Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

La democrazia degli intelettuali? Finisce in tirannia

Posted by on Mar 23, 2019

La democrazia degli intelettuali? Finisce in tirannia

La repubblica partenopea del 1799, nata sull’esempio della rivoluzione francese, segnò il trionfo del giacobinismo meridionale. Ma guai a chi lo dice!!!!

Abbasso il tiranno viva la Repubblica, abbasso la tradizione viva la Costituzione, abbasso la fede viva la Cultura, abbasso le feste popolari viva la stampa. E a sud viva la rivoluzione degli incorruttibili.
Sembra il manifesto dell’eroica lotta contro il berlusconismo, e invece è il sunto epico della repubblica partenopea del 1799.

Se la storia è maestra di vita, la rivoluzione napoletana è un monito perfetto per il nostro tempo. Elogiata dalla storiografia dominante, portata a esempio di progresso, giustizia, libertà e cultura contro l’oscurantismo autoritario e rozzo del potere, è il paradigma rovinoso di una dittatura intellettuale.

Di recente ne tesseva gli elogi il Corriere della sera e ne accennava con favore lo storico Luciano Canfora, ma non c’è intellettuale «illuminato» che non esalti la rivoluzione del 1799. Invece io vorrei raccontarvi quel che i testi scolastici o canonici non scrivono. Una storia più cruenta delle terribili repressioni a sud postunitarie, di cui oggi tanto si parla.

Dunque, torniamo a Napoli nel ’700. Grande capitale europea con grandi sovrani, fiorisce la cultura in città e l’industria. Poi la decadenza. La monarchia borbonica si chiude in un paternalismo autoritario, feste farina e forca, superstizioso e diffidente verso la cultura. Brucia l’esempio della rivoluzione francese, il patibolo per i reali, parenti dei sovrani napoletani. Gli intellettuali di corte con i loro giornali invece s’innamorano di quel che succede a Parigi e rovesciano la monarchia. Piantano l’albero della libertà, arriva la repubblica a Napoli. Basta con la tradizione, il re e la religione. E chi non ci sta, sono dolori. Intere popolazioni insorgono contro la repubblica e contro gli intellettuali giacobini, e allora comincia la mattanza. Le città rimaste fedeli al re e alla religione vengono distrutte dai soldati francesi e dai loro collaborazionisti napoletani, i giacobini. Decine di migliaia di morti di cui nessuno parla; si parla invece delle decine di condannati a morte dal Borbone.

Avevano la sola colpa di restar fedeli al loro Re e alla loro Fede; alle loro pigre superstizioni, se non volete parlare di tradizioni. I rimedi per liberarli da trono e altare furono peggiori del male, più cruenti. Erano rozze le bande sanfediste del cardinale Ruffo che ad esempio uccisero alcune decine di patrioti repubblicani ad Altamura, tuttora ricordati; ma si dimentica che prima di quel massacro migliaia di abitanti dei centri vicini, di Trani, Andria, Carbonara, Gioia del Colle, Ceglie, Mola di Bari, furono sterminati da giacobini e francesi. Come in Vandea. Comitati, monumenti, libri, film, fiction, opere teatrali raccontano la Repubblica illuminata e il sacrificio di ferventi rivoluzionari. Ma nessuno ricorda quella gente. Marmaglia, vittime di una calamità naturale chiamata progresso, giustizia, illuminismo, emancipazione.

«Lo spettacolo è terribile. Cadaveri da per tutto, nelle strade e nelle case, tutti o parte bruciati dal fuoco delle case che sono state molto danneggiate; dei quartieri non più esistono, le fabbriche cadono, il teatro bellissimo è incenerito… la desolazione, il terrore vi comandano. Seguitano colà le uccisioni… gli orrori circa le violenze alle donne sono inesprimibili… pure le monache». La cronaca è tratta dal diario di un testimone dell’eccidio di Trani, seguito a quello di Andria, il magistrato Gian Carlo Berarducci. Fu pubblicato solo cento anni dopo. «I morti seppelliti finora, parte alla Madonna del Pozzo presso Bisceglie, parte verso Barletta, diconsi circa 2000. Altri ve ne sono», mentre centinaia di scampati si nascosero nei sotterranei di Santa Maria la Neve, «si diede l’orina da bere ai bambini, in altri luoghi si uccisero quelli che piangevano».

Trani e Andria avevano rifiutato di issare la bandiera giacobina e avevano sventolato la bandiera del regno borbonico e la bandiera nera in segno di resistenza a oltranza; ma diventò il sigillo del loro lutto. «Trani arde e il fumo giunge fin qui» scrive Berarducci. Le città vicine, spaventate dai massacri, preferirono la resa. Così Cetara fu distrutta, scempi nell’entroterra campano. Così in Molise o in Terra di Lavoro, nonostante fra’ Diavolo, meridionalista inconsapevole. Il Terrore. Quando il cardinale Ruffo riconquistò il sud, anch’egli con l’aiuto di stranieri, la flotta russo-turca al largo dell’Adriatico, vi furono feste popolari e religiose: «In Trani, Bisceglie, Corato, Ruvo, in tutti i luoghi vicini si sta nell’allegria massima». Il proclama reale dei ritornati borbonici elargiva non per magnanimità ma per riconquistare consensi e stabilità, «perdono generale alle città e individui, salvo alcune eccezioni».

La rivoluzione napoletana colonizzò il sud imponendo un modello astratto ed estraneo. L’esito fu la sanguinosa frattura tra la repubblica settaria delle élite e degli intellettuali giacobini e il popolo meridionale. Quella rivoluzione segnò la definitiva rottura tra riforme e tradizione, avvelenò la monarchia, creò un abisso tra élite e popolo, e in quel vuoto precipitò la borghesia meridionale. Lasciò il regno di Napoli in condizioni peggiori di come l’aveva trovato. «La ruina», come la chiamò Vincenzo Cuoco, cominciò con la Rivoluzione e proseguì con la Restaurazione. Cuoco in un primo tempo seguì la rivoluzione, ma poi da liberale si dissociò e sostenne che le rivoluzioni importate e calate dall’alto sono rovinose per i popoli.

Quando cadde la Repubblica esplosero i peggiori istinti della plebe e la dinastia borbonica finì in balìa dei suoi cinici alleati, gli inglesi. Le repressioni seguenti furono volute soprattutto dall’ammiraglio Nelson (una curiosità: il primo Mac Donald sbarcato al sud duecento anni prima dei fast food fu un generale britannico che fece a polpette gli insorti). La reazione borbonica risentiva del tragico esempio francese: il regicidio, il massacro della Vandea e la ghigliottina. Cuoco osservò: «Il male che producono le idee troppo astratte di libertà è quello di toglierla mentre la vogliono stabilire». Si sacrifica l’umanità reale a un’umanità ideale. Difatti con la repubblica partenopea fu instaurata a Napoli la censura e furono eliminati i Sedili del popolo che rappresentavano, pur rozzamente, le istanze popolane. Memorabile è l’ordine che Eleonora Fonseca Pimentel e i giacobini dettero all’arcivescovo di Napoli: fingere che il sangue di San Gennaro si fosse sciolto per dare l’illusione alla plebe che il protettore di Napoli non fosse ostile alla repubblica. Fu un esempio di manipolazione del consenso attraverso l’uso cinico e superstizioso della fede.

Ingannare il popolo in nome della libertà e del progresso è un tratto tipico dell’ideologia giacobina. Da più di due secoli i peggiori crimini contro l’umanità si compiono a fin di bene. Questa fu la dittatura degli intellettuali, che seppe distruggere ma non costruire.

fonte http://www.ilgiornale.it/news/democrazia-degli-intelettuali-finisce-tirannia.html

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IL MONITORE NAPOLITANO?……….MA

Posted by on Gen 14, 2019

IL MONITORE NAPOLITANO?……….MA

La povertà dei temi e delle idee che la repubblica napoletana, Capecelatro la definì “Repubblica da Operetta” ha prodotto e trasmesso sono racchiuse nel monitore napolitano fondato, durante quei pochi mesi del 1799, da donna Eleonora Pimentel Fonseca diventata un simbolo della città di Napoli da fine 800 fino ai giorni nostri, nonostante non abbiamo lasciato nessuna traccia, nessuna innovazione, nessuna nuova idea se non per la sua irriconoscenza verso la casa Reale che l’aveva tolta dalla miseria, se non per il suo alto tradimento verso il popolo napoletano e verso lo stato, se non per la sua attività di collaborazionista dell’esercito Francese invasore che non pensava che a saccheggiare i tesori del Regno e se non per la creazione del suddetto giornale “Monitore Napolitano” che fu solo uno strumento diffamatorio verso i Borbone, verso la realtà dei fatti che stavano accadendo e verso la cosa più importante che è la verità.

Gli stessi organi di stampa e i dispacci militari francesi erano costretti a smentire molti articoli che venivano pubblicati dal giornale che non ha fatto altro che anticipare la stampa e la tv spazzatura che ogni giorno dobbiamo sopportare.

Ancora oggi esiste il “Monitore Napolitano” organo di informazione storica che i giacobini napoletani continuano ad usare per disinformare e modificare la verità storica isolandosi dal reso del mondo che ormai ha preso coscienza di come la verità storica dal 1799 fino ai giorni nostri sia ben diversa. Di seguito pubblichiamo una storia che il nostro Raimondo Rotondi ha ritrovato che non merita nessun commento ma soltanto esser letto, nemmeno i Soviet sono arrivati a tanto.

Claudio Saltarelli

Tra i vari tipi di brigantaggio che caratterizzarono il periodo postunitario è importante evidenziare quello della zona di Sessa Aurunca in quanto, tra coloro che lo combatterono, si distinse il famoso pittore e patriota sessano Luigi Toro, che tanto aveva sacrificato per gli ideali di Libertà e Unità della Nazione.

Egli sentì il dovere di ritornare a combattere e lo fece contro i Briganti del suo territorio, quello aurunco.

Nel 1859 Luigi Toro (Lauro di Sessa CE – 1835- Pignataro Maggiore CE – 1900) si era arruolato nei Cacciatori delle Alpi ove aveva conosciuto Pilade Bronzetti di Cuneo, a cui dedicherà uno dei suoi migliori dipinti per celebrarne il sacrificio nella battaglia del Volturno.

In seguito si unì ai Mille col grado di sergente alla compagnia delle “Guide Garibaldine“ preposte alla protezione del futuro Generale.

Durante la campagna siciliana dimostrò tutto il suo valore, conquistandosi la fiducia dello stesso Garibaldi che lo volle accanto a sé in diverse occasioni.

Purtroppo dovette assistere alla morte del suo grande commilitone piemontese Pilade Bronzetti, al quale dedicò nel 1885 una tela che riproduce “La morte di Pilade Bronzetti a Castelmorrone”, oggi presente nei depositi del Museo Napoletano di San Martino.

Luigi Toro fu, dunque, uno dei protagonisti della Unificazione italiana nei momenti decisivi. Quando il brigantaggio endemico della zona sessana assunse i connotati della reazione con Francesco II che finanziava i briganti dell’alto casertano, il pittore e patriota Luigi Toro pensò che fosse il momento di difendere gli ideali per cui aveva combattuto, nonostante tutto il suo impegno era tutto dedito alla passione artistica.

In questa fase Luigi Toro fece parte della Guardia Nazionale con il grado di Maggiore e Comandante del 2° Battaglione.

La Guardia Nazionale, che era sta un’istituzione del Governo Borbonico, viene riproposta al fine di svolgere compiti di sorveglianza del territorio a sostegno delle forze governative.

Luigi Toro si guadagnò la fama di leggendario e intrepido combattente nella repressione del brigantaggio e Giovanni Sopiti, che gli dedicò una breve biografia così si esprime al riguardo del pittore e patriota sessano:

“Tutti sapevano del suo meraviglioso coraggio, e come fosse tiratore insuperabile… e dovunque si annunciasse che egli fosse per giungere, si disperdevano le masnade brigantesche…tale elevava a sé luminoso prestigio, che ne era conquista eziandio tutta la efferatezza di quei malfattori, i quali altresì lo ammiravano, ed erano costretti ad amarlo, per gli umanitari riguardi che egli adoperava verso le famiglie di quegli che aveanla abbandonata per darsi alla vita del bandito.”

Allo stesso modo il pittore e critico d’arte di Frosinone Costantino Abbatecola rivela:

“Toro mostrò molto coraggio nella lotta contro i Briganti… In quel tempo Toro si esercitava al tiro della pistola ed era giunto a tale perfezione che metteva cento colpi l’un dopo l’altro nel medesimo bersaglio. Questa qualità del Toro, accoppiata ad una grande influenza morale che esercitava sul mandamento di Sessa Aurunca, ben conosciuta dai Briganti, bastò a salvare il Paese dalle loro oppressioni perché credettero prudente non affrontare il Toro, come raccontarono parecchi Briganti venuti poi in potere della giustizia.“

Ed è proprio sul brigantaggio sessano che lo storico pignatarese Nicola Borrelli, allievo dell’artista e patriota risorgimentale Luigi Toro, dà un giudizio “tranchant” molto negativo del fenomeno del Brigantaggio nell’Alto Casertano, definendolo fanaticamente “reazionario “ in un testo che avrà tanto successo.

Il titolo del testo è Episodi di brigantaggio reazionario nella campagna sessana con la cui pubblicazione il Borrelli volle anche rendere omaggio al suo maestro Luigi Toro, che , proprio nel natio territorio aurunco, dopo essere stato uno degli artefici dell’Unità lasciò la passione artistica per dedicarsi alla repressione del Brigantaggio e riaffermare in tal modo gli ideali di libertà e di giustizia, che avevano caratterizzato la sua carriera quale Patriota.

Nel libro di Borrelli si fa riferimento al Posto di Guardia in Piedimonte di Sessa, istituito dal Maggiore Luigi Toro in relazione ad un documento inviato al Comandante della Guardia Nazionale di Carano in data 8 aprile 1862.

In esso il Comandante Toro informa:

“Conseguentemente alle mie ispezioni fatte ai diversi Quartieri, ho avuto agio di osservare la posizione strategica di Piedimonte, la quale richiede un Posto di Guardia a sé; perlocché Ella sarà compiacente disporre che sia subito aperto il locale e fornito della corrispondente forza, nella intelligenza che tale servizio dovrà prestarsi dai militi del Paese nel qual caso essi non presteranno più servizio nel Posto di Carano”.

Anche in tale momento storico Luigi Toro dimostra la sua audacia e il suo coraggio misto alla generosità che lo stesso Borrelli esplicita nella maniera seguente:

“La sua maschia figura di gentiluomo franco, benefico, generoso, coraggioso fino alla temerarietà gli ottennero l’illimitato rispetto da parte dei tristi banditi che nei primi anni postunitari gettavano il terrore nella Provincia, proprio quando il Toro, nella qualità di Maggiore della Guardia Nazionale, era incaricato della repressione del Brigantaggio e da questi mostri feroci che egli sfidava ogni giorno non gli fu torto un capello… anche quando avrebbero potuto impadronirsi di lui, vendicarsi , finirlo, ma che, per rispetto, non l’avrebbero mai fatto…”

Furono soprattutto le bande dei fratelli Francesco ed Evangelista Guerra, di Alessandro Pace, di Francesco Tommassino e di Giacomo Ciccone e Luigi Alonzo detto Chiavone ad imprimere una direzione politica reazionaria al fenomeno del brigantaggio.

Inoltre vi era quel Domenico Fuoco che si definiva “ Capitano e ajutante del Re Francesco II”.

In raccordo storico con il Brigantaggio prodotto dalla reazione “borbonico-pontificia ” del Cardinale Ruffo che si era servito dei “famigerati” Fra Diavolo e Mammone, i ” tristissimi ” briganti che furono sovvenzionati dai Borbone, anche in tal caso la ferocia dei Capibriganti – sostiene Borrelli – era dovuta anche alla speranza che un probabile ritorno del re Borbone avrebbe apportato benefici notevoli.

Nell’agro aurunco, secondo lo storico, i Borbone aveva lasciato tale “scia di ignoranza, di incoscienza e di abbruttimento” da procurare un forte sentimento di odio contro la società borghese dell’ agiatezza e, dell’ozio e dello sfruttamento. Precisa infatti lo storico Nicola Borrelli:

“le barbari leggi che regolavano le triste accolte, perfezionarono via via la criminalità del gregario e trasformavano presto in terribili tipi di grassatori o di assassini i novizi, sovente passati alla banda, come dicemmo, per una leggerezza, un errore, in un momento di sovreccitazione, sotto l’impulso di un rammarico o d’uno sdegno talvolta giustissimi”!

Scrive ancora Borrelli: “V’era, in tal caso – disperata ma vera – una via di salvezza, una via irta di pericoli e d’incognite, ma ricca di speranza, di promesse, di rivendicazione: la campagna, la banda” ma alcuni andavano ad ingrossare le file dei Pace dei Guerra, dei Cedroni, degli Anfrozzi, dei Ciccone, che però non erano altro che “bieche figure di malvagi, spesso avanzi dell’esercito Borbonico.

La ribellione del brigantaggio nella zona sessana aveva quindi un’impronta ed un’insidia in quanto collegato al revanscismo borbonico.

Il Borrelli , appassionato di pittura e che diventerà un discepolo di Luigi Toro, accogliendolo nella sua casa di Pignataro Maggiore (CE) negli ultimi anni di vita, rende omaggio alla sua figura di patriota che fu coerente con i propri ideali di libertà nel periodo di conquista dell’Unità della Patria, prima combattendo con i Mille per liberare il Mezzogiorno dai Borbone e poi ritornando in prima linea a difendere l’Italia dai briganti prezzolati dagli stessi nel periodo postunitario nel proprio territorio natio di Sessa Aurunca, a confine con lo Stato Pontificio.

Lo storico Borrelli, a proposito di tale brigantaggio che imperversava nella zona sessana, non ha esitazione a collocarlo, quindi, in maniera decisa quale tentativo borbonico di suscitare una guerriglia politica ai fini della restaurazione scrivendo:

“Questo, nella sua semplice trama psicologica, il fenomeno del Brigantaggio così detto politico – reazionario, di cui fu teatro Terra di Lavoro, e particolarmente la contrada di cui trattiamo, negli albori della nostra santa indipendenza.”


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IL MATTINO e il 1799

Posted by on Gen 8, 2019

IL MATTINO e il 1799

Antonella Orefice ha pubblicato un libro in cui si rivelerebbero in due paesini molisani “gli eccidi ordinati dai Borbone” (titolo a tutta pagina su Il Mattino del 14/6 con nota storiografica articolata che abbiamo inviato allo stesso giornale e allegata a queste premesse, in attesa di “eventuale” pubblicazione). Orefice è stata assistente di Maria Antonietta Macciocchi, comunista di posizioni maoiste che scrisse anche un libro dedicato alla de Fonseca e sintetizzato (Corriere della Sera, 8 gennaio 1999) nel libretto dell’opera allestita al San Carlo (contestata dai neoborbonici) per il bicentenario del 1799: “sono sicura -scriveva la Macciocchi- che è stata Eleonora a salvarmi dalle SS nel 1943… lasciai Napoli per Parigi ma credo che anche in questa scelta vi fosse l’influsso astrale di Eleonora…”. Una forma di cultura “neogiacobina” anche più estremizzata di qualsiasi forma di “neoborbonismo”… Lasciando da parte alcune perplessità sulla attendibilità di queste affermazioni e sulla scientificità della storia scritta dalla Macciocchi, riportiamo un post pubblicato poche ore fa dalla sua ex assistente che ha firmato il libro recensito a tutta pagina da Il Mattino: “Ecco chi sono i Borboni che tanto rimpiangi! ESULTA POPOLO LAZZARO…. ! (Ma noi SIAMO ANCORA QUA……….. La Nostra Repubblica è VIVA!)”.

Inevitabili alcune lettere di protesta che pare siano pervenute alla Orefice che se ne lamenta sempre sul suo profilo (e che non condividiamo solo se sono in qualche modo offensive e minacciose). Più di un dubbio, però, ci assale sulla imparzialità di questo nuovo libro, probabile frutto del comprensibile entusiasmo di chi non è esattamente e sistematicamente di casa negli archivi. E più di un dubbio ci assale anche sul distacco (quasi un odio, diremmo) che i giacobini del 1799 avvertivano contro quel “popolo lazzaro” (massacrato dai franco-giacobini con non meno di 60.000 caduti!) che si ribellò eroicamente a quella invasione: tenuto conto che la cultura ufficiale ha formato sulla base delle idee giacobine/liberali schiere di classi dirigenti locali e nazionali, ci assale ancora un altro dubbio che si lega al distacco che viviamo da queste parti tra governanti e governati. Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) nel 1799. Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) oggi. A dimostrazione della “pacatezza” e della sobrietà di intellettuali e giornalisti locali, l’autore dell’articolo, in un post appena pubblicato mette sullo stesso piano “neoborbonici e neofascisti” (“tra neofascisti e neoborbonici.. stiamo proprio messi male!”)…

E se la scommessa del futuro fosse, invece, proprio una classe dirigente finalmente e veramente radicata, rispettosa di tradizioni e identità, fiera e autenticamente napoletana e meridionale? E’ questo, da circa 20 anni, l’obiettivo neoborbonico: una scommessa paradossalmente davvero nuova se consideriamo i fallimenti delle classi dirigenti monopolisticamente formate dalla cultura ufficiale giacobina, liberale, antiborbonica e antinapoletana. Il successo e la diffusione (con la conseguente e facile rabbia degli “avversari”) delle nostre iniziative delle nostre idee ci fanno ben sperare…

Il solito 1799 e le stragi giacobine (davvero) dimenticate

Anche per Mazzini i giacobini erano traditori…  

Caro direttore, Napoli è davvero uno strano paese: da oltre 200 anni prevale in maniera monopolistica una lettura parziale e unilaterale di certe storie (in testa quella del 1799 fino a quelle “risorgimentali”) eppure la stessa cultura ufficiale che detiene quel monopolio continua a lamentarsi perché qualcuno ha “osato”, in questi anni, raccontare altre storie. In questo caso, Mario Avagliano, recensendo il nuovo libro di Antonella Orefice su alcune stragi (“dimenticate”) del Molise durante la rivoluzione napoletana, cita i soliti esuli che tante colpe hanno avuto nella creazione di un mito negativo e ancora attuale di Napoli o che -nel caso di Settembrini- furono costretti a rivedere molte delle loro tesi dopo l’Unità. Sempre i Borbone, poi, per l’articolista, avrebbero affidato a Ruffo “il compito della repressione” e così Ruffo avrebbe “occupato Napoli nel giugno del 1799 macchiandosi di efferati delitti, con mercenari albanesi, contadini del luogo e avanzi di galera”… Peccato, però, che quei mercenari fossero 50 (sui complessivi 80.000 volontari della sua armata) e che il Cardinale non aveva avuto il compito di “reprimere” ma di “liberare” il Regno da un’invasione straniera favorita da pochi giacobini locali (“una minoranza impercettibile” li definì Luigi Blanch) così come Napoli non fu di certo “occupata” da Ruffo (o dai Borbone), visto che era già “dei” Borbone che legittimamente vi regnavano. E di certo, del resto, in nessuna guerra (tanto più in una guerra contro l’esercito più potente del mondo) nessuno ha mai chiesto il curriculum di chi combatte. La Orefice ha scritto questo libro lasciando parlare “i documenti: quelli veri, quelli scomodi” contro chi in questi anni avrebbe “santificato i briganti e definito traditori i patrioti del 1799”. Solo che da oltre due secoli si tirano fuori sempre gli stessi documenti e non quelli che raccontano le stragi (quelle sì e quelle davvero dimenticate) compiute dai franco-giacobini ai danni della parte napoletana-cristiana-borbonica: oltre ottomila (in tre giorni) nella capitale e “oltre sessantamila i napoletani passati a fil di spada” in appena cinque mesi di repubblica: “Napoli non era altro che un immenso campo di carneficine, incendi, spavento e morte “ (memorie del generale Thiebault). Fu Giuseppe Mazzini, del resto, il primo a definire traditori quei patrioti che “avevano aperto le porte della città agli stranieri invasori… il Popolo napoletano  era disposto a morire combattendo non per superstizione, come più volte si è detto, ma per un sentimento nazionale, per un’idea di Patria che vi pulsava al di sotto” (manoscritto, Museo Centrale-Risorgimento). Si ricordano, allora, le fucilazioni molisane ma non i massacri e le devastazioni  sempre molisane di Isernia (oltre 1500 morti) o quelli di Mercogliano, Caserta, Ceglie, Carbonara, Bacoli, Benevento, Briano, Cetara, Collettara, Fondi, Gensano, Casamari, Itri, Massa, Nola, Pomigliano, Pagani  (e l’elenco sarebbe troppo lungo). Fu una guerra di invasione in alcune occasioni divenuta una sanguinosa e (a partire dai Borbone) non voluta guerra civile. Solo che in qualsiasi altro posto del mondo si  ricorderebbero i difensori della propria patria o almeno “anche” loro (si pensi alla celebrazione che il grande Goya ha fatto dei popolani spagnoli antifrancesi) e dalle nostre parti si scrive ancora con una rabbia e una parzialità oggettivamente eccessive di “massacri ordinati dai Borbone” o di “orde sanfediste” lasciando spazio ad una cultura ufficiale sempre poco attenta alle nostre tradizioni e alle nostre radici (anche borboniche e cristiane, al contrario di quanto pensano alcuni intellettuali): la stessa cultura ufficiale che, se solo guardiamo alla formazione delle nostre classi dirigenti, non ha prodotto risultati così positivi…

L’esercito francese che massacra il popolo napoletano al Carmine.

Premessa: e se Il Mattino organizzasse un dibattito? Leggo solo ora alcune considerazioni scritte dalla sig.ra Antonella Orefice autrice di un libro sugli “eccidi ordinati dai Borbone” in alcuni paesini molisani, recensito da Il Mattino qualche giorno fa e al centro di alcune polemiche e di un mio precedente intervento. La sig.ra Orefice minaccia di querelarmi ma è difficile capire le motivazioni di queste minacce poiché avevo espresso semplicemente alcuni giudizi (dovrebbe chiamarsi “dibattito”, mi pare) in merito a quanto scritto nella recensione firmata da Mario Avagliano. Giudizi storiografici (altro che “giudizi spregevoli sulla sua persona”) e che non posso che confermare perché si nota in quelle righe effettivamente un “entusiasmo comprensibile” per chi trova un documento, ma credo che sia necessario  evidenziare le lacune di ricerche archivistiche di fonti “dell’altra parte” (e citavo un lungo elenco di paesi oggetto di massacri, saccheggi e devastazioni): è forse “spregevole” a Napoli chiedersi se si tratta o no di un libro parziale o imparziale? Sempre la sig. ra Orefice, poi,  mi sopravvaluta e sottovaluta (forse solo per un naturale istinto di difesa delle proprie posizioni) la portata di un nuovo fenomeno culturale: io non ho “seguaci” (non ho mai creato una setta): circa 20 anni fa ho semplicemente creato un movimento culturale (il Movimento Neoborbonico) che ha fatto opera di ricerca e divulgazione con tesi di segno contrario rispetto a quelle della cultura ufficiale. Il consenso e il successo riscontrati sono andati ben al di là dei mezzi in campo e delle più rosee previsioni anche perché, evidentemente, c’è un forte bisogno di radici (tutte le radici), di storie ricche di orgoglio e rispettose di tradizioni napoletane, cristiane e anche borboniche… La sig.ra Orefice, allora, non può accusare il sottoscritto per tutte le lettere a lei pervenute e dalle quali (ripetiamo un concetto già abbondantemente espresso) ci dissociamo qualora fossero risultate offensive o minacciose (non è stato mai il mio e il nostro stile e non possiamo certo disporre della volontà di quanti hanno manifestato il loro dissenso). Lei stessa, del resto, in un post pubblicato prima delle polemiche si rivolgeva al “popolo lazzaro” invitandolo sarcasticamente ad esultare per le verità raccontate sui “suoi Borboni”. Chi scrive, oltre alla specializzazione in Archivistica presso l’Archivio di Stato di Napoli, ha all’attivo semplicemente migliaia di ore di studio con pubblicazioni (quasi tutte esaurite) che raccontano storie diverse rispetto a quelle raccontate dalla Orefice. Tutto qui. Altro che “storielle” o “verità manipolate” o tentativi di “vendere chiacchiere” insieme alle (nostre) incapacità di “comprendere i suoi lavori”, affermazioni che pure si presterebbero a eventuali querele ma che supereremo amando i dibattiti e non amando i tribunali italiani. In quanto alla mia critica rivolta alle classi dirigenti, la sig.ra Orefice risponde affermando che “non ha velleità politiche” né è alla ricerca di “candidature” ma, come la sig.ra certamente sa, si è “classe dirigente” anche (e di più) da giornalista o da intellettuale e resta in piedi la mia tesi sulle responsabilità di chi, in oltre 200 anni, e nonostante un vero e proprio monopolio di segno giacobino e liberale (e che, a quanto pare, ancora non basta), ha formato culturalmente chi ci ha rappresentato in questi anni e (come lo stesso Mattino spesso denuncia) non in maniera del tutto adeguata. Le inviamo, poi, i nostri complimenti per la pubblicazione, di altre recensioni positive del suo lavoro ma la cosa conferma quanto già scritto a proposito del monopolio della cultura ufficiale che, naturalmente, può prevedere anche recensioni positive su Repubblica o magari (è una citazione della sig.ra Orefice) sulla rivista ufficiale della Gran Loggia d’Italia (e cioè di quella massoneria più volte al centro dei nostri studi e delle nostre critiche per le sue responsabilità in merito a certi processi legati all’unificazione). Per tornare, poi, a quella parola a Napoli (e dalle parti del Mattino) piuttosto rara (“dibattito”), come nel mio primo intervento, vorrei evitare le facili, semplicistiche e confortanti etichette (”neoborbonici”, “giacobini” ecc.) ed entrare nel merito di alcune domande alle quali la sig.ra Orefice non ha dato risposta alcuna: non è forse vero che fu Mazzini il primo a definire traditori quei giacobini? Non è forse vero quanto affermato dalle fonti francesi e cioè che a Napoli in 3 giorni furono massacrati oltre ottomila “lazzaroni” e in tutto il Regno (in meno di 5 mesi) oltre sessantamila persone di parte napoletana-cristiana-borbonica? Non è forse vero che partivano ogni giorno per Parigi convogli con le nostre opere d’arte o che diverse centinaia di popolani furono condannati a morte solo per non aver gridato “viva la repubblica”? Non è forse vero che nella socialmente e culturalmente variegata armata di Ruffo quei “mercenari albanesi” non superavano le poche decine ed erano, invece, soldati delle comunità albanesi fedeli alla dinastia? Non è forse vero che furono devastati tutti quei paesi (abitanti compresi) sia nel 1799 che nel successivo periodo murattiano (su tutti “l’onda dei morti” di Lauria)?  Non è forse vero che in tutto il mondo chi difende la propria patria dagli stranieri è celebrato dopo secoli (un esempio su tutti i popolani spagnoli antifrancesi dipinti da Goya) e solo da noi viene ignorato e disprezzato? Queste sono le domande che abbiamo rivolto alla Orefice e al Mattino e su questo dovrebbe riflettere davvero una città che, a quanto pare, non ha ancora fatto pace con la sua storia.  Concordo, infine, con la sig.ra Orefice sul fatto che per noi il 1799 è (brutta immagine ma cito il suo testo) “un’ulcera perforata” ma solo perché, dopo oltre due secoli, avremmo il dovere di ricordare con cristiano rispetto tutte le vittime della rivoluzione franco-giacobina, “perforate” (loro sì, e a migliaia!), dalle baionette francesi al Carmine o a via Foria, a Porta Capuana o al Mercato stando dalla difficile part dei vinti, ieri come oggi. Non era il “popolo lazzaro”. Era il Popolo Napoletano. Il nostro Popolo.

Prof. Gennaro De Crescenzo

pubblicato il 19 giugno 2013

da http://pocobello.blogspot.com/2013/06/ancora-verita-sul-1799.html

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Vita della Duse di Alfredo Saccoccio

Posted by on Gen 1, 2019

Vita della Duse di Alfredo Saccoccio

La famiglia Duse, che si era stabilita, da secoli, in Chioggia, non si sarebbe mai mossa, se, nella prima metà dell’Ottocento, un Luigi Duse, marinaio come tutti i suoi, non avesse desiderato darsi al teatro. Si fece attore, fu celebre, ebbe la migliore Compagnia dialettale : subito i fratelli, i nipoti ed altri parenti vari, lo seguirono sulle scene. Attori anche i figlioli, anche Alessandro, che avrebbe voluto essere pittore e non poté ; romantico e delicato Alessandro, sposato ad un a ragazza romantica e delicata, Angelica Cappelletto, dolcemente malata di elisia, destinata a vagabondare da un palcoscenico all’altro, senza gloria, senza denaro e senza pace. Sono questi i genitori du Eleonora, che nacque a Vigevano, il 3 ottobre 1859. La portarono al battesimo in un piccolo cofano di cristallo, così che parve una reliquia ed i dragoni le presentarono le armi : certo  aveva già gli occhi larghi, bruni e dolenti.

Padre, madre e bambina girano per il Veneto; fra le braccia della madre, Eleonora compare in scena. Cresce, ha cinque anni e rappresenta Cosetta. Piange così bene che gli spettatori ne sono rapiti.

A 32 anni, Eleonora perde la madre, la soave Angelica, malatissima e coraggiosissima, che se ne va senza rumore, lasciando marito e figliola in un dolore vasto e muto : proprio in quei giorni, ereditano un poco di danaro, cinque casette chioggiotte  e le rifiutano, poiché la cara morta non potrà più goderle : il loro solo conforto vien proprio di lì, dal gesto di fierezza fantasiosa, e poi riprendono la vita dura ed inquieta.

Le rose di Giulietta

A 14 anni, Eleonora è a Verona. Ha letto Shakespeare, rappresenterà Giulietta : una felice estasi la coglie. Spende i suoi pochi risparmi per comprarsi delle rose scarlatte. In una domenica di maggio, l’immensa Arena, il cielo aperto, una moltitudine di popolani l’aspettano ed Eleonora appare, carica di rose, avvolta, fasciata, torturata di rose. E’ Giulietta: ogni sua parola suona inevitabile e giusta, ogni accento è fatalmente predestinato. Lascia cadere la prima rosa ai piedi di Romeo, sfoglia la seconda dal balcone. Una felicità limpidissima e terribile la conduce alla morte come su chiare onde. La notte scende, mentre il dramma ancora dura e gli scroscianti applausi, la sua atterrita gioia, il buio, danno ad Eleonora l’illusione di aver raggiunto una vetta.

Poi Eleonora lavora in compagnie meschine, che già senta indegne. Finalmente il balzo in avanti nella compagnia Emanuel, che per prima donna ha l’opulentissima signora Giacinta Pezzana. Accanto a lei, come dovette sembrare magra, magra, sparutella, la signorina Duse ventenne, malvestita e triste ! Il pubblico napoletano non l’amò gran che, si capisce, abituato ai ricchi fascini dei busti colmi e delle “tournures” rigogliose. Ma Napoli era piena di risorse : c’era una giovane giornalista, la signora Matilde Serao, che subito fu amica di Eleonora, e c’era Martino Cafiero, civettone, conquistatore, astutissimo Don Giovanni. Subito Eleonora ne è rapita e ne riceve fiori, libri, vezzi ; impara a conoscere Posillipo e le cene galanti, le gite in barca e il chiaro di luna.

Eleonora è molto felice. Trova, per rappresentare la nuora di “Teresa Raquin”, accenti così nuovi ed umani da ottenere il trionfo e la seconda grande scrittura, nella compagnia di Cesare Rossi, a Torino. Scrittura che non le dà gioia, ma dolore, perché significa il distacco dall’amato, una nuova solitudine Più grande solitudine quando, a Torino, Eleonora si accorge di essere madre. Chiede aiuto a Cafiero, senza ottenerlo. Singolare uomo questo Cafiero. Nessuno meglio di lui simboleggia la “fin di secolo”, il cinismo senza malvagità, il dilettantismo senza mediocrità.

Fierissima, Eleonora si rifugia a Marina di Pisa, in una casa di contadini, dove il suo bimbo nasce e subito muore. Eleonora stessa ne porta al cimitero la bara, leggerissima. Poi torna a Torino. Qui le succedono moltissime cose, inattese : diventa prima donna, perché la Pezzana se ne va; Cesare Rossi si innamora di lei, perché è suo uso innamorarsi della prima donna ; Tebaldo Cecchi, un bravo e buon compagno d’arte, le chiede di sposarlo, perché vuol difenderla dalle insidie di Rossi. E così, come per gioco, Eleonora si trova sposata, prima donna ed assillata dalle premure del vecchio capocomico.

Il teatro va male, il pubblico seguita a non amare Eleonora, giudicandola magra, stravagante e impossibile;  gli incassi diminuiscono. Intanto arriva in Italia, sfolgorando, con scimmie, cani, pappagalli, e vesti inaudite, la gloria universale, un’icona prepotente, Sarah Bernhardt, massima attrice di teatro dell’Ottocento, musa di Proust e D’Annunzio, amica di Henry James, definita “mostro sacro” da Jean Cocteau. Nessuno riconoscerebbe il grigio teatro torinese, quando Sarah vi debutta ed i fiori diventano montagne, gli applausi boati, l’entusiasmo follìa.. Eleonora naturalmente l’ammira, ma appena Sarah è partita, chiede e ottiene di mettere in scena proprio il lavoro che a Sarah, a Parigi, valse un fiasco colossale : “La Principessa di Bagdad”. E trionfa. Gli spettatori torinesi, esterrefatti, si vedono costretti ad applaudire la prima donna, senza che sia aumentata nemmeno di un etto, senza che sia imbellita nemmeno di una veste  parigina.  Eleonora è lanciata : va a Roma, recita “La Moglie di Claudio” e il pubblico le stacca i cavalli dalla vettura ; poi tutte le città italiane l’acclamano.

   Ora la signora Duse-Cecchi, celebrata, di giorno in giorno acquista sempre più gli estri, le originalità e le bizze proprie delle donne del suo tempo. Era il tempo delle crisi di nervi e dei sali inglesi,  delle fialettte d’ambra, degli svenimenti, della ipersensibilità e delle incomprensioni, dei fazzolettini lacerati con i denti, delle bertuccine custodite nel manicotto, dei suicidi in ginocchio, dei messaggi d’amore scritti con inchiostro d’argento su carta nera, dei teschi tenuti sul tavolino. Queste signore leggevano Nietzsche, “adoravano Wagner”, baffuti uomini le idolatravano tremando, mentre le pallide borghesucce ne gemevano d’invidia. Perché vorreste che Eleonora Duse non diventasse cos, e per  prima cosa non si mutasse il nome, firmando con predilezione Leonora ?

   Nasce Enrichetta, quella che sarà la bambina tranquilla, la giovanetta saggia, la sposa-modello : i genitori l’affidano a certi contadini, per riprendere il loro lavoro. Nuovi successi ; “Tournée” in America, trionfale.

   “Oh, grande amatrice ! ”

   Primo attore giovane, di bell’aspetto, di soavi modi, figura prestante e rigogliosi mustacchi, è Flavio Andò : ama Eleonora, che lo ama. Tebaldo, il buon marito, capisce che la separazione è necessaria e sparisce. Egli si terrà, fino alla morte, lontano, devoto e fedelissimo ; Flavio Andò ed Eleonora viaggiano insieme  per l’Europa:  nel 1886 nasce la loro Compagnia. La Russia li acclama ; il 1892 li trova a Vienna ; l’anno dopo, nell’America del Nord ; i fiaccherai e le mogli dei miliardari li acclamano.

   Eleonora stancamente ringrazia lasciando cadere all’indietro il suo famoso mantello, non si dipinge mai, cade in crisi spirituali, ama castamente Arrigo Boito, si pettina con un nodo sulla nuca, non porta il busto, piange spesso, scrive lettere sforacchiate di lineette come i segnali Morse e racconta le sue eleganti sofferenze . Ha trent’anni, si sente sola, poiché la passione per Andò si è mutata in amicizia, poiché il marito è scomparso, poiché Enrichetta è in collegio. Aspetta qualcosa dalla vita e che cosa non sa, ma, una sera, al Valle di Roma, uscendo di scena,dopo il terzo atto de “La signora delle Camelie”, un uomo le si para davanti : “Oh grande amatrice ! “ le grida e si allontana.

   Era un uomo piccoletto, con monocolo, il più mondano, il più pazzo, il più byroniano ; Carducci leggeva i suoi versi, una duchessa lo aveva sposato e Parigi lo adorava : era Gabriele d’Annunzio.

   Quel primo incontro non ebbe seguito e solo dopo un lungo intervallo poeta ed attrice si ritrovarono a Venezia;  Eleonora non poteva dormire, la notte, e girava in gondola per i canali. Gabriele pure ed un mattino, per caso, sbarcarono insieme. Si riconobbero e non si lasciarono più.

   Per la prima volta in vita sua, Eleonora mette su casa, a Venezia. Bisogna degnamente accogliere le visite dell’amato ! Drappi rossi, scialli ricamati, vetri di Murano, marmi infranti, icone bizantine, libri consunti, erbe secche, quel tanto di caos e di squisitezza che poteva incantare il cuore del Poeta.

   Da questo suo amore, Eleonora riceve una “luce straziante” : ama, soffre, si rifugia nell’ombra, docilmente aspetta l’opera che egli le ha promrssa e organizza una “tournée” in America unicamente per procurarsi i fondi necessari ai decori teatrali del suo Decoratore.

   “Gioconda”, “ Città Morta”, “Francesca sa Rimini” sono accolte dal pubblico con ostilità, anche se nulla è stato risparmiato per la maggiore nobiltà del lavoro :  le fibbie delle comparse sono di vere gemme, Micene rivive, la Duse cela le sue belle mani offrendo la sua bella voce. Il pubblico, però, fischia. Che le importa il successo, ormai, o i danari ? Ha Gabriele, barbetta caprina, sfolgoranti parole, certezza, incertezza, meravigliose bugie, “Laudi”, Capponcina, debiti, cavalcate sulla sabbia di  Marina di Pisa, cani gloriosi, donne adoranti, crudeltà, tenerezza, Gabriele, Gabriele ! Le pare che nulla sia sufficiente a pagare l’inaudita fortuna di stargli vicina e dà la sua sofferenza, il suo lavoro, la sua gloria, senza chiedergli nulla.

                                                       “Il Fuoco”

   Ad Atene, durante una “tournée”, d’Annunzio, che accompagna i suoi interpreti, consegna all’impresario ed amico di Eleonora il manoscritto di un libro nuovo, chiedendogli se la pubblicazione gli pare possibile. Questo libro è “Il Fuoco”.

   Tuoni e fulmini ! L’impresario fa un salto per aria, interrompe la lettura a metà, si precipita da Eleonora : questo libro non può uscire, questo libro non deve uscire, è uno scandalo, una calunnia, un’infamia ! Lei tace. dapprima, davanti alla collera del fedele amico, poi ritrova un poco di coraggio, per dichiarare di conoscere “Il Fuoco”, di approvarlo, di permetterlo. “Non si ha il diritto” dice, di soffocare un capolavoro !”.

   Però, in verità, ella non ha il diritto di opporsi al volere del suo amore. Quando la figlia Enrichetta, ormai fanciulla, la supplica di evitare che questa rovina si compia, Eleonora risponde che rinunciare a Gabriele le sarebbe  impossibile come tagliarsi una mano.Quando Cécile Sorel la compiange, ribatte che il sacrificio le è dolce. Ed “Il Fuoco” viene pubblicato.

   Cieca, immemore, non si difende neppure, anche se una vergogna atroce la stringe, anche se vorrebbe fuggire e nascondersi. Si aggrappa a questa estrema giovinezza che la lascia e ripete : “Ho quarant’anni e lo amo”.

   E Gabriele l’abbandona. Eleonora gli regala una bussola antica ed il suo perdono. E’ stanca, tutto le duole, tutto la fa soffrire : innumerevoli miserie fisiche, dominate finora dalla sua volontà, la tormentano : i polmoni, il cuore, gli occhi, i nervi, tutto cede. Per anni continuerà il suo lavoro. Sarà Vasillissa, sarà Rebecca, sarà Ellida. Andrà in scena soffocando per la tosse, per l’asma, per la paura irragionevole che improvvisamente la coglie.Dall’America del Sud a Vienna, dalla Russia a Parigi, ripeterà Magda e Margherita Gautier, senza più scopo. Il senso della solitudine la tortura ed una sera, a Berlino, pronunciando quel “sola ! “ che chiude “La Donna del Mare”, Eleonora capisce di non poter resistere più e nel 1909 lascia il teatro.

   Si rifugia a Firenze, per curarsi gli occhi minacciati di cecità, che lentamente guariscono. Enrichetta le chiede di venire a stabilirsi in Inghilterra, a Cambridge, dove ella vive con il marito, il professore Edward Bulloughs, ma Eleonora rifiuta. Il padre, quell’Alessandro Duse che aveva sempre desiderato dipingere ed ora, a Venezia, finalmente dipinge, la prega di raggiungerlo, ma Eleonora rifiuta. Devastata,, vive solitaria, mentre il mondo, con rapidità, la dimentica. Pellegrinaggi, fughe, partenze notturne, soggiorni segreti in città straniere, che la ricevono senza riconoscerla. Preghiere umili, di chi ancora non crede, ma vuol credere.

                                                       La Signora

   Casa di Roma, in via Nomentana, che pazientemente trasforma in quella Casa delle Attrici, da lei ideata con infinito amore. Poiché il riposo, il silenzio, le hanno dato nuove forze, Eleonora sente la necessità  di spenderle : festa di inaugurazione, patrona la Regina. Una folla fdi donne, con gonne ad “entrave”e corsetti lavorati alla turchesca, si stringe intorno alla “Signora”.

   La chiamano così, ormai, la Signopra : perfetto nome per quella che, non bella durante la giovinezza, in vecchiaia è diventata bellissima. Sta la Signora fra le sue protette e sorride.

   Le pare di aver trovato uno scopo. Dolce il maggio, su Roma, ma è il maggio 1914.

   Addio Casa delle Attrici, riposo, silenzio. Con ali nere vola la guerra sul mondo.Altri scopi troverà la Signora. Teatro del Fronte,visite ai soldati, ospedali. Finisce  la guerra, lo squallore la sostituisce. Eleonora Duse  si rifugia in Asolo, dove sarà la sua ultima casa. Vorrebbe darsi ancora, non sa a chi, a che cosa. Tenta il cinematografo, invece, su scenario di Grazia Deledda con “Cenere”.

   Eleonora ha fefde nel suo lavoro, ma non nel suo volto consumato. Si inizia così la sua lotta con gli operatori, con i registi, poiché supplichevolmente ella chiede sempre ombre, “flous”, veli, che nascondano la sua decadenza, e “Cenere” può presentare solo una Duse incenerita, spentissima.

   Ancora il Teatro. La guerra ha rovinato finanziariamente la Duse. Ricca non fu mai, noncurante e generosissima, ma padrona di un patrimonio modesto, che faceva amministrare, a Berlino, da Roberto von Mendelssohn, fedele amico, saggio consigliere. Ma l’inflazione inghiottisce ogni sostanza della Duse, che si ritrova poverissima. E ne è contenta.

   “Sola !”

   Ora ha un pretesto, la spinta, per tornare alle scene. Il 5 maggio 1921, davanti ad un pubblico ansioso, riappare Ellida, il volto nudo, capelli bianchi, voce palpitante e ferita. E’ un successo ? Qualcosa di meno e qualcosa di più, un gigantesco stupore davanti a tanta altezza raggiunta con mezzi tanto semplici. Eleonora ritrova il delirio, riprende il cammino trionfale, attraverso l’Italia, la Svizzera, l’Inghilterra. Intanto l’asma le toglie il respiro, i polmoni si struggono, gli occhi lacrimano, i nervi dolorano.  Intanto le finanze della Compagnia vanno malissimo  : dopo il primo anno, ha centomila lire di  debito; dopo il secondo, duecentomila. La Signora non sa come tener testa ai suoi impegni. Spessissimo la sua salute le impedisce di recitare e le penali sono rovinose ed ella ne perde ogni pace.

   Quello che fu il suo prodigioso amore ed ora orbo, eroe, Comandante di Fiume, rivolge una lettera ai giornali, ricordando l’opera da lei compiuta. Tuttavia non l’aiuta a realizzare il suo sogno: un teatro per lei, un teatro piccolissimo, modestissimo, “una cantina”, dice, o “una catacomba”, dove le sia permesso, circondata da giovani, creare una nuova arte.

   Meravigliosa fede della Signora !  Vecchia, stanca, potrebbe lasciarsi cadere. Invece lotta, presenta le opere che le sembrano degne, quali il “Così sia” di Gallarati Scotti e le difende anche davanti all’insuccesso. Finalmente, per liberarsi dai debiti, dagli impresari avidi, riparte per l’America del Nord. Ha 65 anni ed i suoi polmoni sono finiti.

   Pittsburg è metallica e grigia, mostri di cemento e di ferro si profilano sul cielo, piogge taglienti colpiscono la Signora, mentre, davanti al teatro, aspetta che le si apra l’ingresso degli artisti.

   Ma la rappresentazione della “Donna del Mare” è trionfale : alla fine soltanto, quando Eleonora pronuncia quel “sola !” che dà la misura del suo distacco, chi la conosce comprende che non solo il dramma finisce, ma la vita.

   Era il lunedì di Pasqua, il 23 aprile 1924. Per tutta la notte la Signora aveva chiesto, delirando, di ripartire, di riprendere il lavori. L’alba la trovò bianca, pacificata, nobilmente composta nella morte.

Alfredo Saccoccio   

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