Alta Terra di Lavoro

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Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (V)

Posted by on Ago 21, 2019

Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (V)

Parte quinta: L’Età Giolittiana (1898-1921)

L’impronta di Giovanni Giolitti nella politica italiana è stata innegabilmente importante, tanto che questo periodo politico passò alla storia come “Età Giolittiana”. Furono gli anni delle concentrazioni industriali, delle formazioni delle masse popolari socialiste e cattoliche, dell’attività coloniale italiana in Eritrea, Libia e Dodecaneso, delle rivolte per il pane e della nascita del Partito Fascista.

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Il saccheggio di Capoliveri nell’Isola d’Elba: un esempio di falso storico

Posted by on Ago 5, 2019

Il saccheggio di Capoliveri nell’Isola d’Elba: un esempio di falso storico

1. Premessa

Fra i numerosi saccheggi effettuati dalle truppe francesi all’isola d’Elba, uno dei più ingiustificati ed efferati fu quello perpetrato nella cittadina di Capoliveri, nella parte meridionale orientale dell’isola (1).

Le radici cristiane dell’isola d’Elba risalgono all’apostolo della sua “prima evangelizzazione” san Cerbone, vescovo di Populonia (Grosseto) del VI secolo (2); la chiesa di San Michele di Capoliveri è citata in scritti dell’inizio del XIII secolo; che poi il cristianesimo vi avesse attecchito in modo fecondo è dimostrato, fra gli altri, da questo episodio accaduto nel 1779, anno in cui si verificò una grande siccità: “Piove pochissimo nell’autunno; passa tutto l’inverno e comincia la primavera senz’acqua, talché i pozzi, le fonti e perfino le polle si seccano. Il popolo di Capoliveri implora la Divina assistenza. Sono ordinate processioni a S. Filippo Neri e a San Sebastiano. È esposto S. Vincenzo Ferreri. E sebbene nel primo giorno del triduo che fu il 27 marzo cadesse un poco di pioggia, pure non fu sufficiente. Il dì 5 d’aprile si portò processionalmente detta immagine e il dì 11 il simulacro di Cristo morto da preti scalzi, ma invano. Il dì 12 il popolo va processionalmente al Santuario della Vergine di Lacona, in cui entra, dietro alla confraternita, il clero scalzo, ma invano. Il dì 17, veduta il popolo l’inclemenza del cielo e accortosi che Dio era sordo alle sue preghiere, porta con grande solennità il quadro della Vergine delle Grazie in paese. Bandita una processione popolare, i fanciulli precedono gli uomini senza cappa, questi le donne, la confraternita del Corpus Domini e questa il clero. Giunti al Santuario, entrano scalzi sacerdoti e chierici soltanto: l’arciprete col canapo al collo e una corona di spine in testa, con pianto universale. Tengono esposta per undici giorni la sacra immagine, guardata notte e giorno dalla milizia […] muovono a visitare la Vergine le Confraternite della Piazza e della Marina di Longone e di Rio: un popolo innumerevole, moltissimi vestiti alla foggia di pellegrini con cappa e bordone e altri non pochi scalzi con corone di spine in capo e una corda al collo” (3).

D’altro canto, pochi anni prima, nel 1735, si trovava a Capoliveri san Paolo della Croce (1694-1775), fondatore dei padri passionisti, […] a dare le missioni” (4). Il santo visitò più volte l’Isola d’Elba, dove voleva stabilire la sede dell’ordine da lui fondato, ma […] nel 1730 si vide respinta una richiesta intesa ad ottenere il santuario della Madonna delle Grazie ed allo stesso modo, successivamente, gli fu negato di ritirarsi con i suoi confratelli nel santuario della Madonna di Monserrato di Porto Longone” (5).
 

2. Il saccheggio di Capoliveri

L’episodio narrato di seguito conferma che la storia è sempre scritta dai vincitori, e che, spesso, non è rispettato nella ricostruzione il criterio di verità circa gli accadimenti. Nel nostro caso, quanto è stato trasferito dalla “storiografia ufficiale”, è che il saccheggio di Capoliveri abbia costituito una giusta rappresaglia, a seguito di gravi provocazioni ed attacchi operati dagli abitanti contro i francesi (6). A questo proposito, si deve tenere presente, che, mentre a Portoferraio regnava il Granduca di Toscana Ferdinando III di Lorena (1769-1824), e Porto Longone, l’attuale Porto Azzurro, era sotto il dominio della casa di Borbone, l’isola nella sua restante parte — che comprendeva Capoliveri e le zone limitrofe — apparteneva ai nobili Appiani, signori di Piombino — sulla costa toscana di fronte all’isola —, che erano alleati della Francia. La cittadina, quindi, non avrebbe dovuto essere ostile ai francesi.

Ancora, occorre ricordare che Giuseppe Ninci, giacobino di Portoferraio, autore di una nota Storia dell’Elba (7), fu parte attiva nel tentativo di imporre la Repubblica nell’isola, tanto che, quando la guarnigione granducale di Portoferraio tentò di opporsi all’incorporazione della piazzaforte, l’ultima rimasta libera, alla Repubblica Francese, nel marzo 1799, fu lo stesso Ninci a essere protagonista degli eventi. Nella sua storia egli infatti racconta che […] fortunatamente lo scrittore della presente opera, trovandosi a diporto sul molo, sentì, con raccapriccio ed orrore le minacce di quegli empi [i difensori della piazza].Egli volò ad avvertire i capi guardia [degli assedianti] dei posti indicati, affinché si ponessero a difesa” (8). Autore di parte, dunque, che l’altro storico dell’Elba, Vincenzo Mellini Ponçe de Leon (9) conferma abbia partecipato alle trattative fra i rivoluzionari e la piazzaforte, soprattutto al momento della consegna della lettera […] con cui si ordinava alla municipalità di Capoliveri di mettersi sotto il governo francese e somministrare alle truppe di quella Repubblica tutti i soccorsi possibili” (10). Il cronista elbano riferisce che il 4 aprile 1799 alla consegna della lettera, a Capoliveri, Ninci fosse presente: […] vuolsi che fra detti emissari vi fosse il nostro Giuseppe Ninci” (11). 

Ma la posizione di attesa dei capoliveresi ha termine proprio in questo momento. Si ignora […] ciò che riposero gli anziani, sappiamo solamente che gli emissari mandati allo scopo di democratizzare i capoliveresi, trovarono in essi una ripugnanza invincibile alle nuove idee; e, corse offese da una parte e dall’altra, andarono debitori alla velocità delle gambe, della salvezza delle loro spalle” (12).
 

3. La ricostruzione “ufficiale” di Giuseppe Ninci

Lo storico filo-giacobino racconta che, quando scoppiò il conflitto fra Regno di Napoli e Francia repubblicana nel 1799, nel corso dell’assedio stretto dai francesi alla piazza napoletana di Porto Longone, nell’aprile dello stesso anno, i capoliveresi […] passati ai campi francesi, invitarono gli assedianti di portarsi a Capoliveri per approvisionarsi, e che, per contrario, massacrarono. Il tradimento di questi, però, non andiede impunito; imperciocchè il generale Miolis [sic], passato da Livorno a Portoferraio e che comandava le forze francesi nell’Elba, spedì il giorno appresso [9 aprile] a Capoliveri un mezzo battaglione di fanteria, con l’ordine di saccheggiare quella terra, e passare a fil di spada chi si fosse opposto con le armi in mano” (13). Nel mese seguente, perdurando l’assedio di Porto Longone, la situazione ebbe un’evoluzione, nel senso che i francesi tentarono di pacificare gl’“insurgenti” (14), anche perché, dalle altre parti dell’isola, si erano manifestati contemporaneamente altri focolai di contro-rivoluzione, che rischiavano di mettere in difficoltà i giacobini.

In un primo tempo, i capoliveresi, rispetto agli altri moti reattivi, si mantennero neutrali, ma, secondo Giuseppe Ninci, […] non fu però, che i capoliveresi mancassero di maleanimo contro i francesi, ma solo non si mossero per non troppo arrischiare alla scoperta, imperocché, armatisi i medesimi, e ben postati alle finestre delle loro abitazioni, riceverono a colpi di fucile un picchetto francese, che ai loro nuovi inviti si era portato ad approvvisionarsi a Capoliveri. Questo secondo, non men del primo marcato tradimento per parte dei capoliveresi, meritossi la giusta vendetta delle truppe francesi. Queste la fecero di fatti, imperciocché la mattina del dì seguente, portatesi in numero sotto Capoliveri, e circondatolo in un momento, vi entrarono a baionetta in canna, ponendo a morte tutti quei che si vollero opporre, e dando un sacco generale a quella terra non senza attaccare il fuoco” (15). 
 

4. La verità storica ristabilita da Vincenzo Mellini Ponçe de Leon

Il maggiore storico elbano ricostruisce la vicenda in altri termini, partendo dal fatto che Capoliveri nell’aprile del 1799 fu occupata da un presidio di circa 60 francesi, sloggiato successivamente, nel maggio, dai soldati napoletani di Porto Longone. Questi uomini, fuggiti da Capoliveri, si unirono alla colonna francese inviata contro Capoliveri con l’ordine del comandante francese di mettere Capoliveri a ferro e a fuoco e di ritirarsi successivamente a Portoferraio: […] quell’orda di feroci predoni più che soldati, giunse silenziosa nel cuore della notte a quel castello; lo investì improvvisamente da tutti i lati, ne sorprese gli abitanti che dormivano quieti e tranquilli nei loro letti e tutt’altro pensavano che dar piglio alle loro armi che non avevano, ed a scontare con il sangue le strette di mano scambiate con loro compatrioti a servizio di Napoli, e vi cominciò un sacco così tremendo, da far dimenticare l’altro del 6 di aprile che durò dal giovedì notte a tutto il lunedì veniente […]. Sacerdoti, vecchi, donne, e fanciulli, massacrati, donne violate nelle pubbliche vie e persino in chiesa, bambine stuprate, chiese profanate, oggetti consacrati al culto, sacrilegalmente rotti, rubati; immagini sacre guaste e deturpate; case completamente svaligiate; mobili preziosi a calciate di fucili infranti; quadri di famiglia sciabolati; botti di vino, a spillarle a colpi di fucile, forate, lasciandone scorrere il liquido per le cantine, per le vie; orgia dovunque; e il paese ridotto prima ad un pianto, poscia ad un deserto. Non mancò che il fuoco a compiere l’opera nefanda ed a distruggerlo” (16).

Fra gli episodi più raccapriccianti c’è la morte, il 23 maggio 1799, di don Antonio Becci, anziano prete di antica famiglia capoliverese, da tutti conosciuto per le sue virtù, assassinato a colpi di arma da fuoco e di baionetta, per aver alzato la voce contro i violatori delle donne e delle bambine in chiesa e nelle pubbliche vie (17). Il limite tragico e grottesco di questa come di altre vicende è delineato da un episodio che ha inciso sulla memoria storica di Capoliveri e dell’Isola d’Elba in modo irrimediabile: la distruzione dell’archivio dell’antichissimo municipio. Il cancelliere della cittadina, certo Luigi Bracci, nella notte tra il 23 e il 24 maggio 1799, mentre i francesi imperversavano, temendo la loro ferocia, […] tolse i libri e le filze di maggior interesse dagli scaffali, e, favorito dalla vicinanza del Palazzo Pubblico alla Chiesa Parrocchiale, li portò a nascondere alla sepoltura degli uomini. Vi si calò dentro e poscia, sui libri e su se stesso calò la lapide che la chiudeva” (18). Poco dopo, la Chiesa fu invasa da donne, vecchi, e fanciulli che cercavano scampo pensando che la sacralità di quel luogo avrebbe fermato i francesi, che invece li inseguirono anche lì per depredarli. A questo punto il Bracci, non si sa per il fetore della sepoltura o per la paura, o per la curiosità delle grida udite, sollevò un poco con la schiena la lapide. A questo punto, i soldati francesi, prima meravigliati e poi incuriositi, la scoperchiarono e tirarono fuori per il colletto il vecchietto ben vestito, scambiandolo per un ricco che aveva nascosto i propri tesori nel sepolcreto. E, non trovando invece niente altro che carte e ossa, furibondi, stracciarono e bruciarono tutte le carte e i libri ivi giacenti, prendendo a colpi di calcio di fucile il cancelliere e lasciandolo semivivo sul pavimento della chiesa. L’archivio di Capoliveri era stato risparmiato da tante guerre e saccheggi nei secoli passati, perfino dai saraceni e dai turchi.
 

5. Conclusioni

Amore di verità impone di stigmatizzare le menzogne che vengano lapidariamente consacrate dai canali della storiografia ufficiale, anche se si tratta di piccoli episodi della vita quotidiana, di cui pure la storia si compone. Grazie a Dio, spesso la grossolanità delle bugie nel racconto storico è tale da trasparire e da fare scoprire di suo l’imprecisione del relatore. Anche in questo caso, lo storico filo-giacobino, e giacobino egli stesso, Ninci cade in un insuperabile imbroglio, quando omette di citare la presenza dei francesi in presidio a Capoliveri dal 6 aprile, e omette altresì di menzionare la data del saccheggio del 22 maggio, giorno del Corpus Domini, che lasciò gli abitanti senza alcuna difesa, prostrati dal dolore e dalla falcidie di anime. Semplicemente afferma che l’inazione dei capoliveresi fu data dalla loro ignavia, pur sapendo gli stessi, che i napoletani necessitavano di appoggio dalle popolazioni territorialmente vicine. Un’altra menzogna del racconto di Ninci sta nella descrizione del saccheggio e della strage, che secondo lui avvenne in pieno giorno, così che la popolazione avrebbe potuto respingere l’attacco, mentre in realtà l’assalto fu proditoriamente effettuato nella notte del 22 maggio, quando i capoliveresi giacevano nel sonno. Da ultimo, il fantomatico invito rivolto dai capoliveresi ai francesi — appena scacciati o ancora di presidio! — di andare ad approvvigionarsi presso gli assediati, per poi aggredirli con fucili di cui già non disponevano più a causa del saccheggio subito. Non è chi non veda una profonda ingenuità, assai poco probabile, da parte dei francesi che sarebbero di certo caduti in un agguato, dal momento che il contrasto infuriava in quei giorni tra l’una e l’altra fazione. Vero è, purtroppo, che i contemporanei dei fatti, come in tutti questi frangenti accade, si distinguevano in due categorie: coloro che, come i capoliveresi, per essersi mantenuti fedeli ai propri principi, vennero passati a fil di spada fra atroci sevizie, e chi, come certi storici svelano con il proprio oscuro lavoro di ricostruzione, si fa corifeo del dominio straniero, volendo la sottomissione o, in caso contrario, lo sterminio di chi la pensava diversamente, appoggiandosi alle baionette straniere.

Benedetto Tusa

NOTE

(1) Situata sopra un monte spianato in vetta ed elevata a m. 167 sul livello del mare, è posta nella parte sud ovest dell’Isola. Fondata, si dice, da liberti o da adoratori “libertini” del dio Bacco, “Caput Liberum” era abitata da una popolazione con marcati caratteri di autonomia, la cui istituzione più eminente nei secoli è stata il “consiglio degli anziani”, organismo di governo con forti poteri legislativi e deliberativi. 

(2) L’esistenza storica di San Cerbone non è del tutto certa; cfr. Piero Bargellini, Mille Santi al giorno, Vallecchi-Massimo, Milano 1980, p. 567. 

(3) Cfr. Vincenzo Mellini Ponçe de Leon, Delle memorie storiche dell’Isola d’Elba, Tipografia Raffaele Giusti, Livorno 1890, vol. V, rist. a cura di Gianfranco Vanagolli, Le Opere e i Giorni, Roma 1996, pp. 92-93. 

(4) Cfr. ibid., p. 77.

(5) Cfr. ibidem, ex archivio Mellini Ponçe de Leon, cit. in Enrico Lombardi, Santuario della Madonna del Monte di Marciana nell’Isola d’Elba, a cura dell’Opera del Santuario, Queriniana, Brescia 1964, p. 77, nota 125; cfr. anche Idem, Vita Eremitica nell’Isola d’Elba, Queriniana, Brescia 1957, pp. 51-52, e A. Ripabelli, S. Paolo della Croce all’Isola d’Elba, in Corriere Elbano, 10-9-1975 e 20-9-1975. 

(6) Per il quadro generale della situazione elbana nel 1799, cfr. 1799: l’Insurrezione popolare contro-rivoluzionaria dell’Isola d’Elba, in ISIN, Nota Informativa, anno II, n. 5, gennaio-aprile 1997, pp. 3-10.

(7) Cfr. Giuseppe Ninci, Storia dell’Isola d’Elba, Portoferraio (Livorno) 1815, rist. anast., Forni, Bologna 1968.

(8) Ibid., pp. 215-216.

(9) Maggiore storico dell’Isola, nacque a Marina di Rio, nel 1819; il padre, Giacomo, era stato un ufficiale al seguito di Napoleone. Laureato in giurisprudenza e in scienze naturali, rinunciò alla carriera universitaria per vivere sulla sua isola e studiarne la storia e le tradizioni. Fu anche sindaco del suo paese natale e direttore delle miniere di ferro dal 1871 al 1891, senza però smettere di esplorare archivi e biblioteche. La sua opera maggiore sul periodo del triennio giacobino (1796-1799) è il quinto libro — intitolato I francesi all’Elba —, della sua Storia (Giusti, Livorno 1890). Morì a Livorno nel 1897. Per una più completa notizia bio-bibliografica, cfr. V. Mellini Ponçe de Leon, op. cit., pp. VIII-IX, da cui sono state tratte anche le seguenti notizie. Cfr. anche Alessandro Canestrelli, Elba, un’isola nella storia, Litografia Felici, Ospitaletto di Pisa (Pisa) 1998, pp. 20-23.

(10) V. Mellini Ponçe de Leon, op. cit., p. 33.

(11) Ibid., p. 38, nota 32.

(12) Ibid., p. 33.

(13) G. Ninci, op. cit., p. 217.

(14) Ibid., p. 219.

(15) Ibid., p. 220.

(16) V. Mellini Ponçe de Leon, op. cit., pp. 171-172.

(17) Ibid., p. 172.

(18) Ibid., p. 173.

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LEGGETELO CON ATTENZIONE…..NE VALE LA PENA. CI SI PUO’ SOLO INDIGNARE PER CIO’ CHE CI PROPINA LA STORIOGRAFIA UFFICIALE…UNA VERGOGNA!!!

Posted by on Ago 4, 2019

LEGGETELO CON ATTENZIONE…..NE VALE LA PENA.  CI SI PUO’ SOLO INDIGNARE PER CIO’ CHE CI PROPINA LA STORIOGRAFIA UFFICIALE…UNA VERGOGNA!!!

“Quegli assassini dei fratelli d’Italia sono un nuvolo di cavallette voraci” “…Se si dovesse credere alle parole dei rivoluzionarii, ed ai loro giornali, tutti gli antichi governi d’Italia erano detestabili per le loro tirannie, deplorabili per la mala amministrazione, esecrabili in ogni modo, e contrarii fino alla civilizzazione ed al progresso dei lumi.

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Bambini vetrai: una drammatica pagina dell’immigrazione italiana in Francia

Posted by on Apr 7, 2019

Bambini vetrai: una drammatica pagina dell’immigrazione italiana in Francia

Condividendo con voi l’inchiesta di Ugo Cafiero[[Ugo Cafiero era un diplomatico, di formazione giuridica, che frequentava il gruppo dei socialisti alla Camera]] Fanciulli italiani nelle vetrerie francesi (Opera di assistenza degli operai italiani emigrati in Europa e nel Levante, giugno 1901), vogliamo proporvi le testimonianze e le storie della tratta minorile italiana in Francia riportando fedelmente le parole e le intuizioni dell’autore. Quello descritto è il ritratto di una gioventù sacrificata all’industria dell’incettatore, prima ancora che a quella del vetro.

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BUROCRAZIA BORBONICA

Posted by on Feb 28, 2019

BUROCRAZIA BORBONICA

Quando in itaglia, la pubblica amministrazione o la macchina dello Stato non va, o se una legge appare ingiusta, meschina, pignola, contro il cittadino, viene fuori il solito luogo comune: «burocrazia e/o leggi borboniche», dal chiaro significato negativo. Niente di più sbagliato, nel 1861, a seguito dell’unificazione politico-territoriale della Penisola, l’intera struttura statale italiana fu modellata su quella piemontese; l’ordinamento giuridico napoletano fu azzerato e delle leggi borboniche non fu conservato un bel niente! Eppure, si continua a parlare dispregiativamente di «stato borbonico», di «leggi borboniche», di «burocrazia borbonica», di «carceri borboniche», come in un’estasi di ignoranza o, peggio, di malafede. Se sfogliamo un vocabolario della lingua italiana, constatiamo che il termine borbonico viene qualificato come aggettivo dispregiativo, riferito al ramo della famiglia che regnò su Napoli e l’Italia meridionale dal 1734 al 1860, a cui hanno volutamente fatto acquisire l’accezione di retrogrado, oscurantista, reazionario, repressivo, ottuso, ingiusto, antiquato, inefficiente ecc…
Una vera e propria calunnia, frutto di una propaganda denigratoria per i governanti ed i legislatori dell’ex Regno delle Due Sicilie, perchè le cose stavano ben diversamente. A 159 anni dall’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte, possiamo affermare con cognizione di causa, che le leggi napoletane erano ottime, tanto che, nel 1852, l’imperatore francese Napoleone III inviò a Napoli una speciale commissione di giuristi e di alti funzionari, perché studiassero proprio la bontà di quelle leggi. Peraltro, nel 1902, lo storico inglese Bolton King (1860-1937) sostenne che «nessuno Stato in Italia poteva vantare istituzioni così progredite come quelle del Regno delle Due Sicilie»; il professor Giuseppe Cicala affermò che «per far funzionare il Sud, basterebbe far funzionare bene ciò che ci hanno lasciato i Borbone: leggi e regolamenti compresi». Lo Stato borbonico, infatti, eccelleva sotto gli aspetti sociale, culturale, industriale, economico, amministrativo ed aveva delle leggi all’avanguardia in numerosi settori; in particolare, il sistema giudiziario meridionale è stato riconosciuto da molti studiosi come il più avanzato dell’Italia pre-unitaria, in linea con la grandissima scuola meridionale di diritto. Sin dal 1774, era stato introdotto nell’impianto processuale napoletano l’istituto della Motivazione delle Sentenze, in linea con le teorie illuministe del giurista napoletano Gaetano Filangieri (1753-1788); e quando la tortura giudiziaria vigeva ancora con tutta la sua ferocia nel cosiddetto “liberale” Piemonte, le leggi borboniche già da un pezzo l’avevano vietata. Era stabilito, che la corrispondenza privata non potesse venire in alcun modo manomessa e che non fosse lecito imprigionare un povero debitore senza un giudizio di merito che ne avesse accertato la frode. È sufficiente consultare, presso l’Archivio di Stato di Napoli (fondo Archivio Borbone), la «Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie», per comprendere la modernità e l’elevato livello di civiltà giuridica che caratterizzavano l’Ordinamento duosiciliano.
In campo economico-sociale, nel 1789 (qualche mese prima della Rivoluzione francese), il re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825) emanò il Codice-statuto delle Seterie di San Leucio, presso Caserta, per regolamentarvi la vita ed il lavoro degli operai e dei loro nuclei familiari. La colonia di San Leucio fu un progetto ideato e voluto dallo stesso re. L’opificio, conosciuto poi in tutta Europa per l’elevato livello tecnologico ed i cui pregiati manufatti venivano largamente esportati, divenne il fiore all’occhiello dell’industria del Sud. Si trattò di un vero e proprio miracolo (non solo sotto il profilo economico, ma anche sotto l’aspetto sociale), che stupì i contemporanei, realizzato sulla base delle teorie socio-economiche del già menzionato illuminista napoletano Gaetano Filangieri.
Il Codice Leuciano, ben presto tradotto in greco, francese e tedesco, anticipò di quasi un secolo le prime leggi sul lavoro varate in Inghilterra (previdenza, assistenza sanitaria, case ai lavoratori, asili nido, istruzione elementare obbligatoria e gratuita per i fanciulli). Esso perseguiva, obiettivi di convivenza moderni e mirava a realizzare una sorta di socialismo sociale sancendo per i componenti della colonia, la perfetta uguaglianza, con l’unica possibilità di differenziazione basata sul merito. Le giovani coppie avevano diritto di prelazione per sistemarsi. Fu così costruito un vero e proprio stabilimento di moderna concezione, che richiamò gente da fuori e famiglie intere in cerca di lavoro e reddito garantito. Lo statuto prevedeva un criterio retributivo, parsimonioso in anticipo sui tempi, una specie di piano contro il pauperismo del Sud; perché l’iniziativa «dev’essere» – sono parole del re Ferdinando – «utile alle famiglie, alleviandole da’ pesi, che ora soffrono, e portandole ad uno stato tale da potersi mantener con agio, e senza pianger miseria, come finora è accaduto in molte delle più numerose e oziose». Tessuti finissimi, stoffe damascate, lampassi preziosi uscirono per decenni dalle fabbriche leuciane e ben due terzi della produzione totale erano destinati all’esportazione verso gli Stati Uniti d’America. Se mai nella vostra vita aveste la possibilità di toccare la bandiera americana situata nella Sala Ovale della Casa Bianca o quella inglese di Buckingam Palace, sappiate che state toccando le pregiate sete provenienti da San Leucio. E non solo. Dalle seterie san leuciane provengono anche tessuti che si possono ritrovare in Vaticano e al Quirinale, per citare altri esempi dell’arte della piccola comunità. Dal 1997, San Leucio è Patrimonio dell’Umanità.
Con la Convenzione del 14 febbraio 1838, stipulata con la Francia e con l’Inghilterra, il Regno delle Due Sicilie si obbligò a combattere con le armi e con danaro pubblico, la tratta degli schiavi. Ferdinando II (1810-1859) volle in questo modo contrastare quello che lui definiva un «traffico abbominevole» e, nell’autunno del 1839, il re Borbone promulgò la «Legge per prevenire e reprimere i reati relativi al traffico conosciuto sotto il nome di Tratta de’ negri». Questa normativa, costituita da 15 articoli, prevedeva pene diverse a seconda che il bastimento, utilizzato per la tratta, fosse bloccato prima della partenza o venisse catturato dopo, in mare, senza che però il traffico fosse stato portato a termine. Potevano beneficiare di sconti di pena i membri dell’equipaggio che avessero avvisato per tempo la pubblica sicurezza; tali benefici, però, non potevano mai essere applicati in favore dell’armatore, del capitano, degli ufficiali, del proprietario della nave, dell’assicuratore e del prestatore di capitali. Incorreva nelle sanzioni anche chi fabbricava, vendeva o acquistava i ferri da utilizzarsi nella tratta. La pena era più grave, poi, se qualche schiavo negro fosse stato fatto oggetto di maltrattamenti o di omicidio. La Gran Corte criminale, competente per il giudizio in merito, aveva anche il compito di provvedere alla liberazione degli schiavi di colore, ai quali veniva consegnata gratuitamente «copia legale della decisione di libertà». Ricordando che questa era l’epoca in cui il commercio negriero era molto fiorente, soprattutto negli Stati Uniti d’America, ove lo rimase fino alla conclusione della Guerra di Secessione (1865). Una legge pionieristica, promulgata il 17 dicembre 1817 dal re Ferdinando I di Borbone, alla quale seguì il decreto n. 10406 del 19 ottobre 1846 del re Ferdinando II, regolamentava la concessione della cittadinanza agli stranieri. Essa, composta da soli tre articoli, fu la prima normativa della storia sull’immigrazione. Il suo principio informatore era quello secondo cui, per poter acquisire la cittadinanza nel Regno, uno straniero doveva risultare concretamente utile alla collettività ed, in nessun caso, poteva costituire un problema sociale od un peso economico per lo Stato. In particolare, all’articolo 1, così recitava: «Potranno essere ammessi al beneficio della naturalizzazione nel nostro regno delle Due Sicilie: 1. gli stranieri che hanno renduto, o renderanno importanti servizi allo Stato; 2. quelli che porteranno dentro lo Stato de’ talenti distinti, delle invenzioni, o delle industrie utili; 3. quelli che avranno acquistato nel regno beni stabili su’ quali graviti un peso fondiario almeno di ducati cento all’anno; al requisito indicato ne’ suddetti numeri 1, 2, 3 debbe accoppiarsi l’altro del domicilio nel territorio del regno almeno per un anno consecutivo; 4. quelli che abbiano avuto la residenza nel regno per dieci anni consecutivi, e che provino avere onesti mezzi di sussistenza; o che vi abbiano avuta la residenza per cinque anni consecutivi, avendo sposata una nazionale». Questa legge costituisce anche la prova inconfutabile che, prima dell’unità d’Italia, non solo i meridionali non conoscevano il triste fenomeno dell’emigrazione, ma che numerosi erano i casi di emigranti, dall’Italia settentrionale e dal resto del mondo, che venivano a stabilirsi al Sud. Infatti, il Regno delle Due Sicilie era meta ambita da svizzeri, piemontesi, genovesi, russi, austriaci, spagnoli, arabi, slavi e, soprattutto, francesi ed inglesi. Tali flussi migratori verso il nostro Sud forniscono, un dato inequivocabile: lo Stato meridionale era ricco e felice, vi era pace sociale e lavoro. La differenza di cultura, di religione e di lingua non erano motivi di discriminazione né, tanto meno, di emarginazione. Possiamo, quindi, affermare che la legislazione del Regno delle Due Sicilie, in materia di concessione della cittadinanza agli stranieri ed ai loro figli, era avanti, rispetto a quella attualmente in vigore nello Stato Italiano (ad iniziare dalla legge del 5 febbraio 1992, n. 91), di ben centosettantacinque anni!
Un decreto emanato il 3 maggio 1832 dal re Ferdinando II di Borbone, analizzava e regolamentava la situazione dell’igiene pubblica e della raccolta dei rifiuti dell’intero Regno delle Due Sicilie. Un’ordinanza della prefettura di polizia disciplinava, nei dettagli, lo spazzamento e l’innaffiamento delle strade, compresa una sorta di raccolta differenziata ante litteram per il vetro. In particolare, a Napoli, il prefetto dell’epoca, Gennaro Piscopo, ordinò ai napoletani: «Tutt’i possessori, o fittuarj di case, di botteghe, di giardini, di cortili, e di posti fissi, o volanti, avranno l’obbligo di far ispazzare la estensione di strada corrispondente al davanti della rispettiva abitazione, bottega, cortile, e per lo sporto non minore di palmi dieci di stanza dal muro, o dal posto rispettivo. Questo spazzamento dovrà essere eseguito in ciascuna mattina prima dello spuntar del sole, usando l’avvertenza di ammonticchiarsi le immondizie al lato delle rispettive abitazioni, e di separarne tutt’i frantumi di cristallo, o di vetro che si troveranno, riponendoli in un cumulo a parte». Nel dettagliato documento del prefetto di Napoli, composto da 12 articoli, venivano indicate le modalità della raccolta e chi ne era responsabile; si vietava di gettare dai balconi materiali di qualsiasi natura, comprese le acque utilizzate per i bagni, e di lavare o di stendere i panni lungo le strade abitate; venivano, infine, stabilite le pene per le contravvenzioni, non esclusa la detenzione. Questa legge borbonica aveva già risolto il problema della spazzatura quasi duecento anni or sono, annoverando Napoli tra le città più pulite d’Europa.
In campo giudiziario, i re Borbone legiferarono e si adoperarono per la più corretta amministrazione della Giustizia, garantendo in primis l’assoluta «indipendenza della magistratura» dagli altri poteri dello Stato. L’articolo 194 della legge del 29 maggio 1817, infatti, così recitava: «L’Ordine Giudiziario sarà subordinato solamente alle autorità della propria gerarchia. Niun’altra autorità potrà frapporre ostacolo o ritardo all’esercizio delle funzioni giudiziarie o alla esecuzione dei giudicati». Ferdinando II, ben sapendo «che nella pubblicità dei giudizi è riposta la più solenne guarentigia della loro rettitudine, e che codesta pubblicità è la scuola migliore che aver possa un popolo… ordinò e richiamò in osservanza la discussione pubblica di tutte le cause, mirando anche al motivo della gloria del foro, affinché non scemasse il pregio dell’eloquenza degli avvocati con lasciar trasandata la perorazione delle cause». Ai sensi dell’articolo 196 della stessa legge del 1817 menzionata, nessuno poteva essere privato di una proprietà o di alcuno dei diritti accordatigli dalle leggi dello Stato, se non per effetto di una sentenza o di una decisione passata in giudicato. Come non si può non citare il primo Codice Marittimo del mondo (1781), la cui stesura fu curata da Michele Iorio; e il primo Codice Militare d’Italia, promulgato nel 1820.
Infine, gli usi civici e l’istituto dell’enfiteusi, in virtù dei quali la terra veniva concessa in uso a chi la lavorava, per il sostentamento della propria famiglia, dietro pagamento della cosiddetta decima; in sostanza, i contadini erano detentori ed usufruttuari dei terreni demaniali, che restavano però sempre di proprietà pubblica. A quest’ultimo riguardo, non si può prescindere dal ricordare la Prammatica del 20 settembre 1836, di Ferdinando II, sul demanio e sugli usi civici, dal cui testo emerge chiaramente una caratteristica peculiare del Diritto napoletano: la salvaguardia dei diritti dei più deboli dalle prepotenze e dai soprusi dei più forti.
Quindi, si può ben affermare che la struttura statale e le leggi su cui si reggeva il regno borbonico, sono un lascito prezioso che probabilmente molti paesi vorrebbero ereditare e forse chi non può farsene carico deve screditarne la sostanza, attribuendo all’aggettivo borbonico un significato negativo. Le leggi borboniche, semplici ed efficaci, affondavano le radici nella culla del vero diritto e nella legge perfetta del Vangelo. Anche se laico, quel Regno aveva alla base gli elementi portanti di uno stato di amore fatto di tolleranza, mutuo soccorso ed equità sociale, propri del cattolicesimo. E questa fu una delle ragioni che decretarono la condanna morte del Regno delle Due Sicilie, in un mondo in cui le potenze capitalistiche ed ateo-massoniche dell’epoca stavano per sferrare la più vile e violenta delle aggressioni agli antichi Stati cattolici d’Europa. La nostra consapevolezza deve mutarsi in orgoglio di essere i discendenti e gli eredi di un popolo civile, laborioso, prospero e pacifico (mai aggressore, ma sempre aggredito!).

fonte “Un Popolo distrutto”

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