Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Suggestioni Musicali in Viaggio Per L’europa

Posted by on Nov 15, 2019

Suggestioni Musicali in Viaggio Per L’europa

COMUNICATO STAMPA

Suggestioni Musicali in Viaggio Per L’europa Sabato 16 novembre 2019 alle ore 20.30 nell’ambito della Stagione Concertistica dell’Associazione Il Canto di Virgilio Concerti al Centro ci sarà un imperdibile Concerto Suggestioni Musicali in Viaggio Per L’europa……………………………….

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La lingua napoletana (III)

Posted by on Nov 5, 2019

La lingua napoletana (III)

L’unità linguistica delle Due Sicilie

Dopo questo excursus puramente esemplificativo della notevole produzione letteraria in lìngua napolitana nei secoli precedenti l’ottocento, torniamo al discorso iniziale ed osserviamo come proprio a partire dagli anni in cui il nostro Regno perde l’indipendenza, vede saccheggiate le proprie risorse economiche e finanziarie, costretta al’emigrazione una gran parte della popolazione, si assiste alla nascita di una vera e propria poesia napolitana, pienamente autonoma rispetto ad altre correnti letterarie dell’epoca, il cui massimo esponente è Salvatore Di Giacomo (Napoli, 1860 -1934), autore di componimenti poi diventati canzoni, come A Marechiaro, Era de maggio, ‘E spingule francese e di numerosi drammi, il più famoso dei quali è senz’altro Assunta Spina.

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La lingua napoletana (II)

Posted by on Nov 4, 2019

La lingua napoletana (II)

L’unità linguistica delle Due Sicilie

di Massimo Cimmino

Quanto detto è stato attuato, in particolare, inducendo l’erronea convinzione che le lingue preunitarie dovessero considerarsi semplicemente “dialetti”, intesi quali versioni regionali dell’unica lingua degna di questa nome, il toscano, ufficializzato come “lingua italiana”.
Ma, a ben vedere, si è fatto strumentalmente ricorso ad un’accezione del tutto secondaria del termine “dialetto”, che, derivato dal greco diàlektos, ha il primigenio significato di “discussione”: basti pensare che la dialettica è appunto l’arte della discussione.


La differenza tra lingua e dialetto, in effetti, è di ordine politico-sociale, non linguistico. Il linguista norvegese Binar Haugen (1906 – 1994) ha provocatoriamente liquidato questa distinzione affermando testualmente che: “Una lingua è un dialetto con alle spalle un esercito e una flotta”.
Invero, il napolitano ed il siciliano sono lingue romanze derivate – al pari del toscano – direttamente dal latino. Secondo una classificazione linguistica piuttosto diffusa, tali lingue (toscana, napoletana e siciliana) apparterrebbero al ceppo cosiddetto dei “dialetti centro-meridionali”, geograficamente distinto dal ceppo dei “dialetti settentrionali” (suddistinti in gallo-italici e veneti) da uno spartiacque che si ottiene tracciando una linea ideale che parte da Massa e finisce a Senigallia, più o meno ricalcante la cosiddetta “linea gotica”.
A fronte di questa teoria, intesa a far rientrare queste lingue in una cornice comunque “italiana”, vi è quella, di più ampio respiro, sostenuta dallo svizzero Walther von Wartburg (Riedholz, Soletta, 1888 – Riehen, Basilea, 1971), e più tardi ripresa dal tedesco Heinrich Lausberg (Aquisgrana 1912 – Munsler 1992). Questi insigni studiosi di linguistica dividono l’area in cui sono parlate le lingue romanze in due grandi settori: la Romània occidentale, nella quale rientrano le lingue parlate nella parte continentale dell’Italia geografica, e la Romània orientale, che comprende, tra le altre, le lingue parlate nella parte peninsulare di quest’ultima, nonché il corso ed il siciliano.
Va ricordato, a questo punto, che l’abate Ferdinando Galiani, famoso economista e letterato, nella sua opera “Del dialetto napoletano”, data per la prima volta alle stampe nel 1779, rivendica il primato della poesia in “volgare” alla cosiddetta “scuola siciliana”, un movimento culturale formatosi alla corte di Federico II di Hohenstaufen tra il 1230 ed il 1250. Principale esponente di tale scuola fu Jacopo da Lentini (1210-1260), che Dante nella “Commedia” chiamerà “il Notaro” (Purgatorio, Canto XXIV, 56). Questa tesi è oggi unanimemente condivisa dagli studiosi della materia, dovendosi precisare che la lingua usata dai poeti siciliani era in realtà il napolitano, detto anche “pugliese” per essere all’epoca la Puglia la più importante regione del Regno. Alcune canzoni citate da Dante nel De vulari eloquentia contengono espressioni prettamente napolitane. Galiani fonda il primato del napolitano sulla presenza nella nostra lingua del maggior numero di vocaboli di immediata derivazione latina. Volendo fare un solo esempio tra tanti, basti pensare ai termini di cummare e cumpare, che, con la sola elisione della lettera “t”, riproducono le espressioni cum matre e cum patre, stando ad indicare coloro che condividono con la madre e, rispettivamente, con il padre, la responsabilità dell’educazione del figlio.
D’altra parte, la stessa precedenza data nella nostra cultura al nome proprio rispetto al cognome affonda le sue radici nella latinità. I romani, infatti, individuavano la persona – nell’ordine – con il praenomen, corrispondente al nostro nome di battesimo, con il nomen, che designava la gens di appartenenza, ed infine con il cognomen, equivalente al nostro soprannome. La tesi del Galiani trova conforto nella considerazione che i primi documenti ufficiali in “volgare” sono i cosiddetti “placiti cassinesi”, contenenti dichiarazioni giurate scritte in napolitano, risalenti al periodo che va dal 960 al 963 ed aventi ad oggetto l’appartenenza di certe terre ai monasteri benedettini di Capua, Sessa e Teano. Con i re aragonesi, poi, il napolitano acquista dignità di lingua ufficiale, sostituendo il latino negli atti e nei documenti. Nei secoli successivi, pur rientrando il Regno nell’orbita dell’impero spagnolo, si assiste nondimeno ad una notevole produzione letteraria in lingua napoletana, nell’ambito della quale giganteggiano le figure di Giulio Cesare Cortese (Napoli, 1570-1640), autore tra l’altro de La Vaiasseide, e di Giambattista Basile (Giugliano, 1566-1632), che ne Lo cunto de li curiti ovvero Lo trattienemento de li piccirilli raccoglie per la prima volta le fiabe più celebri (da Cenerentola alla ), fiabe che ispireranno poi molti favolisti della moderna cultura europea, quali Perrault ed i fratelli Grimm.
Merita di essere ricordato Andrea Ferrucci (Palermo, 1651 – Napoli 1704), autore della celebre Cantata dei pastori (1698), recitata nei teatri popolari nella notte di Natale fino all’ottocento ed in anni recenti rivisitata e rappresentata, in particolare da Concetta e Peppe Barra. Tra i poeti di lingua napolitana troviamo anche Alfonso Maria de’ Liguori (Marianella, 1696 – Nocera de’ Pagani. 1787), il Vescovo poi canonizzato, che scrive e musica il canto natalizio Quanno nascette ninno.
Anche l’opera buffa muove i primi passi, a cavallo tra i secoli XVII e XVIII, in lingua napolitana. Un esempio di questo genere è II trionfo dell’onore di Alessandro Scarlatti (Trapani, 1660 – Napoli, 1725), scritta inizialmente su libretto in napolitano, poi italianizzato.

fonte http://www.quicampania.it/tradizioni/lingua-napoletana-02.html

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Paesi del Parco del Cilento e Vallo di Diano: Sacco

Posted by on Ott 16, 2019

Paesi del Parco del Cilento e Vallo di Diano: Sacco

Nel castello di Sacco, uno dei più grandi dell’Italia meridionale, Antonello Sanseverino principe di Salerno e di Diano, condusse la sua bellissima sposa Costanza, figlia di Federico da Montefeltro di Urbino e qui ordì la famosa Sacco contro il re di Napoli Ferdinando d’Aragona, conclusasi, per sua fortuna, nel 1487 con un provvidenziale accordo fra le parti.

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Napoli, Napoli di lava, di porcellana e di musica al Museo di Capodimonte

Posted by on Ott 15, 2019

Napoli, Napoli di lava, di porcellana e di musica al Museo di Capodimonte

Napoli, Napoli di lava, di porcellana e di musica”, in mostra a Capodimonte, ci porta in un viaggio nel tempo: nella Napoli capitale di un Regno. È il 4 novembre 1737, giorno onomastico del re Carlo di Borbone, che appena tre anni prima ha conquistato il trono. E già si inaugura (onore alle maestranze napoletane) il teatro San Carlo, che mette in scena l’opera “Achille in Sciro” musicata dal pugliese Domenico Sarro. L’architetto ne è un ufficiale dell’esercito borbonico: il leccese Antonio Medrano. Il quale è anche l’architetto della reggia di Capodimonte.

Proprio in questa reggia settecentesca, che ha un bel po’ del fascino dell’epoca sua, è alloggiata la mostra, il luogo del nostro viaggio. Spettacolare ne è l’ingresso, tappezzato, tutt’intorno, da una coloratissima gigantografia, tra il rosso e l’oro, del teatro San Carlo. Al centro, troneggia un busto monumentale, ma è di cartapesta, della regina Maria Carolina.

Si erge da una enorme tazza da caffè, che ricorda la fondazione della fabbrica di ceramica di Capodimonte, voluta, nel 1743,  da Carlo di Borbone, che poi la distrugge, quando, nel 1759, deve partire per la Spagna per diventarne il re. Ma rifonda la fabbrica il figlio terzogenito di Carlo, Ferdinando, il marito, appunto, di Maria Carolina. E finissime porcellane sono poste un po’ dovunque nelle diciotto splendide sale della mostra (la cui anteprima è stata presentata da questa agenzia l’11 agosto 2019 ndr), dove ci immergiamo nello splendore della Napoli capitale e ne captiamo emotivamente il senso, affascinati dalla scenografia, dagli oggetti, dai manichini abbigliati con i costumi del San Carlo e dalle musiche d’epoca, che passano attraverso gli auricolari (che ci hanno fornito) e cambiano da una sala all’altra, interpretandone l’atmosfera.

Ogni sala mostra di Napoli un diverso aspetto. C’è la Napoli del Gran Tour, delle scoperte di Ercolano (1738) e di Pompei (1748), visitata dall’élite di tutto il mondo, attratta anche dalle contemporanee eruzioni del Vesuvio. Nella Sala dell’Eruzione, ne vediamo il fuoco, dipinto nelle vedute di Jacques Volaire, e ammiriamo un bellissimo centro-tavola in porcellana di Capodimonte, “Il carro del Sole”, posto sulle scure pietre laviche dell’allestimento, che ne esaltano il biancore.

E ancora materiali naturali vediamo nella Sala della Materia, che narra dell’interesse estetico e scientifico dell’ambasciatore inglese Lord William Hamilton per le singolarità di questa terra flegrea, ricca di acque e di fuoco. Poi vediamo le immagini napoletanizzate della Cina e dell’Egitto, nazioni con le quali Napoli ha, già nel Settecento, precoci relazioni, che, insieme alle più tarde  spedizioni europee, quelle inglesi in Cina e quella militare napoleonica in Egitto, suggeriranno una diffusissima moda.

Poi visitiamo la Napoli profondamente religiosa e quella spregiudicatamente mondana, che ama il gioco e l’azzardo e spudoratamente anche le donne, come dice la mano maschile di un manichino, che indugia, impertinente, coperta dal lembo di una gonna.

E c’è la Napoli dei ricchi e dei poveri, che qui appaiono vestiti in diverso modo  ma con stoffe simili, quasi per illustrare la particolarità di questa società napoletana, in cui i ricchi e i poveri vivono gomito a gomito, in una vicinanza fisica e anche umana, che raramente o mai si è realizzata altrove. Un’armonia sociale che sembra esserci soprattutto con il regno di Ferdinando IV, il napoletanissimo Re Borbone.

Ha otto anni quando è lasciato a Napoli, quale erede del trono, dal padre, che è chiamato a ricoprire il ruolo di re di Spagna. Fino ad allora, è stato affidato ad Agnese Rivelli, che gli fa da balia e poi lo alleva insieme a suo figlio Gennaro. È un’infanzia libera e giocosa quella del piccolo Ferdinando, che la passa in compagnia di Gennarino e dei ragazzini del popolo, che così conosce empaticamente e impara a usarne la lingua, i riti e i modi. I benpensanti storcono il naso.

Ma fatto sta che lui comprende e ama questo suo popolo ed è riamato. Re Ferdinando, a una lettera “confidenziale” da Londra dell’ambasciatore Domenico Caracciolo (1715/1789), che gli rivela notizie di piani stranieri contro il Regno e lo esorta a conquistare le terre italiane, risponde di non avere ambizioni e di non volere portare il suo popolo a una guerra. Un lunghissimo regno il suo, interrotto dalla Repubblica Napoletana del 1799, nata a imitazione di quella francese di dieci anni prima, e, dal 1806 al 1815, dal Regno dei napoleonidi Giuseppe Bonaparte e poi Gioacchino Murat

E vi furono guerre, morti e atrocità, che divisero la società napoletana. Ma Sylvain Bellenger, il direttore del Museo e del Real Bosco di Capodimonte, che è il creatore di questa storia napoletana e il curatore di questa splendida mostra, contempla i fatti e non li giudica e genialmente sintetizza il ritorno del Re Borbone nella grande bandiera borbonica che va a ricoprire l’immagine da conquistatore di Napoleone Bonaparte.

Ma il Regno dello stesso Ferdinando, come quello dei suoi successori, di Francesco I, di Ferdinando II e di Francesco II, non ha lo stesso splendore di prima. Ora molte cose cambiano e le vedute napoletane lo testimoniano. Queste, nel Settecento, libere dall’imposizione del tridimensionale spazio canonico, realizzano consapevolmente un mondo guardato nella prospettiva corale di un ampio spazio in movimento, immettendolo in lente curve serene ( cfr. “Lo Spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana. La scoperta di una prospettiva spazio-tempo” di A. Dragoni).

Dopo, le vedute non sono più così consapevoli e via via perdono le loro caratteristiche: vanno stemperando nel colore la loro costruzione, esprimendo il sentimento ideale di un uomo singolo, o si europeizzano, tendendo a perdere la propria identità.

Ma il nostro viaggio nel tempo è ancora una magnifica fiaba colorata, a lungo immaginata dal suo autore, che le dona una sinfonia di colori: quello delle tappezzerie delle sale, delle opere d’arte, dei vestiti e degli arredi d’epoca, assemblati in un unicum suggestivo. C’è tanta vita e gioia di vivere, sempre, in queste sale.  Ma il bianco morbido e luminoso delle vesti dei tanti pulcinella che vi incontriamo, sembra essere il colore di un sottile rimpianto, di un pianto sommesso per il sogno svanito di un amore perduto.

Infine, una sorpresa nella diciottesima e ultima sala della mostra: un grande sofà circolare vi invita a sdraiarvi per ammirare, stupiti,  balconi che si aprono sul verde e poi si chiudono, mentre appaiono strade napoletane, edifici e persone di epoche diverse, volti. Circolarmente e continuamente girano tutt’intorno, senza che abbiano una meta da raggiungere. È una metafora della vita nella fantasmagorica videoinstallazione di Stefano Gargiulo

 P.S.

“Napoli Napoli di lava, di porcellana e di musica” è una mostra-evento nata da un’idea di Sylvain Bellenger, che così ancora una volta esprime il suo amore per Napoli (per il quale è stata richiesta la cittadinanza onoraria). La mostra è realizzata con la collaborazione del Teatro San Carlo, degli Amici di Capodimonte, degli America Friends di Capodimonte e della casa editrice Electa.

Adriana Dragoni

fonte http://www.agenziaradicale.com/index.php/cultura-e-spettacoli/mostre/6004-napoli-napoli-di-lava-di-porcellana-e-di-musica-al-museo-di-capodimonte

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