Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Carlo Bombrini nell’Unità d’Italia

Posted by on Ott 4, 2019

Carlo Bombrini nell’Unità d’Italia

Carlo Brombini, Direttore Generale della Banca degli Stati Sardi dal 1849 al 1861, amico di Cavour, nel 1853 partecipò con Rubattino (altro amico di Cavour) alla fondazione dell’Ansaldo, rilevando uno stabilimento siderurgico a Genova Sampierdarena.

Read More

Il cantiere navale di Castellammare di Stabia

Posted by on Ago 22, 2019

Il cantiere navale di Castellammare di Stabia

Nascita, attività e declino del più antico cantiere d’Italia

Fin dalla fine del 1500 nella zona di Castellammare di Stabia erano presenti numerosi cantieri navali artigianali, già dotati di forme organizzative del lavoro ed in grado di realizzare imbarcazioni più complesse delle semplici barche da pescatori, quest’ultime costruite un po’ dappertutto lungo le coste italiane. Lo sviluppo di tale concentrazione manifatturiera fu favorita dall’abbondanza di materia prima nei vicini boschi demaniali, e consolidò la competenza dei maestri d’ascia stabiesi, che si tramandavano il mestiere da padre in figlio.


Nel 1780 il ministro di Ferdinando IV, Giovanni Edoardo Acton, a conclusione dell’indagine per individuare il sito dove far nascere il grande e moderno cantiere in grado di dotare la Regia Flotta di nuove navi, identificò in Castellammare la località dai requisiti ottimali. I boschi di proprietà demaniale di Quisisana, alle pendici del Monte Faito, garantivano legname, le acque minerali permettevano un trattamento del legno altrove impossibile, i collegamenti con Napoli avvenivano su una strada larga e comoda, la consolidata competenza dei maestri d’ascia stabiesi assicurava disponibilità di maestranze qualificate. La realizzazione del Real Cantiere di Castellammare fu approvatada Ferdinando IV di Borbone, e completata nel 1783 previa l’abolizione del convento dei Carmelitani che sorgeva sul luogo.

Divenne in breve il maggiore stabilimento navale d’Italia per grandezza, con 1.800 operai. Accanto alle maestranze qualificate costituita dagli stabiesi, furono utilizzati  per i lavori più pesanti dei galeotti. La materia prima era era conservata in enormi magazzini; le abbondanti acque minerali erano convogliate in grandi vasche e servivano a tenere a mollo il legname per accelerarne il processo di stagionatura. Aveva uno scalo stabile per la costruzione di vascelli e due provvisori adibiti alla costruzione di corvette [1]. Nel 1843 fu impiantata una macchina a 10 argani per tirare a secco le navi da manutenere o riparare.

Così descrive il cantiere un osservatore del tempo [Achille Gigante, “Viaggi artistici per le Due Sicilie“, Napoli, 1845]: “Esso fu qui stabilito da Re Ferdinando IV, fin da’ primi anni del suo regno, occupandovi un vasto spazio di terreno, nonché l’abolito monasterio de’ Padri Carmelitani. Di buone fabbriche il sussidiò quel principe e di utensili e  macchine necessarie quali a quei tempi poteansi desiderare. Oggidì è il primo arsenale del regno, e tale che fa invidia a quelli di parecchie regioni d’Europa. Sonovi in esso vari magazzini di deposito, e conserve d’acqua per mettere a mollo il legname, e sale per i lavori, e ferriere, e macchine ed argani, secondo che dagli ultimi progressi della scienza sono addimantati, e mercè dei quali abbiamo noialtri veduto con poco di forza e di gente tirare a secco un vascello nel più breve spazio di tempo“ [era il Capri di 1700 tonnellate, il cui alaggio impegnò agli argani, in turni successivi, 2400 uomini: la grandiosità dell’impresa fu immortalata in un acquerello].

Il cantiere iniziò l’attività produttiva con la corvetta Stabia, varata il 13 maggio 1786, seguita, il 16 agosto, dalla Partenope, e procedette a ritmo serrato con molte altre costruzioni.

Le invasioni napoleoniche determinarono un periodo di limitata attività. Sotto Gioacchino Murat, furono costruiti i vascelli Capri (1810) e Gioacchino (1811), le fregate poi rinominate Amalia e Cristina ed impostato il Vesuvio, da 3.530 tonnellate e 84 cannoni. Il vascello fu fatto completare da Ferdinando IV, che dal 1816 aveva assunto il titolo di Ferdinando I delle Due Sicilie, e fu per lungo tempo la nave ammiraglia della flotta napoletana.

“Ieri alle 10 della mattina fu varato nel Cantiere di Castellammare il nuovo Real Vascello di linea il Vesuvio. L’operazione eseguita alla presenza delle LL.AA.RR.. il Duca di Calabria ed il Principe di Salerno non potea riuscire più felice. In men di mezz’ora tutti i lavori preparatorii vennero terminati, ed il Vascello fu varato in tre minuti incirca fra gli applausi de’ circostanti, ed al suono festevole della banda della real Marina.” [2]

Cominciò quindi l’era della navigazione a vapore, e la prima nave a vapore costruita da uno Stato italiano fu il Ferdinando I, realizzato nel cantiere di Stanislao Filosa al Ponte di Vigliena, presso Napoli, varato il 24 giugno 1818.

Con Francesco I furono costruite, in questo periodo, la fregata Isabella (50 cannoni) nel 1827, il brigantino da 18 cannoni Principe Carlo e la nave reale Francesco I nel 1828.

Con l’ascesa al trono di Ferdinando II, ci fu un ampliamento e rimodernamento del cantiere e si portò avanti lo sviluppo su larga scala del vapore. Furono realizzati i rimorchi a vapore Eolo, Furia ed Etna (1838), i cavafondi a vapore Finanza, Tantalo ed Erebo, gli avvisi Argonauta e Delfino (vapore, 26 maggio 1843), la fregata Regina (convertita a vapore, 27 settembre 1840), le piro-fregate da 10 cannoni (a ruota)  Ercole (24 ottobre 1843), Archimede (3 ottobre 1844), Carlo III (1845), Sannita (7 agosto 1846) ed Ettore Fieramosca (14 novembre 1850), la prima nave a possedere una macchina da 300 cavalli costruita a Pietrarsa. Il 5 giugno 1850 fu varato il vascello Monarca da 70 cannoni, la più grande nave da guerra costruita in Italia, convertita, dieci anni dopo, ad  elica. Seguirono altre unità, tra cui gli avvisi Maria Teresa (18 luglio 1854) e Sirena (9 novembre 1859) rispettivamente da 4 e 6 cannoni; i cavafanghi Vulcano e Finanza detto il Nuovo nel 1855, e la fregata Torquato Tasso (10 cannoni, 28 maggio 1856). Le motrici provenivano non solo dalla Reale fabbrica di Pietrarsa, ma anche da stabilimenti privati come la Zino.

Con Francesco II, il 18 gennaio 1860 fu varata la Borbone, fregata ad elica di 3680 tonnellate, che chiuse l’era dei pesanti vascelli di legno a poppa tonda, potenti ma non molto veloci. La Borbone era lunga m 68 e larga m 15. L’apparato motore, realizzato negli stabilimenti di Pietrarsa erogava 457 cavalli per la motrice alternativa a grifo oscillante. Aveva due ponti a batteria coperti, tre alberi a vele quadre. La fregata era armata con 8 cannoni rigati da 160, per la prima volta usati nella Marina napoletana, 12 cannoni lisci da 72, 26 pezzi da 68 e 4 cannoni da 8 in bronzo, su affusto. Il suo equipaggio era composto da 24 ufficiali e 635 sottufficiali e comuni. La gemella Farnese non fu completata a causa dell’invasione piemontese del 1860.

Con i Borbone fu realizzato dal Cantiere di Castellammare, dal 1840 al 1860, naviglio per un totale di oltre 43.000 tonnellate.

Il cantiere di Castellammare di Stabia, al momento della conquista piemontese, stava attrezzandosi per la lavorazione di scafi in ferro. Dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie, il cantiere riuscì per alcuni anni a mantenere una posizione di primaria importanza nelle costruzioni navali italiane. Passiamo in rassegna alcune delle realizzazioni più significative.

Il Cantiere oggi

Castellammare fu, come abbiamo visto, il cantiere dell’Amerigo Vespucci (che ancora oggi desta stupore e meraviglia, quando si presenta nei porti di tutto il mondo durante le crociere dei cadetti di Marina), del battiscafo Trieste (1953) e di centinaia di altre belle navi.

Privato fin dal 1970 del settore progettazione e della selezione degli acquisti esterni, lo stabilimento di Castellammare è oggi di proprietà della FINCANTIERI – Cantieri navali Italiani S.p.A. Si estende su circa 236.000 mq. dei quali 78.000 mq. coperti, non ha bacino galleggiante, ma uno scalo di 234 m, largo 32 m. Dispone di quattro gru, ognuna con capacità di sollevamento di 200 tonnellate. Vi lavorano 450 operai circa.

Il Cantiere oggi

Castellammare fu, come abbiamo visto, il cantiere dell’Amerigo Vespucci (che ancora oggi desta stupore e meraviglia, quando si presenta nei porti di tutto il mondo durante le crociere dei cadetti di Marina), del battiscafo Trieste (1953) e di centinaia di altre belle navi.

Privato fin dal 1970 del settore progettazione e della selezione degli acquisti esterni, lo stabilimento di Castellammare è oggi di proprietà della FINCANTIERI – Cantieri navali Italiani S.p.A. Si estende su circa 236.000 mq. dei quali 78.000 mq. coperti, non ha bacino galleggiante, ma uno scalo di 234 m, largo 32 m. Dispone di quattro gru, ognuna con capacità di sollevamento di 200 tonnellate. Vi lavorano 450 operai circa.

Costruisce navi cisterna e rinfusiere, nonché cruise ferries (Bithia e Janas), car-carriers.

Alfonso Grasso

fonte http://www.ilportaledelsud.org/castellammare.htm

Read More

tratto da “Garibaldi ai giorni nostri…….di Antonio Baudino

Posted by on Ago 12, 2019

tratto da “Garibaldi ai giorni nostri…….di Antonio Baudino

Nel 1842 Ferdinando II, in uno spirito di prosperità e pace per il suo popolo, decise di trasformare le officine di Pietrarsa (oltre 1000 operai), in quel tempo adibite alla costruzione di materiale bellico in una fabbrica di locomotive e materiale rotabile. In quel complesso, dov’era concentrata tutta la tecnologia allora disponibile,fu costruita la prima locomotiva italiana. Ben lontano dal re il desiderio di potenziare l’industria bellica per invadere il Piemonte e l’Italia intera , in un’idea di onnipotente visione di un glorioso futuro. Nel 1844 la ferrovia doveva proseguire per Castellammare, Pompei, Angri, Pagani, Nocera Inferiore per raggiungere San Severo e Avellino. Nel 1855 era stata approvatala costruzione della strada ferrata Napoli-Brindisi e da Napoli agli Abruzzi fino al Tronto, con una diramazione per Ceprano, una per Popoli, una per Teramo e un’altra per San Severo. La linea Napoli-Capua doveva protrarsi sino a Cassino, per consentire l’allacciamento alla ferrovia dello Stato Pontificio. La linea Napoli-Avellino doveva proseguire da un lato verso Bari-Brindisi-Lecce, dall’altro nella direzione della Basilicata e Taranto. Furono programmate anche le linee per Reggio e la tratta da Pescara al Tronto. In Sicilia erano previste le linee Palermo-Catania-Messina e Palermo-Girgenti-Terranova. Nel 1860, al momento dell’annessione al Piemonte,erano in funzione 124 Km di ferrovia (tutti nell’attuale Campania) e altri 132 erano in costruzione o in preparazione (gallerie e ponti erano già stati realizzati). Il 15 ottobre del 1860 Garibaldi, insediatosi da circa un mese a Napoli come dittatore, annullò tutte le convenzioni in atto per le costruzioni ferroviarie e ne stipulò una nuova con la Società Adami e Lemmi di Livorno. Dopo aver promesso al popolo la spartizione delle terre dei latifondisti, lo affamò privandolo del lavoro e delle fabbriche. Era l’inizio,già programmato,volto alla distruzione delle imprese meridionali. Nel 1847 il Regno delle Due Sicilie vendette al parente piemontese, il re Vittorio Emanuele, 7 locomotive assemblate a Pietrarsa. Così scrivono, oggi, le Ferrovie dello Stato Italiane in merito al Museo nazionale di Pietrarsa: “Oltre un secolo e mezzo di storia delle ferrovie italiane rivive nelle splendide officine di Pietrarsa, primo nucleo industriale del nostro paese, di molti anni precedente a colossi quali la Breda, la Fiat e l’Ansaldo. Il Museo Nazionale di Pietrarsa fu inaugurato il 7 ottobre 1989, in occasione del 150° anniversario delle ferrovie italiane. Era,infatti,il 3 ottobre 1839 quando il primo treno circolato nel territorio italiano percosse la tratta Napoli-Portici, trainato dalla locomotiva Vesuvio. Una statua (una delle più grandi realizzate in ghisa in Italia) posta nel piazzale del complesso, mostra Ferdinando II nell’atto di indicare il luogo dove costruire le prime officine ferroviarie delle Due Sicilie e dell’intera Penisola. Un’iscrizione ricorda che lo scopo del sovrano era di svincolare lo sviluppo tecnico e industriale del Regno dall”intelligenza straniera”. Nel 1842 “l’intelligenza straniera” era rappresentata dall’Inghilterra. Lo zolfo estratto nelle 134 solfatare copriva circa il 90% del fabbisogno mondiale. Oltre alla produzione di polvere da sparo e dell’acido solforico, lo zolfo era utile per la casa regnante inglese. Era indispensabile ottenere la tacita adesione di Vittorio Emanuele II per attuare l’occupazione di uno Stato sovrano e pugnalare alle spalle Francesco II senza una preventiva dichiarazione di guerra. Convincere il re Galantuomo, personaggio impegnato alla conquista di traguardi più immediati e terreni e lusingarlo con la certezza di essere il futuro condottiero di un paese unito, potente, ricco, prosperoso non era poi una cosa molto difficile. Cavour ordinava al generale Cialdini di partire alla volta di Napoli con l’esercito piemontese per impossessarsi del Regno delle Due Sicilie e incaricava l’ammiraglio Persano di seguire da lontano l’impresa di Garibaldi. Le casse dello Stato non contenevano le risorse necessarie per sostenere l’ardua impresa garibaldina, ma i milioni oro erano là, a portata di sbarco, depositati nelle casse delle Due Sicilie, al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia. Un tesoro in oro sonante, quindici volte superiore alle dilapidate disponibilità piemontesi. Un miraggio che poteva trasformarsi in realtà. Il Palazzo Reale di Napoli e la Reggia di Caserta contenevano tesori inestimabili, un bottino di guerra imponente, rimpinguato con la spogliazione delle attività del Sud. Garibaldi, esperto in scorribande, tempratosi in Sud America, già al soldo degli inglesi, era l’avventuriero adatto. Un eroe “usa e getta”. Con l’aiuto di mercenari prezzolati, provenienti dall’Italia e dall’estero (pochissimi i piemontesi), di falsi disertori dell’esercito sabaudo, di una sapiente regia atta a coagulare nell’impresa le idee liberali e repubblicane innescate dalla Rivoluzione francese e, soprattutto, tramite una corruzione mirata (denari e promesse di futuri e remunerativi incarichi) nei confronti di dignitari e militari del giovane re di Sicilia, l’impresa era possibile. Ottenuto l’indispensabile sostegno materiale e finanziario, e l’adeguata protezione politico- militare dell’Inghilterra, si poteva dar corso all’avventura.

Read More

Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia

Posted by on Ago 9, 2019

Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia

Nel 1878 moriva a Roma Vittorio Emanuele II, il primo re d’Italia, protagonista di tutte le guerre che portarono all’unità, ma assente e lontano una volta raggiunto lo scopo di asservire la nazione al Piemonte. In questi 18 anni non si poteva certo sperare di dare all’Italia un’impronta unitaria, né in campo culturale né in quello sociale. Troppe erano le differenze tra le varie regioni, evidenziate dallo stato  guerriglia che aveva devastato per anni le regioni meridionali, e dalla politica filo-settentrionale dello Stato sabaudo. Tali furono le premesse che portarono ad uno sviluppo disarmonico che ancora oggi subiamo. Fu questo il prezzo che l’intero Sud ha pagato all’unificazione. Un prezzo che divenne ancora più alto a fronte dei provvedimenti depressivi e repressivi che il governo piemontese adottò nei confronti dell’ex Regno di Sicilia.

Una della conseguenze più pesanti per la neonata Nazione fu la continuità dinastica: per la Sicilia fu – come ben descrive Tomasi di Lampedusa – un cambiare tutto per non cambiare nulla. Se avesse prevalso l’idea repubblicana di Mazzini, egli sarebbe divenuto il signor Tomasi, invece, con il subentrare della dinastia sabauda a quella borbonica, egli rimaneva il principe di Lampedusa. Non solo: da infido barone quale era visto dai Borbone, diveniva paladino della dinastia sabauda. Se la Sicilia da provincia napoletana diveniva provincia piemontese, poco cambiava per il baronaggio e ciò che cambiava, cambiava in meglio. Per la Sicilia invece, finiva una storia e ne cominciava un’altra.

Per comodità di lettura possiamo dividere questa nuova storia in due fasi, una che va dal 1860 al 1915, alla prima guerra mondiale, e un’altra che arriva fino ai giorni nostri.

La prima fase a sua volta possiamo dividerla in cinque periodi [1]

1.      quindicennio 1861-1876: governa la destra storica

2.      decennio 1876-1887: governa la sinistra storica

3.      decennio 1887-1898: periodo crispino

4.      triennio 1898-1900: periodo di transizione con pericolo di colpo di stato

5.      ventennio 1900-1920: età giolittiana

In questi anni la Sicilia partecipò alla guida politica ed istituzionale del paese con due presidenti del Consiglio (Francesco Crispi e Antonio Di Rudinì), 13 ministri e 184 deputati. Non era poco eppure la Sicilia non fu mai tra le regioni egemoni. [2]

Tutto ebbe inizio il 2 dicembre 1860 con il biennio luogotenenziale che avrebbe dovuto servire a traghettare il Sud dalla fase rivoluzionaria a quella di ordinaria amministrazione. Fu caratterizzato da una dura repressione politica e sociale del garibaldinismo [3], del brigantaggio e della renitenza alla leva. Repressione che, allora come oggi, si servì di una campagna “pubblicitaria” denigratoria nei confronti del popolo meridionale e siciliano presentando la diversa cultura come inferiorità. Cavour e Vittorio Emanuele per mantenere la conquista appena fatta non potevano fare concessioni. Se qualcuno intendeva opporsi al nuovo ordine costituito, e non si riusciva a persuaderlo a desistere, intervenivano i granatieri con la forza delle armi [4].

La repressione contro il garibaldinismo fu più profonda e lacerante in Sicilia, mentre la repressione contro il borbonismo e il brigantaggio interessò il meridione della penisola. Come scrive Renda “…le violenze poliziesche e militari nell’isola furono una sorta di appendice della guerra al brigantaggio nella penisola. Il brigantaggio meridionale ebbe le connotazioni di una vera e propria guerra civile. I Borbone dall’esilio romano promossero contro il potere unitario regio quella resistenza di massa che non avevano saputo opporre a Garibaldi.” [5]

In Sicilia il brigantaggio non era supportato dai Borbone, ma derivava dallo sbando sociale seguito alla rivoluzione, rinforzato dalla delinquenza che cominciava ad organizzarsi in quella nuova forma che prenderà, a partire dal 1865, il nome di mafia e dal rifiuto della leva militare obbligatoria, tributo incomprensibile per un popolo che non l’aveva mai subita. Nei confronti dei renitenti alla leva siciliani fu estesa alla Sicilia la famigerata legge Pica. In virtù a quella legge interi paesi furono cinti d’assedio, incendiati, privati dell’acqua potabile, intere famiglie arrestate e furono compiuti inauditi atti di violenza senza tenere in alcun conto i diritti dei cittadini. (cfr. Le Renitenti di Favarotta).

Sempre in questo primo periodo è da ricordare la rivolta scoppiata a Palermo nel settembre del 1866, conseguenza della perduta prospettiva politica. La sollevazione rimase però chiusa tra le mura cittadine e non ricevette alcun aiuto, nemmeno da Mazzini. Fu violentemente repressa dall’esercito regio e segnò la fine delle rivolte ottocentesche siciliane. (cfr. 1866 – La rivolta del “Sette e Mezzo”).

Altra importante vicenda di quegli anni fu lo scioglimento delle corporazioni religiose (legge del 10 agosto 1862). Garibaldi aveva già espulso la Compagnia di Gesù ma ora, dopo la restaurazione a seguito della rivolta del Sette e Mezzo, lo Stato italiano interveniva in forza. L’effetto fu devastante, perché allo scioglimento delle corporazioni religiose e al confino coatto dei religiosi che avevano appoggiato la rivolta, si accompagnò l’esproprio in massa di tutte le proprietà fondiarie ed edilizie comprese le biblioteche e le opere d’arte. Se da un canto l’uso degli edifici fu congruo in quanto adibiti a scuole, università, uffici o musei, altrettanto non può dirsi per il patrimonio librario: migliaia di volumi furono ammassati in sotterranei e depositi vari, causandone la dispersione e la distruzione. Ovviamente nessuno si scandalizzò per tale “delitto”.

L’esproprio della proprietà fondiaria della Chiesa (Legge 794/1862), la fine della manomorta e la cancellazione degli ultimi residui di feudalesimo avrebbe potuto essere indirizzata a risultati virtuosi, come la ripartizione delle terre tra i contadini. Invece la soluzione che se ne diede, peggiorò le condizioni degli agricoltori, togliendo loro ogni possibilità di riscatto. La priorità del novello Stato era infatti quella di vendere le terre per “far cassa”, e di fronteggiare i

movimenti di opposizione. Fu conferito al generale Medici il comando unico dei poteri militari, amministrativi e di polizia in modo da rassicurare i ceti borghesi e liberali. Lo Stato si interessò pertanto solo dei problemi di sicurezza e di ordine pubblico, dimenticando le gravi questioni sociale ed economica, che si inasprirono sempre più, specie dopo la reintroduzione della tassa sul macinato (giugno 1868) e l’aumento delle imposte su terreni, fabbricati e ricchezza mobile.

La situazione peggiorò ancora nel 1871 quando, finiti i lavori di lottizzazione dei terreni ex-ecclesiastici, diretti dal siciliano Simone Corleo sulla base della legge che prese il suo nome, le assegnazioni finirono per riconcentrare le terre nelle mani dei pochi notabili che si imposero nelle aste pubbliche. Contrariamente a quanto propugnato a parole fin dal decreto del prodittatore Mordini, cioè di dare la terra ai contadini, la legge Corleo non aveva alcun intento sociale o filo-contadino, ma era diretta a rafforzare la borghesia agraria, ed a consolidare il consenso al regime italiano. Ai contadini rimase solo il retaggio della legge Garibaldi [6] del 2 giugno e del citato decreto Mordini del 18 ottobre 1860, mentre alla borghesia terriera andarono i beni ecclesiastici. La riforma agraria di Corleo fu pertanto fallimentare dal punto di vista sociale, ma tuttavia diede una spinta alla modernizzazione e alla conversione delle colture. Non dimentichiamo che fu proprio in seguito a questa spinta che si crearono le zone a colture pregiate intorno a Bagheria e nella Conca d’Oro. Tutto sommato la soppressione del patrimonio ecclesiastico significò l’affermazione di un regime economico e giuridico moderno. La Chiesa fu emarginata dal potere politico e infine con la legge delle guarentigie del 15 maggio 1871 ebbe termine anche la secolare “Apostolica legazia” (cfr. Ruggero I e l’Apostolica Legazia) e la chiesa siciliana ritornò sotto la giurisdizione del pontefice romano.

Altri avvenimenti di una certa importanza si verificarono nell’ultimo periodo del quindicennio 1861-1876. Nella seduta del 18 marzo 1876 la Camera fu chiamata a discutere un’interpellanza del deputato

siciliano Giovan Battista Morana sulla tassa sul macinato, dove si mettevano in evidenza gli abusi che l’applicazione di una siffatta tassa consentiva in Sicilia. L’abolizione della tassa sul macinato, o “tassa sulla miseria” come era stata definita da Crispi, era nel programma della sinistra ma De Pretis e gli altri capi dell’opposizione, pur volendo rovesciare il governo facendo leva sul malcontento popolare, non erano tuttavia disposti a rivoluzionare di punto in bianco il sistema tributario nazionale. L’interpellanza del Morana faceva riferimento alla grave situazione siciliana, dove erano in corso agitazioni e proteste dei mugnai che, chiudendo i mulini, causavano penuria di pane e malcontento popolare crescente. Il Ministro Minghetti si dichiarò incapace di dare i chiarimenti necessari e per farla breve si arrivò ad una mozione di sfiducia con cui il governo fu messo in minoranza e dovette dimettersi. La destra storica cessò di governare e al suo posto si insediò la sinistra storica. A presiedere il primo governo, il 25 di aprile, fu Agostino De Pretis, piemontese, che era stato già prodittatore in Sicilia al tempo del governo garibaldino.[7]

La decadenza di Napoli dopo l’unificazione d’Italia del 1860 fu lenta ma continua. La Destra storica governativa attuò una politica liberista che in breve tempo si rivelò fatale per il sistema economico meridionale, basato fino ad allora sul modello di sviluppo protezionistico concepito da Ferdinando II. Inoltre, il sud fu caricato del Debito Pubblico proveniente dal Piemonte, e dell’oneroso sistema fiscale sabaudo.

La grande industria napoletana, per lo più di capitale straniero, che con il Regno delle Due Sicilie aveva goduto della protezione statale, entrò rapidamente in crisi. Vennero a mancare gli ordinativi statali ed  inoltre, il “baricentro” degli affari si spostò di colpo da Napoli a Torino, con evidente vantaggio per le aziende del Nord-Ovest, che furono preferite anche dagli investitori stranieri. Le fabbriche statali dell’ex-reame

furono vendute a privati con procedure neppure tanto cristalline. Emblematica è al riguardo la sorte dell’opificio statale di Pietrarsa, il maggiore stabilimento metalmeccanico italiano dell’epoca, narrata in altra pagina del sito.

Alla decadenza, bisogna dirlo subito, contribuirono con buona lena i tanti uomini di stato e delle istituzioni meridionali.

Le grandi banche del Sud (Banco di Napoli e di Sicilia) effettuarono un vero e proprio rastrellamento del capitale, che venne in gran parte reinvestito nel nascente “triangolo industriale” del Nord-Ovest che, con la nuova Italia unita, godeva di un indubbio vantaggio geografico.

Gli strumenti di questo straordinario prelievo furono principalmente tre:

  1. l’introduzione nel 1861 della carta moneta [8], inesistente nel Sud preunitario;
  2. la legge del 1866 sul “corso forzoso” della Lira italiana;
  3. la legge del 1862 [9] per vendita di 200 mila ettari di terreni ecclesiastici e demaniali, di cui si è già scritto nella prima parte della presente lettura, e che fruttò all’Erario, tra il 1861 ed il 1877, circa 220 milioni di lire di allora [10] (più di due terzi dell’intero provento nazionale).
  4. Circa mezzo miliardo di allora, costituita dalle monete in metalli preziosi circolanti nelle due Sicilie, finirono all’Erario nazionale, che mise in circolazione, grazie alla legge sul “corso forzoso” un valore almeno tre volte superiore di banconote.
  5. La legge del 1° maggio 1866 sul corso forzoso [11] fu elaborata da un napoletano, il ministro delle Finanze Antonio Scialoja [12]. Le disposizioni previste da questa legge incisero profondamente sia sul processo di concentrazione delle emissioni, sia sulla circolazione della moneta e sulla creazione del credito, svantaggiando obiettivamente il Sud.

Tornado all’accaparramento dei terreni, occorre sottolineare come molti degli agrari del Sud, specie quelli delle zone interne (Basilicata, Cilento ecc) preferirono la quantità alla qualità: divennero latifondisti, spossessandosi così del risparmio e delle risorse necessarie agli investimenti per migliorare le colture. Ci furono casi di vero accaparramento. La condizione dei contadini peggiorò, non potendo usufruire più dell’uso gratuito dei terreni per coltivare e raccogliere legna (i c.d. “usi civici”, che avevano consentito la sopravvivenza, ma che allo stesso tempo avevano mantenuto a livello arcaico la società contadina del sud, priva di quella spinta al miglioramento che deriva dalla piccola proprietà). L’agricoltura meridionale, a parte le zone d’eccellenza del Napoletano, Terra di Lavoro e del Pugliese, rimase emarginata dall’economia nazionale, isolata, priva di vie di comunicazioni, e bisognerà attendere il consolidamento dell’Istituzione repubblicana, quindi circa un secolo, per riscontrare dei segnali di miglioramento.

I Corleo e gli Scialoja, cioè i politici meridionali che contribuirono attivamente alla decadenza del sud, non furono dei casi isolati. Il movimento liberale e la destra in generale, fin d’allora erano subordinati al potere capitalistico, che aveva centro e radicamento al nord. Invece di procedere ad una vera unificazione della politica, si agì con la forza, la prevaricazione e la brutale repressione. Per questioni ideologiche, anche i nazionalisti e monarchici meridionali si subordinarono di fatto al potere sabaudo, così come i cattolici per la loro feroce avversione al nascente socialismo. Anche in politica estera prevalsero gli umori ultra-nazionalistici con la partecipazione nel 1866 alla guerra contro l’Austria, in cui si sprecarono vite e risorse.

In definitiva, i politici meridionali di destra, anche se ebbero incarichi – spesso importanti e decisivi – a livello governativo, non seppero scrollarsi di dosso i condizionamenti negativi di cui si è detto. Se in quegli anni fu mancato l’obiettivo di una reale unificazione nazionale, e se furono le popolazioni del sud a farne principalmente le spese, non si può pertanto attribuirne tutte le colpe genericamente al “nord” (come si dilettano a fare alcuni sedicenti meridionalisti di oggi).

«La rigogliosa vita della democrazia napoletana, che ha avuto momenti di rilievo nazionale, intorno al 1878 si è affievolita, è diventata anemica per non aver saputo mettere radici fra i lavoratori…» [13].

fonte http://www.ilportaledelsud.org/1861-1876.htm

Note

[1] Renda, storia della Sicilia, vol. III, p. 977

[2] F. Renda, Storia della Sicilia, vol III, p. 977

[3] Garibaldi era divenuto nell’isola simbolo di liberazione politica e riscatto sociale. Ebbe tanto seguito in Sicilia da fargli credere di poter intraprendere, nel 1862, una spedizione per la conquista di Roma con circa 2000 volontari questa volta tutti siciliani. Questo ci fa capire quanto fossero mutate le condizioni rispetto al 1860 quando i suoi 1000 erano al 90% settentrionali. L’impresa fu immediatamente bocciata da Vittorio Emanuele . In Aspromonte Garibaldi e i suoi volontari furono fatti prigionieri e denunciati al tribunale militare. Vittorio Emanuele, su consiglio di Napoleone III, evitò di trasformare in martire Garibaldi e approfittando del matrimonio della figlia con il re del Portogallo, concesse l’amnistia. L’operazione non fu tuttavia esente da risvolti sgradevoli, come l’arresto di parlamentari siciliani e la fucilazione, a Fantina, con giudizio sommario di alcuni soldati che avevano abbandonato i reparti per seguire Garibaldi. Senza contare la caccia ai garibaldini che, nonostante l’amnistia, venivano arrestati e incarcerati per futili motivi.

[4] Cavour a Vittorio Emanuele, il 18 dicembre 1860, cit. da Mack Smith, Garibaldi e Cavour, p. 513

[5]F. Renda, Storia della Sicilia, vol III, 983

[6] A sollevare il problema della terra fu proprio Garibaldi che su proposta di Crispi, il 2 giugno 1860 aveva emanato un decreto con cui prometteva una quota di terra del demanio comunale non ancora ripartita a chiunque avesse combattuto a suo fianco per la patria. I beni demaniali dovevano però essere divisi per sorteggio, l’assegnazione di diritto ai combattenti risultava perciò lesiva di questo diritto. Ne nacquero controversie e i parecchie zone dell’isola scoppiarono rivolte. Le più drammatiche furono quelle di Biancavilla e di Bronte. A Bronte soprattutto si assistette alla feroce e agghiacciante rappresaglia di Bixio, che come inviato di Garibaldi in difesa dei possedimenti dei Nelson, si comportò da giudice militare nei confronti di civili, fucilandoli a seguito di un processo sommario. Bixio non avrebbe potuto rendere peggior servizio a Garibaldi e di questo si servì abilmente Cavour per iniziare la demolizione del mito di Garibaldi che cominciava a diventare un pericoloso avversario.

[7] Una bella descrizione di quel 25 aprile si può trovare nel libro di Francesco Ingrao, un siciliano mazziniano, nel libro La bandiera degli elettori italiani, ristampato da Sellerio (2001)

[8] La lira italiana fu introdotta con la legge Pepoli “Legge fondamentale sull’unificazione del sistema monetario” del 24 agosto 1862, n. 788. Gli istituti di credito che potevano emettere biglietti erano di proprietà privata al Centro-Nord (La Banca Nazionale, che veniva dalla fusione fra la Banca di Genova e la Banca di Torino, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito per le Industrie e il Commercio d’Italia), statali al Sud (Banco di Napoli e Banco di Sicilia). Dopo l’annessione di Roma del 1870, la Banca degli Stati pontifici divenne Banca Romana.

[9] Legge 21 agosto 1862, n. 794

[10] Bevilacqua Piero, Breve storia dell’Italia meridionale: dall’Ottocento a oggi, Donzelli 2005, p. 75.

[11] Nel maggio 1866, in seguito alla crisi finanziaria, i titoli del debito pubblico italiano crollarono alla Borsa di Parigi. Il ministro delle Finanze Antonio Scialoja proclamò il corso forzoso, ossia l’inconvertibilità in oro ed argento della moneta circolante. La Banca Nazionale fu obbligata a fornire al Tesoro un mutuo di 250 milioni di lire. Si sarebbe decretato poi l’emissione di un prestito redimibile forzoso (l’antenato dei BOT). La legge dettava, in particolare, le seguenti disposizioni:

1) tutti i biglietti della Banca Nazionale (ex Banca Nazionale degli Stati Sardi), compresi quelli creati nelle operazioni commerciali con i privati, diventano inconvertibili a vista in metallo; i biglietti emessi dagli altri istituti (Banca Nazionale Toscana, Banca Toscana di Credito, Banca Romana, Banco di Napoli e Banco di Sicilia), sono invece obbligatoriamente convertibili su richiesta in banconote della Banca Nazionale nel Regno;

2) le banconote della Banca Nazionale hanno corso legale, ovvero valore liberatorio coatto, su tutto il territorio dello Stato, mentre quelle degli altri istituti nella sola regione di appartenenza;

3) la Banca Nazionale assumeva la funzione di tesoriere dello Stato in virtù del privilegio, ad essa attribuito, dell’emissione di biglietti per conto del Tesoro, i quali, non essendo ricompresi nella circolazione propria dell’istituto, sono tuttavia svincolati dall’obbligo di riserva che investe invece le banconote emesse dalla Banca stessa a fronte del proprio attivo. Il corso forzoso fece sì che la circolazione di moneta cartacea superasse quella metallica. L’abolizione del corso forzoso, decretata nel 1881 e attuata nel 1883, segnò l’inizio di una breve illusione: l’euforia provocò un surriscaldamento dell’economia al quale non si reagì con le politiche giuste. Intorno al 1887 il corso forzoso era restaurato di fatto. Il boom edilizio innescato da Roma capitale, sostenuto in parte da capitali esteri, coinvolse anche gli istituti di emissione. L’espansione eccessiva portò a una bolla speculativa, e poi alla crisi. La crisi bancaria dei primi anni Novanta, accoppiata a una crisi di cambio, assunse anche una dimensione politica e giudiziaria clamorosa nel dicembre del 1892, quando fu rivelata la grave situazione delle banche di emissione e soprattutto i gravi illeciti della Banca Romana, fino a quel momento coperti dal Governo. il Governo è costretto ad emanare un decreto con il quale viene dichiarata la sospensione della convertibilità in oro delle banconote e, dunque, l’inizio del corso forzoso. Questo avvia l’Italia all’introduzione della moneta cartacea, assicurando contemporaneamente allo Stato la possibilità di far fronte alle spese più urgenti con la semplice stampa di banconote, almeno entro determinati limiti. Inoltre, il provvedimento intende effettuare un primo tentativo di regolamentazione dell’attività delle banche di emissione, orientato alla concentrazione delle emissioni in un unico istituto, in coerenza con il programma di accentramento politico-amministrativo perseguito dalla Destra storica.

[12] Il napoletano Antonio Scialoja (1817 – 1877) era all’epoca ministro delle Finanze. Già ministro del Regno delle Due Sicilie nel 1848 (governo liberale di Carlo Troja), era stato condannato all’esilio dopo la restaurazione dell’assolutismo regio a seguito dei tumulti del maggio 1848. Fu quindi Ministro delle Finanze nel governo dittatoriale di Garibaldi (1860).

[13] Scirocco A., Democrazia e socialismo a Napoli dopo l’Unità, Napoli, 1973 p. 312. Bibliografia AAVV Storia della Sicilia, Società Editrice Storica di Napoli e Sicilia Di Matteo, F., Storia della Sicilia, Edizioni Arbor, 2006 Fortunato, G., Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Firenze, Vallecchi, 1973. Fortunato, G., Galantuomini e cafoni prima e dopo l’Unità, Reggio Calabria, Casa del Libro, 1982 Galasso, G., Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”, Piero Lacaita editore 2005 Gleijeses, V., La Storia di Napoli, Società Editrice Napoletana, 1977 Gramsci, A., La questione meridionale, Editori Riuniti 2005 Ingrao, F., La bandiera degli elettori italiani, ristampato da Sellerio, 2001 Mack Smith, D., Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, 1971 Mack Smith, D., Garibaldi e Cavour, Rizzoli 1999 Mack Smith, D., La storia manipolata, Laterza, 2002 Renda, F., Storia della Sicilia, Sellerio, 2003

Read More

ARRIVANO I BERSAGLIERI

Posted by on Ago 7, 2019

ARRIVANO I BERSAGLIERI

6 agosto, Corre voce, e non sembra che sia solo tale, che il nuovo direttore voglia aumentare le ore lavorative e ridurre la paga. Non mi sembra che questa sia una buona idea, la gente è stanca, ci trattano come bestie eppure, noi operai metallurgici siamo il fiore all’occhiello di questo regno e del passato, i nostri prodotti sono tra i migliori che si possano trovare in Europa. Le nostre macchine ferroviarie viaggiano senza problemi lungo le strade ferrate, le stesse che produciamo noi, i nostri motori muovono le più belle navi del Mediterraneo, siamo bravi, perchè non vogliono capirlo? Oggi siamo andati dal direttore, il signor Bozza, un lombardo che di noi sa poco o niente, egli imperioso ha ascoltato le nostre richieste e alla fine ci ha comunicato: “Conoscete la situazione, lo stabilimento è in perdita quindi dobbiamo risanarlo, per far ciò abbisogna incrementare le ore di lavoro e scemare la paga da 32 a 30 grana al giorno“, “ma signor direttore“, replico “lei ha intenzione di ammazzarci tutti?” e come risposta ottengo solo una frase “questo è quello che meritate animali, se vi sta bene è così altrimenti licenziatevi“. Siamo infuriati, delusi e avviliti, scendiamo nel piazzale davanti agli uffici dove i nostri compagni ci aspettano per conoscere le notizie, “Abbiamo fallito” dico “Bozza non vuol sentire ragioni, ha detto e confermato che dobbiamo lavorare di più e con meno soldi e chi non ci sta se ne può andare“, non avessi mai pronunciato quelle parole, un’unico grido si alza dai miei compagni, “Fermiamoci, non lavoriamo e blocchiamo l’opificio“. Le voci tumultuose si elevano e rendono rovente questo già caldo pomeriggio, ingiurie, minacce neanche troppo velate vengono elevate alla volta del Bozza. “Sta scennenno, facitelo passare” grida un compagno, “facitelo passare” e intanto giù ingiurie “Curnut“, “Figlio e puttana“, “Chi te muort“. Bozza fugge via inseguito dalle urla. Chiudiamo i cancelli alle spalle del direttore così? che nessuno possa entrare e restiamo li, sul piazzale davanti alla palazzina in attesa di un qualcosa che a noi ignoto. Si discute, si fa capannella, chi si siede all’ombra per ripararsi dal sole, e ogni tanto guardiamo verso il cancello. Passa un’ora più o meno, e sentiamo dei passi di corsa che arrivano dalla Via Regia, “song ‘e surdati, aprite o canciell” urla ‘o turrese e un paio di noi vanno ad aprire. Sono arrivati, sono bersaglieri, una compagnia intera, sono gli stessi che hanno combattuto a Palestro e a San Martino, sono gente del popolo anche loro, si notano le facce di contadini, gente abituata a zappare la terra ma noi in loro vediamo l’autorità e li invitiamo a voce forte di andarsene. Il loro capitano li mette su due linee di fronte a noi e ci urla degli ordini in una lingua che non conosciamo, non lo capiamo, ma che dice? Visto che non gli rispondiamo grida verso i suoi soldati che alzano i moschetti, “Cazzo, ci sparano” urlai e cominciai a correre verso il mare. Subito dopo una scarica di fucilate e un’altra ancora. Urla di dolore mi prendono immediatamente ma ho le gambe in spalla e corro, corro, il mare è vicino e poi ancora mi volto a guardare senza fermarmi, tanti miei compagni sono a terra, chi immobile, chi gemente e i soldati innestano la baionetta, caricano con la lama abbassata. Tutti scappiamo verso il mare, l’unico punto di salvezza, ma ci raggiungono, in molti restano per terra ma la maggior parte di noi ce la fa a raggiungere l’acqua e ci buttiamo dentro, io so nuotare ma vedo che altri non ci riescono, annaspano, riesco a prendere un compagno per il collo e lo porto via con me, lo sforzo è grande e sulla banchina i soldati continuano a spararci addosso anche nell’acqua. Ce l’ho fatta, mi sono salvato e con me il compagno che ho trascinato via, ma mancano tanti altri miei amici, dove sono? Prendo terra più avanti, non ho più forza nelle braccia. Siamo a Pietrarsa, nello stabilimento siderurgico il giorno 6 Agosto 1863 ore 3 del pomeriggio. Si contano alla fine 5 operai morti nella prima carica e altri 2 colpiti in acqua, i feriti sono circa 20 di cui 7 gravi ospitati ai Pellegrini altri invece si sono ricoverati in casa propria, può essere che siano molti di più. La storia è una libera ricostruzione dei fatti tratti da documenti originali dell’epoca, la narrazione è un momento creativo ma la realta dell’evento è molto più cruda.

Vincenzo Tortorella

http://www.comitatiduesicilie.it/?p=1146

Read More