomista. Ingannato, però, da altri… La verità è che nel 1860 furono traditi ed ingannati soltanto i Siciliani.

(5) Luigi Russo, nelle note al libro Da Quarto al Volturno, di G. Cesare Abba, pag. 118, Sellerio, 2010.

(6) Ibidem.

Prima Puntata

fonte

Read More

L’Inghilterra, il Regno delle due Sicilie e l’unità d’Italia: come provare a creare uno stato satellite

Posted by on Mar 4, 2019

L’Inghilterra, il Regno delle due Sicilie e l’unità d’Italia: come provare a creare uno stato satellite

Secondo la «logica della scacchiera», un’Italia unita faceva comodo a Londra come contraltare a Parigi. Ma prima occorreva demolire il Regno delle Due Sicilie, non disposto a fare «l’ascaro» di Sua Maestà Britannica. Protesa nel Mediterraneo, con migliaia di chilometri di coste da difendere, l’Italia unita voluta e sostenuta da Londra sarebbe stata sempre sotto ricatto della potente flotta inglese. Un progetto che non andò però sempre per il verso giusto (per gli inglesi). Questa è l’immagine che emerge dal colloquio di Eugenio Di Rienzo, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma «La Sapienza» e direttore della «Nuova Rivista Storica». Di Rienzo si è occupato dei problemi relativi ai rapporti fra le potenze europee e lo Stato italiano pre-unitario dalla posizione più strategica: il Regno delle Due Sicilie. Per questo con lui verranno esaminati in questa intervista argomenti che sono più ampiamente trattati nel suo volume Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee, 1830-1861, d’imminente pubblicazione per i tipi di Rubbettino.

Durante il XVI e il XVII secolo l’Italia esercita un grande fascino sull’Inghilterra. Questa fascinazione continua nei secoli successivi e si estende anche al Mezzogiorno. Per tutti i viaggiatori inglesi, l’Italia del Sud appare come un museo a cielo aperto abitato, però, da popolazioni incivili. Nasce allora un pregiudizio anti-italiano e in particolare anti-meridionale? Un pregiudizio fondato?

«Anche se l’espressione un “paradiso abitato da diavoli” riferita a Napoli e alla Campania fu coniata, come ricordava Benedetto Croce, da Daniele Omeis, professore di morale presso l’Università di Altdorf in Germania che, nel 1707, pronunciò una prolusione accademica, intitolata appunto “Regnun Neapolitaum Paradisus est, sed a Diabolis habitatus”, questo giudizio ritorna come un motivo ricorrente nei diari e nelle corrispondenze dei gentlemen inglesi. Lo spettacolo delle meraviglie artistiche e naturali del Mezzogiorno era, infatti, oscurato dall’arretratezza, dalla povertà, dal degrado morale delle popolazioni e dall’inadeguatezza delle classi dirigenti. Se nel passato quelle regioni erano state la culla della civiltà classica, ora, esse apparivano il terreno di coltura di una plebe indocile, ignorante, superstiziosa, tendenzialmente delinquente: i lazzaroni di Napoli e i briganti della Calabria. Ricordiamo, però, che questo giudizio, pur basato su dati di fatto, era potentemente rafforzato da un pregiudizio religioso e anti-cattolico. Il culto di San Gennaro a Napoli e la fastosa e paganeggiante processione in onore di Santa Rosalia a Palermo apparivano, infatti, la testimonianza vivente di come il Papato e il clero avessero mantenuto volutamente le masse del Sud in una situazione di soggezione e di subalternità, utilizzando nel modo più spregiudicato, il precetto di Machiavelli, soprannominato dagli inglesi Old Nick (Vecchio Diavolo), secondo il quale la religione doveva essere instrumentum regni. Aggiungiamo, però, che i rapporti tra Regno di Napoli e Gran Bretagna non si limitarono a questi aspetti. Nel 1842, come illustrava un denso articolo, pubblicato sull’autorevolissimo “Journal of the Statistical Society of London”, una quota rilevante della bilancia commerciale britannica era rappresentata dall’importazione di materie prime provenienti dalla Sicilia. L’ingente traffico era costituito da vino, olio d’oliva, agrumi, mandorle, nocciole, sommacco, barilla e soprattutto dallo zolfo (utilizzato per la preparazione della soda artificiale, dell’acido solforico e della polvere da sparo), che copriva il 90% della richiesta mondiale e di cui venti ditte inglesi avevano ottenuto, di fatto, la prerogativa esclusiva, per l’estrazione e lo sfruttamento, grazie al pagamento di un modico compenso».

Quando i Borbone furono ridotti al possesso della sola Sicilia dall’invasione napoleonica (1805) si trovarono sotto una pesante tutela inglese. Quanto durò l’influenza britannica su Napoli dopo il Congresso di Vienna, e come si manifestò?

«Dopo il 1815, Londra non prese in considerazione la possibilità di un intervento indirizzato a guadagnarle una presenza politico-militare nella Penisola. Il principio della non ingerenza negli affari italiani registrò, tuttavia, una clamorosa eccezione per quello che riguardava il crescente interesse inglese a rafforzare la sua egemonia nel Mediterraneo e quindi a riguadagnare quella posizione di vantaggio, acquisita nel 1806 e ulteriormente incrementatasi poi, tra 1811 e 1815, grazie al protettorato politico-militare instaurato da William Bentick in Sicilia. Protettorato che aveva portato ad ampliare la colonizzazione economica dell’isola già avviata dalla fine del XVIII secolo, poi destinata a irrobustirsi nei decenni seguenti grazie all’attività delle grandi dinastie commerciali dei Woodhouse, degli Ingham, dei Whitaker e di altri mercanti-imprenditori angloamericani. Molto indicativa, a questo riguardo era la presa di posizione del primo ministro, Visconte Castlereagh che, il 21 giugno 1821, aveva ricordato che il dominio diretto o indiretto della Sicilia costituiva, ora come nel passato, un “indispensabile punto d’appoggio” per rendere possibile il controllo dell’Inghilterra sull’Europa meridionale e l’Africa settentrionale. Come, infatti, avrebbe sostenuto Giovanni Aceto, nel volume del 1827, “De la Sicile et de ses rapports avec l’Angleterre”, “quest’isola non rappresenta per l’Inghilterra soltanto un importante avamposto strategico, da preservare, ad ogni costo, da una possibile occupazione della Francia che la minaccia dalle sue coste, ma costituisce anche il centro di tutte le operazioni militari e politiche che il Regno Unito intende intraprendere nell’Italia e nel Mediterraneo”».

Il controllo del Mediterraneo centrale fu tra i principali motivi di conflitto tra Napoli e Londra: prima l’occupazione britannica di Malta, strappata a Napoleone (che a sua volta l’aveva tolta ai Cavalieri di San Giovanni, che riconoscevano la sovranità siciliana sull’isola) ma mai restituita ai Borbone, poi l’incidente dell’Isola Ferdinandea, infine la questione degli «Zolfi». Furono solo questioni geopolitiche o contarono anche altre considerazioni?

«Sicuramente interessi strategici e geopolitici dominarono la politica della Corte di San Giacomo verso le Due Sicilie dalla metà dell’Ottocento al 1860. Nel 1840, Palmerston usò tutta la forza della gunboat diplomacy per mantenere il monopolio inglese sugli zolfi siciliani, ordinando alla Mediterranean Fleet di catturare il naviglio napoletano e di condurlo nelle basi di Malta e di Corfù con un vero e proprio atto di pirateria. Nel 1849, sempre Palmerston, sostenne la rivoluzione separatista siciliana con l’obiettivo di fare dell’isola uno Stato autonomo retto da un principe di Casa Savoia. Nel corso della Guerra di Crimea, ancora Palmerston, propose più volte agli Alleati di effettuare azioni intimidatorie contro il Regno di Ferdinando II, il quale aveva mantenuto una neutralità indulgente e più che benevola verso la Russia. Soltanto l’opposizione della Regina Vittoria impedì nel settembre del 1855 una “naval demonstration” nel golfo di Napoli che, nelle intenzioni del primo ministro, avrebbe dovuto favorire un’insurrezione destinata a rovesciare i Borbone. Il ricorso alla politica delle cannoniere, per ridurre o azzerare la sovranità delle Due Sicilie, trovò, invece, il pieno consenso dell’opinione pubblica del Regno Unito. Un editoriale del “Times” sostenne, infatti, che la visita della flotta britannica doveva ottenere gli stessi risultati delle missioni in Giappone guidate dal Commodoro Matthew Calbraith Perry, nella baia di Edo, tra 1853 e 1854, per ridurre a ragione la resistenza dello shogun, Ieyoshi Tokugawa, che si era opposto alla penetrazione commerciale statunitense. Così come gli Stati Uniti in Estremo Oriente, terminava l’articolo, anche la Gran Bretagna non poteva tollerare l’esistenza di “un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia”. Naturalmente l’ingerenza inglese si ammantava di pretesti umanitari: la volontà di smantellare il regime dispotico di Ferdinando II e di sostituirlo con un sistema costituzionale e liberale nel quale fossero garantiti i diritti politici e civili. Prendendo a pretesto la denuncia di Gladstone che, nelle “Two Lettersto the Earl of Lord Aberdeen” del 1851, aveva definito il regime di Ferdinando II “la negazione di Dio”, Palmerston si servì di fondi riservati del Tesoro britannico, per finanziare una spedizione destinata a liberare Luigi Settembrini (autore, nel 1847, della virulenta “Protesta del popolo delle due Sicilie”), Silvio Spaventa e Filippo Agresti condannati a morte nel 1849, la cui pena era stata commutata nel carcere a vita da scontare nell’ergastolo dell’isolotto di Santo Stefano. L’operazione, progettata per la tarda estate del 1855, non arrivò a compimento ma il Secret Service Fund sarebbe stato utilizzato negli anni successivi e fino al 1860 per destabilizzare  il Regno delle Due Sicilie».

Quale ruolo ebbe l’Inghilterra nella caduta del Regno di Napoli?

«Rosario Romeo nella sua biografia di Cavour definì l’azione inglese di sostegno allo sbarco dei Mille e alla campagna di Garibaldi come una “leggenda risorgimentale”. Si tratta però di un’interpretazione sbagliata. Il supporto militare, economico, diplomatico del Regno Unito fu, invece, indispensabile alla cosiddetta “liberazione del Mezzogiorno”. Come rivelò il dibattito, svoltosi nella Camera dei Comuni, il 17 maggio 1860, la presenza delle fregate inglesi nella rada di Marsala, che impedì la reazione della squadra borbonica, non fu una semplice coincidenza ma un atto deliberato deciso con piena cognizione di causa dal gabinetto britannico. Il sostegno di Londra non si esaurì in questo episodio. In aperta violazione al Foreign Enlistment Act del 1819, che proibiva appunto il reclutamento di sudditi inglesi in eserciti stranieri, Palmerston e il ministro degli Esteri Russell tollerarono e  incoraggiarono  “the subscription for the insurrectionists in Sicily” promossa dal pubblicista italiano Alberto Mario, alla quale aderirono esponenti del partito whig e alcuni ministri tutti egualmente disposti a elargire “ingenti somme da utilizzare nella guerra contro il Regno delle Due Sicilie” e quindi a sostenere economicamente una campagna di arruolamento destinata a ingrossare le fila dei ribelli in camicia rossa. Inoltre la flotta inglese collaborò tacitamente con quella piemontese nella protezione dei convogli che trasportarono rinforzi di uomini e materiali destinati a raggiungere Garibaldi. E non basta! Dalla corrispondenza tra Cavour e l’ammiraglio Persano dei primi del luglio 1860, apprendiamo, infatti, che alla preparazione del “pronunciamento” contro Francesco II, che sarebbe dovuto scoppiare a Napoli per prevenire un’insurrezione mazziniana, doveva fornire un apporto fondamentale “il signor Devicenzi, amico di Lord Russell e di Lord Palmerston, che avrà mezzo d’influire sull’ambasciatore di Sua Maestà britannica Elliot e l’ammiraglio comandante della squadra inglese”. Fu solo, poi, grazie al veto posto da Londra che Napoleone III rinunciò ad attuare un blocco navale nello stretto di Messina che avrebbe potuto impedire a Garibaldi di raggiungere le coste calabre. Non si trattava evidentemente di favori disinteressati. Alla fine di settembre del 1860, Palmerston avrebbe ricordato, infatti, all’esule italiano Antonio Panizzi (divenuto direttore della biblioteca del British Museum) che “se Garibaldi aveva potuto occupare Napoli ed esser causa che il Re scappasse a Gaeta, ciò fu dovuto all’Inghilterra che, invitata dalla Francia a impedire che dalla Sicilia si venisse ad attaccare gli Stati di terraferma, vi si rifiutò”, aggiungendo che “l’aiuto morale e l’influenza britannica non furono meno utili all’Italia delle armi francesi e che sarebbe stata mera ingratitudine per parte dell’Italia lo scordarselo”».

E’ possibile dire, quindi, che con l’unità il Regno d’Italia eredita sostanzialmente la stessa posizione di debolezza geopolitica delle Due Sicilie e che Londra acquista, dopo il 1861, una sorta di protettorato sulla politica mediterranea del nostro Paese?

«Sicuramente sì. Anche se forse il termine “protettorato” rappresenta un’espressione troppo forte, non si può non riconoscere che gli argomenti con i quali Palmerston giustificava l’azione inglese a favore della conquista piemontese delle Due Sicilie miravano proprio a quest’obiettivo. E credo che valga la pena di ricordarli alla fine di questa intervista. Nella lettera inviata alla Regina Vittoria, il 10 gennaio 1861, Palmerston sosteneva che, considerando “la generale bilancia dei poteri in Europa”, uno Stato italiano esteso da Torino a Palermo, posto sotto l’influenza della Gran Bretagna ed esposto al ricatto della sua superiorità navale, risultava “il miglior adattamento possibile” perché “l’Italia non parteggerà mai con la Francia contro di noi, e più forte diventerà questa nazione più sarà in grado di resistere alle imposizioni di qualsiasi Potenza che si dimostrerà ostile al Vostro Regno”. Parole profetiche che, se si esclude l’intervallo della politica estera fascista, la Storia, fino ai nostri giorni, non ha mai completamente smentito. Il Trattato d’alleanza con gli Imperi Centrali, firmato dal governo italiano nel maggio del 1882, non modificò a nostro favore lo status quo mediterraneo che si era venuto creando con l’insediamento francese in Tunisia e di conseguenza rafforzò la nostra situazione di dipendenza dal Regno Unito. Considerato che, nei problemi mediterranei, Germania e Austria non si ritenevano impegnati ad alcuna solidarietà con il suo alleato, l’Italia, per arginare l’espansionismo di Parigi, si trovò obbligata ad orbitare nella sfera d’influenza di Londra, la quale si mostrava desiderosa di stringere un patto di collaborazione con il nostro Paese che le avrebbe consentito, ad un tempo, di mettere in minoranza le forze francesi e di impedire una possibile intesa franco-italiana, il cui effetto avrebbe potuto rendere difficili le comunicazioni tra Gibilterra, Malta e l’Egitto. Il 12 febbraio del 1887 veniva firmato così un accordo con il quale il governo britannico e quello italiano s’impegnavano a “mantenere l’equilibrio mediterraneo e a impedire ogni cambiamento che, sotto forma di annessione, occupazione, protettorato, modifichi la situazione attuale con detrimento delle due Potenze segnatarie”. Con questa convenzione, se l’Italia s’impegnava ad appoggiare la penetrazione inglese in Egitto, la Gran Bretagna si dichiarava disposta “a sostenere, in caso d’ingerenza di una terzo Stato, l’azione italiana su qualunque punto del litorale settentrionale africano e particolarmente in Tripolitania e Cirenaica”. Rinnovato, nel 1902, questo accordo ci avrebbe consentito di portare a termine l’impresa libica nel 1911. Anche dopo questo successo, l’Italia rimase, comunque, per Londra un “volenteroso secondo”, destinato a svolgere un ruolo di sostegno al suo sistema marittimo, ma al quale non poteva essere consentito una più ampia espansione nell’area mediterranea. Che questo fosse il ruolo riservato alla nostra Nazione lo dimostrava, in tutta evidenza, nel 1913, la ferma di presa posizione del Regno Unito che escludeva in linea di principio “la possibilità della conservazione delle isole dell’Egeo, già appartenenti ai domini turchi, da parte del governo di Roma, perché una simile soluzione minaccerebbe di rompere l’equilibrio politico nella parte orientale del Mediterraneo”. Una dichiarazione, questa, che conteneva in nuce le linee maestre della politica inglese successive alla fine della Prima guerra mondiale, quando Londra, d’intesa con Parigi, operò instancabilmente per impedire la realizzazione integrale delle aspirazione italiane sull’Adriatico, appoggiando e fomentando le ambizioni della Iugoslavia, dellAlbania e della Grecia in questo cruciale settore strategico».

Emanuele Mastrangelo

fonte http://www.nuovarivistastorica.it/?p=3211

Read More