Alta Terra di Lavoro

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CALABRIA, MOTTA S. LUCIA, IL PREMIO GIUSEPPE VILLELLA PER LA RIVISITAZIONE DEL RISORGIMENTO

Posted by on Ago 18, 2019

CALABRIA, MOTTA S. LUCIA, IL PREMIO GIUSEPPE VILLELLA PER LA RIVISITAZIONE DEL RISORGIMENTO

Nella splendida piazza Castello di Motta Santa Lucia, posta tra mare e boschi, si è svolta il 13 agosto la serata di consegna dei premi relativi al “Premio letterario Giuseppe Villella”, contadino calabrese diventato suo malgrado famoso quale vittima delle teorie razziste di Lombroso nei confronti dei meridionali, per via di un presunta “fossetta occipitale” da questi posseduta.

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IL RAZZISMO ANTIMERIDIONALE ALLE RADICI DELL’UNITÀ D’ITALIA

Posted by on Ago 6, 2019

IL RAZZISMO ANTIMERIDIONALE ALLE RADICI DELL’UNITÀ D’ITALIA

La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia e che, significativamente ed opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: ma così purtroppo non è stato. Hanno vinto ancora una volta l’ipocrisia e le verità nascoste di un risorgimento edulcorato da bugie e falsità che si continuano a propinare, senza soluzione di continuità, dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua ad ignorare che alla base di una mala unità d’Italia vi fu, come del resto continua ad esserci retaggio di quel passato, una ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a “liberare e civilizzare “ il Sud e la Sicilia. Infatti che non grande considerazione dei meridionali avevano, all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere, ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio che fu presidente del consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: ” In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un vaioloso”. Più o meno quello che esattamente 150 dopo canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato e capogruppo al comune di Milano Matteo Salvini: “Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati” . Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. D’allora niente è cambiato se non in peggio. Nino Bixio il paranoico massacratore di Bronte in una lettera inviata alla moglie tra l’altro così scriveva: “ Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”. Ma, ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il “brigantaggio”, a proposito dei territori in cui si trovò a operare, in una lettera inviata a Cavour, così si esprimeva: “Questa è Africa ! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861 durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene: “ Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, era solito raccomandare di “ non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. E dire che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. E che dire, poi, del generale Giuseppe Covone, anche lui mandato a reprimere il brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo, avendone piena facoltà che gli derivava dalle leggi speciali, di porre in stato d’assedio intere città, di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani, anch’egli, non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in pieno parlamento che: ” Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”. Ed infine per completare questo “bestiario” di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali, val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: “ La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa”. E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania, al più celebre fratello Ippolito, ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: ” Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome poiché sinora nel napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”. Questi i documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero a spese del sud, depredandolo, saccheggiandolo, uccidendo e massacrando i suoi abitanti, l’Unità d’Italia. Su questi pregiudizi, nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese, che poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giusepe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo che si affrettarono a dare una impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del meridione. Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra nord e sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei quaderni quando sostiene che: ” La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del nord. Queste non capivano – afferma Gramsci- che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”. L’impoverimento del meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che conquistando e colonizzando il sud ostacolandone in ogni modo la crescita prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell’Unità d’Italia, già direttore della Banca Nazionale degli Stati Sardi e amico personale di Cavour e, successivamente, governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: ” Il mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre”. E negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale, tenendo fede a questo sua spiccata vocazione antimeridionalista, fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del nord soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Ma, riprendendo l’analisi di Gramsci, si può in buona sostanza affermare che l’origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto nord-sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente. Scriveva il filosofo ceco Milan Kundera, protagonista della primavera di Praga, nel suo ” Il libro del riso e dell’oblio”, un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: “ Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. e qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato.” Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini, come abbiamo visto, aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di “liberatori” quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare la inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare, ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista del socialista Cesare Lombroso che assieme ad altri antropologi e criminologi come Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo, propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica, misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali, teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso, antropologo e criminologo, fu nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia che elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali, effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani. I settentrionali, come razza superiore, e i meridionali di stirpe negroide africana, razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze. Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al sud e, di conseguenza, la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato, nel gennaio del 1876, a Castiglione di Sicilia e, quindi, di appartenere ad una razza inferiore! Niceforo, in un suo libro del 1898, “ L’Italia barbara contemporanea”, descriveva il Sud come una grande colonia che, una volta conquistata e sottomessa, era da “civilizzare”. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa- sostiene ancora Gramsci- in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione. Il mezzogiorno è la palla al piede – si disse allora come si ripete pedissequamente oggi – che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono – secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci – biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per se incapaci, poltroni, criminali e barbari. Queste teorie portarono poi, nel corso degli anni, alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali come quando nelle città del nord si era soliti leggere cartelli tipo: ” vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali”. E ancora: “ non si affittano case ai meridionali”. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura ancora ai nostri giorni. Come si può, alla luce di tutto questo, parlare a tutt’oggi di Unità d’Italia o di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo paese? E certamente ancor più non ci si può indignare, da parte di insigni rappresentanti delle istituzioni, se oggi i meridionali, in occasioni di recenti manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli. Questi insigni rappresentanti delle istituzioni, farebbero bene ad indignarsi per il fatto che a Torino, il 26 novembre 2009, è stato inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso ricco di reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate, di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della razza meridionale ed a sancire che ancora ai nostri giorni esistono due Italie: quella del Nord, civile e progredita; quella del Sud barbara e arretrata. Questo in un paese civile sarebbe il minimo per indignarsi e tramutare questo deprecabile museo degli orrori e delle menzogne in un luogo di rispetto e raccoglimento, insomma in un sacrario. In Italia, purtroppo, basta perdere quattro a zero con la Spagna per essere, come sostengono Napoletano e Monti, orgogliosi di una nazionale che unisce gli italiani. Contenti loro.

fonte http://pocobello.blogspot.com/2012/07/il-razzismo-antimeridionale-alle-radici_07.html

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LE INTERPRETAZIONI DEL BRIGANTAGGIO di Ettore (da L’Alfiere n. 56)

Posted by on Ago 2, 2019

LE INTERPRETAZIONI DEL BRIGANTAGGIO di Ettore (da L’Alfiere n. 56)

C’è chi dice che se ne è scritto troppo. Chi vorrebbe archiviare la pratica una volta per sempre. Perché il brigantaggio è un argomento che scotta. Oggi più che mai. Noi crediamo invece che si tratti di un tema fondamentale per comprendere il passato, il presente e le linee di azione per il futuro del Sud. Per farlo, però, bisogna liberarsi dalle interpretazioni superate, tutte in varia misura condizionate dal punto di vista dei vincitori. A grandi linee, se ne possono individuare tre.

1- Brigantaggio come fenomeno esclusivamente criminale, provocato e tollerato dal malgoverno napoletano.

2- Rivolta sociale dei ceti subalterni contro la classe dei galantuomini

3- Rivolta anarcoide, del tutto priva di connotazioni politiche.

1- La prima tesi, che ha avuto un’ignobile appendice pseudo-scientifica nelle teorie razziste del piemontese Lombroso, è stata appoggiata, propagandata e sostanzialmente imposta dal governo sabaudo. È ormai completamente screditata, anche perché è scorretto e del tutto antiscientifico applicare categorie criminologiche a fenomeni di massa, come le sollevazioni popolari.

2- La tesi della rivolta sociale, che gli studiosi di matrice marxista preferiscono definire tout court lotta di classe, ha il merito di porre l’accento sulle profonde e radicate tensioni sociali che esistevano nel Regno del Sud e di riconoscere che nel decennio di sangue 1860-70 si verificò una vera e propria guerra civile. Questa impostazione nega che fra le vere motivazioni del brigantaggio vi fosse l’intento di restaurare la monarchia e sottolinea le ambiguità dei galantuomini, il cui unico obiettivo sarebbe stato quello di mantenere, attraverso il cambio di regime, l’ordine minacciato dai ceti “subalterni”. È una tesi traballante e lacunosa. Certamente, a differenza dei legittimisti in senso stretto, come Borges e gli altri stranieri, che intervengono nel Sud essenzialmente per la difesa di un principio e per contrastare una congiura internazionale liberal-massonica, i briganti prendono le armi innanzitutto per difendere la propria vita e il proprio mondo. Tuttavia non si può trascurare il dato, grande come una montagna, che le tensioni sociali del Sud alimentano una vera e propria insurrezione generale soltanto dopo l’ingresso nel Regno di eserciti stranieri che intendono abbattere la monarchia borbonica. La fedeltà del popolo delle Due Sicilie alla dinastia regnante dal 1734, del resto, è ammessa perfino dai più avveduti fra i risorgimentalisti, a cominciare da Benedetto Croce. Inoltre l’affermazione che la borghesia speculatrice appoggiò il sovvertimento politico allo scopo di conservare l’assetto sociale esistente trascura la macroscopica evidenza della lotta secolare condotta dai galantuomini per strappare la terra ai contadini e sabotare i progetti di riforma agraria varati dai sovrani borbonici; gli sforzi incessanti compiuti dai Borbone, con alterna fortuna, per sottrarre i contadini all’avidità dei possidenti, degli usurpatori di terreni, degli usurai, degli accaparratori di sementi e generi di prima necessità; la repentina distruzione o il rapido svuotamento, ad opera di garibaldini e sabaudi istigati dai collaborazionisti borghesi, delle istituzioni create dalla monarchia borbonica a tutela dei ceti meno abbienti (monti frumentari e pecuniari, sussidi per gli studenti bisognosi, ecc.). Ogni dinamica sociale si presenta, ovviamente, a macchia di leopardo, con eccezioni ed enclaves in ogni settore degli schieramenti in campo, che è importante conoscere, tuttavia è miope enfatizzare le eccezioni perdendo di vista la grande, costante contrapposizione fra Re e popolo, da una parte, e ceti parassitari dall’altra. Chi nega o minimizza questa evidenza ignora o finge di ignorare che la concezione tradizionale della società, a differenza di quella assolutista, non conosce l’idolatria per il Sovrano, né l’obbedienza incondizionata: il Re, al pari delle altre componenti della società, è tenuto al rispetto del patto di fedeltà che lo lega al popolo e alle istituzioni. Il popolo – termine che designa chi custodisce la tradizione e non vive sfruttando le sofferenze degli altri – lo riconosce come tale e lo difende nella misura in cui egli si mostra degno interprete della sua alta funzione. Nel 1860-70, appunto, il popolo ritenne che la dinastia borbonica fosse schierata dalla parte della comunità e del diritto delle genti contro l’invasore straniero appoggiato dalla borghesia affaristica; e insorse ancora una volta a sua difesa. Nonostante le tensioni determinatesi fra il legittimismo ufficiale, con la sua pretesa di trasformare il conflitto in guerra tradizionale senza disporre dei mezzi necessari, e le formazioni popolari, ben coscienti del fatto che l’unica tattica realisticamente praticabile era la guerriglia, il brigantaggio rimase un movimento lealista, che rivendicava, al pari dei soldati di Gaeta, di Civitella del Tronto o di Messina, la propria legittimazione nella fedeltà al sovrano. Lo confermano con evidenza i proclami e gli appelli rivolti alla popolazione dai capi della guerriglia. E non avrebbe potuto essere altrimenti, perché per il popolo la corona rappresentava, unitamente alla religione dei padri, che con acuta sensibilità comprendeva essere anch’essa nel mirino dei novatori, il simbolo forte e visibile, al cospetto del mondo intero, della giustezza della causa per la quale era pronto a morire. Né si può trascurare che le insorgenze nazionali nelle Due Sicilie avevano un’altra, grande motivazione ideale: la difesa della religione dei padri. Solo chi è incapace di comprendere l’importanza della dimensione religiosa nella vita delle popolazioni rurali non solo delle Due Sicilie, ma dell’intera Europa può sottovalutare il moto d’indignazione sollevato dalle manifestazioni di ateismo e blasfemia che diedero le truppe garibaldine, prima, e sabaude poi. Un generale piemontese, Pinelli, osa definire il Pontefice, in un pubblico proclama, “sacerdotal vampiro”, mostrando così, oltretutto, il più totale disprezzo per i sentimenti religiosi della popolazione; Garibaldi, in modo meno letterario e più scurrile, lo appellerà “metro cubo di letame”. Chiunque può comprendere che questi atteggiamenti, oltre a quelli tenuti quotidianamente dalle truppe di occupazione, contribuirono a convincere molti indecisi della necessità anche morale di reagire con le armi all’invasione. I nostri briganti, in definitiva, difesero la loro dignità di uomini e donne delle Due Sicilie, il loro diritto di vivere secondo la tradizione, sostanzialmente rifiutando proprio quella demonìa dell’homo oeconomicus con cui si vorrebbe forzatamente spiegare persino la loro orgogliosa sollevazione.

3- La tesi della rivolta di classe, sia per l’innegabile importanza dei suoi rilievi sulle aspre contrapposizioni sociali e sulle odiose ingiustizie perpetrate dai liberali di tutte le tendenze nei confronti dei ceti contadini, sia per l’evidente mancanza di conseguenzialità – se non di coraggio – nel riconoscere la motivata coesione fra popolo e monarchia borbonica, apre la strada a una più onesta interpretazione del brigantaggio. Quando la svolta chiarificatrice è ormai nell’aria, e alla storiografia più avveduta resta solo da compiere il passo ulteriore del riconoscimento del carattere nazionale e lealista, oltre che politico-sociale, dell’insurrezione, viene ripetutamente prospettata una teoria che costituisce oggettivamente un passo indietro rispetto alla stessa visione “classista” e una versione ammorbidita della visione “criminologica”: la teoria del brigantaggio come rivolta anarcoide, diretta contro il potere e chiunque lo eserciti. Questa impostazione incappa nelle stesse, gravi obiezioni che si possono opporre a quella precedente, ma fa di peggio: ignora bellamente le tensioni sociali che costantemente agitavano le campagne meridionali e che vedevano il Re, attraverso la legislazione e l’opera di controllo svolta dagli Intendenti, schierato dalla parte dei contadini contro i soprusi dei latifondisti e degli speculatori. Si tratta, in sostanza, di una versione emendata della teoria criminologica, sintetizzabile così: i briganti erano delinquenti, ma, per aver vissuto nell’abbrutimento determinato dalla miseria, dalle angherie subite e dalla superstizione (perché il popolo non può avere fede, ma solo superstizione), avevano qualche attenuante, se non l’esimente dell’ “incapacità di intendere e di volere”. Si giunge a narrare il brigantaggio per episodi, riproponendo in prosa le ballate dei cantastorie di fine ’800, col risultato di confinare i combattenti del Sud nella regione del picaresco, del selvatico, in sostanza del sub-umano. Dall’altro versante, i portabandiera di questa impostazione prendono la teoria della lotta di classe, la immergono nell’acido della maldicenza, del pulp, del pettegolezzo, a volte del voyeurismo pruriginoso, e la lasciano macerare fino a ridurla alla rappresentazione, fintamente bonaria, di un mondo antiquato e in decomposizione, la cui eliminazione è stata una “dolorosa necessità”. Questa è la conclusione invitabile del discorso e anche, in fin dei conti, la ragion d’essere di questa teoria, che si inserisce a pieno titolo, consapevolmente o no, in quella “strategia della confusione” che è l’ultima ancora di salvezza per una storiografia funzionale agli interessi del potere costituito, sorpassata e ormai “alle corde”. È opportuno a questo punto menzionare anche un’altra corrente di pensiero, tornata in auge nell’imminenza del centocinquantenario, che non rientra specificamente fra le interpretazioni del brigantaggio, ma che, di fronte all’innegabilità dei crimini perpetrati ai danni delle Due Sicilie e all’imponenza della reazione popolare all’invasione e all’occupazione piemontese, nel tentativo di spiegare il “lato sporco del Risorgimento”, mira a differenziare la posizione dei mazziniani e di Garibaldi da quella dei monarchici sabaudi, volendo far intendere che se avesse prevalso la corrente repubblicana l’unificazione sarebbe stata realizzata in modo più conforme ai principi della democrazia, della giustizia sociale e della solidarietà. Questa teoria strumentale e infondata sviluppa le sue fantasiose ramificazioni servendosi della negazione o dell’occultamento di dati di fatto colossali: basti pensare al massacro di Bronte, eseguito da Bixio su ordine di Garibaldi per compiacere i suoi sponsors britannici; alla fulminea abolizione dell’Amministrazione borbonica delle Bonifiche, disposta dal Nizzardo per rassicurare i latifondisti che temevano di dover lasciare ai contadini una parte delle terre risanate, con uno sciagurato decreto che fu il punto d’avvio dell’affossamento dell’agricoltura meridionale; all’accoglimento da parte del Dittatore del suggerimento, che proveniva dalle province, di tutelare gli usurpatori delle terre demaniali, “per non disgustare la classe de’ proprietari, che sono pur la forza delle Nazioni, e che sono stati i sostegni veri e precipui del movimento che ha portato l’attuale ordine di cose”. È agevole obiettare che la congiura liberal-massonica all’origine dell’aggressione garibaldino-sabauda non avrebbe potuto avere esiti sostanzialmente diversi, perché in ogni caso l’assetto istituzionale avrebbe dovuto garantire gli interessi delle potenze straniere finanziatrici e ispiratrici e quelli della borghesia parassitaria collaborazionista. Di fronte a questo blocco potentissimo di interessi, Garibaldi, che non a caso agiva all’ombra di un tricolore con lo stemma sabaudo, non avrebbe potuto, gli piacesse o no, che rispondere, rimangiandosi le demagogiche promesse dell’esordio, “obbedisco”. La piemontesizzazione dell’Italia si consolidò grazie a un tacito accordo: i liberali locali non disturbano il manovratore, i piemontesi lasciano ai locali la libertà di arricchirsi alle spalle del popolo, in barba alle leggi e in attesa di abolirle. Ne era ben consapevole Mazzini, che ipocritamente rinviava al consolidamento del cambio di regime la soluzione della “questione sociale” Il dibattito sul brigantaggio è, dunque, esposto a una serie di insidie, perché condizionato da un conflitto di interessi che non accenna ad affievolirsi. Per alcuni la parola d’ordine è ancora quella di negare ai guerriglieri meridionali lo status e la dignità di combattenti. Già nel 1862, di fronte ai risultati della Commissione parlamentare presieduta da Antonio Mosca, che descrivevano gli episodi di inaudita ferocia di cui si erano resi responsabili i comandi militari impegnati nella repressione del Brigantaggio e gli arbitrii dei galantuomini contro i diritti e le legittime aspettative di vita dei contadini e dei braccianti, il governo corse ai ripari proibendo la pubblicazione della relazione conclusiva e disponendo la redazione di un nuovo rapporto, affidato alla commissione presieduta da Giuseppe Massari: questa volta si doveva affermare che le sofferenze dei ceti popolari non erano dovute all’egoismo e alle prepotenze dei galantuomini, ma al malgoverno borbonico e all’ignoranza, al fanatismo e alla superstizione religiosa che predominano nelle campagne meridionali (Tommaso Pedio). Oggi che tanti passi sono stati fatti verso una ricostruzione storica più veritiera, nonostante l’ostruzionismo di quelli che parafrasando Pansa si possono definire i gendarmi della verità negata, bisogna constatare che per qualcuno le veline di Ricasoli sono sempre in vigore. Magari sono proprio quelli che accusano la storiografia revisionista di eccessiva emotività e di partigianeria. Accuse che si ritorcono contro chi le formula. Noi crediamo che nella fase dell’analisi bisogna essere spietatamente rigorosi e obbiettivi. Anche se si tratta di eventi che hanno lasciato cicatrici profonde e ancora sanguinanti la passione non deve mai accecare od offuscare la visione dei fatti. Tuttavia questo scopo non è realizzabile se non si rifiuta decisamente la prospettiva forzata nella quale i vincitori hanno voluto costringere l’interpretazione storiografica; se non si abbandonano le false premesse di chi osa raffigurare come custodi della legalità coloro che hanno appena perpetrato una gravissima violazione del diritto internazionale, invadendo proditoriamente, con l’inganno, la corruzione e lo sterminio, uno stato pacifico e indipendente da sette secoli. Riconoscere l’ipocrisia dei risorgimentalisti più o meno “mascherati” è molto semplice: essi, trascurando il dato macroscopico che il popolo insorgeva in nome di una legalità – non formalistica, ma sostanziale – che avvertiva violata sotto il duplice profilo della violenta compressione dei diritti popolari (in primis quello di accesso alle risorse della terra, sentita come patrimonio della comunità) e del proditorio spodestamento del legittimo sovrano, di cui la gente riconosceva l’autorità e nei cui confronti (in virtù di quell’ammirevole antisnobismo che per i galantuomini di ieri e di oggi rappresenta la più imperdonabile delle colpe) percepiva in qualche modo una comunanza di sentimenti, vedono nei guerriglieri antipiemontesi dei fastidiosi ostacoli al consolidamento dell’ordine sabaudo e liberale. Si spiega così il ricorso spesso acritico alla documentazione che gli stessi invasori hanno predisposto perché funzionale ad avallare la loro versione: a cominciare dalle verbalizzazioni delle versioni di comodo rese, sotto costrizione, da esseri umani tenuti in crudele cattività; oltre tutto, ad opera di carcerieri che nutrivano per il loro mondo, di cui poco o punto sapevano, null’altro che un rabbioso disprezzo. Si spiega così, inoltre, l’incredibile e antiscientifico ricorso da parte di alcuni, a una terminologia criminologica che dà per scontato – senza dirlo esplicitamente – che la legalità stava dalla parte degli invasori e che gli insorgenti rappresentavano un’intollerabile perturbamento dell’ordine, da stroncare con ogni mezzo. Costoro non parlano di solidarietà delle popolazioni con i combattenti, ma di complicità. Chi aiuta gli insorgenti non è un collaboratore, ma un fiancheggiatore o, ancora meglio, un manutengolo (termine che adorano). Chi si dà alla macchia per liberare il territorio dagli invasori lo infesta o vi imperversa; le formazioni guerrigliere sono masnade e i suoi componenti banditi. Tutti termini che ogni osservatore obiettivo – e ve ne furono fin dall’epoca dei fatti – riconosce essere molto più appropriati se riferiti agli invasori del Sud e ai rapinatori delle sue ricchezze. Quanto al popolo, lo si designa quasi sempre in modo dispregiativo: si parla di plebe, di contadiname, addirittura di popolaccio. Terminologica poco scientifica, ma certo rivelatrice dei sentimenti di chi scrive. La donna combattente, poi, non è mai considerata capace di un’autonoma determinazione, ma è sempre vista come la femmina del brigante, anzi la druda, termine desueto, che alcuni incredibilmente, ma non troppo, si compiacciono ancora oggi di usare, con l’oggettivo risultato di suggerire che le guerrigliere meridionali fossero animalesche donnacce di nessuna moralità. Quando non si tratta di strumentali bassezze, sono quanto meno ironie di basso conio, che con la storia non hanno nulla a che vedere e che oltrettutto sono del tutto fuori luogo a fronte della catastrofe che colpisce tuttora il nostro popolo. Esse formano la malriuscita caricatura di un’obbiettività che non c’è. È vero che l’analisi dai fatti non dev’essere influenzata dalle passioni, tuttavia una volta acquisita la conoscenza di un evento, non è possibile, per chi ha sangue nelle vene, non prendere posizione, schierandosi dalla parte della giustizia contro la prepotenza. Noi lo facciamo e ne siamo fieri. Noi crediamo che i protagonisti dell’epico e disperato conflitto per l’indipendenza delle Due Sicilie meritino riconoscenza, per chi ne è capace, e comunque, da tutti, rispetto. Per noi che amiamo la nostra patria, i briganti, “santi” o “demoni” che fossero, incarnano l’orgoglio e la dignità di un popolo che non piega la testa di fronte alla prepotenza degli aggressori. Per questo non li dimentichiamo e vorremmo sempre ritrovare nei meridionali di oggi la loro fierezza e la loro determinazione.

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L’ULTIMO DELIRIO DELLA SCIENZA SOTTOMESSA AL POTERE

Posted by on Mag 2, 2019

L’ULTIMO DELIRIO DELLA SCIENZA SOTTOMESSA AL POTERE

Essere incinta è una malattia, dicono gli scienziatoni americani… invece il bambino non è un parassita, ma uno sguardo della madre verso l’eternità

La nostra è un’epoca col mito della scienza. Chiunque voglia affermare qualche peregrina scemenza, deve ammantarla di una parvenza di scienza.
E così la notizia più delirante arriva da una qualche università statunitense, nel corso “biologia della malattia”: il feto è equiparato a un parassita. La boutade non è nuova, in effetti tutto il femminismo tende a vedere il feto come un parassita, che diventa “forse” accettabile, solo se molto desiderato dalla madre, cioè per la volontà della proprietaria dell’utero, ma non per caratteristiche proprie. Se non è “desiderato”, il feto è un parassita, al punto tale che le pratiche mediche e chirurgiche per sbarazzarsene sono gratuite, esattamente come gratuite sono le cure per eliminare le cisti da echinococco o il cancro.
La visione del feto come parassita è stata sostenuta da tutta la sottocultura femminista e post moderna. Come spiega Giovanni Formicola, il ’68 ha avuto un troncone politico, militarizzato, fatto di bombe, morti e gambizzati, e un troncone del desiderio di cui fa parte la promiscuità erotica, il coito continuo e irresponsabile, di cui fa ovviamente parte anche l’aborto. Se non è incluso nel desiderio, il feto è un parassita, e deve essere sradicato dal corpo delle madre a spese del sistema sanitario nazionale.
Ora, una qualche università statunitense tenta di dare validità scientifica alla teoria. Ce l’hanno una facoltà di Medicina, una cattedra di Embriologia? Forse no, perché chiunque abbia appena preso in mano un testo di fisiologia conosce il rapporto straordinario tra il corpo della madre e il feto.

IL BAMBINO, SGUARDO DELLA MADRE VERSO L’ETERNITÀ
 “Nessuno si spiega – scrive la fisiologa L. Barocchi in un bel testo che si intitola “La vita umana, prima meraviglia” (ed. Centro Documentazione e Solidarietà, Roma) – come sia possibile che una cellula microscopica si riproduca in miliardi di cellule identiche a lei, con il suo stesso nucleo genetico, e dia origine a tessuti tanto differenziati, quasi opposti, come i muscoli e il cervello, il sangue liquido e le ossa solide, gli arti e gli occhi… Né si spiega come queste cellule lavorino concordemente, ognuna a vantaggio dell’altra, per la perfetta realizzazione del piano comune che è stampato nel loro intimo”. Non appena avviene la fecondazione, ogni singola particella del corpo materno è come avvisata che c’è un figlio e che deve essere protetto: “E subito i globuli bianchi, impegnati nella difesa immunitaria – spiega Barocchi -, arrestano davanti a lui la loro attività: sebbene addestrati a individuare e rigettare ogni sostanza estranea (cioè con un patrimonio genetico diverso) essi salvano il piccino anche se estraneo. È un figlio, non c’è cellula nella madre che non lo voglia”.
Anche la mente inconscia della madre vuole quel bambino, sa che è la sua proiezione nell’eternità, la sua proiezione oltre la morte. E se la sua mente cosciente, ubriaca di propaganda e di idiozie decide di terminare la gravidanza, quel bambino non nato resterà come una ferita aperta.
Un feto equiparato a un parassita, l’aborto volontario equiparato all’asportazione di un parassita.

LA PSEUDOSCIENZA DEGLI PSICHIATRI ASSERVITI AL POTERE
Abbiamo già visto all’opera questa pseudoscienza. Con Lombroso e la sua infantile teoria che i buoni sono belli e i cattivi sono brutti. La ammantò coll’ampolloso nome di fisiognomica e, incredibilmente, la cosa funzionò. La fisiognomica è contraria al concetto cristiano di libero arbitrio, quindi chi negava la fisionomica era accusato di essere una baciapile nemico delle scienze. Che la fisionomica fosse un ammasso di idiozie, indimostrata e indimostrabile, era secondario. Era la scienza. Anzi, la Scienza. Lombroso invece era ateo, situazione che è invece considerata una garanzia di oggettività e rigore, quindi tra una seduta spiritica e l’altra Lombroso indottrinò l’Europa su quanto i brutti fossero disprezzabili. Lombroso credeva allo spiritismo. Chi non crede in Dio rischia di credere in qualsiasi cosa. L’Europa si è fatta insegnare la scienza da un tizio convinto di aver parlato ai fantasmi.
La fisionomica ha fatto morti e feriti. Nazismo e comunismo si sono ammantati di razionalità scientifica, in nome della scienza il dottor Mengele e i suoi omologhi giapponesi dell’Unità 731 si sono scatenati. Risparmio il nome dei medici che avevano dichiarato che il fumo di sigaretta, e in particolare delle Camel, era benefico per la salute di tutto il corpo, ma soprattutto dei bronchi. Sempre in nome della scienza la talidomide, un farmaco contro l’insonnia, è stato dichiarato sicuro in gravidanza e questo ci ha dato la più spaventosa epidemia di malformazioni e focomelie prima dell’esplosione del reattore di Chernobil, reattore che la scienza aveva dichiarato sicuro e in grado di superare il test che ha causato il disastro. D’accordo, chi lo aveva sostenuto era uno scienziato sovietico, e la scienza sovietica è sempre stata malleabile a seconda delle direttive, a cominciare dalle scienze economiche e dalla statistica, ma quelli della talidomide erano tedeschi, e la scienza tedesca , almeno nell’immaginario collettivo, dovrebbe avere la malleabilità del cemento armato, e invece rispondeva alle banali leggi del mercato.
Gli psichiatri sovietici affermarono che chiunque non amasse il Partito doveva avere un qualche tipo di squilibrio mentale, curabile con pochi anni di manicomio dove l’alternanza di elettroshock e ipoglicemia da insulina lo avrebbero portato alla norma. Questa teoria fu onorata non solo all’interno del patto di Varsavia, scientificamente protetta dalla polizia politica, ma anche dalla psichiatria occidentale, scientificamente protetta dalla piaggeria che una parte del mondo “scientifico” degli ultimi decenni ha sempre nutrito per la falce e il martello.

LA PRESUNTA INFALLIBILITÀ DEGLI PSICHIATRI AMERICANI
Negli USA siamo passati dal dogma dell’infallibilità del Papa, al dogma dell’infallibilità dell’APA, Associazione Psichiatri Americani, che regna sul mondo con affermazioni ottenute per votazione, un metodo altamente scientifico [è una battuta perché di scientifico non ha nulla: la scienza procede per esperimenti verificabili e ripetibili non per votazioni, N.d.BB]. Scientificamente Greta con annesse treccine ci sta invitando ad azzerare le emissioni di CO2, quindi noi impareremo a non respirare e le piante impareranno a fare a meno della fotosintesi e la scienza sarà contenta.
Arriviamo così alla scientifica medicalizzazione del parto, la regola della puerpera e neonato separati dalla vetrata della nursery, messi insieme solo per quindici minuti ogni quattro o sei ore, sono le regole perfette per far fallire l’allattamento materno, che ha bisogno di tempo, di calma, di periodi di suzione molto più lunghi. La scienza spia la gravidanza attraverso l’ecografia: molti bimbi sono stati salvati, ma un esercito è stato abortito per malformazioni vere o presunte o perché erano del sesso sbagliato. Tra l’altro, visto che ora pare che il sesso lo decidano i bambini da grandi, non potremmo vietare l’aborto selettivo come fulgido esempio di trasfobia? L’odio contro la maternità aumenta di mese in mese. Ammantate da una parvenza di linguaggio scientifico arrivano notizie deliranti: avere un figlio invecchia, impedisce la fisiologia eccetera.
La nostra non è un’epoca col mito della scienza. La nostra è semplicemente cultura di morte.
Prendiamo in pugno le spade per difendere l’ovvio: due più due fa quattro, l’erba è verde, i bambini devono nascere non essere uccisi nel ventre delle loro madri. Ucciderli è una scelta, pro choice, appunto, non una necessità come levare una cisti da echinococco o un tumore. Una scelta che può essere rimpianta e quando il rimpianto arriva, è quanto di più straziante ci possa essere. Nessun Stato deve finanziare la soppressione dei suoi futuri cittadini. Nessun cittadino deve essere costretto a finanziare la scelta di uccidere il proprio bimbo nel proprio ventre. Quindi “not with my money. Non col mio denaro”. La 194 è una qualsiasi legge di un qualsiasi Stato, si può cambiare.
La riconquista della cultura della vita comincia da qui.

Silvana De Mari

fonte http://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=5639

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Partito Separatista delle Due Sicilie

Posted by on Apr 25, 2019

Partito Separatista delle Due Sicilie

“La separazione d’Italia è inutile discutere di rinascita del meridione, sono più momenti meno infelici, momenti più infelici, ma la risoluzione del problema di un meridione economicamente, umanamente, culturalmente socialmente libero non c’è, lo vediamo anche dalle Il processo unitario è un atto di brutalità, di malafede, di inganni, di interventi stranieri, di Garibaldi, di Vittorio Emanuele II. Quindi culturalmente anche, non c’è possibilità di riscatto se non si crea una retorica interna al proprio paese, se il proprio paese non si rivaluta agli occhi dei propri cittadini. 

Nicola Zitara 

LI CHIAMAVANO BRIGANTI …… .. E INVECE ERANO EROI
“Per quei vieni la violenza è un diritto, per tanti vieni la violenza è un delitto .. Voi potete rubare, violentare, uccidere, e nessuno vi condannerà.”.      
Il 1861 è un anno che ogni UOMO al mondo sta pensando, non per la pseudo unità di Italia imposta con la forza, ma perché è il Savoia iniziarono il massacro del Sud. 
Il Brigantaggio è un grande movimento rivoluzionario e di massa, più di un secolo e mezzo, ben 157 anni, in cui bugie, menzogne ​​e verità nascoste, hanno azionato quel subdolo meccanismo di denigrazione della popolazione meridionale, talmente oliato un dovere da aver coinvolto anche alcune persone abitanti del Sud. 
La storia o meglio gli “illustri” storiografi che l’hanno riportato e pubblicato sui libri di scuola, ha sempre raccontato l’unico colpevole dei problemi del Meridione, è stato il Regno Borbonico e il governo dei Borboni, era supportato dal carattere superficiale e indolente dei suoi sudditi Che con la filosofia della vita “bast che ce sta ‘o sol”,
La disoccupazione era praticamente nulla nel Regno delle Due Sicilie quando fu annesso al Regno di Sardegna. Sembra impossibile immaginare il Regno delle Due Sicilie, studiato nelle scuole italiane come luogo naturale dell’oscurantismo, del burocratismo, dell’arretratezza tardo feudale (borbonico sinonimo di lento, fiacco, arretrato), sia stato invece premiato, nel 1856, per sviluppo industriale . 
Le ferrovie napoletane non sono il “balocco del Re” per raggiungere la sua casa di vacanze, bensì di un’oculata politica di marketing e sviluppo industriale. I Borbone non sono stato provato dai locomotori da qualche grande azienda teutonica, come anzi oggi faremmo: le fabbricano … con un indotto industriale che in pochi anni è lavoro per migliaia di giovani meridionali.
Nel meridione si ebbe la prima repubblica socialista del mondo con San Leucio: ottanta ettari di terreno su cui Re Ferdinando fece sorgere la più famosa serie di tutti i tempi. 
Quella che oggi è Terra di Camorra, allora era, davvero, Terra di Lavoro. 
Di tutt’altro segno e spessore i dati inerenti il ​​Regno dei Savoia, negli stessi anni. Nel 1860 il debito pubblico del Piemonte ammontava più di un milione di anni: una montagna di denaro, una voragine spaventosa che 4 milioni di abitanti non sono quotati a cento anni per l’arretratezza della sua economia montanara. 
E allora cosa è successo di così determinante da sovvertire le sorti del Meridione?
Successe che al Piemonte non interessava per niente l’Unità d’Italia. Al Piemonte interessava la conquista delle ricchezze del Sud, delle sue riserve auree, delle sue fabbriche. Dal 1860 al 1870 i nuovi pirati, vieni piemontesi, si quali disponibili in tutti i paesi, quelle dei poveri contadini, quelle delle comunità religiose, dei conventi; saccheggiarono le chiese e le campagne; smontarono i macchinari delle fabbriche per montarli al Nord; rubarono opere d’arte di valore inestimabile, quadri, vassoi, statue. Le miniere di ferro, il laboratorio metallurgico della Mongiana in Calabria; le industrie tessili dell’alta Terra di Lavoro; le manifatture di Terra di Lavoro; i cantieri navali sparsi per tutto il Mezzogiorno; la magnifica fabbrica di Pietrarsa, i monti frumentari,
Cannoni contro città indifese; baionette conficcate nelle carni di giovani, preti, contadini; donne violentate e sgozzate; vecchi e bambini trucidati. Case e chiese saccheggiate, monumenti abbattuti, libri bruciati, scuole chiuse. La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. Dal 1861 al 1871, un milione di contadini furono abbattuti; anche se governi piemontesi su questo massacro non fornivano dati, perché nessuno dovrebbe sapere.
Col termine Briganti, ha detto volontariamente mortificare tutta quella parte di popolo, che è stata ribellata, ancora una volta, all’invasore: “Combattemmo, nella nostra terra, una guerra legittima di liberazione e di resistenza contro una società e un popolo straniero, un palmo a palmo, un caso, terre e famiglie da una rivoluzione che non sono stati uccidemmo e morìmo io e tanti eroi di una contro-rivoluzione che ci aveva già visto combattere e morire in Francia o in Spagna, nel 1799 nel 1820, nel 1848 nel 1860.  

Ecco chi erano i BRIGANTI.
Ma le mortificazioni non erano finite: 5212 condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Queste le cifre della repressione consumata all’indomani dell’Unità d’Italia dai Savoia. Minghetti del 15 agosto 1863 “… per la repressione del brigantaggio nel Meridione

Questi sono concentrati nei depositi di Napoli o nelle carceri, poi trasferiti in veri e propri lager: i prigionieri, appena coperti da cenci di tela, si consumano una sozza brodaglia con un po ‘di pane nero raffermo, sottende dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisico e morale. Per oltre dieci anni, sono stati voluti uccisi per fama, stenti.

Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei.
La liberazione avveniva con la morte ed i corpi (non sono ancora in uso i forni crematori) è disciolti nella vita viva collocata in una grande vasca nel retro della chiesa che sorgeva all’ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, su un muro è ancora visibile l’iscrizione: “Ognuno vale in quanto è ma in quanto produce”. (ricorda molto la scritta dei lager nazisti)
E anche in questo caso, chi ha scritto la storia, ha voluto umiliare ancora una volta il popolo del Sud. SCANDALOSO museo di Cesare Lombroso fondato a Torino, dove sono esposti, come fenomeni da baraccone, i corpi e le teste mozzate, sono considerati dei criminali perchè osavano difendere la propria terra. Corpi straziati, mutilati e umiliati, mai restituiti alle famiglie che non hanno potuto dar loro, degna sepoltura. 
Ecco chi erano i BRIGANTI 

La guerra è chiusa nel sud del mondo, a cui si aggiunge oltre il 65% della popolazione. Le lotte per la terra, verso il risultato elettoralistico. Con la fine dei contadini, è finita anche l’alternativa o briganti o emigranti.
In assenza di uno Stato indipendente che affrontasse i problemi connessi a nuove forme di produzione, il processo di superamento della servitù contadina è la forma di emigrazione di massa. Né la prima delle due grandi migrazioni meridionali – quella tra il 1880 e il 1914 – né la seconda – quella tra il 1948 e il 1973 – servirono a fondare uno stato, oa inserire il Sud come componente paritaria dello Stato nazionale. Il mondo contadino sopravvissuto alla prima e sarebbe sopravvissuto anche alla seconda, se l’area padana non fosse vissuta, un racconto importante, avrei bisogno di inarcare l’economia del sud con lo smercio delle sue produzioni. Nei due periodi indicati, la penetrazione delle merci di massa è stata coniata diversa. Al tempo della prima, l’industria padana non era ancora nata, e tranne lo zucchero, il tabacco, il grano importato e poche altre mercanzie, il Nord era ben poco da vendere al Sud. In questo periodo le risorse sono risucchiate attraverso altre vie, principalmente il fisco, l’ufficio italiano cambi, il sistema bancario, che accetta di essere emesso carta, e al solo costo di stampa comprava al sud prodotti veri. Inoltre la produzione meridionale è venduta all’estero. Un risvolto decisivo ai fini del sottosviluppo sudico. È stato preso una truffa, un ordine artefatti, agli industriali cavourristi, che sono serviti per pagare le materie prime, e agli importatori genovesi, che lo abbiamo visto per speculare patriotticamnete sul prezzo del grano. Eppure, non è tanto il drenaggio delle risorse che porta il sud alla completa rovina – malgrado tutto l’agricoltura continua a produrne – quanto l’insipienza, l ‘ estraneità e la malvagità della classe dirigente. Al tempo della seconda guerra, con gli aiuti americani e la partigianeria dello Stato seducente nazionale, l’apparato industriale padano decollò e di conseguenza ebbe un impellente bisogno di clienti. E quale cliente più addomesticato del Sud? L’offerta di merci – si sa – crea i consumatori di merci. Però le merci importate e si pagano con la produzione e l’esportazione di uguale valore (Antonio Serra, economista del 1600). L’assetto coloniale del Sud non è all’esportazione, perché i prezzi sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde. con gli aiuti americani e la partigianeria dello stato seducente nazionale, l’apparato industriale padano decollò e di conseguenza ebbe un impellente bisogno di clienti. E quale cliente più addomesticato del Sud? L’offerta di merci – si sa – crea i consumatori di merci. Però le merci importate e si pagano con la produzione e l’esportazione di uguale valore (Antonio Serra, economista del 1600). L’assetto coloniale del Sud non è all’esportazione, perché i prezzi sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde. E quale cliente più addomesticato del Sud? L’offerta di merci – si sa – crea i consumatori di merci. Però le merci importate e si pagano con la produzione e l’esportazione di uguale valore (Antonio Serra, economista del 1600). L’assetto coloniale del Sud non è all’esportazione, perché i prezzi sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde. perché io sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde. perché io sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde.

fonte https://www.partito-separatista-delle-due-sicilie.it/?fbclid=IwAR3YlR2bCzDBy6m_z_j4RIK01jwyvXeSKcZdsEK79LiRSLokqyC8zchAX0M

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