La repubblica partenopea
del 1799, nata sull’esempio della rivoluzione francese, segnò il trionfo del
giacobinismo meridionale. Ma guai a chi lo dice!!!!
Abbasso il tiranno viva la
Repubblica, abbasso la tradizione viva la Costituzione, abbasso la fede viva la
Cultura, abbasso le feste popolari viva la stampa. E a sud viva la rivoluzione
degli incorruttibili.
Sembra il manifesto dell’eroica lotta contro il berlusconismo, e invece è il
sunto epico della repubblica partenopea del 1799.
Se la storia è maestra di vita, la rivoluzione
napoletana è un monito perfetto per il nostro tempo. Elogiata dalla
storiografia dominante, portata a esempio di progresso, giustizia, libertà e
cultura contro l’oscurantismo autoritario e rozzo del potere, è il paradigma
rovinoso di una dittatura intellettuale.
Di recente ne tesseva gli elogi il Corriere della sera
e ne accennava con favore lo storico Luciano Canfora, ma non c’è intellettuale
«illuminato» che non esalti la rivoluzione del 1799. Invece io vorrei
raccontarvi quel che i testi scolastici o canonici non scrivono. Una storia più
cruenta delle terribili repressioni a sud postunitarie, di cui oggi tanto si
parla.
Dunque, torniamo a Napoli nel ’700. Grande capitale
europea con grandi sovrani, fiorisce la cultura in città e l’industria. Poi la
decadenza. La monarchia borbonica si chiude in un paternalismo autoritario,
feste farina e forca, superstizioso e diffidente verso la cultura. Brucia
l’esempio della rivoluzione francese, il patibolo per i reali, parenti dei
sovrani napoletani. Gli intellettuali di corte con i loro giornali invece
s’innamorano di quel che succede a Parigi e rovesciano la monarchia. Piantano
l’albero della libertà, arriva la repubblica a Napoli. Basta con la tradizione,
il re e la religione. E chi non ci sta, sono dolori. Intere popolazioni
insorgono contro la repubblica e contro gli intellettuali giacobini, e allora
comincia la mattanza. Le città rimaste fedeli al re e alla religione vengono
distrutte dai soldati francesi e dai loro collaborazionisti napoletani, i
giacobini. Decine di migliaia di morti di cui nessuno parla; si parla invece
delle decine di condannati a morte dal Borbone.
Avevano la sola colpa di restar fedeli al loro Re e
alla loro Fede; alle loro pigre superstizioni, se non volete parlare di
tradizioni. I rimedi per liberarli da trono e altare furono peggiori del male,
più cruenti. Erano rozze le bande sanfediste del cardinale Ruffo che ad esempio
uccisero alcune decine di patrioti repubblicani ad Altamura, tuttora ricordati;
ma si dimentica che prima di quel massacro migliaia di abitanti dei centri
vicini, di Trani, Andria, Carbonara, Gioia del Colle, Ceglie, Mola di Bari,
furono sterminati da giacobini e francesi. Come in Vandea. Comitati, monumenti,
libri, film, fiction, opere teatrali raccontano la Repubblica illuminata e il
sacrificio di ferventi rivoluzionari. Ma nessuno ricorda quella gente.
Marmaglia, vittime di una calamità naturale chiamata progresso, giustizia,
illuminismo, emancipazione.
«Lo spettacolo è terribile. Cadaveri da per tutto,
nelle strade e nelle case, tutti o parte bruciati dal fuoco delle case che sono
state molto danneggiate; dei quartieri non più esistono, le fabbriche cadono,
il teatro bellissimo è incenerito… la desolazione, il terrore vi comandano.
Seguitano colà le uccisioni… gli orrori circa le violenze alle donne sono
inesprimibili… pure le monache». La cronaca è tratta dal diario di un
testimone dell’eccidio di Trani, seguito a quello di Andria, il magistrato Gian
Carlo Berarducci. Fu pubblicato solo cento anni dopo. «I morti seppelliti
finora, parte alla Madonna del Pozzo presso Bisceglie, parte verso Barletta,
diconsi circa 2000. Altri ve ne sono», mentre centinaia di scampati si
nascosero nei sotterranei di Santa Maria la Neve, «si diede l’orina da bere ai
bambini, in altri luoghi si uccisero quelli che piangevano».
Trani e Andria avevano rifiutato di issare la bandiera
giacobina e avevano sventolato la bandiera del regno borbonico e la bandiera
nera in segno di resistenza a oltranza; ma diventò il sigillo del loro lutto.
«Trani arde e il fumo giunge fin qui» scrive Berarducci. Le città vicine,
spaventate dai massacri, preferirono la resa. Così Cetara fu distrutta, scempi
nell’entroterra campano. Così in Molise o in Terra di Lavoro, nonostante fra’
Diavolo, meridionalista inconsapevole. Il Terrore. Quando il cardinale Ruffo
riconquistò il sud, anch’egli con l’aiuto di stranieri, la flotta russo-turca al
largo dell’Adriatico, vi furono feste popolari e religiose: «In Trani,
Bisceglie, Corato, Ruvo, in tutti i luoghi vicini si sta nell’allegria
massima». Il proclama reale dei ritornati borbonici elargiva non per
magnanimità ma per riconquistare consensi e stabilità, «perdono generale alle
città e individui, salvo alcune eccezioni».
La rivoluzione napoletana colonizzò il sud imponendo
un modello astratto ed estraneo. L’esito fu la sanguinosa frattura tra la
repubblica settaria delle élite e degli intellettuali giacobini e il popolo
meridionale. Quella rivoluzione segnò la definitiva rottura tra riforme e
tradizione, avvelenò la monarchia, creò un abisso tra élite e popolo, e in quel
vuoto precipitò la borghesia meridionale. Lasciò il regno di Napoli in condizioni
peggiori di come l’aveva trovato. «La ruina», come la chiamò Vincenzo Cuoco,
cominciò con la Rivoluzione e proseguì con la Restaurazione. Cuoco in un primo
tempo seguì la rivoluzione, ma poi da liberale si dissociò e sostenne che le
rivoluzioni importate e calate dall’alto sono rovinose per i popoli.
Quando cadde la Repubblica esplosero i peggiori
istinti della plebe e la dinastia borbonica finì in balìa dei suoi cinici
alleati, gli inglesi. Le repressioni seguenti furono volute soprattutto
dall’ammiraglio Nelson (una curiosità: il primo Mac Donald sbarcato al sud
duecento anni prima dei fast food fu un generale britannico che fece a polpette
gli insorti). La reazione borbonica risentiva del tragico esempio francese: il
regicidio, il massacro della Vandea e la ghigliottina. Cuoco osservò: «Il male
che producono le idee troppo astratte di libertà è quello di toglierla mentre
la vogliono stabilire». Si sacrifica l’umanità reale a un’umanità ideale.
Difatti con la repubblica partenopea fu instaurata a Napoli la censura e furono
eliminati i Sedili del popolo che rappresentavano, pur rozzamente, le istanze
popolane. Memorabile è l’ordine che Eleonora Fonseca Pimentel e i giacobini
dettero all’arcivescovo di Napoli: fingere che il sangue di San Gennaro si fosse
sciolto per dare l’illusione alla plebe che il protettore di Napoli non fosse
ostile alla repubblica. Fu un esempio di manipolazione del consenso attraverso
l’uso cinico e superstizioso della fede.
Ingannare il popolo in nome della libertà e del progresso è un tratto tipico dell’ideologia giacobina. Da più di due secoli i peggiori crimini contro l’umanità si compiono a fin di bene. Questa fu la dittatura degli intellettuali, che seppe distruggere ma non costruire.
La povertà dei temi e delle idee che la repubblica napoletana, Capecelatro la definì “Repubblica da Operetta” ha prodotto e trasmesso sono racchiuse nel monitore napolitano fondato, durante quei pochi mesi del 1799, da donna Eleonora Pimentel Fonseca diventata un simbolo della città di Napoli da fine 800 fino ai giorni nostri, nonostante non abbiamo lasciato nessuna traccia, nessuna innovazione, nessuna nuova idea se non per la sua irriconoscenza verso la casa Reale che l’aveva tolta dalla miseria, se non per il suo alto tradimento verso il popolo napoletano e verso lo stato, se non per la sua attività di collaborazionista dell’esercito Francese invasore che non pensava che a saccheggiare i tesori del Regno e se non per la creazione del suddetto giornale “Monitore Napolitano” che fu solo uno strumento diffamatorio verso i Borbone, verso la realtà dei fatti che stavano accadendo e verso la cosa più importante che è la verità.
Gli stessi organi di stampa e i dispacci militari francesi erano costretti a smentire molti articoli che venivano pubblicati dal giornale che non ha fatto altro che anticipare la stampa e la tv spazzatura che ogni giorno dobbiamo sopportare.
Ancora oggi esiste il “Monitore Napolitano” organo di informazione storica che i giacobini napoletani continuano ad usare per disinformare e modificare la verità storica isolandosi dal reso del mondo che ormai ha preso coscienza di come la verità storica dal 1799 fino ai giorni nostri sia ben diversa. Di seguito pubblichiamo una storia che il nostro Raimondo Rotondi ha ritrovato che non merita nessun commento ma soltanto esser letto, nemmeno i Soviet sono arrivati a tanto.
Claudio Saltarelli
Tra i vari tipi di brigantaggio che
caratterizzarono il periodo postunitario è importante evidenziare quello della
zona di Sessa Aurunca in quanto, tra coloro che lo combatterono, si distinse il
famoso pittore e patriota sessano Luigi Toro, che tanto aveva sacrificato per
gli ideali di Libertà e Unità della Nazione.
Egli sentì il dovere di ritornare a
combattere e lo fece contro i Briganti del suo territorio, quello aurunco.
Nel 1859 Luigi Toro (Lauro di Sessa
CE – 1835- Pignataro Maggiore CE – 1900) si era arruolato nei Cacciatori delle
Alpi ove aveva conosciuto Pilade Bronzetti di Cuneo, a cui dedicherà uno dei
suoi migliori dipinti per celebrarne il sacrificio nella battaglia del
Volturno.
In seguito si unì ai Mille col grado
di sergente alla compagnia delle “Guide Garibaldine“ preposte alla protezione
del futuro Generale.
Durante la campagna siciliana
dimostrò tutto il suo valore, conquistandosi la fiducia dello stesso Garibaldi
che lo volle accanto a sé in diverse occasioni.
Purtroppo dovette assistere alla
morte del suo grande commilitone piemontese Pilade Bronzetti, al quale dedicò
nel 1885 una tela che riproduce “La morte di Pilade Bronzetti a Castelmorrone”,
oggi presente nei depositi del Museo Napoletano di San Martino.
Luigi Toro fu, dunque, uno dei
protagonisti della Unificazione italiana nei momenti decisivi. Quando il
brigantaggio endemico della zona sessana assunse i connotati della reazione con
Francesco II che finanziava i briganti dell’alto casertano, il pittore e
patriota Luigi Toro pensò che fosse il momento di difendere gli ideali per cui
aveva combattuto, nonostante tutto il suo impegno era tutto dedito alla
passione artistica.
In questa fase Luigi Toro fece parte
della Guardia Nazionale con il grado di Maggiore e Comandante del 2° Battaglione.
La Guardia Nazionale, che era sta
un’istituzione del Governo Borbonico, viene riproposta al fine di svolgere
compiti di sorveglianza del territorio a sostegno delle forze governative.
Luigi Toro si guadagnò la fama di
leggendario e intrepido combattente nella repressione del brigantaggio e
Giovanni Sopiti, che gli dedicò una breve biografia così si esprime al riguardo
del pittore e patriota sessano:
“Tutti sapevano del suo
meraviglioso coraggio, e come fosse tiratore insuperabile… e dovunque si annunciasse
che egli fosse per giungere, si disperdevano le masnade brigantesche…tale
elevava a sé luminoso prestigio, che ne era conquista eziandio tutta la
efferatezza di quei malfattori, i quali altresì lo ammiravano, ed erano
costretti ad amarlo, per gli umanitari riguardi che egli adoperava verso le
famiglie di quegli che aveanla abbandonata per darsi alla vita del
bandito.”
Allo stesso modo il pittore e
critico d’arte di Frosinone Costantino Abbatecola rivela:
“Toro mostrò molto coraggio
nella lotta contro i Briganti… In quel tempo Toro si esercitava al tiro della
pistola ed era giunto a tale perfezione che metteva cento colpi l’un dopo
l’altro nel medesimo bersaglio. Questa qualità del Toro, accoppiata ad una
grande influenza morale che esercitava sul mandamento di Sessa Aurunca, ben
conosciuta dai Briganti, bastò a salvare il Paese dalle loro oppressioni perché
credettero prudente non affrontare il Toro, come raccontarono parecchi Briganti
venuti poi in potere della giustizia.“
Ed è proprio sul brigantaggio
sessano che lo storico pignatarese Nicola Borrelli, allievo dell’artista e
patriota risorgimentale Luigi Toro, dà un giudizio “tranchant” molto
negativo del fenomeno del Brigantaggio nell’Alto Casertano, definendolo
fanaticamente “reazionario “ in un testo che avrà tanto successo.
Il titolo del testo è Episodi di brigantaggio reazionario
nella campagna sessana con la cui pubblicazione il Borrelli volle
anche rendere omaggio al suo maestro Luigi Toro, che , proprio nel natio
territorio aurunco, dopo essere stato uno degli artefici dell’Unità lasciò la
passione artistica per dedicarsi alla repressione del Brigantaggio e
riaffermare in tal modo gli ideali di libertà e di giustizia, che avevano
caratterizzato la sua carriera quale Patriota.
Nel libro di Borrelli si fa
riferimento al Posto di Guardia in Piedimonte di Sessa, istituito dal Maggiore
Luigi Toro in relazione ad un documento inviato al Comandante della Guardia
Nazionale di Carano in data 8 aprile 1862.
In esso il Comandante Toro informa:
“Conseguentemente alle mie
ispezioni fatte ai diversi Quartieri, ho avuto agio di osservare la posizione
strategica di Piedimonte, la quale richiede un Posto di Guardia a sé; perlocché
Ella sarà compiacente disporre che sia subito aperto il locale e fornito della
corrispondente forza, nella intelligenza che tale servizio dovrà prestarsi dai
militi del Paese nel qual caso essi non presteranno più servizio nel Posto di
Carano”.
Anche in tale momento storico Luigi
Toro dimostra la sua audacia e il suo coraggio misto alla generosità che lo
stesso Borrelli esplicita nella maniera seguente:
“La sua maschia figura di
gentiluomo franco, benefico, generoso, coraggioso fino alla temerarietà gli
ottennero l’illimitato rispetto da parte dei tristi banditi che nei primi anni
postunitari gettavano il terrore nella Provincia, proprio quando il Toro, nella
qualità di Maggiore della Guardia Nazionale, era incaricato della repressione
del Brigantaggio e da questi mostri feroci che egli sfidava ogni giorno non gli
fu torto un capello… anche quando avrebbero potuto impadronirsi di lui,
vendicarsi , finirlo, ma che, per rispetto, non l’avrebbero mai fatto…”
Furono soprattutto le bande dei
fratelli Francesco ed Evangelista Guerra, di Alessandro Pace, di Francesco
Tommassino e di Giacomo Ciccone e Luigi Alonzo detto Chiavone ad imprimere una
direzione politica reazionaria al fenomeno del brigantaggio.
Inoltre vi era quel Domenico Fuoco
che si definiva “ Capitano e ajutante del Re Francesco II”.
In raccordo storico con il Brigantaggio
prodotto dalla reazione “borbonico-pontificia ” del Cardinale Ruffo
che si era servito dei “famigerati” Fra Diavolo e Mammone, i ”
tristissimi ” briganti che furono sovvenzionati dai Borbone, anche in tal
caso la ferocia dei Capibriganti – sostiene Borrelli – era dovuta anche alla
speranza che un probabile ritorno del re Borbone avrebbe apportato benefici
notevoli.
Nell’agro aurunco, secondo lo
storico, i Borbone aveva lasciato tale “scia di ignoranza, di incoscienza
e di abbruttimento” da procurare un forte sentimento di odio contro la
società borghese dell’ agiatezza e, dell’ozio e dello sfruttamento. Precisa
infatti lo storico Nicola Borrelli:
“le barbari leggi che
regolavano le triste accolte, perfezionarono via via la criminalità del
gregario e trasformavano presto in terribili tipi di grassatori o di assassini
i novizi, sovente passati alla banda, come dicemmo, per una leggerezza, un
errore, in un momento di sovreccitazione, sotto l’impulso di un rammarico o
d’uno sdegno talvolta giustissimi”!
Scrive ancora Borrelli: “V’era,
in tal caso – disperata ma vera – una via di salvezza, una via irta di pericoli
e d’incognite, ma ricca di speranza, di promesse, di rivendicazione: la
campagna, la banda” ma alcuni andavano ad ingrossare le file dei Pace dei Guerra,
dei Cedroni, degli Anfrozzi, dei Ciccone, che però non erano altro che
“bieche figure di malvagi, spesso avanzi dell’esercito Borbonico.
La ribellione del brigantaggio nella
zona sessana aveva quindi un’impronta ed un’insidia in quanto collegato al
revanscismo borbonico.
Il Borrelli , appassionato di
pittura e che diventerà un discepolo di Luigi Toro, accogliendolo nella sua
casa di Pignataro Maggiore (CE) negli ultimi anni di vita, rende omaggio alla
sua figura di patriota che fu coerente con i propri ideali di libertà nel
periodo di conquista dell’Unità della Patria, prima combattendo con i Mille per
liberare il Mezzogiorno dai Borbone e poi ritornando in prima linea a difendere
l’Italia dai briganti prezzolati dagli stessi nel periodo postunitario nel
proprio territorio natio di Sessa Aurunca, a confine con lo Stato Pontificio.
Lo storico Borrelli, a proposito di
tale brigantaggio che imperversava nella zona sessana, non ha esitazione a
collocarlo, quindi, in maniera decisa quale tentativo borbonico di suscitare
una guerriglia politica ai fini della restaurazione scrivendo:
“Questo, nella sua semplice trama psicologica, il fenomeno del Brigantaggio così detto politico – reazionario, di cui fu teatro Terra di Lavoro, e particolarmente la contrada di cui trattiamo, negli albori della nostra santa indipendenza.”
Antonella Orefice ha
pubblicato un libro in cui si rivelerebbero in due paesini molisani “gli eccidi
ordinati dai Borbone” (titolo a tutta pagina su Il Mattino del 14/6 con nota
storiografica articolata che abbiamo inviato allo stesso giornale e allegata a
queste premesse, in attesa di “eventuale” pubblicazione). Orefice è stata
assistente di Maria Antonietta Macciocchi, comunista di posizioni maoiste che
scrisse anche un libro dedicato alla de Fonseca e sintetizzato (Corriere della
Sera, 8 gennaio 1999) nel libretto dell’opera allestita al San Carlo
(contestata dai neoborbonici) per il bicentenario del 1799: “sono sicura
-scriveva la Macciocchi- che è stata Eleonora a salvarmi dalle SS nel 1943…
lasciai Napoli per Parigi ma credo che anche in questa scelta vi fosse
l’influsso astrale di Eleonora…”. Una forma di cultura “neogiacobina” anche più
estremizzata di qualsiasi forma di “neoborbonismo”… Lasciando da parte alcune
perplessità sulla attendibilità di queste affermazioni e sulla scientificità
della storia scritta dalla Macciocchi, riportiamo un post pubblicato poche ore
fa dalla sua ex assistente che ha firmato il libro recensito a tutta pagina da
Il Mattino: “Ecco chi sono i Borboni che tanto rimpiangi! ESULTA POPOLO
LAZZARO…. ! (Ma noi SIAMO ANCORA QUA……….. La Nostra Repubblica è
VIVA!)”.
Inevitabili alcune lettere
di protesta che pare siano pervenute alla Orefice che se ne lamenta sempre sul
suo profilo (e che non condividiamo solo se sono in qualche modo offensive e
minacciose). Più di un dubbio, però, ci assale sulla imparzialità di questo
nuovo libro, probabile frutto del comprensibile entusiasmo di chi non è
esattamente e sistematicamente di casa negli archivi. E più di un dubbio ci
assale anche sul distacco (quasi un odio, diremmo) che i giacobini del 1799
avvertivano contro quel “popolo lazzaro” (massacrato dai franco-giacobini con
non meno di 60.000 caduti!) che si ribellò eroicamente a quella invasione:
tenuto conto che la cultura ufficiale ha formato sulla base delle idee
giacobine/liberali schiere di classi dirigenti locali e nazionali, ci assale
ancora un altro dubbio che si lega al distacco che viviamo da queste parti tra
governanti e governati. Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) nel
1799. Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) oggi. A dimostrazione
della “pacatezza” e della sobrietà di intellettuali e giornalisti
locali, l’autore dell’articolo, in un post appena pubblicato mette sullo stesso
piano “neoborbonici e neofascisti” (“tra neofascisti e neoborbonici..
stiamo proprio messi male!”)…
E se la scommessa del
futuro fosse, invece, proprio una classe dirigente finalmente e veramente
radicata, rispettosa di tradizioni e identità, fiera e autenticamente
napoletana e meridionale? E’ questo, da circa 20 anni, l’obiettivo neoborbonico:
una scommessa paradossalmente davvero nuova se consideriamo i fallimenti delle
classi dirigenti monopolisticamente formate dalla cultura ufficiale giacobina,
liberale, antiborbonica e antinapoletana. Il successo e la diffusione (con la
conseguente e facile rabbia degli “avversari”) delle nostre iniziative delle
nostre idee ci fanno ben sperare…
Il solito 1799 e le stragi
giacobine (davvero) dimenticate
Anche per Mazzini i
giacobini erano traditori…
Caro direttore, Napoli è davvero uno strano paese: da
oltre 200 anni prevale in maniera monopolistica una lettura parziale e
unilaterale di certe storie (in testa quella del 1799 fino a quelle
“risorgimentali”) eppure la stessa cultura ufficiale che detiene quel monopolio
continua a lamentarsi perché qualcuno ha “osato”, in questi anni, raccontare
altre storie. In questo caso, Mario Avagliano, recensendo il nuovo libro di
Antonella Orefice su alcune stragi (“dimenticate”) del Molise durante la
rivoluzione napoletana, cita i soliti esuli che tante colpe hanno avuto nella
creazione di un mito negativo e ancora attuale di Napoli o che -nel caso di
Settembrini- furono costretti a rivedere molte delle loro tesi dopo l’Unità. Sempre
i Borbone, poi, per l’articolista, avrebbero affidato a Ruffo “il compito della
repressione” e così Ruffo avrebbe “occupato Napoli nel giugno del 1799
macchiandosi di efferati delitti, con mercenari albanesi, contadini del luogo e
avanzi di galera”… Peccato, però, che quei mercenari fossero 50 (sui complessivi
80.000 volontari della sua armata) e che il Cardinale non aveva avuto il
compito di “reprimere” ma di “liberare” il Regno da un’invasione straniera favorita
da pochi giacobini locali (“una minoranza impercettibile” li definì Luigi
Blanch) così come Napoli non fu di certo “occupata” da Ruffo (o dai Borbone),
visto che era già “dei” Borbone che legittimamente vi regnavano. E di certo,
del resto, in nessuna guerra (tanto più in una guerra contro l’esercito più
potente del mondo) nessuno ha mai chiesto il curriculum di chi combatte. La
Orefice ha scritto questo libro lasciando parlare “i documenti: quelli veri,
quelli scomodi” contro chi in questi anni avrebbe “santificato i briganti e
definito traditori i patrioti del 1799”. Solo che da oltre due secoli si tirano
fuori sempre gli stessi documenti e non quelli che raccontano le stragi (quelle
sì e quelle davvero dimenticate) compiute dai franco-giacobini ai danni della
parte napoletana-cristiana-borbonica: oltre ottomila (in tre giorni) nella
capitale e “oltre sessantamila i napoletani passati a fil di spada” in appena
cinque mesi di repubblica: “Napoli non era altro che un immenso campo di carneficine,
incendi, spavento e morte “ (memorie del generale Thiebault). Fu Giuseppe
Mazzini, del resto, il primo a definire traditori quei patrioti che “avevano
aperto le porte della città agli stranieri invasori… il Popolo napoletano
era disposto a morire combattendo non per superstizione, come più volte si è
detto, ma per un sentimento nazionale, per un’idea di Patria che vi pulsava al
di sotto” (manoscritto, Museo Centrale-Risorgimento). Si ricordano, allora, le
fucilazioni molisane ma non i massacri e le devastazioni sempre molisane
di Isernia (oltre 1500 morti) o quelli di Mercogliano, Caserta, Ceglie,
Carbonara, Bacoli, Benevento, Briano, Cetara, Collettara, Fondi, Gensano,
Casamari, Itri, Massa, Nola, Pomigliano, Pagani (e l’elenco sarebbe
troppo lungo). Fu una guerra di invasione in alcune occasioni divenuta una
sanguinosa e (a partire dai Borbone) non voluta guerra civile. Solo che in qualsiasi
altro posto del mondo si ricorderebbero i difensori della propria patria
o almeno “anche” loro (si pensi alla celebrazione che il grande Goya ha fatto
dei popolani spagnoli antifrancesi) e dalle nostre parti si scrive ancora con
una rabbia e una parzialità oggettivamente eccessive di “massacri ordinati dai
Borbone” o di “orde sanfediste” lasciando spazio ad una cultura ufficiale
sempre poco attenta alle nostre tradizioni e alle nostre radici (anche borboniche
e cristiane, al contrario di quanto pensano alcuni intellettuali): la stessa
cultura ufficiale che, se solo guardiamo alla formazione delle nostre classi
dirigenti, non ha prodotto risultati così positivi…
L’esercito francese che massacra il popolo napoletano al Carmine.
Premessa: e se Il Mattino
organizzasse un dibattito? Leggo solo ora alcune considerazioni scritte dalla
sig.ra Antonella Orefice autrice di un libro sugli “eccidi ordinati dai
Borbone” in alcuni paesini molisani, recensito da Il Mattino qualche giorno fa
e al centro di alcune polemiche e di un mio precedente intervento. La sig.ra
Orefice minaccia di querelarmi ma è difficile capire le motivazioni di queste
minacce poiché avevo espresso semplicemente alcuni giudizi (dovrebbe chiamarsi
“dibattito”, mi pare) in merito a quanto scritto nella recensione firmata da
Mario Avagliano. Giudizi storiografici (altro che “giudizi spregevoli sulla sua
persona”) e che non posso che confermare perché si nota in quelle righe effettivamente
un “entusiasmo comprensibile” per chi trova un documento, ma credo che sia
necessario evidenziare le lacune di ricerche archivistiche di fonti
“dell’altra parte” (e citavo un lungo elenco di paesi oggetto di massacri, saccheggi
e devastazioni): è forse “spregevole” a Napoli chiedersi se si tratta o no di
un libro parziale o imparziale? Sempre la sig. ra Orefice, poi, mi
sopravvaluta e sottovaluta (forse solo per un naturale istinto di difesa delle
proprie posizioni) la portata di un nuovo fenomeno culturale: io non ho
“seguaci” (non ho mai creato una setta): circa 20 anni fa ho semplicemente
creato un movimento culturale (il Movimento Neoborbonico) che ha fatto opera di
ricerca e divulgazione con tesi di segno contrario rispetto a quelle della
cultura ufficiale. Il consenso e il successo riscontrati sono andati ben al di
là dei mezzi in campo e delle più rosee previsioni anche perché, evidentemente,
c’è un forte bisogno di radici (tutte le radici), di storie ricche di orgoglio
e rispettose di tradizioni napoletane, cristiane e anche borboniche… La sig.ra
Orefice, allora, non può accusare il sottoscritto per tutte le lettere a lei
pervenute e dalle quali (ripetiamo un concetto già abbondantemente espresso) ci
dissociamo qualora fossero risultate offensive o minacciose (non è stato mai il
mio e il nostro stile e non possiamo certo disporre della volontà di quanti
hanno manifestato il loro dissenso). Lei stessa, del resto, in un post
pubblicato prima delle polemiche si rivolgeva al “popolo lazzaro” invitandolo
sarcasticamente ad esultare per le verità raccontate sui “suoi Borboni”. Chi
scrive, oltre alla specializzazione in Archivistica presso l’Archivio di Stato
di Napoli, ha all’attivo semplicemente migliaia di ore di studio con
pubblicazioni (quasi tutte esaurite) che raccontano storie diverse rispetto a
quelle raccontate dalla Orefice. Tutto qui. Altro che “storielle” o “verità
manipolate” o tentativi di “vendere chiacchiere” insieme alle (nostre)
incapacità di “comprendere i suoi lavori”, affermazioni che pure si
presterebbero a eventuali querele ma che supereremo amando i dibattiti e non
amando i tribunali italiani. In quanto alla mia critica rivolta alle classi dirigenti,
la sig.ra Orefice risponde affermando che “non ha velleità politiche” né è alla
ricerca di “candidature” ma, come la sig.ra certamente sa, si è “classe
dirigente” anche (e di più) da giornalista o da intellettuale e resta in piedi
la mia tesi sulle responsabilità di chi, in oltre 200 anni, e nonostante un
vero e proprio monopolio di segno giacobino e liberale (e che, a quanto pare, ancora
non basta), ha formato culturalmente chi ci ha rappresentato in questi anni e
(come lo stesso Mattino spesso denuncia) non in maniera del tutto adeguata. Le
inviamo, poi, i nostri complimenti per la pubblicazione, di altre recensioni
positive del suo lavoro ma la cosa conferma quanto già scritto a proposito del
monopolio della cultura ufficiale che, naturalmente, può prevedere anche
recensioni positive su Repubblica o magari (è una citazione della sig.ra
Orefice) sulla rivista ufficiale della Gran Loggia d’Italia (e cioè di quella
massoneria più volte al centro dei nostri studi e delle nostre critiche per le
sue responsabilità in merito a certi processi legati all’unificazione). Per
tornare, poi, a quella parola a Napoli (e dalle parti del Mattino) piuttosto rara
(“dibattito”), come nel mio primo intervento, vorrei evitare le facili, semplicistiche
e confortanti etichette (”neoborbonici”, “giacobini” ecc.) ed entrare nel
merito di alcune domande alle quali la sig.ra Orefice non ha dato risposta alcuna:
non è forse vero che fu Mazzini il primo a definire traditori quei giacobini?
Non è forse vero quanto affermato dalle fonti francesi e cioè che a Napoli in 3
giorni furono massacrati oltre ottomila “lazzaroni” e in tutto il Regno (in
meno di 5 mesi) oltre sessantamila persone di parte napoletana-cristiana-borbonica?
Non è forse vero che partivano ogni giorno per Parigi convogli con le nostre
opere d’arte o che diverse centinaia di popolani furono condannati a morte solo
per non aver gridato “viva la repubblica”? Non è forse vero che nella socialmente
e culturalmente variegata armata di Ruffo quei “mercenari albanesi” non superavano
le poche decine ed erano, invece, soldati delle comunità albanesi fedeli alla
dinastia? Non è forse vero che furono devastati tutti quei paesi (abitanti
compresi) sia nel 1799 che nel successivo periodo murattiano (su tutti “l’onda
dei morti” di Lauria)? Non è forse vero che in tutto il mondo chi difende
la propria patria dagli stranieri è celebrato dopo secoli (un esempio su tutti
i popolani spagnoli antifrancesi dipinti da Goya) e solo da noi viene ignorato
e disprezzato? Queste sono le domande che abbiamo rivolto alla Orefice e al
Mattino e su questo dovrebbe riflettere davvero una città che, a quanto pare,
non ha ancora fatto pace con la sua storia. Concordo, infine, con la
sig.ra Orefice sul fatto che per noi il 1799 è (brutta immagine ma cito il suo
testo) “un’ulcera perforata” ma solo perché, dopo oltre due secoli,
avremmo il dovere di ricordare con cristiano rispetto tutte le vittime della
rivoluzione franco-giacobina, “perforate” (loro sì, e a migliaia!), dalle
baionette francesi al Carmine o a via Foria, a Porta Capuana o al Mercato
stando dalla difficile part dei vinti, ieri come oggi. Non era il “popolo
lazzaro”. Era il Popolo Napoletano. Il nostro Popolo.
La famiglia Duse, che si era stabilita, da secoli, in
Chioggia, non si sarebbe mai mossa, se, nella prima metà dell’Ottocento, un
Luigi Duse, marinaio come tutti i suoi, non avesse desiderato darsi al teatro.
Si fece attore, fu celebre, ebbe la migliore Compagnia dialettale : subito i
fratelli, i nipoti ed altri parenti vari, lo seguirono sulle scene. Attori
anche i figlioli, anche Alessandro, che avrebbe voluto essere pittore e non
poté ; romantico e delicato Alessandro, sposato ad un a ragazza romantica e
delicata, Angelica Cappelletto, dolcemente malata di elisia, destinata a
vagabondare da un palcoscenico all’altro, senza gloria, senza denaro e senza
pace. Sono questi i genitori du Eleonora, che nacque a Vigevano, il 3 ottobre
1859. La portarono al battesimo in un piccolo cofano di cristallo, così che
parve una reliquia ed i dragoni le presentarono le armi : certo aveva già gli occhi larghi, bruni e dolenti.
Padre, madre e bambina girano per il Veneto; fra le
braccia della madre, Eleonora compare in scena. Cresce, ha cinque anni e
rappresenta Cosetta. Piange così bene che gli spettatori ne sono rapiti.
A 32 anni, Eleonora perde la madre, la soave Angelica,
malatissima e coraggiosissima, che se ne va senza rumore, lasciando marito e
figliola in un dolore vasto e muto : proprio in quei giorni, ereditano un poco
di danaro, cinque casette chioggiotte e
le rifiutano, poiché la cara morta non potrà più goderle : il loro solo
conforto vien proprio di lì, dal gesto di fierezza fantasiosa, e poi riprendono
la vita dura ed inquieta.
Le rose di Giulietta
A 14 anni, Eleonora è a Verona. Ha letto Shakespeare,
rappresenterà Giulietta : una felice estasi la coglie. Spende i suoi pochi
risparmi per comprarsi delle rose scarlatte. In una domenica di maggio,
l’immensa Arena, il cielo aperto, una moltitudine di popolani l’aspettano ed
Eleonora appare, carica di rose, avvolta, fasciata, torturata di rose. E’
Giulietta: ogni sua parola suona inevitabile e giusta, ogni accento è
fatalmente predestinato. Lascia cadere la prima rosa ai piedi di Romeo, sfoglia
la seconda dal balcone. Una felicità limpidissima e terribile la conduce alla
morte come su chiare onde. La notte scende, mentre il dramma ancora dura e gli
scroscianti applausi, la sua atterrita gioia, il buio, danno ad Eleonora
l’illusione di aver raggiunto una vetta.
Poi Eleonora lavora in compagnie meschine, che già
senta indegne. Finalmente il balzo in avanti nella compagnia Emanuel, che per
prima donna ha l’opulentissima signora Giacinta Pezzana. Accanto a lei, come
dovette sembrare magra, magra, sparutella, la signorina Duse ventenne,
malvestita e triste ! Il pubblico napoletano non l’amò gran che, si capisce,
abituato ai ricchi fascini dei busti colmi e delle “tournures” rigogliose. Ma
Napoli era piena di risorse : c’era una giovane giornalista, la signora Matilde
Serao, che subito fu amica di Eleonora, e c’era Martino Cafiero, civettone,
conquistatore, astutissimo Don Giovanni. Subito Eleonora ne è rapita e ne
riceve fiori, libri, vezzi ; impara a conoscere Posillipo e le cene galanti, le
gite in barca e il chiaro di luna.
Eleonora è molto felice. Trova, per rappresentare la
nuora di “Teresa Raquin”, accenti così nuovi ed umani da ottenere il trionfo e
la seconda grande scrittura, nella compagnia di Cesare Rossi, a Torino.
Scrittura che non le dà gioia, ma dolore, perché significa il distacco
dall’amato, una nuova solitudine Più grande solitudine quando, a Torino,
Eleonora si accorge di essere madre. Chiede aiuto a Cafiero, senza ottenerlo.
Singolare uomo questo Cafiero. Nessuno meglio di lui simboleggia la “fin di
secolo”, il cinismo senza malvagità, il dilettantismo senza mediocrità.
Fierissima, Eleonora si rifugia a Marina di Pisa, in
una casa di contadini, dove il suo bimbo nasce e subito muore. Eleonora stessa
ne porta al cimitero la bara, leggerissima. Poi torna a Torino. Qui le
succedono moltissime cose, inattese : diventa prima donna, perché la Pezzana se
ne va; Cesare Rossi si innamora di lei, perché è suo uso innamorarsi della
prima donna ; Tebaldo Cecchi, un bravo e buon compagno d’arte, le chiede di
sposarlo, perché vuol difenderla dalle insidie di Rossi. E così, come per
gioco, Eleonora si trova sposata, prima donna ed assillata dalle premure del
vecchio capocomico.
Il teatro va male, il pubblico seguita a non amare
Eleonora, giudicandola magra, stravagante e impossibile; gli incassi diminuiscono. Intanto arriva in
Italia, sfolgorando, con scimmie, cani, pappagalli, e vesti inaudite, la gloria
universale, un’icona prepotente, Sarah Bernhardt, massima attrice di teatro
dell’Ottocento, musa di Proust e D’Annunzio, amica di Henry James, definita
“mostro sacro” da Jean Cocteau. Nessuno riconoscerebbe il grigio teatro
torinese, quando Sarah vi debutta ed i fiori diventano montagne, gli applausi
boati, l’entusiasmo follìa.. Eleonora naturalmente l’ammira, ma appena Sarah è
partita, chiede e ottiene di mettere in scena proprio il lavoro che a Sarah, a
Parigi, valse un fiasco colossale : “La Principessa di Bagdad”. E trionfa. Gli
spettatori torinesi, esterrefatti, si vedono costretti ad applaudire la prima
donna, senza che sia aumentata nemmeno di un etto, senza che sia imbellita
nemmeno di una veste parigina. Eleonora è lanciata : va a Roma, recita “La
Moglie di Claudio” e il pubblico le stacca i cavalli dalla vettura ; poi tutte
le città italiane l’acclamano.
Ora la signora
Duse-Cecchi, celebrata, di giorno in giorno acquista sempre più gli estri, le
originalità e le bizze proprie delle donne del suo tempo. Era il tempo delle
crisi di nervi e dei sali inglesi, delle
fialettte d’ambra, degli svenimenti, della ipersensibilità e delle
incomprensioni, dei fazzolettini lacerati con i denti, delle bertuccine
custodite nel manicotto, dei suicidi in ginocchio, dei messaggi d’amore scritti
con inchiostro d’argento su carta nera, dei teschi tenuti sul tavolino. Queste
signore leggevano Nietzsche, “adoravano Wagner”, baffuti uomini le idolatravano
tremando, mentre le pallide borghesucce ne gemevano d’invidia. Perché vorreste
che Eleonora Duse non diventasse cos, e per
prima cosa non si mutasse il nome, firmando con predilezione Leonora ?
Nasce
Enrichetta, quella che sarà la bambina tranquilla, la giovanetta saggia, la
sposa-modello : i genitori l’affidano a certi contadini, per riprendere il loro
lavoro. Nuovi successi ; “Tournée” in America, trionfale.
“Oh, grande
amatrice ! ”
Primo attore
giovane, di bell’aspetto, di soavi modi, figura prestante e rigogliosi
mustacchi, è Flavio Andò : ama Eleonora, che lo ama. Tebaldo, il buon marito,
capisce che la separazione è necessaria e sparisce. Egli si terrà, fino alla
morte, lontano, devoto e fedelissimo ; Flavio Andò ed Eleonora viaggiano
insieme per l’Europa: nel 1886 nasce la loro Compagnia. La Russia
li acclama ; il 1892 li trova a Vienna ; l’anno dopo, nell’America del Nord ; i
fiaccherai e le mogli dei miliardari li acclamano.
Eleonora
stancamente ringrazia lasciando cadere all’indietro il suo famoso mantello, non
si dipinge mai, cade in crisi spirituali, ama castamente Arrigo Boito, si
pettina con un nodo sulla nuca, non porta il busto, piange spesso, scrive
lettere sforacchiate di lineette come i segnali Morse e racconta le sue
eleganti sofferenze . Ha trent’anni, si sente sola, poiché la passione per Andò
si è mutata in amicizia, poiché il marito è scomparso, poiché Enrichetta è in
collegio. Aspetta qualcosa dalla vita e che cosa non sa, ma, una sera, al Valle
di Roma, uscendo di scena,dopo il terzo atto de “La signora delle Camelie”, un
uomo le si para davanti : “Oh grande amatrice ! “ le grida e si allontana.
Era un uomo
piccoletto, con monocolo, il più mondano, il più pazzo, il più byroniano ;
Carducci leggeva i suoi versi, una duchessa lo aveva sposato e Parigi lo
adorava : era Gabriele d’Annunzio.
Quel primo
incontro non ebbe seguito e solo dopo un lungo intervallo poeta ed attrice si
ritrovarono a Venezia; Eleonora non
poteva dormire, la notte, e girava in gondola per i canali. Gabriele pure ed un
mattino, per caso, sbarcarono insieme. Si riconobbero e non si lasciarono più.
Per la prima
volta in vita sua, Eleonora mette su casa, a Venezia. Bisogna degnamente
accogliere le visite dell’amato ! Drappi rossi, scialli ricamati, vetri di
Murano, marmi infranti, icone bizantine, libri consunti, erbe secche, quel
tanto di caos e di squisitezza che poteva incantare il cuore del Poeta.
Da questo suo
amore, Eleonora riceve una “luce straziante” : ama, soffre, si rifugia
nell’ombra, docilmente aspetta l’opera che egli le ha promrssa e organizza una
“tournée” in America unicamente per procurarsi i fondi necessari ai decori
teatrali del suo Decoratore.
“Gioconda”, “
Città Morta”, “Francesca sa Rimini” sono accolte dal pubblico con ostilità,
anche se nulla è stato risparmiato per la maggiore nobiltà del lavoro : le fibbie delle comparse sono di vere gemme,
Micene rivive, la Duse cela le sue belle mani offrendo la sua bella voce. Il
pubblico, però, fischia. Che le importa il successo, ormai, o i danari ? Ha
Gabriele, barbetta caprina, sfolgoranti parole, certezza, incertezza,
meravigliose bugie, “Laudi”, Capponcina, debiti, cavalcate sulla sabbia di Marina di Pisa, cani gloriosi, donne
adoranti, crudeltà, tenerezza, Gabriele, Gabriele ! Le pare che nulla sia
sufficiente a pagare l’inaudita fortuna di stargli vicina e dà la sua
sofferenza, il suo lavoro, la sua gloria, senza chiedergli nulla.
“Il Fuoco”
Ad Atene,
durante una “tournée”, d’Annunzio, che accompagna i suoi interpreti, consegna
all’impresario ed amico di Eleonora il manoscritto di un libro nuovo,
chiedendogli se la pubblicazione gli pare possibile. Questo libro è “Il Fuoco”.
Tuoni e
fulmini ! L’impresario fa un salto per aria, interrompe la lettura a metà, si
precipita da Eleonora : questo libro non può uscire, questo libro non deve
uscire, è uno scandalo, una calunnia, un’infamia ! Lei tace. dapprima, davanti
alla collera del fedele amico, poi ritrova un poco di coraggio, per dichiarare
di conoscere “Il Fuoco”, di approvarlo, di permetterlo. “Non si ha il diritto”
dice, di soffocare un capolavoro !”.
Però, in
verità, ella non ha il diritto di opporsi al volere del suo amore. Quando la
figlia Enrichetta, ormai fanciulla, la supplica di evitare che questa rovina si
compia, Eleonora risponde che rinunciare a Gabriele le sarebbe impossibile come tagliarsi una mano.Quando
Cécile Sorel la compiange, ribatte che il sacrificio le è dolce. Ed “Il Fuoco”
viene pubblicato.
Cieca,
immemore, non si difende neppure, anche se una vergogna atroce la stringe,
anche se vorrebbe fuggire e nascondersi. Si aggrappa a questa estrema
giovinezza che la lascia e ripete : “Ho quarant’anni e lo amo”.
E Gabriele
l’abbandona. Eleonora gli regala una bussola antica ed il suo perdono. E’
stanca, tutto le duole, tutto la fa soffrire : innumerevoli miserie fisiche,
dominate finora dalla sua volontà, la tormentano : i polmoni, il cuore, gli
occhi, i nervi, tutto cede. Per anni continuerà il suo lavoro. Sarà Vasillissa,
sarà Rebecca, sarà Ellida. Andrà in scena soffocando per la tosse, per l’asma,
per la paura irragionevole che improvvisamente la coglie.Dall’America del Sud a
Vienna, dalla Russia a Parigi, ripeterà Magda e Margherita Gautier, senza più
scopo. Il senso della solitudine la tortura ed una sera, a Berlino,
pronunciando quel “sola ! “ che chiude “La Donna del Mare”, Eleonora capisce di
non poter resistere più e nel 1909 lascia il teatro.
Si rifugia a
Firenze, per curarsi gli occhi minacciati di cecità, che lentamente guariscono.
Enrichetta le chiede di venire a stabilirsi in Inghilterra, a Cambridge, dove
ella vive con il marito, il professore Edward Bulloughs, ma Eleonora rifiuta.
Il padre, quell’Alessandro Duse che aveva sempre desiderato dipingere ed ora, a
Venezia, finalmente dipinge, la prega di raggiungerlo, ma Eleonora rifiuta.
Devastata,, vive solitaria, mentre il mondo, con rapidità, la dimentica.
Pellegrinaggi, fughe, partenze notturne, soggiorni segreti in città straniere,
che la ricevono senza riconoscerla. Preghiere umili, di chi ancora non crede,
ma vuol credere.
La Signora
Casa di Roma,
in via Nomentana, che pazientemente trasforma in quella Casa delle Attrici, da
lei ideata con infinito amore. Poiché il riposo, il silenzio, le hanno dato
nuove forze, Eleonora sente la necessità
di spenderle : festa di inaugurazione, patrona la Regina. Una folla fdi
donne, con gonne ad “entrave”e corsetti lavorati alla turchesca, si stringe
intorno alla “Signora”.
La chiamano
così, ormai, la Signopra : perfetto nome per quella che, non bella durante la
giovinezza, in vecchiaia è diventata bellissima. Sta la Signora fra le sue
protette e sorride.
Le pare di
aver trovato uno scopo. Dolce il maggio, su Roma, ma è il maggio 1914.
Addio Casa
delle Attrici, riposo, silenzio. Con ali nere vola la guerra sul mondo.Altri
scopi troverà la Signora. Teatro del Fronte,visite ai soldati, ospedali.
Finisce la guerra, lo squallore la
sostituisce. Eleonora Duse si rifugia in
Asolo, dove sarà la sua ultima casa. Vorrebbe darsi ancora, non sa a chi, a che
cosa. Tenta il cinematografo, invece, su scenario di Grazia Deledda con
“Cenere”.
Eleonora ha
fefde nel suo lavoro, ma non nel suo volto consumato. Si inizia così la sua
lotta con gli operatori, con i registi, poiché supplichevolmente ella chiede
sempre ombre, “flous”, veli, che nascondano la sua decadenza, e “Cenere” può
presentare solo una Duse incenerita, spentissima.
Ancora il
Teatro. La guerra ha rovinato finanziariamente la Duse. Ricca non fu mai,
noncurante e generosissima, ma padrona di un patrimonio modesto, che faceva
amministrare, a Berlino, da Roberto von Mendelssohn, fedele amico, saggio
consigliere. Ma l’inflazione inghiottisce ogni sostanza della Duse, che si
ritrova poverissima. E ne è contenta.
“Sola !”
Ora ha un
pretesto, la spinta, per tornare alle scene. Il 5 maggio 1921, davanti ad un
pubblico ansioso, riappare Ellida, il volto nudo, capelli bianchi, voce
palpitante e ferita. E’ un successo ? Qualcosa di meno e qualcosa di più, un
gigantesco stupore davanti a tanta altezza raggiunta con mezzi tanto semplici.
Eleonora ritrova il delirio, riprende il cammino trionfale, attraverso
l’Italia, la Svizzera, l’Inghilterra. Intanto l’asma le toglie il respiro, i
polmoni si struggono, gli occhi lacrimano, i nervi dolorano. Intanto le finanze della Compagnia vanno
malissimo : dopo il primo anno, ha
centomila lire di debito; dopo il
secondo, duecentomila. La Signora non sa come tener testa ai suoi impegni. Spessissimo
la sua salute le impedisce di recitare e le penali sono rovinose ed ella ne
perde ogni pace.
Quello che fu
il suo prodigioso amore ed ora orbo, eroe, Comandante di Fiume, rivolge una
lettera ai giornali, ricordando l’opera da lei compiuta. Tuttavia non l’aiuta a
realizzare il suo sogno: un teatro per lei, un teatro piccolissimo,
modestissimo, “una cantina”, dice, o “una catacomba”, dove le sia permesso,
circondata da giovani, creare una nuova arte.
Meravigliosa
fede della Signora ! Vecchia, stanca,
potrebbe lasciarsi cadere. Invece lotta, presenta le opere che le sembrano
degne, quali il “Così sia” di Gallarati Scotti e le difende anche davanti
all’insuccesso. Finalmente, per liberarsi dai debiti, dagli impresari avidi,
riparte per l’America del Nord. Ha 65 anni ed i suoi polmoni sono finiti.
Pittsburg è
metallica e grigia, mostri di cemento e di ferro si profilano sul cielo, piogge
taglienti colpiscono la Signora, mentre, davanti al teatro, aspetta che le si
apra l’ingresso degli artisti.
Ma la
rappresentazione della “Donna del Mare” è trionfale : alla fine soltanto,
quando Eleonora pronuncia quel “sola !” che dà la misura del suo distacco, chi
la conosce comprende che non solo il dramma finisce, ma la vita.
Era il lunedì
di Pasqua, il 23 aprile 1924. Per tutta la notte la Signora aveva chiesto,
delirando, di ripartire, di riprendere il lavori. L’alba la trovò bianca,
pacificata, nobilmente composta nella morte.