Posted by altaterradilavoro on Mar 31, 2019
La “donna del brigante” è colei che
ha dovuto o voluto seguire il proprio uomo (spesso marito, talora amante,
raramente figlio) che si è dato alla macchia.
Nel prio caso, quello della costrizione, il darsi
alla macchia del proprio uomo l’ha confinata in una condizione ancora più
disperata.
Le è venuta meno ogni forma di sostentamento:
l’opinione pubblica l’ha additata con disprezzo e l’ha isolata, spesso anche
per timore di sospetti di connivenza. Non le è rimasto che il mendicio ed il
meretricio. Sola, senza mezzi, disprezzata dai borghesi benpensanti e dai
popolani acquiescenti, controllata a vista dalle autorità governative, talvolta
oggetto di attenzioni inconfessabili dei “galantuomini”, ha preferito
alla fine seguire fino in fondo la scelta di vita del suo uomo.
La “donna del brigante” è anche colei
che viene rapita e sedotta dal bandito, ridotta in stato di schiavitù e
costretta – contro il suo volere – a seguirlo nelle sue azioni brigantesche.
Spesso finisce però per innamorarsene, per quella condizione psicologica che
oggi è classificata come “sindrome di Stoccolma”. E’ il caso, ad
esempio – sempre nel periodo di occupazione francese – di una non meglio
identificata Margherita.
Il brigante Bizzarro, uomo violento e
sanguinario, imperversava nelle Calabrie. Costui, nel corso di una delle sue
crudeli scorribande, sterminò un intera famiglia, trucidò un padre e ne rapì la
figlia Margherita. Bizzarro sicuramente stuprò la donna, la rese sua schiava e
la condusse con sé, in groppa al proprio cavallo, nelle imprese brigantesche
alle quali dava continuamente vita.
Ci si aspetterebbe che la donna fosse investita
da rabbia, rancore e odio. Invece in Margherita, lentamente, l’odio verso
Bizzarro si trasformò in ammirazione, il sentimento di vendetta fu sostituito
dall’amore verso il boia della sua famiglia. Ne diventò la compagna ed il
braccio destro e lo accompagnò nelle sue scorrerie, gareggiando con lui in
audacia e coraggio. Catturata in un’imboscata, non sopravvisse a lungo ai
rigori della prigione che, come vedremo più avanti non erano inferiori a quelli
della latitanza.
Per un beffardo gioco del destino una reazione
opposta dimostrò invece – proprio nei confronti dello stesso Bizzarro – la
donna che subentrò a Margherita nelle grazie del bandito: Niccolina Licciardi.
Un giorno erano entrambi braccati dai piemontesi.
Bizzarro, in un raptus di follia omicida,
sfracellò contro le pareti di una caverna il neonato avuto dalla compagna, per
la sola ragione che il pianto del bimbo rischiava di rivelarne la presenza agli
inseguitori. Niccolina non versò neppure una lacrima.
Con le mani scavò una fossa, vi seppellì il
figlioletto e si pose a guardia della tomba – anche dormendovi sopra – per
evitare lo scempio da parte degli animali selvatici che infestavano la zona.
Profittando poi del sonno di Bizzarro, gli sottrasse il fucile e gli fece
saltare le cervella, sparandogli in un orecchio.
Decapitato
il bandito, ne avvolse la testa in un panno, si diresse a casa del governatore
di Catanzaro e sul suo desco lanciò il macabro trofeo. Incassata la taglia,
ritornò sui monti e di lei si perse ogni traccia.
Alcune volte, ed è il caso della libera scelta, “la donna del brigante
” segue volontariamente l’uomo di cui è innamorata.
Tale appare la vicenda di Maria Capitanio. La
ragazza, nel 1865, a quindici anni si innamorò di Agostino Luongo, un operaio
delle ferrovie. Maria continuò ad amarlo e a frequentarlo di nascosto anche
quando questi si dette alla macchia. Lo seguì nella latitanza, consumò le
“nozze rusticane” e partecipò per pochi giorni alle azioni delittuose
della banda, fungendo da vivandiera e da carceriera di un ricco possidente,
tenuto in ostaggio.
Catturata dopo una decina di giorni, in uno
scontro a fuoco, grazie ai denari del padre, fu prosciolta dall’accusa di
brigantaggio, essendo riuscita a dimostrare – attraverso false testimonianze –
di essere stata costretta con la forza a seguire il brigante Luongo.
Rivelatrice di contraddizioni è la vicenda di
Filomena Pennacchio, una tra le più note “brigantesse”. Figlia di un
macellaio, nata in Irpinia nella provincia borbonica di Principato Ultra, fin
dall’infanzia incrementò il povero bilancio familiare servendo come sguattera
presso alcuni notabili del paese.
Alcuni mesi dopo il primo incontro con Giuseppe
Schiavone, famoso capobanda lucano, vendette per alcuni ducati il poco che
aveva e lo seguì nella latitanza. La vita brigantesca la rese subito
un’intrepida combattente, evidenziando le sue inclinazioni sanguinarie. Con
Schiavone partecipò a furti di bestiame ed a sequestri di persona, trovando modo
di meritarsi il rispetto e la simpatia di tutta la banda.
Non si sottrasse nemmeno all’omicidio, avendo
preso attiva parte all’eccidio di nove soldati del 45° Reggimento di Fanteria
nel luglio del 1863 a Sferracavallo. Era altresì capace di slanci di generosità
come è testimoniato dal soccorso che offrì ad alcune vittime della banda
Schiavone e per aver cercato di salvare alcune vite.
Di lei si disse anche, ma senza suffragio di
prove, essere stata non solo l’amante di Schiavone ma anche di Carmine Crocco,
il leggendario e riconosciuto capo di tutte le bande lucane e dei suoi
luogotenenti Ninco Nanco e donato Tortora.
La
presenza di più donne nella banda portava facilmente ad episodi di gelosia, dei
quali si servì largamente l’esercito occupante per annientare il nemico. E fu
proprio la gelosia di Rosa Giuliani, cui Filomena Pennacchio aveva sottratto i
favori di Schiavone a tradire quest’ultimo: la delazione della Giuliani
consentì, infatti, l’arresto di Schiavone e di altri briganti che furono subito
condannati a morte.
Prima di morire il feroce Schiavone volle rivedere ancora Filomena, gravida di
un suo figlio.
Fu un incontro tenerissimo tra la brigantessa
regina di ferocia ed il capobanda terrore delle valli dell’Ofanto che in
ginocchio – chiedendole perdono – le baciava le mani, i piedi ed il ventre
pregno.
Filomena Pennacchio però non visse – come altre
– nel ricordo del suo uomo. Preferì – allettata da una promessa di sconto della
pena – tradire anch’essa e fece catturare con le sue rivelazioni un altro
luogotenente di Crocco, Agostino Sacchitiello ed altre due famose
“brigantesse”, Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Condannata a
venti anni di reclusione, la Pennacchio godette di vari sconti di pena: dopo
sette anni di detenzione tornò a casa ed anche per lei si aprirono le porte di
una vita anonima.
Nella storia della calabrese Marianna
Olivierio, detta “Ciccilla”, è sempre il sentimento della gelosia il
detonatore che fa esplodere la determinazione criminale della
“brigantessa”: Ciccilla era una bellissima ragazza dalle lunghe e
nere chiome e dagli occhi corvini. Sposa di Pietro Monaco, un ex soldato
borbonico ed ex garibaldino, datosi al brigantaggio dopo un omicidio, non lo
aveva inizialmente seguito.
Rimase nel proprio paese, accontentandosi di
rari, furtivi momenti di intimità con il marito quando questi scendeva dai
monti, fino a quando venne a sapere che Monaco aveva avuto una fugace relazione
con la sorella. Ciccilla decise di vendicarsi. Invitò la sorella in casa e –
nel cuore della notte – la trucidò con un pugnale, martoriandone il corpo con
una trentina di colpi d’ascia.
Subito dopo – a dorso di mulo – raggiunse la
banda del marito, divenendone addirittura il capo di fatto. Il raccapriccio che
accompagnò le sue gesta si diffuse in tutto il circondario.
Perfino i suoi stessi briganti ne ebbero
terrore e disprezzo. Usava, ad esempio, infierire sui cadaveri dei nemici
uccisi, mutilandoli atrocemente con coltelli e rasoi che portava sempre con sé.
Catturata dopo la morte del marito, fu
disconosciuta dai suoi stessi familiari. Anche la madre rifiutò di visitarla in
carcere. Il processo, che fu celebrato a Catanzaro con grande partecipazione di
gente e che vide come testimoni a carico anche i parenti suoi e del marito, si
concluse con la condanna a morte.
Ed è uno dei rarissimi, se non l’unico, caso di sentenza capitale per una donna. La sentenza – contrariamente a quanto sostengono taluni frettolosi cronisti – non fu poi eseguita ma tramutata nell’ergastolo perché il governo italiano non aveva interesse a mostrarsi all’opinione pubblica internazionale come giustiziere di una donna.
Storie brigantesche, come si vede di inaudita ferocia, ma anche storie di teneri sentimenti che le esasperazioni di una guerra civile non riescono a sopprimere del tutto.
Valentino Romano
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Posted by altaterradilavoro on Gen 14, 2019
La povertà dei temi e delle idee che la repubblica napoletana, Capecelatro la definì “Repubblica da Operetta” ha prodotto e trasmesso sono racchiuse nel monitore napolitano fondato, durante quei pochi mesi del 1799, da donna Eleonora Pimentel Fonseca diventata un simbolo della città di Napoli da fine 800 fino ai giorni nostri, nonostante non abbiamo lasciato nessuna traccia, nessuna innovazione, nessuna nuova idea se non per la sua irriconoscenza verso la casa Reale che l’aveva tolta dalla miseria, se non per il suo alto tradimento verso il popolo napoletano e verso lo stato, se non per la sua attività di collaborazionista dell’esercito Francese invasore che non pensava che a saccheggiare i tesori del Regno e se non per la creazione del suddetto giornale “Monitore Napolitano” che fu solo uno strumento diffamatorio verso i Borbone, verso la realtà dei fatti che stavano accadendo e verso la cosa più importante che è la verità.
Gli stessi organi di stampa e i dispacci militari francesi erano costretti a smentire molti articoli che venivano pubblicati dal giornale che non ha fatto altro che anticipare la stampa e la tv spazzatura che ogni giorno dobbiamo sopportare.
Ancora oggi esiste il “Monitore Napolitano” organo di informazione storica che i giacobini napoletani continuano ad usare per disinformare e modificare la verità storica isolandosi dal reso del mondo che ormai ha preso coscienza di come la verità storica dal 1799 fino ai giorni nostri sia ben diversa. Di seguito pubblichiamo una storia che il nostro Raimondo Rotondi ha ritrovato che non merita nessun commento ma soltanto esser letto, nemmeno i Soviet sono arrivati a tanto.
Claudio Saltarelli
Tra i vari tipi di brigantaggio che
caratterizzarono il periodo postunitario è importante evidenziare quello della
zona di Sessa Aurunca in quanto, tra coloro che lo combatterono, si distinse il
famoso pittore e patriota sessano Luigi Toro, che tanto aveva sacrificato per
gli ideali di Libertà e Unità della Nazione.
Egli sentì il dovere di ritornare a
combattere e lo fece contro i Briganti del suo territorio, quello aurunco.
Nel 1859 Luigi Toro (Lauro di Sessa
CE – 1835- Pignataro Maggiore CE – 1900) si era arruolato nei Cacciatori delle
Alpi ove aveva conosciuto Pilade Bronzetti di Cuneo, a cui dedicherà uno dei
suoi migliori dipinti per celebrarne il sacrificio nella battaglia del
Volturno.
In seguito si unì ai Mille col grado
di sergente alla compagnia delle “Guide Garibaldine“ preposte alla protezione
del futuro Generale.
Durante la campagna siciliana
dimostrò tutto il suo valore, conquistandosi la fiducia dello stesso Garibaldi
che lo volle accanto a sé in diverse occasioni.
Purtroppo dovette assistere alla
morte del suo grande commilitone piemontese Pilade Bronzetti, al quale dedicò
nel 1885 una tela che riproduce “La morte di Pilade Bronzetti a Castelmorrone”,
oggi presente nei depositi del Museo Napoletano di San Martino.
Luigi Toro fu, dunque, uno dei
protagonisti della Unificazione italiana nei momenti decisivi. Quando il
brigantaggio endemico della zona sessana assunse i connotati della reazione con
Francesco II che finanziava i briganti dell’alto casertano, il pittore e
patriota Luigi Toro pensò che fosse il momento di difendere gli ideali per cui
aveva combattuto, nonostante tutto il suo impegno era tutto dedito alla
passione artistica.
In questa fase Luigi Toro fece parte
della Guardia Nazionale con il grado di Maggiore e Comandante del 2° Battaglione.
La Guardia Nazionale, che era sta
un’istituzione del Governo Borbonico, viene riproposta al fine di svolgere
compiti di sorveglianza del territorio a sostegno delle forze governative.
Luigi Toro si guadagnò la fama di
leggendario e intrepido combattente nella repressione del brigantaggio e
Giovanni Sopiti, che gli dedicò una breve biografia così si esprime al riguardo
del pittore e patriota sessano:
“Tutti sapevano del suo
meraviglioso coraggio, e come fosse tiratore insuperabile… e dovunque si annunciasse
che egli fosse per giungere, si disperdevano le masnade brigantesche…tale
elevava a sé luminoso prestigio, che ne era conquista eziandio tutta la
efferatezza di quei malfattori, i quali altresì lo ammiravano, ed erano
costretti ad amarlo, per gli umanitari riguardi che egli adoperava verso le
famiglie di quegli che aveanla abbandonata per darsi alla vita del
bandito.”
Allo stesso modo il pittore e
critico d’arte di Frosinone Costantino Abbatecola rivela:
“Toro mostrò molto coraggio
nella lotta contro i Briganti… In quel tempo Toro si esercitava al tiro della
pistola ed era giunto a tale perfezione che metteva cento colpi l’un dopo
l’altro nel medesimo bersaglio. Questa qualità del Toro, accoppiata ad una
grande influenza morale che esercitava sul mandamento di Sessa Aurunca, ben
conosciuta dai Briganti, bastò a salvare il Paese dalle loro oppressioni perché
credettero prudente non affrontare il Toro, come raccontarono parecchi Briganti
venuti poi in potere della giustizia.“
Ed è proprio sul brigantaggio
sessano che lo storico pignatarese Nicola Borrelli, allievo dell’artista e
patriota risorgimentale Luigi Toro, dà un giudizio “tranchant” molto
negativo del fenomeno del Brigantaggio nell’Alto Casertano, definendolo
fanaticamente “reazionario “ in un testo che avrà tanto successo.
Il titolo del testo è Episodi di brigantaggio reazionario
nella campagna sessana con la cui pubblicazione il Borrelli volle
anche rendere omaggio al suo maestro Luigi Toro, che , proprio nel natio
territorio aurunco, dopo essere stato uno degli artefici dell’Unità lasciò la
passione artistica per dedicarsi alla repressione del Brigantaggio e
riaffermare in tal modo gli ideali di libertà e di giustizia, che avevano
caratterizzato la sua carriera quale Patriota.
Nel libro di Borrelli si fa
riferimento al Posto di Guardia in Piedimonte di Sessa, istituito dal Maggiore
Luigi Toro in relazione ad un documento inviato al Comandante della Guardia
Nazionale di Carano in data 8 aprile 1862.
In esso il Comandante Toro informa:
“Conseguentemente alle mie
ispezioni fatte ai diversi Quartieri, ho avuto agio di osservare la posizione
strategica di Piedimonte, la quale richiede un Posto di Guardia a sé; perlocché
Ella sarà compiacente disporre che sia subito aperto il locale e fornito della
corrispondente forza, nella intelligenza che tale servizio dovrà prestarsi dai
militi del Paese nel qual caso essi non presteranno più servizio nel Posto di
Carano”.
Anche in tale momento storico Luigi
Toro dimostra la sua audacia e il suo coraggio misto alla generosità che lo
stesso Borrelli esplicita nella maniera seguente:
“La sua maschia figura di
gentiluomo franco, benefico, generoso, coraggioso fino alla temerarietà gli
ottennero l’illimitato rispetto da parte dei tristi banditi che nei primi anni
postunitari gettavano il terrore nella Provincia, proprio quando il Toro, nella
qualità di Maggiore della Guardia Nazionale, era incaricato della repressione
del Brigantaggio e da questi mostri feroci che egli sfidava ogni giorno non gli
fu torto un capello… anche quando avrebbero potuto impadronirsi di lui,
vendicarsi , finirlo, ma che, per rispetto, non l’avrebbero mai fatto…”
Furono soprattutto le bande dei
fratelli Francesco ed Evangelista Guerra, di Alessandro Pace, di Francesco
Tommassino e di Giacomo Ciccone e Luigi Alonzo detto Chiavone ad imprimere una
direzione politica reazionaria al fenomeno del brigantaggio.
Inoltre vi era quel Domenico Fuoco
che si definiva “ Capitano e ajutante del Re Francesco II”.
In raccordo storico con il Brigantaggio
prodotto dalla reazione “borbonico-pontificia ” del Cardinale Ruffo
che si era servito dei “famigerati” Fra Diavolo e Mammone, i ”
tristissimi ” briganti che furono sovvenzionati dai Borbone, anche in tal
caso la ferocia dei Capibriganti – sostiene Borrelli – era dovuta anche alla
speranza che un probabile ritorno del re Borbone avrebbe apportato benefici
notevoli.
Nell’agro aurunco, secondo lo
storico, i Borbone aveva lasciato tale “scia di ignoranza, di incoscienza
e di abbruttimento” da procurare un forte sentimento di odio contro la
società borghese dell’ agiatezza e, dell’ozio e dello sfruttamento. Precisa
infatti lo storico Nicola Borrelli:
“le barbari leggi che
regolavano le triste accolte, perfezionarono via via la criminalità del
gregario e trasformavano presto in terribili tipi di grassatori o di assassini
i novizi, sovente passati alla banda, come dicemmo, per una leggerezza, un
errore, in un momento di sovreccitazione, sotto l’impulso di un rammarico o
d’uno sdegno talvolta giustissimi”!
Scrive ancora Borrelli: “V’era,
in tal caso – disperata ma vera – una via di salvezza, una via irta di pericoli
e d’incognite, ma ricca di speranza, di promesse, di rivendicazione: la
campagna, la banda” ma alcuni andavano ad ingrossare le file dei Pace dei Guerra,
dei Cedroni, degli Anfrozzi, dei Ciccone, che però non erano altro che
“bieche figure di malvagi, spesso avanzi dell’esercito Borbonico.
La ribellione del brigantaggio nella
zona sessana aveva quindi un’impronta ed un’insidia in quanto collegato al
revanscismo borbonico.
Il Borrelli , appassionato di
pittura e che diventerà un discepolo di Luigi Toro, accogliendolo nella sua
casa di Pignataro Maggiore (CE) negli ultimi anni di vita, rende omaggio alla
sua figura di patriota che fu coerente con i propri ideali di libertà nel
periodo di conquista dell’Unità della Patria, prima combattendo con i Mille per
liberare il Mezzogiorno dai Borbone e poi ritornando in prima linea a difendere
l’Italia dai briganti prezzolati dagli stessi nel periodo postunitario nel
proprio territorio natio di Sessa Aurunca, a confine con lo Stato Pontificio.
Lo storico Borrelli, a proposito di
tale brigantaggio che imperversava nella zona sessana, non ha esitazione a
collocarlo, quindi, in maniera decisa quale tentativo borbonico di suscitare
una guerriglia politica ai fini della restaurazione scrivendo:
“Questo, nella sua semplice trama psicologica, il fenomeno del Brigantaggio così detto politico – reazionario, di cui fu teatro Terra di Lavoro, e particolarmente la contrada di cui trattiamo, negli albori della nostra santa indipendenza.”
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