Alta Terra di Lavoro

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REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA (III)

Posted by on Gen 15, 2019

REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA (III)

16 gennaio 1860 Francesco II compì ventiquattro anni, e fu grande festa in tutta Napoli; i sovrani accolsero la nobiltà borbonica a palazzo reale, e fu uno spettacolo di divise, grandi uniformi, fregi, ricchi abbigliamenti; ministri, alto clero, diplomatici stranieri; le carrozze della nobiltà fecero la spola tra i fastosi palazzi aviti e la piazza di palazzo reale.

Purtroppo i sovrani di Napoli erano circondati, anche in questa occasione, da una massa di cortigiani, funzionari, militari, uomini di governo ignoranti e incapaci, tutti pronti al tradimento.

Da questi emergeva un solo statista degno di rispetto, quel Carlo Filangeri che, deluso dalle circostanze, aveva abbandonato la barca del governo nel momento in cui si addensavano, paurosamente, le nuvole della tempesta. Maria Sofia, sul trono accanto a Francesco, era splendida, affascinante, la corona reale le riluceva sull’acconciatura dei capelli, opera del più rinomato parrucchiere napoletano, quel Totò Carafa, del quale si serviva la migliore aristocrazia del Regno.

Accanto alla regina sedeva l’ambasciatore di Spagna, don Salvador Bermudez de Castro, un hidalgo dai modesti natali che si era conquistato sui campi di battaglia il favore dei sovrani di Spagna, che lo avevano nominato marchese di Lema e ambasciatore presso il governo delle Due Sicilie. Bermudez de Castro era un uomo affascinante: appena quarantenne, aveva guadagnato l’amicizia incondizionata di Francesco e la simpatia piuttosto interessata della regina.

Le malelingue del tempo, compresa Maria Teresa, lo attribuirono come amante della regina, ma in realtà fra lo spagnolo e Maria Sofia ci fu solo una forte, leale e sincera amicizia, anche perché la regina di Napoli vedeva nel de Castro tutte quelle doti e virtù che avrebbe voluto trovare nel marito.

Il genetliaco del re fu anche l’occasione del varo a Castellammare di Stabia di una potente nave da guerra, la nuova fregata Borbone, che era armata con sessanta moderni cannoni. Una delle migliori navi a vapore del tempo, che andava a rinforzare la già potentissima squadra navale napoletana: la migliore nel bacino del Mediterraneo.

Nel porto di Napoli, una grande città di cinquecentomila abitanti, la quarta metropoli d’Europa, stavano ancorate le navi militari di molti Paesi: la Bretagne, ammiraglia della flotta francese; l’Algeciras, l’Imperial; le inglesi Hannibal, Agamemnon, London; pericolosa intrusa, anche l’ammiraglia della flotta del Regno di Piemonte e Sardegna: la Maria Adelaide, comandata dall’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, che ritroveremo nel mare all’assedio di Gaeta, e poi quale responsabile del disastro navale di Lissa nella guerra del 1866 contro l’Austria.

Fra le navi straniere la Borbone, con il suo gran pavese e i suoi lucidi cannoni schierati, faceva un bell’effetto. Ironia della sorte, la fregata, consegnata ai Piemontesi dal suo comandante traditore e ribattezzata Garibaldi, la ritroveremo con i suoi sessanta cannoni a sparare sulla piazzaforte di Gaeta contro quegli stessi carpentieri e marinai napoletani che l’avevano costruita e varata.

Frattanto gli eventi precipitavano: il Piemonte, dopo l’occupazione della Lombardia con l’appoggio militare francese, aveva conquistato tutta l’Italia centrale: Toscana, Emilia, Romagna (queste ultime terre sottratte allo Stato Pontificio) con il sistema dei plebisciti truccati.

Pio IX aveva comminato la scomunica agli usurpatori: questo atto della Chiesa aveva turbato profondamente il cattolico Francesco, che aveva rafforzato in sé la convinzione che i Piemontesi fossero i primi nemici della fede cristiana in Europa.

Nel marzo successivo giunsero dalla Sicilia i primi segni della crisi che avrebbe sconvolto e distrutto il Regno: le campane del convento della Gancia suonarono a martello annunziando lutti e sciagure. I servizi segreti napoletani avvisarono il re dei preparativi che Garibaldi andava effettuando in Liguria con il tacito consenso del governo sardo. Fu individuato anche il luogo dello sbarco: la Sicilia.

Maria Sofia, consapevole del pericolo più del marito, spinse il sovrano ad emanare disposizioni urgenti per fronteggiare l’imminente aggressione; il re allertò la flotta, concertò personalmente le misure di difesa per bloccare sul nascere l’impresa di Garibaldi.

La squadra navale napoletana era allora la più potente del bacino del Mediterraneo: comprendeva fra navi grosse e piccole 36 vascelli, fra cui 11 fregate (l’equivalente oggi dei moderni incrociatori); a capo della squadra navale era Luigi conte d’Aquila, zio del re.

L’esercito napoletano era il più potente di tutti gli Stati italiani: comprendeva 83.000 uomini bene armati e bene addestrati, senza contare i mercenari svizzeri e bavaresi, che costituivano il nocciolo duro di tutte le forze armate.

Impensabile, dunque, che 1072 borghesi guidati da Garibaldi potessero battere un siffatto esercito. Infatti, il gruppo capeggiato dall’eroe dei Due Mondi era costituito da professionisti: medici, avvocati, ingegneri, commercianti, capitani di marina mercantile, chimici; c’erano pure alcuni preti che avevano abbandonato da tempo l’abito talare.

I Siciliani erano 34:24 palermitani, 3 messinesi, 3 trapanesi, 1 catanese, e rispettivamente uno di Trabia, uno di Gratteri e Francesco Crispi, con la moglie Rosalia, di Castelvetrano.

A comandare l’esercito napoletano erano in tanti: Landi, Lanza, Nunziante, Clary; tutti incapaci, corrotti ed invidiosi l’uno dell’altro. Landi e Lanza erano addirittura ultrasettantenni e non erano più in grado di montare a cavallo: seguirono le operazioni militari in Sicilia seduti in carrozza! Pur tuttavia, se i due generali non fossero stati corrotti e inclini al tradimento, i garibaldini non sarebbero certo riusciti neanche a sbarcare.

Ma Landi, a Calatafimi, pur disponendo di una posizione strategica favorevole, le colline, e di una forza di 3000 uomini di truppa scelta, di un reggimento di cacciatori, di 20 pezzi di artiglieria, di una cavalleria forte di 1500 unità, si ritirò senza combattere, così come Lanza a Palermo consegnando la città a Garibaldi.

Quando giunse a Napoli la notizia che in Sicilia la situazione stava drammaticamente precipitando, la regina chiese a Francesco di intervenire personalmente e lo incitò a mettersi a capo delle truppe per combattere la sfiducia che serpeggiava fra i soldati, già consapevoli del tradimento dei loro generali. Maria Sofia consigliò con energia di fare arrestare Landi e Lanza e farli processare per alto tradimento.

Poi chiese che fosse richiamato a capo del governo il principe di Satriano, l’unico uomo politico in quel momento capace di padroneggiare la situazione che si andava profilando disastrosa.

Il principe di Satriano, convocato dal re, in un primo tempo declinò l’invito poiché l’età e le malattie legate alla vecchiaia non gli consentivano di adempiere con la solita premura ed attenzione all’incarico di primo ministro; cedette poi alle insistenti richieste di Maria Sofia, che si recò di persona nella villa di campagna dove il principe si era ritirato da tempo.

Filangeri dettò subito le sue condizioni, previa accettazione del suo incarico di primo ministro: proclamazione immediata della Costituzione, invio di un contingente di 40.000 uomini a Messina, che dovevano essere guidati dallo stesso re. A queste condizioni, il vecchio generale era disposto ad assumere la carica di Capo di Stato Maggiore.

La regina rinnovò con entusiasmo la sua disponibilità a cavalcare accanto al re, alla testa dei soldati, ma Francesco, sempre dubbioso ed esitante, non si mostrò favorevole alle proposte del principe di Satriano, anche perché la Corte, controllata da Maria Teresa, non vedeva di buon grado la concessione della Costituzione.

Filangeri, deluso ed amareggiato dall’atteggiamento del re, declinò il suo incarico e, sollevato, se ne tornò nella sua residenza di campagna. Furono contattati i generali Ischitella e Nunziante perché assumessero il comando supremo in Sicilia, ma essi rifiutarono.

L’alto incarico fu affidato, pertanto, al generale Ferdinando Lanza.
Francesco II, su consiglio di Maria Sofia, inviò ai comandi di Sicilia delle direttive precise ed avvedute, purtroppo disattese da comandanti incapaci di applicarle, o per inefficienza, insipienza, o per serpeggiante tradimento.

La regina continuò ad insistere affinché il marito concedesse la Costituzione, malgrado l’ostilità aperta della regina madre e di tutta la corte filoaustriaca. Segretamente trattò col Papa, e lo convinse ad inviare una lettera al re di Napoli. Il dispaccio di Pio IX giunse nella reggia di Caserta il 24 maggio 1860.

La parola del Papa fu per il re di Napoli verbo divino, anche perché il Pontefice lo esortava a non fidarsi troppo dei Savoia e di un Piemonte abilmente padroneggiato da Cavour.

Il re convocò i ministri e il Consiglio di Famiglia, ed espose fermamente la sua intenzione, scatenando la fiera opposizione di Maria Teresa, che lo accusò di mancanza di coraggio, di insensibilità e di aver ceduto alle intimazioni dei cugini sabaudi.

La sfuriata della regina madre mortificò il timido Francesco, che piegò il capo in silenzio senza reagire; reagì, pesantemente, invece Maria Sofia, che rintuzzò con orgoglio e fierezza le parole dell’ex regina ingiungendole con dura voce, appena frenata dalla rabbia, di rispettare il re e di piegare il capo dinanzi alla volontà sovrana. In quel frangente, Maria Sofia si comportò da vera regina dimostrando, ancora una volta, il suo carattere deciso e fermo e la piena lealtà che la legava al marito.

Quel giorno stesso Francesco II promulgò l’atto sovrano di concessione della Costituzione. Ma questa decisione ormai tardiva non suscitò gli effetti sperati; i liberali rimasero indifferenti anche perché i Borbone avevano già concesso altre tre Costituzioni: nel 1812, nel 1820 e nel 1848, tutte disattese nella loro promessa di libertà e riforme.

Quando giunse a Napoli la notizia della conquista di Palermo da parte di Garibaldi, la situazione precipitò drammaticamente: in città scoppiarono tumulti e violenze, ci furono scontri a fuoco fra i filoaustriaci e i liberali, e come al solito furono saccheggiati negozi, abitazioni civili; alcuni commissariati di polizia furono abbandonati e dati alle fiamme. In questo frangente drammatico il re proclamò lo stato di assedio e nominò ministro di Polizia quel Liborio Romano che poi sarebbe passato anche lui, come gli altri traditori, dalla parte di Garibaldi.

Quel momento drammatico segnò anche la divisione della Corte: Maria Teresa, i suoi figli e molti dignitari e funzionari abbandonarono la capitale per rifugiarsi nella fortezza di Gaeta.
Accanto al re rimasero pochi ministri fedeli e l’indomita Maria Sofia, che assunse subito la guida del governo, rivelando, ancora una volta, le sue doti di coraggio, equilibrio e saggezza.

Passato lo Stretto con la complicità delle navi inglesi e americane e con il favore dei comandanti di marina traditori, Garibaldi si affacciò sul continente e avanzò verso Salerno non trovando alcuna seria resistenza ad eccezione delle truppe comandate da Von Mechel e dal colonnello siciliano Beneventano del Bosco.

A Napoli il generale Nunziante, che aveva fatto carriera e accumulato ricchezze sotto i Borbone, prezzolato da Cavour stilò una vergognosa “Proclamazione” per esortare i soldati fedeli al re alla diserzione: Compagni d’arme!

Già è pochi dì, lasciandovi l’addio, vi esortavo ad essere forti contro i nemici d’Italia dar prove di militari virtù nella via aperta dalla Provvidenza a tutti i figli della patria comune… forte mi sono convinto non esservi altra via di salute per voi e per cotesta bella parte d’Italia che l’unirci sotto il glorioso scettro di V. Emanuele: di questo ammirevole monarca dall’eroico Garibaldi annunziato alla Sicilia, e scelto da Dio per costituire a grande nazione la nostra patria…

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Figure salienti dell’ Unità d’Italia

Posted by on Dic 28, 2018

Figure salienti dell’ Unità d’Italia

I GENERALI LANZA, CLARY, NUNZIANTE, PIANELLI E L’AVVOCATUCCIO DON LIBORIO ROMANO:
questi cinque uomini,chi più chi meno tutti erano stati beneficati dai Borboni, e si disobbligarono col tradimento il più inqualificabile. Questi cinque uomini sono quelli stessi che nel corso di questo viaggio ho chiamati fatali alla dinastia e al Regno, che fecero di tutto, come se non avessero avuto una patria, per farla cadere inonorata, anzi farla rotolare nel fango. È da notarsi però, che Nunziante fece più male quando facea l’assolutista e il terrorista, anzi che quando si coprì con la maschera di liberale.

A questi cinque uomini fatali fecero codazzo due altezze reali, Leopoldo di Borbone Conte di Siracusa, e Luigi di Borbone Conte d’Aquila, tutti e due fratelli di Ferdinando II. Il Conte d’Aquila meriterebbe il posto tra i primi cinque, perché in qualità di Ammiraglio ridusse la flotta napoletana (ad eccezione di pochi uffiziali e delle ciurme) ad una congrega di settarii; e la defezione della flotta fu una potente leva per rovesciare dinastia e trono.

Si distinsero nell’epoca garibaldina per viltà e tradimenti i generali Landi in Calatafimi, Lanza in Palermo, Clary in Messina, Gallotti in Reggio, Ruiz e Briganti nel Reggiano, Caldarelli in Cosenza, Ghio in Soveria-Mannelli, Lo Cascio in Siracusa, Torson la Tour in Augusta, Flores in Bovino, de Benedictis negli Abruzzi.

Vi sono altri Generali che veramente non tradirono, ma si distinsero o per viltà o perché mancarono al loro dovere come soldati, come sudditi, e come gentiluomini.

A tutti questi duci gallonati fecero seguito molti ufficiali superiori e subalterni, che sarebbe lungo e noioso nominarli tutti, ma che ho accennati nel corso di queste Memorie.

Circa la invasione del Regno di Napoli si dissero e si stamparono cose iperboliche sul merito militare di Garibaldi, ed hanno innalzato costui al di sopra di Turenna, di Federico II, di Napoleone I. Senza spirito partigiano vediamo quali furono le battaglie vinte dal duce rivoluzionario, e qual merito militare dimostrò da Marsala al Volturno.
Per maggior comodo de’ miei benevoli lettori compendierò in poche pagine la Iliade garibaldesca ricavandola da’ fatti autentici, e che oggi sarebbe impudenza mettere in dubbio.

Garibaldi partì dal continente confortato dagli aiuti morali e materiali del governo sardo. Egli sbarcò a Marsala quando già sapea che la guarnigione era stata mandata a Girgenti per ordine del comando generale di Palermo: quella guarnigione a piedi comandata dal colonnello Francesco Donati sembrò pericolosa allo sbarco garibaldesco e due giorni prima fu mandata altrove.

Due legni inglesi fecero la spia contro i regï, e protessero lo sbarco di Garibaldi. Tre piroscafi di guerra napoletani che si trovavano in crociera nelle acque di Marsala, presero il largo fino che non si fosse effettuito quello sbarco. Uno di quei piroscafi, il Capri, era comandato da Marino Caracciolo, che poi, come rilevasi dalla Difesa Nazionale di Tommaso Cava, a pag. 101, volle tenuto al fonte battesimale un figlio da Garibaldi, e costui memore de’ servizii ricevuti da quello in Marsala, accettò con piacere di farsi compare col primo che tradì Francesco II.

Marino Caracciolo è quello stesso che poi entrò il primo nel forte di Baia e prese possesso a nome del compare.
Un altro legno era comandato da Guglielmo Acton, poi ministro del Regno d’Italia!
Nello stesso sbarco di Marsala, tanto celebrato da’ rivoluzionarii, nulla trovo di straordinario, neppure potrebbe dirsi audace.
Garibaldi a Calatafimi fu sbaragliato coi suoi mille da solo quattro compagnie dell’8° cacciatori comandate dal maggiore Sforza.

Ma Landi, come sapete, avea accomodati gli affari suoi, quando vide il compare Garibaldi a mal partito per la disobbedienza di Sforza, volendo riparare il mal fatto di costui, fuggì verso Palermo col resto della grossa brigata di 3000 uomini, lasciando le quattro compagnie senza munizioni, e senza avvertirle della sua fuga.
Sin’oggi i garibaldini strombazzano che vinsero a Calatafimi, mentre furono battuti da sole quattro compagnie che non oltrepassavano cinquecento uomini, e costoro s’impossessarono pure della loro tanto celebrata bandiera di Montevideo.

Garibaldi appena assalito al Parco fuggì in disordine assieme a’ suoi; e vedendosi abbandonato dalla squadre siciliane, volea gettarsi su’ monti per aspettare il tempo e l’occasione d’imbarcarsi sul continente.

I suoi ammiratori dicono che quella fu una gran manovra militare per ingannare i regï, ma si sà, e lo pubblicarono gli stessi garibaldini, che il loro duce era scoraggiato, ed avea abbandonato il progetto di entrare in Palermo.

Crispi e il Turr cominciarono a persuaderlo della necessità di entrare audacemente in Palermo: e il comitato rivoluzionario di quella città finì di convincerlo, con fargli conoscere che avea delle pratiche con qualche duce regio, e che costui gli avrebbe lasciate libere le Porte di S. Antonino, e di Termini per entrare in Città comodamente.

Difatti la sera precedente ad onta che il generale Lanza sapesse che Garibaldi dovea entrare la mattina seguente in Palermo da quelle porte, non solo richiamò attorno a sè al palazzo reale la brigata Colonna che campeggiava fuori le porte di Termini, e S. Antonino, ma sguarnì di truppa quelle due porte; alla prima lasciò 59 soldati del 9° di linea, alla seconda 260 reclute del 2° cacciatori, che ancora non sapeano maneggiare il fucile.

Non trovo nulla di estraordinario che Garibaldi confortato dalle buone disposizioni di Lanza a suo riguardo, sia entrato da quelle due porte con quattromila uomini tra garibaldini e squadre siciliane.
Il generalissimo Lanza invece di combattere validamente l’invasore, avendo a sua disposizione ventiduemila uomini, prima lo lasciò fortificare con ripari e barricate, poi mandò drappelli di soldati per combatterlo, e quando costoro arrecavano danni agli invasori era solerte a richiamarli indietro.

Lanza per rendere un maggior servizio alla rivoluzione, bombardò Palermo senza necessità e senza scopo militare, indi pregò Garibaldi per un armistizio, che finì poi con l’abbandono di Palermo e dell’Isola.
Il 30 maggio la sola brigata Meckel sbaragliò tutti i rivoluzionarii fortificati in Palermo.

Garibaldi era perduto, gridava: tradimento! sono stato tradito!
Ricorse al generale Lanza per salvarsi da’ soldati di Meckel, e quel Generale trattenne il braccio di costui che stava già per stritolare Garibaldi e tutti i suoi.
Dopo questi fatti, Lanza senza far bruciare una cartuccia da’ ventiseimila soldati che avea sotto i suoi ordini, e che fremeano di battersi, abbandonò Palermo e la Sicilia a Garibaldi!

L’entrata di Garibaldi in Palermo si celebra da’ rivoluzionarii come una gran vittoria militare, è un’impudenza mentire con tanta sfacciataggine: lo credono i gonzi, e coloro che non sanno o non vogliono sapere i fatti di quella tragicomedia.

Il Dittatore della Sicilia vinse a Milazzo, cioè con ottomila uomini tra garibaldini e truppa piemontese in camicia rossa, oltre delle squadre siciliane, dopo otto ore di combattimento fece ritirare nel castello mille soldati napoletani.

Che Garibaldi avea in Milazzo ottomila uomini tra garibaldini e truppa piemontese, lo disse egli medesimo al comandante del vapore francese il Protis; che Bosco oppose soli mille uomini, si rileva dal documento che riportai a pag.109.
È da osservarsi poi che Garibaldi oltre della superiorità del numero avea una flottiglia che bersagliava i regï in Milazzo, ed avea l’appoggio morale in Messina da Clary, ed in Napoli da’ ministri liberali, D. Liborio e Pianelli.

E da osservarsi ancora che il merito del fatto d’ami di Milazzo è tutto dovuto a Medici e Cosenz; sin dal principio della pugna Garibaldi lasciò il campo di battaglia e se ne andò sul Veloce.
Nulla dunque si rileva di estraordinario per parte di Garibaldi circa il fatto d’armi di Milazzo, ma trovo estraordinario solamente che mille soldati napoletani lottarono 8 ore contro tutta la rivoluzione cosmopolita, e dopo di avere uccisi ottocento garibaldini, in bell’ordine si ritirarono nel castello di Milazzo, ed era ciò secondo le istruzioni di Clary date a Bosco.

Garibaldi assalendo i regï in Milazzo era certo del fatto suo, dappoichè se da Messina o da Napoli fossero arrivati altri tre o quattro Battaglioni, la rivoluzione sarebbe stata distrutta anzichè acquistar forza morale e materiale. Sino a Milazzo non trovo dunque alcun fatto che dimostra essere Garibaldi un generale di qualche merito.

In Calabria, il Dittatore non sostenne alcun fatto d’armi importante; il suo passaggio sul continente calabro fu agevolato e protetto dalla squadra sarda, e da quella napoletana, e lo dimostra la 2a parte del Diario di Persano. t

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Lettera del Generale Alessandro Nunziante Duca di Mignano e di Liborio Romano

Posted by on Set 13, 2018

Lettera del Generale Alessandro Nunziante Duca di Mignano e di Liborio Romano

Lettera del Generale Alessandro Nunziante Duca di Mignano all’Ammiraglio Conte Carlo Pellion di Persano

«Posillipo, 5 settembre 1860 …
ieri sera mi recai inutilmente in Napoli e le persone che Le designai non vennero all’appuntamento meno il Carrano e Ribotti.

Il discendere in Napoli è per me un rischio, anzi deggio pregarla a designar la casa del Console per le conferenze, avendo destato sospetto quella mia abitazione a Chiaia.

Mi attendo del pari suo riscontro su i diversi articoli che ebbi ieri il bene di precisarle, segnatamente sulla missione del Magg. Corrano.

Sonosi dati gli ordini dal Re di Napoli, e Conte di Trapani di bruciarsi la mia casa in caso di un qualche movimento, che la voce di caffè ha fatto già conoscere che sarà mosso e regolato da me.

Le sarei infine molto tenuto se volesse permettere che due miei figli col loro ajo possano avere lo imbarco su qualche piroscafo che muove per Genova, onde potersi recare a Torino per essere ammessi nel Collegio di Asti con qualche sua commendatizia pel Conte di Cavour e Ministro della Guerra Fanti …

D. di Mignano

Lettera di Liborio Romano al Conte di Cavour

«Napoli, 19 gennaio 1861

Io mi ricordo ancora una volta alla sua memoria per attestarLe la mia piena e sentita riconoscenza, dell’onore di essere stato assunto a Consigliere di Luogotenenza pel Dicastero dell’Interno, che riconosco particolarmente da Lei.

Si degni dunque di gradire per ora i miei sinceri ringraziamenti, ed attenda conoscere dall’opera se saprò meritare il suo compatimento.

Nelle presenti condizioni delle cose e nei confini del mio Dicastero io mi propongo sopra tutto tre oggetti:

1° Pronto e rigoroso organamento della Guardia nazionale in tutte le province napoletane, secondo la legge Piemontese;

2° Facilitazioni alle sussistenze, animando per via indiretta il lavoro.

3° Massima attività e sollecitudine nelle opere di governo perché la società non  

Liborio Romano

 

 

 

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