Alta Terra di Lavoro

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LA DINASTIA CAPETINGIA

Posted by on Set 8, 2019

LA DINASTIA CAPETINGIA

Sacro Romano Impero fu diviso in tre parti, tra le quali il Regno di Francia, con re Luigi V. Alla sua morte la nobiltà si rivolse a Ugo Capeto, che si assicurò consenso distribuendo terre ai suoi elettori. Nonostante i nobili francesi non avessero intenzione di avallare la fondazione di una dinastia dei Capetingi, Ugo, con il sostegno della Chiesa, riuscì ad affermare la sua autorità e a far incoronare coreggente suo lio Roberto II: i Capetingi si assicurarono la successione alla corona per discendenza maschile per oltre tre secoli (987-l328).

I primi sovrani capetingi rimasero sottomessi ai principi feudali: su di loro riuscì a imporsi, alla fine dell’XI secolo, Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia e vassallo del re Filippo I. Toccò al successore di Filippo, Luigi VI, consolidare definitivamente il potere nell’Ile-de-France, la regione al cui centro si trova Parigi, reprimendo sistematicamente l’opposizione feudale. Nel 1137 egli combinò il matrimonio tra il lio, il futuro Luigi VII, ed Eleonora, erede al ducato di Aquitania, assumendo così il controllo di vasti territori tra la Loira e i Pirenei. L’unione si rivelò però priva di eredi maschi: alcuni anni dopo il papa concesse l’annullamento del matrimonio e successivamente Eleonora sposò Enrico tageneto, conte d’Angiò e duca di Normandia, che nel 1154 divenne re d’Inghilterra col nome di Enrico II. In tal modo l’Aquitania passò dalla corona francese a quella inglese e i domini di Enrico in terra francese superarono notevolmente per estensione quelli di Luigi VII.

La dinastia dei Capetingi conobbe miglior fortuna sotto il successore di Luigi VII, Filippo II Augusto. Grazie al suo primo matrimonio, egli ottenne i territori settentrionali della Francia.

La possibilità di muoversi contro il regno angioino gli si presentò quando Giovanni Senzaterra, re d’Inghilterra, sposò una principessa già promessa a un altro vassallo di Filippo. Filippo convocò Giovanni alla sua corte tre volte e, poiché questi non si presentò, dichiarò alienati i suoi feudi. Nel 1204 egli intraprese la conquista militare della Normandia e dell’Angiò, conclusa dieci anni dopo con la sconfitta degli eserciti alleati di Inghilterra e Sacro romano impero nella battaglia di Bouvines (1214).

L’occasione di intervenire al sud fu fornita invece da una setta religiosa eretica. Contro questi papa Innocenzo III promosse una crociata nel 1209, promettendo ai crociati le terre che avrebbero sottratto agli eretici. La camna militare fu condotta con successo dal lio di Filippo Augusto, Luigi VIII: i possedimenti reali si estesero così fino a comprendere i territori costieri del mar Mediterraneo.

Morto Luigi VIII nella crociata, salì al trono il dodicenne Luigi IX che subito si trovò a fronteggiare la ribellione della nobiltà locale. Il sovrano si garantì tuttavia la fedeltà delle province conquistate, estendendo e migliorando l’amministrazione del regno e inviando ispettori nelle province, in funzione di controllo nei confronti dei funzionari regi.

A Luigi IX, morto di peste a Tunisi durante una crociata, succedette Filippo III.

Filippo IV il Bello, ultimo grande re capetingio, rafforzò notevolmente i poteri della monarchia. Vescovi, baroni e città furono costretti alla collaborazione con il sovrano, in materia sia di giustizia sia di finanze. Filippo si assicurò l’annessione della Franca Contea, di Lione e di parti della Lorena, ma non riuscì a imporre il suo controllo sulle Fiandre: quest’ultimo intervento fu inoltre tanto oneroso da indurlo a tentare di imporre tributi al clero, entrando così in contrasto con papa Bonifacio VIII: la disputa, che verteva sostanzialmente sul principio di sovranità, si aggravò fino a sfociare nell’oltraggio di Anagni, dove il papa venne imprigionato dai francesi. Nel 1305, alla morte di Bonifacio, grazie all’influenza di Filippo fu eletto un papa francese, Clemente V, che trasferì la sede papale da Roma ad Avignone nel 1309 .

La grande necessità di denaro spinse Filippo all’espulsione degli ebrei dal regno e alla confisca dei loro beni; per la stessa ragione egli perseguitò e sciolse l’ordine dei templari. Tra il 1314 e il 1328, si succedettero al trono tre li di Filippo IV (Luigi X, Filippo V e Carlo IV), nessuno dei quali lasciò un erede maschio.

fonte http://www.epertutti.com/storia/LA-DINASTIA-CAPETINGIA11656.php


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«ALTAMURA. LA STRAGE DELLE INNOCENTI». UN FALSO STORICO CONTRO L’INSORGENZA ITALIANA

Posted by on Lug 27, 2019

«ALTAMURA. LA STRAGE DELLE INNOCENTI». UN FALSO STORICO CONTRO L’INSORGENZA ITALIANA

1. IL FATTO

Il Corriere della Sera di mercoledì 17 febbraio 1999 ha pubblicato con ampio risalto sulla prima delle sue pagine culturali un articolo di Maria Antonietta Macciocchi dal titolo Altamura. La strage delle innocenti (1).

Nell’articolo è narrato un fatto di sangue che sarebbe accaduto duecento anni or sono, nel corso della guerra civile che nella prima metà del 1799 vide contrapposte le popolazioni del Regno di Napoli — inquadrate in gran parte nell’esercito della Santa Fede, guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo dei duchi di Baranello (1744-1827), vicario generale di re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825) — e i rivoluzionari francesi, affiancati dalle milizie della giacobina Repubblica Napoletana, proclamata il 21 gennaio dello stesso anno. Secondo la studiosa, le truppe sanfediste avrebbero perpetrato, nel corso del saccheggio seguito all’espugnazione della città pugliese di Altamura, roccaforte giacobina, nel maggio 1799, lo «stupro di massa» e il massacro di quaranta religiose di clausura, di cui non viene specificato l’ordine di appartenenza, ma che sarebbero orsoline, secondo le fonti di cui si è avvalsa.

2. LA NARRAZIONE

Maria Antonietta Macciocchi nasce il 22 luglio 1922 a Isola del Liri, in provincia di Frosinone; nel 1942 aderisce al Partito Comunista Italiano e nel 1950 si laurea in storia dell’arte all’Università La Sapienza di Roma. Sposa il giornalista Alberto Jacoviello, dal quale poi divorzierà. Dal 1956 al 1961 dirige il settimanale comunista Noi donne e dal 1961 al 1968 la rivista, sempre comunista, Vie nuove; è quindi corrispondente de l’Unità, l’organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, da Algeri, da Bruxelles e da Parigi. Nel 1968 è eletta deputata nelle file del PCI. Nel 1971 entra in dissenso con la linea ufficiale del partito, che di conseguenza non la ricandida al Parlamento. Nel 1972 si trasferisce a Parigi, doveconsegue il dottorato in scienze politiche alla Sorbona e ottiene un lettorato all’università di Parigi VIII a Vincennes. Nel 1977 lascia il PCI e aderisce al Partito Radicale, nelle cui liste è eletta nel 1979 sia alla Camera dei Deputati, sia al Parlamento Europeo. È ancora parlamentare europea dal 1984 al 1989 con la Sinistra Indipendente. Collabora attualmente con i quotidiani Corriere della Sera, Le Monde, di Parigi, e El País,di Madrid. È promotrice della Convenzione di Venezia degli intellettuali europei e nel 1986 riceve dal governo francese l’Ordre des Arts et des Lettres. Ha pubblicato una quindicina di libri — per lo più su temi interni al movimento rivoluzionario italiano ed europeo —, gli ultimi dei quali dedicati alle due maggiori esponenti femminili della Repubblica Napoletana, Eleonora de Fonseca Pimentel (1752-1799) e Luisa Sanfelice (1764-1800), entrambe vittime della «ferocia misogina dei crocesegnati», ovvero dei sanfedisti (2).

Prendendo spunto dal clamore suscitato da una sentenza della Corte di Cassazione relativa a un caso di stupro e sfavorevole alla vittima — sentenza definita senza mezzi termini «sgangherata e beffarda» —, la scrittrice introduce il tema, connesso al primo, del duecentesimo anniversario dei moti repubblicani di Altamura, del quale sono in corso rievocazioni da parte di un comitato locale, e di uno «stupro di massa consumato dalle bande dei sanfedisti contro le suore di clausura del Monastero del Soccorso» di quella città. L’iniziativa nasce dalla scoperta fortuita, nel fondo Ginguené (3) della Biblioteca Richelieu di Parigi, del diario manoscritto relativo al saccheggio della città pugliese, in cui l’episodio dello stupro sarebbe narrato con efferati particolari. L’episodio sarebbe divenuto oggetto dell’attenzione della scrittrice non solo perché giudicato particolarmente grave e odioso e perché ne ricorre il secondo centenario, ma anche in quanto suonerebbe come l’ennesima conferma della tesi femminista secondo cui la violenza sessuale sulle donne, e in generale l’oppressione dell’elemento femminile, sarebbero un dato strutturale della società occidentale, da cui le interessate dovrebbero emanciparsi attraverso un’azione politica e sociale organizzata. Secondo questa prospettiva, lungo i secoli si sarebbe attuato un ininterrotto «martirio delle donne», di cui sarebbero responsabili non soltanto il maschio uti singulus, ma anche e soprattutto le leggi, il «sistema», ovvero le istituzioni sociali e religiose. Alla radice di tale oppressione plurisecolare sarebbe una ideologia «maschilista», misogina e illiberale, che risalirebbe in ultima analisi alla cultura e alla mentalità cattoliche — o, forse, a una concezione del cristianesimo «deviata» in quanto istituzionalizzata — e al potere esercitato dalla Chiesa sulle coscienze. Questa mentalità sarebbe particolarmente radicata in correnti ideologiche considerate come avverse pregiudizialmente alla modernità, di cui il sanfedismo sarebbe l’estrema manifestazione (4). La figura del cardinale Ruffo (5) e quella di re Ferdinando IV di Borbone, che rappresentano rispettivamente il «sacerdozio» e il «dispotismo», ovvero i due cardini della repressione istituzionale, vengono così percepite come gli emblemi della più bieca repressione anti-femminile. La responsabilità del «martirio» di Altamura e delle esecuzioni di numerosi «patrioti», vittime della giustizia borbonica dopo la caduta della Repubblica Napoletana — in particolare le donne, due volte martiri, della libertà e della condizione femminile —, viene attribuita in ultima istanza alla Chiesa e al Papa. Pertanto la Macciocchi, che pure si dichiara favorevole alla «rievangelizzazione del mondo» — che equivarrebbe curiosamente solo a «una Chiesa riconciliata con il Vangelo» e non a un mondo riconciliato con la Chiesa, quindi con il Vangelo —, si sente autorizzata a domandare pressantemente a Papa Giovanni Paolo II, definito un «Papa colossale» (6), di aggiungere l’eccidio delle «innocenti» di Altamura alla lista degli atti di contrizione che la Chiesa sarebbe prossima a compiere in occasione del Giubileo dell’anno 2000. Questo gesto, inoltre, dovrebbe essere accompagnato dalla condanna ufficiale del cardinale calabrese, reo di aver insignito del nome di «Esercito della Santa Fede un’accozzaglia di assassini e di stupratori», troppo a lungo «difeso da una fitta rete di complicità che passa per gli intellettuali borbonici, i fascisti e persino la Chiesa». La condanna dovrebbe essere estesa a re Ferdinando IV «[…] che allagò del sangue delle sue vittime tutta Napoli».

3. CONSIDERAZIONI STORICHE

L’episodio di Altamura e il modo con cui è affrontato dalla Macciocchi si prestano ad alcuni rilievi, sia sul piano della verità dei fatti — ovvero sul piano storico, con la sua premessa di metodologia storiografica —, sia su quello politico ed etico in generale. Va premesso che la Macciocchi aveva già fatto menzione tanto delle suore di Altamura — senza però citare come fonte il diario anonimo parigino, che peraltro avrebbe già dovuto conoscere —, quanto del mea culpa cattolico nella sua opera su Luisa Sanfelice, pubblicata nel 1998 (7).

3.1. Le fonti a disposizione

Sotto il profilo storico, il fatto rievocato — oltre a essere tutt’altro che inedito — poggia su basi molto fragili, se non del tutto inesistenti. Non risulta infatti dalla stragrande maggioranza delle fonti che vi sia stato ad Altamura nel 1799 un eccidio di religiose, tanto meno con le modalità particolarmente efferate denunciate. L’unico dato certo è che ad Altamura vi sono stati un assedio e una battaglia, culminati con l’espugnazione della città murata da parte dei «crociati» e con il saccheggio — non esente da tutte le intuibili forme di violenza privata proprie della rappresaglia —, che venne peraltro temperato proprio dal cardinale Ruffo e dai suoi ufficiali. Inoltre, non risulta che esistano rami claustrali delle orsoline, né che vi sia mai stato un convento di tale ordine in città.

Queste riserve sono state espresse da uno storico di Altamura, Giuseppe Castelli — i cui antenati furono fra i difensori della città in occasione dell’assedio sanfedista del 1799 —, che in un articolo sul quotidiano Avvenire ha precisato che dall’abbondante documentazione esistente — fra cui tutto quanto pubblicato in occasione del primo centenario dei fatti, non escluse le dichiarazioni di testimoni oculari, raccolti molti anni prima — non risulta alcun fatto nei termini riferiti dalla Macciocchi (8).

Fra le fonti disponibili figurano non poche cronache locali del tempo, anzitutto i resoconti di Gian Carlo Berarducci (1762-1837) e del sacerdote Vitangelo Bisceglia (1749-1817), pubblicati dallo storico Giuseppe Ceci (1863-1938) nel 1900 (9). Il primo, più laconico, si limita ad affermare che nel sacco di Altamura «si contano […] due monache, una morta e l’altra ferita» (10); il secondo precisa che «[…] il cardinale Ruffo, per risparmiare le claustrali dalle violenze, ordinò che fossero uscite [sic] dalla città, ed avessero occupata la casa di Montecalvario, dove con esse furono trasportate molte dame» (11). Il curatore precisa in una nota al testo: «Talune [donne] per minacce, altre co’ doni presi dal saccheggio, altre lusingate da promesse di matrimonio, si prestarono alle infami voglie» (12); parla però di «prostituzione» e non di violenze, e non dice nulla sulle religiose. Medesima impostazione ha l’abate Domenico Sacchinelli (1766-1844), il quale, scrivendo nel 1836, sostiene che «[…] le donne Altamurane (facendo le dovute eccezioni) produssero all’armata Cristiana quegli stessi effetti, che un tempo cagionarono ai soldati di Annibale le donne Capuane» (13). Nel 1899, in occasione del primo centenario del sacco di Altamura, il senatore pugliese Ottavio Serena (1837-1914) dà alle stampe un saggio su Altamura nel 1799, non favorevole al cardinale Ruffo, che non fa cenno alcuno dell’episodio raccontato dalla Macciocchi e pubblica l’importante relazione del parroco della cattedrale di Altamura, che, attingendo ai registri parrocchiali, riporta i nomi di tutte le vittime del saccheggio del 10 maggio — in totale trentasette, cioè tre di meno delle asserite vittime religiose — e la precisa indicazione: «Ora in Altamura non vi fu mai un monastero di Orsoline; le monache Clarisse del Soccorso prima dell’assalto abbandonarono il monastero» (14). Inoltre, nell’appendice documentaria sono edite le Notizie di un Anonimo altamurano, il quale, a proposito delle «Signore Monache di Clausura d’ambi i Monasteri del Soccorso e S. Chiara» (15), scrive che il cardinale «[…] ordinò che trasportate fossero nelle rispettive abitazioni ed ivi fossero custodite» (16); quindi «[…] anche le clausure delle monache sacrate se ne uscirono, e lasciarono in abbandono gli Monasteri e si ritirarono tutte unite in casa sicura di un Signore con guardia permessa dal Ruffo» (17). Lo stesso anonimo cronista altamurano, testimone dei fatti, è ripreso senza riserve dallo storico degli anni 1930 Massimo Lelj (1888-1962) — di orientamento sfavorevole ai sanfedisti e in genere piuttosto ben documentato — al capitolo XI della sua opera La Santa Fede. La spedizione del cardinale Ruffo (1799) (18). Infine, la tesi della protezione richiesta dalle religiose al cardinale è confermata dal tenente colonnello borbonico Domenico Petromasi, commissario di guerra presso l’armata sanfedista ed estensore di una cronaca della riconquista del Regno di Napoli, che è testimone oculare senz’altro interessato dei fatti, ma fondamentalmente equilibrato e onesto nel suo resoconto (19).

3.2. Le fonti utilizzate

Se mancano testimonianze tali da accreditare la versione della Macciocchi, a smentire la realtà dell’eccidio, per la loro intrinseca debolezza e inattendibilità, sono proprio le fonti utilizzate dalla scrittrice. Francamente non basta un diario — anche se manoscritto e inedito, e per di più letto dalla studiosa «quasi tremante» — per stabilire la verità di un fatto storico. Tanto più se il cronista non è testimone oculare dei fatti e, come traspare dai toni «apocalittici» utilizzati, si tratta di un «giovane che si era battuto», quindi di un militante rivoluzionario, di un giacobino, ossia di una persona pregiudizialmente avversa per ragioni ideologiche ai sanfedisti. Inoltre la prosa del cronista non convince: è troppo stranamente simile a quella di una qualunque delle gazzette giacobine del periodo, per le quali era più importante combattere la «battaglia delle idee» che riferire la verità. Basta aprirne una a caso, a Napoli come a Brescia o a Milano, per accorgersi che le vicende dell’Insorgenza sono generalmente riferite negli stessi termini e con i medesimi toni, faziosi e altamente emotivi, dell’anonimo.

Quanto ai «testi più solidi» cui la studiosa dice di essersi rifatta, sono molto dubbi il loro valore e la loro attendibilità. Tutti sono marcatamente favorevoli alla Rivoluzione: Jules Michelet (1798-1874), anticlericale e partigiano a oltranza dell’Ottantanove (20); Carlo Botta (1766-1837), ex giacobino, autore di un’ampia sintesi della storia d’Italia che si avvale spesso di fonti di dubbio valore (21); Pietro Colletta (1775-1831), prima seguace di Gioacchino Murat (1767-1815), poi carbonaro, autore di una Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, sulla quale lo stesso curatore esprime il seguente giudizio: «Quella del Colletta è una delle opere che maggiormente hanno bisogno di chiarimenti e di delucidazioni per esser ricca di errori, o voluti dall’autore per motivi di ordine politico o personale, o da attribuire alle fonti da lui usate» (22); Vincenzo Cuoco (1770-1823), già protagonista della Repubblica Napoletana (23); Adolf Wilhelm Theodor Stahr (1805-1876), autore di Die Republikaner in Neapel, «I repubblicani a Napoli», il cui anonimo traduttore precisa che «l’opera che pubblichiamo[,] tradotta dal tedesco, appartiene a quel genere commisto di vero e di falso del quale più si piacque questo secolo e che romanzo-storico vien detto» (24). Così non si capisce se la scena descritta da Stahr, nella quale il diacono cardinale Ruffo — che, ammette per inciso lo studioso, «[…] sentiva talora qualche piccolo accenno di umanità» (25) — celebra la Messa al campo, sia una forzatura romanzesca oppure l’autore — non alieno da studi presso facoltà teologiche protestanti — alluda a una partecipazione del cardinale stesso alla Messa nel suo limitato ruolo ministeriale (26).

La sorpresa maggiore, però, deriva dalla consultazione delle opere di Giovanni La Cecilia (1801-1880), perché si constatata che gran parte del testo della Macciocchi, sia fra virgolette sia in parafrasi, come pure tutti gli autori citati come fonti autorevoli e più solide, sono ripresi letteralmente da un volume del polemista napoletano (27). In particolare, la descrizione della truculenta scena dell’eccidio non è tratta dalle pagine dell’anonimo «parigino», che sarebbe stato senz’altro più autorevole, ma, senza avvertirne il lettore,dalla prosa dello scrittore mazziniano, confidando forse sul fatto che, siccome lo stile dei due autori è affine, il lettore inavvertito non se ne accorga. Anche La Cecilia, comunque, non suffraga il fatto specifico con alcuna «pezza d’appoggio», anzi ricorre al discorso diretto (28), come se si trattasse di una parentesi romanzata nella narrazione. Ciò avvalora l’ipotesi che sia una interpolazione dell’autore, fatta quanto meno a scopo narrativo, di spunti forniti da altri.

Del resto, La Cecilia, carbonaro e poi mazziniano, è un militante a tempo pieno, un «rivoluzionario di professione» — in una nota del volume confida di credere che «[…] il papato fu ed è il flagello d’Italia» (29) —, non uno storico ma un propagandista e un uomo d’azione, giudicato da Alessandro Galante Garrone come autore di «pittoresche romanzature» (30) e una «testa calda» (31). Il libro in questione colpisce immediatamente per la sua scarsa scientificità. La versione dei fatti è inattendibile, le fonti citate sparute e quasi mai di prima mano, l’apparato critico nullo, il linguaggio inadeguato a un’opera storica. Lo studio, quindi, si colloca all’interno del genere letterario del «romanzo d’appendice» — molto in voga nell’Ottocento e in verità mai tramontato —, piuttosto che in quello storiografico. La Cecilia si sforza di trasmettere della monarchia borbonica di Napoli l’immagine di un regime corrotto e inetto, che si avvale di ogni bassezza e di agenti spregevoli — per esempio, del cardinale Ruffo dice che manteneva un «Harem di corrotte femmine» (32) — pur di conservare il potere. Per rafforzare questo quadro La Cecilia non esita a far dipingere ad hoc ben cinquanta illustrazioni a colori, che raffigurano scene fra le più inverosimili — ma efficaci —, come quella del capitano borbonico Gennaro Rivelli, aiutante di campo del cardinale e particolarmente inviso a La Cecilia, che offre a Ruffo le teste mozzate di una madre incinta e della bambina strappatale dal ventre, al fine d’intascare due volte la taglia posta dal re sulle teste dei giacobini (33). In un’epoca in cui non esisteva la televisione, si può intuire come queste scene s’imprimessero nell’immaginario del lettore e dessero vita ad altrettante leggende. Pubblicato alla vigilia dell’invasione garibaldina del Regno di Napoli — e ripreso da non pochi scrittori politici «nazionali» che, evidentemente, lo hanno trovato utile (34) —, è difficile non vedere il volume come un lavoro di propaganda, inteso a «preparare il terreno» alle camicie rosse di Giuseppe Garibaldi (1807-1882). Questa è l’opera da cui la Macciocchi trae il succo della sua argomentazione: quando si trattano temi delicati e complessi come quello evocato, che stanno a cuore a molti, sia favorevoli che contrari, sarebbe però opportuno fondare la propria argomentazione su «pezze d’appoggio» un po’ meno fragili e screditate.

Per completezza di quadro, occorre esprimere non poche riserve sullo stile. In una persona di cultura, e in particolare in uno storico, i già segnalati toni altamente emotivi — verrebbe spontaneo scrivere «che rasentano l’isteria» — di cui risente pesantemente la prosa dell’illustre pubblicista sono stonature fatali. Alcuni passaggi meritano di essere riportati: «Su Parigi l’aria era fredda, pioveva, mentre continuavo a decifrare quasi tremante il manoscritto che avevo messo sul leggio. Tutto sembrava silenzio»; il diario scoperto a Parigi è un «eccezionale testo», scritto «con una calligrafia limpida e una prosa poderosa»; la folla di Altamura che ascolta la rievocazione della stessa studiosa è «fitta, bella e severa, assiepata davanti al monumento della Libertà». Frasi a effetto, che scadono però in autentiche contumelie e «clave ideologiche» quando, passando ai fatti storici, la Macciocchi descrive l’esercito della Santa Fede come un insieme di «bande» o di «orde», «un’accozzaglia di banditi e di stupratori», ignorando o dimenticando che con il cardinale Ruffo — «un vero bandito», che «si abbeverava di sangue» — combattevano reparti dell’esercito regolare napoletano. Oppure quando lascia cadere attributi enigmatici sui sanfedisti, come quando — riprendendo acriticamente un tema caro a La Cecilia — ricorda che il «mostro» Gennaro Rivelli, aiutante di campo di Ruffo, era stato «meniño», ovvero «fratello di latte» di re Ferdinando, lasciando intendere velatamente che il capo sanfedista e il re avessero condiviso chissà quali turpitudini (35). Oppure ancora quando, per accentuare la corresponsabilità del cardinale nei massacri, parla di una «piena assoluzione della Chiesa» che Ruffo avrebbe impartito ai suoi accoliti prima di lanciarli al massacro e al saccheggio, cosa da intendersi eventualmente nel senso di mancata o ridotta sanzione giudiziaria, civile o ecclesiastica, e non certo di assoluzione sacramentale, l’autentica «piena assoluzione della Chiesa», dato che, essendo solo diacono, «in virtù del [suo] sacro ministero», il cardinale non poteva assolvere proprio nessuno.

Certo la riconquista borbonica del Regno di Napoli avviene e culmina in un quadro di guerra civile, che causa profonde divisioni e odi. Essa costa sangue, come in genere tutte le guerre civili, ma nel 1799 la popolazione è tutta con il re. E non si può dimenticare che gli «illuminati» dirigenti della Repubblica Napoletana — in via di «beatificazione laica» — nei nove mesi della loro permanenza al potere comminarono migliaia di condanne, nel tentativo di «purificare» la repubblica proprio dallo spirito sanfedista. Come meravigliarsi che vi siano state vendette, anche sanguinose, da parte degli avversari? Del resto, proprio ad Altamura, come riferisce Lelj, i giacobini assediati, prima di fuggire ingloriosamente, avevano passato a fil di spada circa cinquanta realisti, politici e ostaggi, fra i quali più di un ambasciatore inviato dai sanfedisti (36). Di queste rappresaglie il cardinale Ruffo, come ormai è riconosciuto unanimamente, fu sempre, sia durante la guerra, che soprattutto dopo, moderatore intransigente, indipendentemente dal fallimento dei suoi tentativi di opporsi al re e ai britannici.

In conclusione, sotto il profilo storico quello della Macciocchi sembra un modo di accostarsi ai fatti scorretto e dilacerante, che rischia di risvegliare artificialmente passioni civili del tutto fuori luogo. Non è questo il metodo giusto per iniziare una serena e fondata revisione della storia italiana e per ricostruire una memoria comune del nostro popolo, sulla quale fondare — come è pressante necessità — nuove regole di convivenza civile.

4. CONSIDERAZIONI POLITICHE

Tutti questi elementi lasciano intravedere la trama di fondo, rigidamente ideologica, in cui l’intervento si situa. La storia, lo studio dei fatti del passato, in questa prospettiva, diventa puramente strumentale a obiettivi extra-storici, in genere politici o, nel caso della studiosa, funzionali a una militanza ideologica che talora va oltre la politica.

Rievocare un massacro di monache, vero o falso che sia, per la Macciocchi serve solo alla «prassi», cioè a «mettere in azione» persone e gruppi umani — quanto meno il comitato delle sue «amiche» di Altamura — in una prospettiva assunta apoditticamente e pregiudizialmente — verrebbe da dire «metafisicamente» — come buona, ovvero il trionfo del femminismo. E se i fatti scarseggiano o sono dubbi o mancano del tutto, tanto peggio per i fatti! Bastano quattro frasi di un romanzo d’appendice e un diario ideologizzato e i fatti si piegano al wishful thinking o alla «volontà di potenza» di chi scrive. E in questo la studiosa sembra davvero non avere dimenticato le sue radici culturali marxiste…

Quest’ultimo tratto suggerisce alcune riflessioni di tipo generale, che si traducono in altrettanti quesiti. Con tanti tragici casi umani davanti agli occhi, come mai questo interesse per una categoria femminile, normalmente non particolarmente in auge negli ambienti femministi? E perché un interesse che si spinge fino a rivendicare le doti delle religiose, quando si dimentica che cosa ne è stato — non solo delle doti, ma dei monasteri stessi, soprattutto nel Mezzogiorno — in altre condizioni e sotto altri regimi, giudicati invece con favore o comunque meno sgradevoli di quello borbonico restaurato, come le repubbliche giacobine o lo Stato italiano post-unitario? È proprio vero che, quando si tratta di «fare rivoluzione», marxisti o femministe non guardano tanto per il sottile quanto alla «materia prima» disponibile. L’illustre esponente progressista si sofferma sulla «pagliuzza» sanfedista, peraltro non provata, e dimentica l’enorme «trave» costituita dagl’innumerevoli eccidi — di uomini e di donne, anche religiose — e dai saccheggi con i quali i francesi e le milizie giacobine hanno funestato per anni regioni e province intere in Italia — e in tutta Europa —, soprattutto nel Mezzogiorno, dove infieriscono per oltre quindici anni (37). E sempre nella predetta metafora evangelica, sarebbe da chiedere alla studiosa da che parte si situano i massacri di migliaia di religiosi e di religiose perpetrati dai comunisti e dagli anarchici durante la guerra civile spagnola, quando monache e frati vennero uccisi non perché ricchi di famiglia o perché di piacevole aspetto — ma quale «misoginia» si può imputare ai «crocesegnati» nella versione dei fatti della Macciocchi? — e neppure sotto l’influsso del delirio da saccheggio, ma, freddamente, in quanto religiosi, e nessuno si curò che fossero «innocenti» o meno, per riallacciarsi al titolo dell’articolo. E come non ricordare, da ultimo, l’annientamento di intere chiese e comunità religiose — certamente composte da un’alta percentuale di donne — attraverso la deportazione nel GuLag in tutti i paesi sovietizzati a partire dal 1918? Ha letto la Macciocchi quale fu per esempio la sorte dei religiosi russi deportati nel Lager delle isole Solovki a nord-est di Leningrado, nel Mar Bianco, ai limiti del Circolo Polare Artico, di cui solo recentemente — dopo ottant’anni dal martirio — sono state ricostruite le indicibili sofferenze (38)?

Riguardo, infine, al tema della Chiesa e del perdono: certo, la Chiesa e il Papa, quando imperativi di verità lo hanno richiesto, non hanno esitato e non esiteranno a rivedere la propria interpretazione consueta di vicende storiche, che hanno visto un cattivo comportamento da parte di cristiani. Così, se l’eccidio di Altamura fosse autentico, esso potrebbe di certo finire nel novero di tali vicende. Non risulta invece che i responsabili di almeno ottanta milioni di vittime — uomini e donne, laici e religiosi —, a fianco dei quali ha militato per anni e forse ancora milita la Macciocchi, abbiano ancora in qualche forma chiesto perdono del loro operato. Quale senso ha, in questa prospettiva oggettivamente mutila e «squilibrata», avanzare arrogantemente richieste come quelle formulate, se non cercare di sfruttare furbescamente — o marxisticamente — tutte le opportunità, tutte le «contraddizioni» — reali o create ad arte — offerte dalla situazione, sforzandosi nel caso specifico di «arruolare» alla propria causa, sempre più in crisi, le forze ideali dell’avversario?

5. CONSIDERAZIONI FINALI

Concludendo, un ultimo appunto merita la sede in cui la Macciocchi ha potuto divulgare le sue tesi, più consone a testate di parte che non al più diffuso quotidiano italiano. Come mai questo ha ospitato sulla sua prima pagina culturale un contributo così discutibile e gli ha concesso tanto spazio? Semplice ricerca dello scoop? «Simpatia» di fondo per le tesi? Autorevolezza della scrittrice? O forse un «segnale» alla Chiesa e ai vescovi italiani, troppo «schierati» in occasione della battaglia parlamentare sulla legge relativa alla procreazione assistita?

Comunque — tornando a orizzonti maggiori, cioè nell’ottica della storia come deposito di esperienze per la politica e come ricostruzione del passato che, se non spiega il presente, almeno lo fonda —, si deve registrare il fatto che, dopo le dichiarazioni d’inesistenza dell’Insorgenza e/o quelle di perfetta conoscenza dei fatti a essa relativi, si è prodotto anche un nuovo tipo di attacco a un momento essenziale della storia degli italiani: il falso storico. Oscar Sanguinetti

Note

(1) Cfr. Maria Antonietta Macciocchi, Altamura. La strage delle innocenti, in Corriere della Sera, 17-2-1999, p. 33. Tutte le citazioni senza rimando sono tratte da questo articolo.
(2) Cfr. Eadem, Cara Eleonora. Passione e morte della Fonseca Pimentel nella Rivoluzione Napoletana, Mondadori, Milano 1996; ed Eadem, L’amante della Rivoluzione. La vera storia di Luisa Sanfelice e della Repubblica Napoletana del 1799, Mondadori, Milano 1998. Sulla scrittrice vedi I deputati dell’ottavo parlamento repubblicano, La Navicella, Roma 1979, sub nomine; Le donne italiane. Il chi è del ’900, a cura di Miriam Mafai, Rizzoli, Milano 1993, p. 272; e Who’s who in Italy, Sutter’s international red series, Milano 1998, vol. II, pp. 1147-1148. (3) Pierre Louis Ginguené (1748-1816) fu letterato rivoluzionario e uomo politico — ambasciatore presso la corte sabauda nel 1798 — nonché autore di una Storia letteraria dell’Italia in 10 volumi, scritta fra il 1811 e il 1819, in collaborazione con il giacobino Francesco Saverio Salfi (1759-1832). Fece parte della corrente culturale degli «idéologues»; cadde in disgrazia presso Napoleone Bonaparte (1769-1821) per essersi rifiutato di accettare la nuova costituzione del 1799.
(4) Sulla Santa Fede vedi Francesco Pappalardo, 1799: la crociata della Santa Fede, in Quaderni di «Cristianità», anno II, n. 3, inverno 1985, pp. 34-50, rielaborato in Idem, 1799. Rivoluzione e Contro-Rivoluzione nel Regno di Napoli, Istituto per la Storia delle Insorgenze, pro manuscripto, Milano 1999; e Idem, Il sanfedismo, in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte», a cura di Giovanni Cantoni e con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 215-220.
(5) Su di lui, cfr. Giovanni Ruffo, Il cardinale rosso, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1998.
(6) Soprattutto — e forse solo — perché autore della «magnifica frase, quella sul genio delle donne» legato in qualche modo — non è ben chiaro il senso della frase della Macciocchi — alla «mulieris dignitatem», la lettera apostolica di Papa Giovanni Paolo II sulla dignità e la vocazione della donna, pubblicata nel 1988 in occasione dell’Anno Mariano.
(7) Cfr. M. A. Macciocchi, L’amante della Rivoluzione. La vera storia di Luisa Sanfelice e della Repubblica Napoletana del 1799, cit., rispettivamente alle pp. 204-209 e 224-227.
(8) Cfr. Giuseppe Castelli, Troppe leggende sul cardinale Ruffo, in Avvenire. Quotidiano d’ispirazione cattolica, 25-2-1999; cfr. pure Giovanni Formicola, Altamura, gli errori di Maria Antonietta Macciocchi, in Roma, 7-3-1999.
(9) Cfr. Cronache di fatti del 1799, a cura di G. Ceci, Tip. Vecchi, Andria (Bari) 1900.
(10) Diario di Gian Carlo Berarducci, in Cronache di fatti del 1799, cit., pp. 1-279 (p. 121).
(11) Memorie storiche contenenti la serie degli avvenimenti che hanno avuto luogo nella città di Altamura dal principio della rivoluzione fino all’ingresso e dimora dell’armata regia e cristiana nella medesima, vale a dire dal principio di Gennaio 1799 per tutto il mese di Maggio dello stesso anno, scritte nel tempo istesso da un testimonio di vista, in Cronache di fatti del 1799, cit., pp. 281-399 (p. 391).
(12) Ibid., p. 393, nota 2.
(13) Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo, con osservazioni sulle opere di Cuoco, di Botta e di Colletta. Edizione seconda, Tip. Poliglotta, Roma 1895, p. 161.
(14) Cfr. Ottavio Serena, Altamura nel 1799, Casa Editrice Italiana, Roma 1899, p. 79, nota 1.
(15) Ibid., p. 23 dell’appendice.
(16) Ibidem.
(17) Ibidem.
(18) Cfr. Massimo Lelj, La Santa Fede. La spedizione del cardinale Ruffo (1799),Mondadori, Milano 1936, pp. 127-147.
(19) Cfr. Domenico Petromasi, Alla riconquista del regno. La marcia del cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli, Editoriale il Giglio, Napoli 1994 (prec. ed. Manfredi, Napoli 1801), p. 71.
(20) Su di lui vedi Paul Vialleneix, Jules Michelet, in L’albero della rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, a cura di Bruno Bongiovanni e Luciano Guerci, Einaudi, Torino 1989, pp. 481-490.
(21) Su di lui vedi Walter Maturi (1902-1961), Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Einaudi, Torino 1962, pp. 36-91.
(22) Nino Cortese (1896-1972), in Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, 3 voll., Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1956-1957, vol. I, p. XII. Colletta, comunque, descrivendo il saccheggio di Altamura, accenna in meno di una riga a «[…] un convento di vergini profanato» (ibid., vol. II, p. 64). Sull’opera di Colletta, vedi il giudizio del Dizionario di Storiografia (Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 222), secondo cui «[…] quest’opera storico-memorialistica fu largamente discussa e si rivelò un importante strumento politico contro la monarchia borbonica».
(23) A proposito di Altamura Cuoco parla «di cadaveri intrisi di sangue» (Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799, a cura di N. Cortese, Vallecchi, Firenze 1926, p. 270), ma è smentito dal curatore dell’edizione, che precisa: «La città fu data al saccheggio; ma, contrariamente a ciò che dice il Cuoco, è da avvertire che gli abitanti abbandonarono interamente il paese, al momento della resa» (ibid., p. 271, nota 2). Su di lui vedi Stefano Nutini, Vincenzo Cuoco, in L’albero della rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, cit., pp. 152-158.
(24) Adolf Wilhelm Theodor Stahr, I repubblicani di Napoli. Romanzo storico, 2 voll., G. Lobetti-Bodoni, Pinerolo (Torino) 1854, vol. I, p. I. Stahr, storico prussiano dell’antichità greca e romana, scrittore assai prolifico, dopo un viaggio in Italia, in Svizzera e a Parigi, intrapreso nel 1845 e durato un anno — a Roma fra l’altro conobbe la sua futura consorte, la letterata Fanny Lewald (1811-1889) —, pubblicò alcuni volumi di ricordi di viaggio: Ein Jahr in Italien [Un anno in Italia, 1847], Herbstmonate in Italien [Mesi d’autunno in Italia, 1860] e Herbsmonate in Oberitalien [Mesi d’autunno in Italia settentrionale, 1866], nonché — unico suo lavoro di epoca moderna — Die Republikaner in Neapel, apparsonel 1849 a Berlino, un romanzo storico dedicato alla Repubblica Napoletana del 1799 e, in particolare, alla figura dello storico e militante repubblicano Colletta. Su Stahr vedi Allgemeine Deutsche Biographie, 56 voll., Dunder & Humblot, Lipsia 1874-1912, vol. 35, 1893, pp. 403-406.
(25) Ibid., vol. II, p. 115.
(26) Cfr. ibid., vol. II, p. 113.
(27) Cfr. Giovanni La Cecilia, Storie segrete delle famiglie reali o misteri della vita intima dei Borboni di Francia, di Spagna, di Parma, di Napoli e della famiglia Absburgo-Lorena d’Austria e di Toscana per Giovanni La-Cecilia [sic], 4 voll., Tip. Toscana Cecchi, Genova-Firenze 1859, vol. II, I Borboni di Napoli.
(28) Un esempio: «Olà (disse [il capitano Rivelli, indicato quale leader degli stupratori assassini]) mie tenere colombe, cessate dal guaire e andate a provvedere e qui recate quanto avete di meglio di cibi e di vini» (ibid., p. 386).
(29) Ibid., pp. 294-295, nota 1.
(30) Alessandro Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828 -1837), 2< sup>a ed., Einaudi, Torino 1975, p. 170.
(31) Ibid., p. 175. Lo storico torinese, riguardo ad altra opera storica di La Cecilia, le Memorie storico-politiche dal 1820 al 1876. Risorgimento italiano (5 voll., Artero, Roma 1876-1878), dice trattarsi di «[…] opera notoriamente screditata nel campo storico per le sue gravi inesattezze e fantasiose invenzioni […] spesso accolta come verità sacrosanta, anche per penuria estrema d’altre sicure fonti» (ibid., p. 199, nota 16).
(32) G. La Cecilia, op. cit., p. 271.
(33) Cfr. ibid., inserto a pp. 430-431.
(34) Cfr., per esempio, Giovanni Firrao, Cenni storici sulla città di Altamura e i suoi avvenimenti. Dalla sua origine al 1860, Borsella, Cantatore e Soci, Andria (Bari) 1880, che riprende con ampio risalto da La Cecilia il tema della violenza alle religiose. Su di lui lo storico Serena esprime il seguente giudizio: «[…] il Firrao, seguendo ciecamente le storie segrete di Giovanni La Cecilia, ripete cose che possono trovar luogo in un romanzo, […] ma non in una vera e propria narrazione storica» (op. cit., p. 79, nota 1).
(35) Il rapporto fra i due «fratelli di latte» — la madre di Rivelli, Agnese, era stata balia del piccolo Ferdinando — è descritto con maggiore obiettività in Giuseppe Campolieti, Il re lazzarone. Ferdinando IV di Borbone, amato dal popolo e condannato dalla storia, Mondadori, Milano 1999, pp. 10 e 22-23, che tratta anche della deformazione della figura del re e di Rivelli operata da La Cecilia.
(36) Cfr. M. Lelj, op. cit., p. 134.
(37) Cfr., fra l’altro, Marcello Veneziani, 1799: Massacri in Puglia come nel Kosovo d’oggi, ne il Giornale, 1-4-1999. Il giornalista e scrittore si sofferma in particolare sui massacri giacobini di Andria e di Trani, che costarono alcune migliaia di vittime fra gl’insorgenti e i semplici civili e qualche centinaio tra i francesi. L’articolo polemizza en passant con quello della Macciocchi su Altamura.
(38) Cfr. Jurij Brodskij, Solovki. Le isole del martirio. Da monastero a primo lager sovietico, con una prefazione di Vittorio Strada, con illustrazioni, La Casa di Matriona, Milano 1998.

fonte http://www.identitanazionale.it/inso_1007.php

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Il 1799 e le polemiche sul web

Posted by on Lug 19, 2019

Il 1799 e le polemiche sul web

Impazza in rete il dibattito su un libro, che ancora una volta racconta dell’avanzata dei sanfedisti del cardinale Ruffo nel 1799. E’ la ripetuta narrazione delle violenze sulle popolazioni giacobine nel Molise. Nulla di nuovo, nessun documento sensazionale. Solo un replay, peraltro fuori anniversari dopo l’orgia di pubblicazioni, soprattutto su Eleonora Pimentel Fonseca, che ci travolse nel 1999, anno del bicentenario.

In rete, impazzano le valutazioni sulla Repubblica partenopea, che fu voluta dai francesi e protetta per i sei suoi mesi di vita dalle armi del generale Championnet. Su quelle vicende, pesa molto l’eredità e la lettura che ne fece Benedetto Croce. Il filosofo e storico, che partecipò anche alla fattura del famoso albo pubblicato in occasione del centenario nel 1899, considerò i patrioti della Repubblica, messi a morte dopo il ritorno a Napoli dei Borbone, gli antesignani del Risorgimento. Nel cercare una premessa meridionale all’unificazione, Croce si aggrappò al 1799 che avrebbe anticipato gli ideali unitari.

Peccato che testimoni dell’epoca, come Pietro Colletta e Vincenzo Cuoco, certamente non schierati ciecamente con i Borbone, raccontarono le contraddizioni, le caratteristiche “passive” di una rivoluzione che non fu rivoluzione, ma elitaria occupazione di potere in nome degli ideali francesi. 

Chi era quel popolo che i patrioti volevano emancipare, senza conoscerlo? Erano lazzari e gente povera che, per ben due giorni, si fecero massacrare dai cannoni francesi. Il generale Championnet non riuscì ad entrare agevolmente a Napoli, come gli avevano assicurato. Fu costretto a combattere: i lazzari difendevano la loro città, il loro re, i riferimenti ideali cui si rifacevano. Alla fine, fu lo stesso Championnet a lodarne il coraggio.

I martiri del ’99 sono il condensato della nostra retorica storica, ma anche l’appiglio della cultura laica, contrapposta a quello che si definisce oscurantismo condito da ignoranza popolare. Fin quando la polemica è su questo piano, il dibattito non può che essere fertile. E’ l’eterno discorrere sulla presenza e influenza nella città della Napoli plebea, su cui anche la Ortese ha lasciato pagine memorabili. 

Poi, però, ci sono le manipolazioni storiche. Come le vicende della congiura dei fratelli Baccher, la fuga codarda dei Borbone (come se anche i Savoia, in quegli anni, non siano fuggiti in Sardegna all’arrivo dei francesi), le stragi dell’armata sanfedista. Quella di Ruffo fu una scommessa, partita con pochi suoi contadini e poi arrivata ad 80mila uomini. Tra questi, poche decine di albanesi, che vivevano già stabilmente in Calabria e non erano di certo mercenari stranieri.

Certo, l’avanzata non fu cammino da educande. Le violenze e le uccisioni furono la regola. Ma i sanguinari non si trovavano certo da una parte sola. Sanfedisti e giacobini si comportarono con la stessa spietatezza, con la stessa cecità. Gennaro De Crescenzo pubblicò anni fa un testo: “L’altro 1799: i fatti”. In appendice, decine di documenti di sentenze giacobine di morte nei confronti di fedeli dei Borbone. A Mercogliano, Caserta, Ceglie, Carbonara, Bacoli, Benevento, Briano, Nola, Pomigliano, Pagani, tanto per citare qualche località, i giacobini, coperti dalle armi francesi, furono sanguinari e non certo teneri con i fedeli dei Borbone. Il popolo.

E allora, cos’è la storia? Narrazione di vicende, interpretazione di avvenimenti sulla base di sensibilità nuove e documenti. Senza dimenticare il contesto in cui i fatti si svolsero. E quello del 1799 era un contesto storico che, nonostante la Rivoluzione francese di dieci anni prima, era ancora dominato da sovrani di monarchie assolute. Dopo 15 anni, anche Napoleone fu sconfitto da quelle monarchie in armi. E l’Inghilterra, che tanto influenzò l’unità d’Italia, era contro i francesi in appoggio ai Borbone meridionali. Tanto che fu Nelson a volere, contro il parere di Ferdinando IV, l’uccisione dei patrioti che si erano arresi.

Ma tant’è. Non si tratta di rivalutare nessun passato, né dinastie superate. Si tratta solo di raccontare che le guerre travolgono tutti, la violenza non è mai da una parte sola. Se poi, oggi, si vuole affermare che la cultura laica, intesa come apertura e dialettica del confronto, è da preferire all’oscurantismo e all’assolutismo delle convinzioni (qualunque esse siano), non si può che essere d’accordo. Ma questo è altro discorso, su cui la lettura della storia, intesa come difesa di posizioni di potere, c’entra poco. 

fonte https://www.ilmattino.it/blog/controstorie/il_1799_le_polemiche_web-1372177.html

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MAURIZIO SARRI E’ UN GIACOBINO

Posted by on Lug 8, 2019

MAURIZIO SARRI E’ UN GIACOBINO

Cantavano i lazzari e i sanfedisti “chi tene pane e vino è nu giacubbino” mentre negli 60 e 70 per le strade di Napoli  c’era chi cantava “caro compagno i fatic e tu magn” queste sono due frasi che mi sono venute in mente nell’approcciare il tema Maurizio Sarri che grazie al Napoli Calcio ha raggiunto il sogno della sua carriera allenare una squadra importante, bastava vedere il suo sorriso raggiante quando è sceso dall’auto che lo accompagnava alla conferenza stampa organizzata dalla Juventus.

Nulla di strano in tutto questo perché credo che chi esercita una professione importante ha delle ambizioni importanti ma tutto filerebbe liscio se la squadra in questione non fosse la Juve acerrima nemica per noi tifosi napoletani e l’odiosa compagine savoiarda per chi come me si sente un napolitano identitario.

L’allenatore l’ho sempre apprezzato perché le sue capacità fuori dal normale sono indubbie e grazie anche al suo lavoro abbiamo vinto il campionato dopo 28 anni, per il sottoscritto lo abbiamo vinto, ma l’uomo non mi ha mai preso perché ho sempre avuto la sensazione che recitava il suo ruolo e che ci stava “strunziando” ogni volta che apriva bocca e infatti non  ho mai ascoltato una sua conferenza stampa o una sua intervista, mi interessava solo la squadra e come giocava.

Viene a Napoli a fare il “compagno” raccontando la sua bellissima storia da figlio dell’Italsider che tifava Napoli perché era giusto così se ci sei nato, veniva a dare lezioni di Filosofia nella città dove nasce l’Agora e la Filosofia ma non a parlare del Vico o del Campanella, i primi che mi son venuti in mente, ma di autori residuati bellici di un mondo morto e sepolto, quello comunista. Ci ha detto che andavamo a prendere il palazzo ignorando qual è la storia di Napoli che non ha mai preso il Palazzo ma quando decideva lo occupava.  Come è accaduto nella rivolta dei panettieri, nella rivolta di Masaniello, ricordo a chi non lo sapesse che Masaniello la guidò in nome del Re e non viceversa, oppure quando volevano mettere i tribunali d’inquisizione civile e quando il popolo napoletano diede prova di grande eroismo, esaltato e osannato dai suoi nemici, nelle “Tre giornate di Napoli” vissute nel Gennaio del 1799 quando si opposero all’invasione giacobina francese mentre i giacobini napoletani sparavano loro alle spalle per agevolare le operazioni dell’esercito napoleonico invasore.

Sarri avrà sicuramente letto le narrazioni di Cervantes su Napoli e sicuramente avrà saputo perchè simbolo della città è il “Corsiero del Sole” ma se lo rileggesse non sarebbe male perché forse gli è sfuggito qualcosa. Per non parlare di alcune esternazioni  volgari come  quando si “arrapava” nel vedere le cose che gli piacevano proprio nella città dove nasce l’osceno di Atellana memoria che abbiamo amato con gli Squallor, con Federico Salvatore o con l’Inferno Napoletano recitato dal grande Angelo Manna e che mai ci sono apparsi volgari; se voleva risultare simpatico poteva usare il termine mi fa “arrizzà” tipicamente Napoletano, a differenza  del termine “arrapare”  che viene usato dai piccoli borghesi che attesta il loro stato di ruminanti, ti proietta sempre  verso l’alto nel raggiungimento di vette erotiche inesplorate.

Come gli piaceva frequentare  i salotti radical chic di sinistra con la presenza di intellettuali, italiani nati a Napoli, che pensano di essere gli eredi della grande cultura Napoletana solo perché hanno scritto qualche romanzo di successo, oppure non aver indossato mai abiti eleganti  e rafforzare il suo, presunto, anticonformismo. A Torino lo abbiamo visto elegantissimo alla prima conferenza stampa e questo punto bisogna dire che è stato in questo caso poco lungimirante infatti nei tre anni vissuti a Napoli poteva approfittarne per farsi un guardaroba  di primo livello visto che nell’ex capitale c’è la miglior sartoria maschile del pianeta.

Ha usato i napoletani, che in lui vedevano  il “comandante”, per denigrare e mettere in cattiva luce De Laurentis trattandolo come una mazza da scopa, veramente inelegante e rozzo averlo definito poco tempo fa “un uomo di mondo”,  continuando a servirsene ancora qualche settimana fa dedicando loro la coppa appena vinta mentre era in trattativa con la Juve.

De Laurentis che per fortuna è antipatico, ti ha scelto per il dopo Benitez prelevandoti dall’Empoli mettendosi contro un’opinione pubblica perplessa e difendendoti da essa quando chiedeva la tua testa dopo le prime prove opache. E’ venuto fino a casa tua per rinnovarti il contratto ed invece di dire a tutti che legittimamente volevi approdare in squadre più ambiziose hai scaricato su Adl le tue responsabilità, ma come si dice “l’irriconoscenza è l’unica cosa più grande della misericordia di Dio”.

Se per il sottoscritto quanto descritto non è stata una sorpresa il comportamento dei giacobini napoletani di six mi ha stupefatto perché sono andati oltre ogni mia più rosea previsione, non pensavo arrivassero fino a tanto. Con una riflessione più attenta però non è una vera sorpresa per quanto accaduto perché i giacobini napoletani fin dal 1799 hanno cercato di distruggere la grande civiltà e la grande cultura napoletana cercando prima farla diventare provinciale con il lavoro di Croce, di Marotta, di Galasso ed ecc.ecc. e visto che hanno fallito questa mediocre classe dirigente ha messo in atto una “iconoclastia culturale”  per cercare di avere partita vinta.

Grazie al loro impegno mai Napoli è scesa così in basso nella sua storia, è stata completamente colonizzata infatti basta andare per le strade di Napoli e vedere i cantieri importanti a chi sono stati assegnati, a proposito da quanti anni sono aperti? Oppure i padroni di tutte le testate giornaliste da dove vengono? Il porto che era il primo nel mediterraneo oggi è quarto in Italia e anche la squadra di calcio della città è in mano ad un “torrese” nato a Roma. Povero Scarfoglio che vede a chi appartiene oggi il Mattino e cosa è rimasto della città che aveva il maggior numero di case editrici d’Europa e il maggior numero di  case discografiche d’Italia, badate non sto parlando del periodo Borbonico perché se parlo di quello vi faccio a pezzetti. Ma la cosa più triste e che sprecate le vostre migliori energie nell’essere anti-juventini , fa chic anche questo, ma non avete mosso un dito per evitare che il glorioso Banco di Napoli scomparisse e fosse sbranato dalla Torinese San Paolo Intesa, nemmeno i vostri antenati post-unitari hanno permesso questo. Schifate il passato glorioso di Napoli però vi piace mettere in bella mostra i magnifici monumenti  che ci ha lasciato dimenticando che quello che voi lascerete alla storia sarà il centro direzionale, fatto progettare ad un Giapponese, e le tristi Vele!!!

Pensavate di voler scrivere la vostra storia attraverso Sarri coniando il termine “Sarrismo” e mettere la sua foto al fianco di Donna Eleonora e tutti i suoi compagnucci del 1799? Ma voi siete lungimiranti perché avevate capito che il vostro comandante avrebbe avuto il loro stesso comportamento!!!.  A proposito come mai dal monitore napoletano gestito da Antonella Orefice è scomparsa la parola “Fraternitè”? e cosa vuol dire essere liberali marxisti oppure essere crociani di estrazione gramsciana? Ho cercato di comprenderlo leggendo alcune tesi che sinceramente si capiscono poco e se lo spiegate a parole…”nostre”  potrei imparare qualcosa.

Il vero comandante, unico e inimitabile, lasciò gloria, onori e successo per andare prima in Africa e poi nella giungla sudamericana  a trovare la morte inseguendo i suoi ideali, prestò servizio in un lebbrosaio per nove mesi senza vaccino e quando venne in Europa, a Mosca, ci stette per pochissimo tempo anticipando il rientro mentre a Botteghe Oscure non ci andò proprio, lo stavano aspettando a  braccia aperte, perché aveva capito che sul Comunismo Europeo  Orwell nella sua “fattoria degli animali” aveva perfettamente ragione.

Ma la cosa più importante del “comandante” e che non andò a Londra a prestare servizio presso l’opulenta  e grassa capitale del capitalismo in cambio di milionari ingaggi, quindi chiedete  scusa al “Che” per averlo affiancato al falso comandate e se siete autenticamente pentiti fate quello che fece a Cuba dopo la rivoluzione, zappate la terra e mietete il grano che il peridio è quello giusto!!!

Sarri è Giacobino non perché è venuto a rubare i soldi, anzi da questo punto di vista è un grande lavoratore, e li ha meritati tutti regalandoci una pagina di storia calcistica che mai verrà cancellata, ma perché è venuto a servirsi di una città, di una passione, di un amore e non a servirli. Ha offeso tutti  quelli che hanno creduto in lui e in quello che voleva rappresentare non  giustifico nessuno tranne i ragazzi delle curve perché il loro amore e la loro passioni autentiche e vere li ha confusi facendosi inebriare dalle parole del finto  comandante vedendo in lui il proprio condottiero.

Il personaggio “Sarri” ,quello vero, è venuto fuori quando all’ultima giornata di campionato non ha voluto concedere nemmeno 1 minuto a Cristian Maggio e fargli salutare il suo pubblico che tanto lo ama e rispetta mentre a Buffon invece gli ha fatto fare una partita per fargli raggiungere un record…che differenza. Ha ragione alla fine ha ragione ha ragione Pjanic: “Sarri sarà sempre grato al Napolismo” e come tutti quelli che sono venuti a Napoli, nella millenaria storia, venuti per conquistarla sono rimasti conquistati come di recente è accaduto al direttore del Museo di Capodimonte Sylvain Bellenger.

Concludo ricordando a Sarri che non può continuare a pensare di essere più intelligente degli altri dichiarando che i tifosi napoletani, che eventualmente  lo fischieranno lo fanno perché sono sempre innamorati di lui, perché i Napoletani sapranno cosa fare come la storia ci ha sempre dimostrato e qualunque cosa metteranno in piedi ti faranno star male.

Claudio Saltarelli

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Il Gargano tra ‘700 e ‘800: la Valle Carbonara e il suo prezioso grano (di Michele Eugenio Di Carlo)

Posted by on Lug 7, 2019

Il Gargano tra ‘700 e ‘800: la Valle Carbonara e il suo prezioso grano (di Michele Eugenio Di Carlo)

L’identità di un territorio, o se preferite il suo genius loci, è determinata da ciò che quella terra è stata nel passato, da ciò che ha fatto e prodotto, e che ha trasmesso. Ne fornisce una impareggiabile e molto efficace dimostrazione Michele Eugenio Di Carlo, che, per vocazione e inclinazione, quando parla delle produzioni agro-alimentari del Gargano, veramente riesce a dare il meglio di se stesso. Studioso, saggista, agronomo, “il racconto della terra e dei suoi prodotti” raggiunge in Di Carlo livelli veramente ragguardevoli. Ma anche particolarmente utili a leggere la realtà di oggi, a comprenderla meglio, e quindi ad immaginare il futuro con maggior consapevolezza. Dalle prossime settimane, un pastificio artigianale di Monte Sant’Angelo, Casa Prencipe di Domenico Prencipe, metterà in produzione una linea di pasta esclusiva dal grano di valle Carbonara. Dietro questa coraggiosa scelta c’è una storia antica, che Michele ha ben pensato di raccontare. Gli sono grato per aver scelto Lettere Meridiane per la pubblicazione. Dietro questa storia, ci sono tante altre possibili storie che potrebbero essere raccontare se il Mezzogiorno ritroverà, come sembra stia accadendo, l’orgoglio del suo genius loci(g.i.) * * * Ad est di San Giovanni Rotondo, oltrepassati il lago di S. Egidio, oggi prosciugato,  e l’altipiano di Campolato, sorgeva su un’altura Monte Sant’Angelo, circondata da «ripe, da balze, e da valloni»,  dove solo i montanari sapevano avventurarsi con destrezza, accompagnati dalla presenza alpestre dei corvi. Monte S. Angelo era passata dai 146 fuochi del 1532 ai 556 del 1669 [1], alle 2508 anime indicate da Giovan Battista Pacichelli nel suo primo viaggio in Puglia del 1682 [2]. Agli inizi dell’Ottocento Manicone la trovava «talmente popolata» da contare 11.500, quindi la città più abitata del Gargano all’epoca [3]. Secondo la dettagliata relazione di Lorenzo Giustiniani, Monte S. Angelo produceva grano, legumi, vino, olio, carrube, oltre che miele, manna e pece [4]. Persino nei boschi di Monte S. Angelo, che si estendevano fino ai limiti della Foresta Umbra, si seminavano in coltura asciutta cavoli e broccoli che vegetavano anche solo grazie alla rugiada abbondante dei declini boscosi posti sulle alture del Gargano; rugiada e alture permettevano che il terriccio rimanesse umido nonostante i prolungati e frequenti periodi siccitosi. A Monte si coltivavano anche le tipiche essenze orticole, che all’impossibilità di irrigare e al basso regime pluviometrico sopperivano con l’umidità notturna e mattutina, tipica delle medie quote altimetriche garganiche. Anche nei boschi di Monte si era diffusa, seguendo l’esempio di San Marco, la coltivazione del granoturco.  Il frate Michelangelo Manicone, visibilmente appagato, annotava che nel decantare le  benefiche virtù del granoturco aveva convinto un “galantuomo” a coltivarlo, imitato in seguito da altri paesani.  A Monte i vigneti erano stati ovunque estirpati per favorire la produzione olearia. Anche nella contrada di “Matinata” le vigne, sommerse dal fango e dai detriti provenienti dal canalone di sbocco della valle Carbonara, erano state sostituite dagli oliveti. Essendo protetta dai venti boreali e posta in piano, a ridosso di un lungo arenile, la contrada di Mattinata produceva oltre ad un eccellente olio, carrube e frutta di vario genere [5]. Luigi Gatta, preparato storico locale, sostiene che nella prima parte dell’Ottocento nel villaggio di Mattinata l’attività agricola aveva mantenuto gli stessi sistemi di coltura. Pur essendo aumentate le porzioni di terra da coltivare a seguito delle «numerose usurpazioni effettuate nel Demanio e nelle Difese Comunali di Vota e Casiglia», che non avevano tuttavia aumentato più di tanto la produzione agricola [6].  Sempre secondo il Gatta, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, dissodamenti abusivi e usurpazioni non avevano interessato i grandi boschi delle contrade di “Vergone del Lupo”, “Davanti”, “Finocchito” e “Spillacardillo”. Disboscamenti e relative “cesinazioni” con costruzioni di muri a secco, cisterne e pagliai abusivi, erano stati realizzati nelle vicinanze del nascente villaggio, nelle località “Copparosa”, “Paratina”, “Parco Mingarello”, “Don Leonardo”. Fenomeni insediativi che sicuramente determinarono un aumento della popolazione e lo sviluppo del primo nucleo abitato di Mattinata sulla collina del “Castelluccio” [7]. Un altro storico di Mattinata, Michele Tranasi, riporta in maniera dettagliata il tipo di coltivazioni presenti all’inizio dell’Ottocento nelle contrade Carbonara e Mattinata. E se si tengono in conto le affermazioni del Gatta sull’insignificante trasformazione del paesaggio agrario tra fine Settecento e primi decenni dell’Ottocento, diventa possibile ricostruire agevolmente il paesaggio agrario di questo lembo del Gargano.  La strada che da valle Carbonara raggiungeva Monte era scoscesa, eppure i pellegrini e le carovane di muli che trasportavano in continuazione vino, agrumi e frutta, spesso da Vico del Gargano, dovevano necessariamente percorrerla. Manicone proponeva la costruzione di una comoda e larga strada con tornanti da valle Carbonara alla “Sacra Spelonca” passando per “Croci”. Nelle aree meno scoscese della valle di Carbonara erano presenti anche i cereali, tra i quali non poteva mancare il grano, soprattutto dopo la carestia del 1764 che aveva causato migliaia di vittime in tutta la  Capitanata e che, come spiega lo storico di  Monte S. Angelo Giuseppe Piemontese [8], aveva indotto i poveri braccianti ad un disboscamento selvaggio proprio per coltivare grano. La coltura prevalente lungo i pendii era il vigneto, impiantato lungo ingegnosi terrazzamenti che avevano la duplice funzione di permettere la coltivazione in piano e di conservare il terreno fertile, altrimenti destinato ad essere asportato dall’azione dilavante delle acque meteoriche. La descrizione dello sbocco della valle Carbonara nella piana di Mattinata del meridionalista di Altamura, Tommaso Fiore, in “Terra di Puglia e di Basilicata”, pubblicata nel 1968, resta una delle testimonianze più limpide e toccanti di questa margine di territorio: 

«È qui che, penetrando nella zona di Mattinata ancora prima del bivio, ho ricevuto la rivelazione che nessuno mi avrebbe potuto fare, ho constato con i miei occhi quel che mai avrei creduto, me l’avessero detto in cento, il prodigio di un lavoro immenso, di un’opera paziente, senza limiti, forsennata, di un popolo di formiche, o di schiavi ostinati, e il sacrificio di generazioni di lavoratori. Oh, avevo ben conoscenza io, da gran tempo, di muretti a secco, specialmente nella dolce plaga tutta a collinette, a sud-est di Bari […] Ma qui non è più una collina, o non c’è più dolcezza; qui, salendo verso il bivio, ai due fianchi, su per la gran massa montuosa, aspra come qualche cocuzzolo che se ne stacca d’improvviso per la regolarità di cono, tutti gli aspetti intorno non sono che muri rustici, a secco, saldamente piantati per contenere appena un piccolo lembo di terra; e non dieci muretti, non venti, non cinquanta, ma a centinaia, a migliaia, senza numero…»[9].

La contrada di Mattinata, all’epoca non ancora Comune, era una delle aree più fertili del territorio di Monte Sant’Angelo. Era passata dalla proprietà delle badie di Pulsano e di Monte Sacro a quelle della Mensa Arcivescovile di Manfredonia, della Basilica di San Michele, dei monasteri delle Clarisse, dei Celestini e dei Carmelitani, per poi finire, prima e dopo la promulgazione delle leggi eversive del 1806, nel possesso esclusivo della borghesia agraria di Monte S. Angelo, che aveva allontanato forzosamente i poveri contadini e braccianti che avevano tentano di colonizzare quei terreni per ragioni di pura sussistenza. Tranasi elenca persino le famiglie agiate che grazie a quella «corsa alla terra» si strutturarono al vertice politico, economico e sociale della comunità di Monte S. Angelo e che, nel bene e nel male, avrebbero condizionato la vita cittadina nelle vicende legate al Risorgimento e al periodo post unitario: Gambadoro, Vischi, Rago, Torres, d’Angelantonio, Basso, d’Errico, Giordani, de Angelis, Prencipe, del Nobile, Cassa, Ciampoli, Capossela, Gelmini, Bisceglia, Azzarone, Amicarelli.  Anche Tranasi conferma, nella piana di Mattinata, l’attività agricola volta alla produzione di cereali e, in misura minore, quella dedicata all’olivo e al mandorlo, segnalando anche in maniera rilevante la presenza di alberi fruttiferi quali fico, pesco, pero e melo [10].  Infatti, il Gargano non presentava il clima rigido del “Piano Cinque Miglia” [11] o del gelido “Monte Corno” [12], né il caldo estivo soffocante del Tavoliere [13]. Diversi erano gli indicatori naturali, definiti “termometri”, che dimostravano la dolcezza del clima garganico. Uno di questi era costituito dalle Graminacee, le cui spighe  nel Gargano maturavano tutte entro il mese di luglio dando ottimo grano e pregevoli “biade”, mentre nei climi rigidi del nord la fase di levata delle spighe avveniva in agosto o settembre, troppo tardi per ottenere una ideale maturazione prima del ritorno dei rigori invernali. 

La questione è ora tornata d’attualità, considerata la smisurata importazione di grano duro canadese in Italia per produrre pasta. Infatti, il grano canadese spesso non giunge a piena  maturazione e deve essere trattato chimicamente con  erbicidi al fine di  anticiparla. Una pratica vietata in Italia e che scatena una furibonda polemica che tocca sia l’aspetto salutare del grano importato, sia l’aspetto commerciale, in quando negli ultimi decenni ben 600 mila ettari di grano duro del Sud  sono stati abbandonati. L’idea di Domenico Prencipe, titolare del pastificio artigianale Casa Prencipe di Monte S. Angelo, di produrre una linea di pasta dal grano di valle Carbonara ha una forte valenza storica e culturale e costituisce un modello imitabile di eccellenze giovanili che non lasciano il territorio e vincono la lotta contro la tentazione di emigrare da un’area in cui la disoccupazione giovanile ha superato il 50%. Un’ultima curiosità che riguarda l’emigrazione prima del processo unitario e che inevitabilmente farà discutere e riflettere: il non dimenticato preside di Monte S. Angelo, Antonio Ciuffreda, nel riportare in un suo testo i dati della popolazione al 31 ottobre 1820 (12 mila anime), numera solo nove emigrati [14]. Michele Eugenio Di Carlo NOTE [1]  L. Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, tomo VI, Napoli, presso Vincenzo Manfredi, 1803, p. 133. [2]  G. B. Pacichelli, Memorie dei viaggi per la Puglia (1682-1687), a cura di Eleonora Carriero, Edizioni digitali del CISVA, 2010, p. 6.

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span.s1 {font: 10.0px ‘Noteworthy Light’; font-kerning: none}
span.s2 {font-kerning: none} [3]  M. Manicone, La Fisica Daunica , a cura di L. Lunetta e I. Damiani, parte II Gargano, cit., p.21. [4]  L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, tomo VI, Napoli, presso V. Manfredi, 1803, p. 132. [5]  Cfr. M. Manicone, La Fisica Daunica, parte II, cit., pp. 26-29. [6]  Cfr. L. Gatta, Mattinata frazione di Monte Sant’Angelo tra ‘800 e ‘900, Vol. I, Foggia, Grenzi Editore, 1996, p. 62. [7]  Cfr., ivi, p. 195. [8]  G. Piemontese, I Grimaldi. Monte Sant’Angelo e il Gargano dalla feudalità all’unità d’Italia , Foggia, Bastogi, 2006, pp. 81-88. [9]  T. Fiore, Terra di Puglia e di Basilicata, Cosenza, Pellegrini Editore, 1968; cit. tratta da L. Gatta, Mattinata frazione di Monte Sant’Angelo tra ‘800 e ‘900, cit., p. 208 nota 11. [10]  M. Tranasi, Dalla proprietà comune alla proprietà privata – Monte Sant’Angelo 1806-1860, Foggia, Leone Editrice, 1994, pp. 111-113. [11]  L’Altopiano delle Cinquemiglia, posto a circa 1250 metri s.l.m. nella bassa provincia dell’Aquila, è compreso nel territorio dei comuni di Roccaraso, Rivisondoli, Rocca Pia. [12]  Per Monte Corno lo scienziato Manicone non intende nessuna delle vette delle Alpi così denominate, ma il Corno Grande posto nel massiccio del Gran Sasso e che ne costituisce la vetta più alta (metri 2914 s.l.m.). [13]  Cfr. M. Manicone, La Fisica Appula, tomo V, libro VII, cit., pp. 5-8. [14]  A. Ciuffreda, Uomini e fatti della montagna dell’Angelo, Foggia, Centro Studi Garganici, 1989, p. 356.

fonte http://www.letteremeridiane.org/2018/08/il-gargano-tra-700-e-800-la-valle/?fbclid=IwAR3xYx_0sVnjKEy07RIFxtO7pXTfj1y-_lwTlfXeJKbklyLzR_jldUtGadA

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