Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Le Pasque Veronesi del 1797

Posted by on Mag 8, 2019

Le Pasque Veronesi del 1797

1. L’Armata d’Italia nel territorio della Repubblica di Venezia
Verso la fine del 1796 tutta la parte occidentale del territorio della Repubblica di Venezia è occupata militarmente dalle forze della Repubblica Francese: a una a una le città più importanti della terraferma — Bergamo, Brescia, Peschiera e Vicenza — vedono l’arrivo dell’Armata d’Italia, guidata dal generale Napoleone Bonaparte (1769-1821). A Verona i francesi giungono il 1° giugno 1796 e s’impossessano subito dei forti della città come pure di varie chiese, adibite poi a ospedali e a ricoveri per la truppa.

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STORIE DI DONNE DIVERSE ……………le brigantesse ottocentesche del meridione d’Italia (II)

Posted by on Mar 31, 2019

STORIE DI DONNE DIVERSE ……………le brigantesse ottocentesche del meridione d’Italia (II)

La “donna del brigante” è colei che ha dovuto o voluto seguire il proprio uomo (spesso marito, talora amante, raramente figlio) che si è dato alla macchia.
Nel prio caso, quello della costrizione, il darsi alla macchia del proprio uomo l’ha confinata in una condizione ancora più disperata.

Le è venuta meno ogni forma di sostentamento: l’opinione pubblica l’ha additata con disprezzo e l’ha isolata, spesso anche per timore di sospetti di connivenza. Non le è rimasto che il mendicio ed il meretricio. Sola, senza mezzi, disprezzata dai borghesi benpensanti e dai popolani acquiescenti, controllata a vista dalle autorità governative, talvolta oggetto di attenzioni inconfessabili dei “galantuomini”, ha preferito alla fine seguire fino in fondo la scelta di vita del suo uomo.

La “donna del brigante” è anche colei che viene rapita e sedotta dal bandito, ridotta in stato di schiavitù e costretta – contro il suo volere – a seguirlo nelle sue azioni brigantesche. Spesso finisce però per innamorarsene, per quella condizione psicologica che oggi è classificata come “sindrome di Stoccolma”. E’ il caso, ad esempio – sempre nel periodo di occupazione francese – di una non meglio identificata Margherita.

Il brigante Bizzarro, uomo violento e sanguinario, imperversava nelle Calabrie. Costui, nel corso di una delle sue crudeli scorribande, sterminò un intera famiglia, trucidò un padre e ne rapì la figlia Margherita. Bizzarro sicuramente stuprò la donna, la rese sua schiava e la condusse con sé, in groppa al proprio cavallo, nelle imprese brigantesche alle quali dava continuamente vita.

Ci si aspetterebbe che la donna fosse investita da rabbia, rancore e odio. Invece in Margherita, lentamente, l’odio verso Bizzarro si trasformò in ammirazione, il sentimento di vendetta fu sostituito dall’amore verso il boia della sua famiglia. Ne diventò la compagna ed il braccio destro e lo accompagnò nelle sue scorrerie, gareggiando con lui in audacia e coraggio. Catturata in un’imboscata, non sopravvisse a lungo ai rigori della prigione che, come vedremo più avanti non erano inferiori a quelli della latitanza.

Per un beffardo gioco del destino una reazione opposta dimostrò invece – proprio nei confronti dello stesso Bizzarro – la donna che subentrò a Margherita nelle grazie del bandito: Niccolina Licciardi. Un giorno erano entrambi braccati dai piemontesi.

Bizzarro, in un raptus di follia omicida, sfracellò contro le pareti di una caverna il neonato avuto dalla compagna, per la sola ragione che il pianto del bimbo rischiava di rivelarne la presenza agli inseguitori. Niccolina non versò neppure una lacrima.

Con le mani scavò una fossa, vi seppellì il figlioletto e si pose a guardia della tomba – anche dormendovi sopra – per evitare lo scempio da parte degli animali selvatici che infestavano la zona. Profittando poi del sonno di Bizzarro, gli sottrasse il fucile e gli fece saltare le cervella, sparandogli in un orecchio.

Decapitato il bandito, ne avvolse la testa in un panno, si diresse a casa del governatore di Catanzaro e sul suo desco lanciò il macabro trofeo. Incassata la taglia, ritornò sui monti e di lei si perse ogni traccia.
Alcune volte, ed è il caso della libera scelta, “la donna del brigante ” segue volontariamente l’uomo di cui è innamorata.

Tale appare la vicenda di Maria Capitanio. La ragazza, nel 1865, a quindici anni si innamorò di Agostino Luongo, un operaio delle ferrovie. Maria continuò ad amarlo e a frequentarlo di nascosto anche quando questi si dette alla macchia. Lo seguì nella latitanza, consumò le “nozze rusticane” e partecipò per pochi giorni alle azioni delittuose della banda, fungendo da vivandiera e da carceriera di un ricco possidente, tenuto in ostaggio.

Catturata dopo una decina di giorni, in uno scontro a fuoco, grazie ai denari del padre, fu prosciolta dall’accusa di brigantaggio, essendo riuscita a dimostrare – attraverso false testimonianze – di essere stata costretta con la forza a seguire il brigante Luongo.

Rivelatrice di contraddizioni è la vicenda di Filomena Pennacchio, una tra le più note “brigantesse”. Figlia di un macellaio, nata in Irpinia nella provincia borbonica di Principato Ultra, fin dall’infanzia incrementò il povero bilancio familiare servendo come sguattera presso alcuni notabili del paese.

Alcuni mesi dopo il primo incontro con Giuseppe Schiavone, famoso capobanda lucano, vendette per alcuni ducati il poco che aveva e lo seguì nella latitanza. La vita brigantesca la rese subito un’intrepida combattente, evidenziando le sue inclinazioni sanguinarie. Con Schiavone partecipò a furti di bestiame ed a sequestri di persona, trovando modo di meritarsi il rispetto e la simpatia di tutta la banda.

Non si sottrasse nemmeno all’omicidio, avendo preso attiva parte all’eccidio di nove soldati del 45° Reggimento di Fanteria nel luglio del 1863 a Sferracavallo. Era altresì capace di slanci di generosità come è testimoniato dal soccorso che offrì ad alcune vittime della banda Schiavone e per aver cercato di salvare alcune vite.

Di lei si disse anche, ma senza suffragio di prove, essere stata non solo l’amante di Schiavone ma anche di Carmine Crocco, il leggendario e riconosciuto capo di tutte le bande lucane e dei suoi luogotenenti Ninco Nanco e donato Tortora.

La presenza di più donne nella banda portava facilmente ad episodi di gelosia, dei quali si servì largamente l’esercito occupante per annientare il nemico. E fu proprio la gelosia di Rosa Giuliani, cui Filomena Pennacchio aveva sottratto i favori di Schiavone a tradire quest’ultimo: la delazione della Giuliani consentì, infatti, l’arresto di Schiavone e di altri briganti che furono subito condannati a morte.
Prima di morire il feroce Schiavone volle rivedere ancora Filomena, gravida di un suo figlio.

Fu un incontro tenerissimo tra la brigantessa regina di ferocia ed il capobanda terrore delle valli dell’Ofanto che in ginocchio – chiedendole perdono – le baciava le mani, i piedi ed il ventre pregno.

Filomena Pennacchio però non visse – come altre – nel ricordo del suo uomo. Preferì – allettata da una promessa di sconto della pena – tradire anch’essa e fece catturare con le sue rivelazioni un altro luogotenente di Crocco, Agostino Sacchitiello ed altre due famose “brigantesse”, Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Condannata a venti anni di reclusione, la Pennacchio godette di vari sconti di pena: dopo sette anni di detenzione tornò a casa ed anche per lei si aprirono le porte di una vita anonima.

Nella storia della calabrese Marianna Olivierio, detta “Ciccilla”, è sempre il sentimento della gelosia il detonatore che fa esplodere la determinazione criminale della “brigantessa”: Ciccilla era una bellissima ragazza dalle lunghe e nere chiome e dagli occhi corvini. Sposa di Pietro Monaco, un ex soldato borbonico ed ex garibaldino, datosi al brigantaggio dopo un omicidio, non lo aveva inizialmente seguito.

Rimase nel proprio paese, accontentandosi di rari, furtivi momenti di intimità con il marito quando questi scendeva dai monti, fino a quando venne a sapere che Monaco aveva avuto una fugace relazione con la sorella. Ciccilla decise di vendicarsi. Invitò la sorella in casa e – nel cuore della notte – la trucidò con un pugnale, martoriandone il corpo con una trentina di colpi d’ascia.

Subito dopo – a dorso di mulo – raggiunse la banda del marito, divenendone addirittura il capo di fatto. Il raccapriccio che accompagnò le sue gesta si diffuse in tutto il circondario.

Perfino i suoi stessi briganti ne ebbero terrore e disprezzo. Usava, ad esempio, infierire sui cadaveri dei nemici uccisi, mutilandoli atrocemente con coltelli e rasoi che portava sempre con sé.

Catturata dopo la morte del marito, fu disconosciuta dai suoi stessi familiari. Anche la madre rifiutò di visitarla in carcere. Il processo, che fu celebrato a Catanzaro con grande partecipazione di gente e che vide come testimoni a carico anche i parenti suoi e del marito, si concluse con la condanna a morte.

Ed è uno dei rarissimi, se non l’unico, caso di sentenza capitale per una donna. La sentenza – contrariamente a quanto sostengono taluni frettolosi cronisti – non fu poi eseguita ma tramutata nell’ergastolo perché il governo italiano non aveva interesse a mostrarsi all’opinione pubblica internazionale come giustiziere di una donna.
Storie brigantesche, come si vede di inaudita ferocia, ma anche storie di teneri sentimenti che le esasperazioni di una guerra civile non riescono a sopprimere del tutto.

Valentino Romano

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BRIGANTI e GARIBALDINI SORA CAPOLUOGO 1900

Posted by on Feb 28, 2019

BRIGANTI e GARIBALDINI SORA CAPOLUOGO 1900

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L’ultimo Duca di Sora Antonio II si è spento a Roma nel Palazzo”SORA”, il 26 aprile 1805. I successori “Nominali” son stati il XVI Duca di Sora, Luigi Maria di Antonio 11 (1767-1841), il XVII Duca, Antonio III di Luigi (1808-1883) ed il XVIII Duca, Rodolfo Boncompagni Ludovisi di Antonio III, nato nel 1832. Il 10 agosto 1802 il vescovo Agostino Colaianni ha traslato le spoglie di San Giuliano Martire dalla Chiesa di Santo Spirito alla Cattedrale di Santa Maria, ove riposano nella seconda cappella della navata destra.

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IL MONITORE NAPOLITANO?……….MA

Posted by on Gen 14, 2019

IL MONITORE NAPOLITANO?……….MA

La povertà dei temi e delle idee che la repubblica napoletana, Capecelatro la definì “Repubblica da Operetta” ha prodotto e trasmesso sono racchiuse nel monitore napolitano fondato, durante quei pochi mesi del 1799, da donna Eleonora Pimentel Fonseca diventata un simbolo della città di Napoli da fine 800 fino ai giorni nostri, nonostante non abbiamo lasciato nessuna traccia, nessuna innovazione, nessuna nuova idea se non per la sua irriconoscenza verso la casa Reale che l’aveva tolta dalla miseria, se non per il suo alto tradimento verso il popolo napoletano e verso lo stato, se non per la sua attività di collaborazionista dell’esercito Francese invasore che non pensava che a saccheggiare i tesori del Regno e se non per la creazione del suddetto giornale “Monitore Napolitano” che fu solo uno strumento diffamatorio verso i Borbone, verso la realtà dei fatti che stavano accadendo e verso la cosa più importante che è la verità.

Gli stessi organi di stampa e i dispacci militari francesi erano costretti a smentire molti articoli che venivano pubblicati dal giornale che non ha fatto altro che anticipare la stampa e la tv spazzatura che ogni giorno dobbiamo sopportare.

Ancora oggi esiste il “Monitore Napolitano” organo di informazione storica che i giacobini napoletani continuano ad usare per disinformare e modificare la verità storica isolandosi dal reso del mondo che ormai ha preso coscienza di come la verità storica dal 1799 fino ai giorni nostri sia ben diversa. Di seguito pubblichiamo una storia che il nostro Raimondo Rotondi ha ritrovato che non merita nessun commento ma soltanto esser letto, nemmeno i Soviet sono arrivati a tanto.

Claudio Saltarelli

Tra i vari tipi di brigantaggio che caratterizzarono il periodo postunitario è importante evidenziare quello della zona di Sessa Aurunca in quanto, tra coloro che lo combatterono, si distinse il famoso pittore e patriota sessano Luigi Toro, che tanto aveva sacrificato per gli ideali di Libertà e Unità della Nazione.

Egli sentì il dovere di ritornare a combattere e lo fece contro i Briganti del suo territorio, quello aurunco.

Nel 1859 Luigi Toro (Lauro di Sessa CE – 1835- Pignataro Maggiore CE – 1900) si era arruolato nei Cacciatori delle Alpi ove aveva conosciuto Pilade Bronzetti di Cuneo, a cui dedicherà uno dei suoi migliori dipinti per celebrarne il sacrificio nella battaglia del Volturno.

In seguito si unì ai Mille col grado di sergente alla compagnia delle “Guide Garibaldine“ preposte alla protezione del futuro Generale.

Durante la campagna siciliana dimostrò tutto il suo valore, conquistandosi la fiducia dello stesso Garibaldi che lo volle accanto a sé in diverse occasioni.

Purtroppo dovette assistere alla morte del suo grande commilitone piemontese Pilade Bronzetti, al quale dedicò nel 1885 una tela che riproduce “La morte di Pilade Bronzetti a Castelmorrone”, oggi presente nei depositi del Museo Napoletano di San Martino.

Luigi Toro fu, dunque, uno dei protagonisti della Unificazione italiana nei momenti decisivi. Quando il brigantaggio endemico della zona sessana assunse i connotati della reazione con Francesco II che finanziava i briganti dell’alto casertano, il pittore e patriota Luigi Toro pensò che fosse il momento di difendere gli ideali per cui aveva combattuto, nonostante tutto il suo impegno era tutto dedito alla passione artistica.

In questa fase Luigi Toro fece parte della Guardia Nazionale con il grado di Maggiore e Comandante del 2° Battaglione.

La Guardia Nazionale, che era sta un’istituzione del Governo Borbonico, viene riproposta al fine di svolgere compiti di sorveglianza del territorio a sostegno delle forze governative.

Luigi Toro si guadagnò la fama di leggendario e intrepido combattente nella repressione del brigantaggio e Giovanni Sopiti, che gli dedicò una breve biografia così si esprime al riguardo del pittore e patriota sessano:

“Tutti sapevano del suo meraviglioso coraggio, e come fosse tiratore insuperabile… e dovunque si annunciasse che egli fosse per giungere, si disperdevano le masnade brigantesche…tale elevava a sé luminoso prestigio, che ne era conquista eziandio tutta la efferatezza di quei malfattori, i quali altresì lo ammiravano, ed erano costretti ad amarlo, per gli umanitari riguardi che egli adoperava verso le famiglie di quegli che aveanla abbandonata per darsi alla vita del bandito.”

Allo stesso modo il pittore e critico d’arte di Frosinone Costantino Abbatecola rivela:

“Toro mostrò molto coraggio nella lotta contro i Briganti… In quel tempo Toro si esercitava al tiro della pistola ed era giunto a tale perfezione che metteva cento colpi l’un dopo l’altro nel medesimo bersaglio. Questa qualità del Toro, accoppiata ad una grande influenza morale che esercitava sul mandamento di Sessa Aurunca, ben conosciuta dai Briganti, bastò a salvare il Paese dalle loro oppressioni perché credettero prudente non affrontare il Toro, come raccontarono parecchi Briganti venuti poi in potere della giustizia.“

Ed è proprio sul brigantaggio sessano che lo storico pignatarese Nicola Borrelli, allievo dell’artista e patriota risorgimentale Luigi Toro, dà un giudizio “tranchant” molto negativo del fenomeno del Brigantaggio nell’Alto Casertano, definendolo fanaticamente “reazionario “ in un testo che avrà tanto successo.

Il titolo del testo è Episodi di brigantaggio reazionario nella campagna sessana con la cui pubblicazione il Borrelli volle anche rendere omaggio al suo maestro Luigi Toro, che , proprio nel natio territorio aurunco, dopo essere stato uno degli artefici dell’Unità lasciò la passione artistica per dedicarsi alla repressione del Brigantaggio e riaffermare in tal modo gli ideali di libertà e di giustizia, che avevano caratterizzato la sua carriera quale Patriota.

Nel libro di Borrelli si fa riferimento al Posto di Guardia in Piedimonte di Sessa, istituito dal Maggiore Luigi Toro in relazione ad un documento inviato al Comandante della Guardia Nazionale di Carano in data 8 aprile 1862.

In esso il Comandante Toro informa:

“Conseguentemente alle mie ispezioni fatte ai diversi Quartieri, ho avuto agio di osservare la posizione strategica di Piedimonte, la quale richiede un Posto di Guardia a sé; perlocché Ella sarà compiacente disporre che sia subito aperto il locale e fornito della corrispondente forza, nella intelligenza che tale servizio dovrà prestarsi dai militi del Paese nel qual caso essi non presteranno più servizio nel Posto di Carano”.

Anche in tale momento storico Luigi Toro dimostra la sua audacia e il suo coraggio misto alla generosità che lo stesso Borrelli esplicita nella maniera seguente:

“La sua maschia figura di gentiluomo franco, benefico, generoso, coraggioso fino alla temerarietà gli ottennero l’illimitato rispetto da parte dei tristi banditi che nei primi anni postunitari gettavano il terrore nella Provincia, proprio quando il Toro, nella qualità di Maggiore della Guardia Nazionale, era incaricato della repressione del Brigantaggio e da questi mostri feroci che egli sfidava ogni giorno non gli fu torto un capello… anche quando avrebbero potuto impadronirsi di lui, vendicarsi , finirlo, ma che, per rispetto, non l’avrebbero mai fatto…”

Furono soprattutto le bande dei fratelli Francesco ed Evangelista Guerra, di Alessandro Pace, di Francesco Tommassino e di Giacomo Ciccone e Luigi Alonzo detto Chiavone ad imprimere una direzione politica reazionaria al fenomeno del brigantaggio.

Inoltre vi era quel Domenico Fuoco che si definiva “ Capitano e ajutante del Re Francesco II”.

In raccordo storico con il Brigantaggio prodotto dalla reazione “borbonico-pontificia ” del Cardinale Ruffo che si era servito dei “famigerati” Fra Diavolo e Mammone, i ” tristissimi ” briganti che furono sovvenzionati dai Borbone, anche in tal caso la ferocia dei Capibriganti – sostiene Borrelli – era dovuta anche alla speranza che un probabile ritorno del re Borbone avrebbe apportato benefici notevoli.

Nell’agro aurunco, secondo lo storico, i Borbone aveva lasciato tale “scia di ignoranza, di incoscienza e di abbruttimento” da procurare un forte sentimento di odio contro la società borghese dell’ agiatezza e, dell’ozio e dello sfruttamento. Precisa infatti lo storico Nicola Borrelli:

“le barbari leggi che regolavano le triste accolte, perfezionarono via via la criminalità del gregario e trasformavano presto in terribili tipi di grassatori o di assassini i novizi, sovente passati alla banda, come dicemmo, per una leggerezza, un errore, in un momento di sovreccitazione, sotto l’impulso di un rammarico o d’uno sdegno talvolta giustissimi”!

Scrive ancora Borrelli: “V’era, in tal caso – disperata ma vera – una via di salvezza, una via irta di pericoli e d’incognite, ma ricca di speranza, di promesse, di rivendicazione: la campagna, la banda” ma alcuni andavano ad ingrossare le file dei Pace dei Guerra, dei Cedroni, degli Anfrozzi, dei Ciccone, che però non erano altro che “bieche figure di malvagi, spesso avanzi dell’esercito Borbonico.

La ribellione del brigantaggio nella zona sessana aveva quindi un’impronta ed un’insidia in quanto collegato al revanscismo borbonico.

Il Borrelli , appassionato di pittura e che diventerà un discepolo di Luigi Toro, accogliendolo nella sua casa di Pignataro Maggiore (CE) negli ultimi anni di vita, rende omaggio alla sua figura di patriota che fu coerente con i propri ideali di libertà nel periodo di conquista dell’Unità della Patria, prima combattendo con i Mille per liberare il Mezzogiorno dai Borbone e poi ritornando in prima linea a difendere l’Italia dai briganti prezzolati dagli stessi nel periodo postunitario nel proprio territorio natio di Sessa Aurunca, a confine con lo Stato Pontificio.

Lo storico Borrelli, a proposito di tale brigantaggio che imperversava nella zona sessana, non ha esitazione a collocarlo, quindi, in maniera decisa quale tentativo borbonico di suscitare una guerriglia politica ai fini della restaurazione scrivendo:

“Questo, nella sua semplice trama psicologica, il fenomeno del Brigantaggio così detto politico – reazionario, di cui fu teatro Terra di Lavoro, e particolarmente la contrada di cui trattiamo, negli albori della nostra santa indipendenza.”


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Storia di Rocca d’Arce

Posted by on Dic 23, 2018

Storia di Rocca d’Arce

Che Roccadarce fosse stata abitata fin da tempi lontanissimi non ci sono dubbi, tutto ciò è suffragato da testimonianze archeologiche risalenti all’età del ferro, probabilmente perché Roccadarce era situata in una zona centrale nella Valle del Liri, ricca di falde acquifere e di cacciagione. Nella costruzione della strada che da Roccadarce raggiunge il cimitero, vennero ritrovati reperti di ceramiche incise e decorate con scene casalinghe.

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