Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Eleonora Pimentel Fonseca, anniversari e celebrazioni

Posted by on Giu 27, 2019

Eleonora Pimentel Fonseca, anniversari e celebrazioni

 A volte mi chiedo come sarebbero giudicati dai loro contemporanei i discendenti degli Incas, degli Aztechi, dei Maya o degli Indiani d’America se alcuni di essi, divenuti addirittura storici di professione, considerassero liberatori  i conquistadores spagnoli o l’esercito nordista e si dessero da fare per introdurre nel calendario date e ricorrenze per commemorare il massacro di Sand Creek (29 novembre 1864) o di Wounded Knee (29 dicembre 1890) o per inserire busti o statue del colonnello John Chivington o di  James Forsyth.

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Sanfedismo (1)

Posted by on Mag 16, 2019

Sanfedismo (1)

In Enciclopedia Cattolica, 12 voll., Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro Cattolico, Città del Vaticano 1952-1954, vol. X (1953), pp. 1754-1755.
Estensore: RENZO UBERTO MONTINI, ordinario di storia nei licei.

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La democrazia degli intelettuali? Finisce in tirannia

Posted by on Mar 23, 2019

La democrazia degli intelettuali? Finisce in tirannia

La repubblica partenopea del 1799, nata sull’esempio della rivoluzione francese, segnò il trionfo del giacobinismo meridionale. Ma guai a chi lo dice!!!!

Abbasso il tiranno viva la Repubblica, abbasso la tradizione viva la Costituzione, abbasso la fede viva la Cultura, abbasso le feste popolari viva la stampa. E a sud viva la rivoluzione degli incorruttibili.
Sembra il manifesto dell’eroica lotta contro il berlusconismo, e invece è il sunto epico della repubblica partenopea del 1799.

Se la storia è maestra di vita, la rivoluzione napoletana è un monito perfetto per il nostro tempo. Elogiata dalla storiografia dominante, portata a esempio di progresso, giustizia, libertà e cultura contro l’oscurantismo autoritario e rozzo del potere, è il paradigma rovinoso di una dittatura intellettuale.

Di recente ne tesseva gli elogi il Corriere della sera e ne accennava con favore lo storico Luciano Canfora, ma non c’è intellettuale «illuminato» che non esalti la rivoluzione del 1799. Invece io vorrei raccontarvi quel che i testi scolastici o canonici non scrivono. Una storia più cruenta delle terribili repressioni a sud postunitarie, di cui oggi tanto si parla.

Dunque, torniamo a Napoli nel ’700. Grande capitale europea con grandi sovrani, fiorisce la cultura in città e l’industria. Poi la decadenza. La monarchia borbonica si chiude in un paternalismo autoritario, feste farina e forca, superstizioso e diffidente verso la cultura. Brucia l’esempio della rivoluzione francese, il patibolo per i reali, parenti dei sovrani napoletani. Gli intellettuali di corte con i loro giornali invece s’innamorano di quel che succede a Parigi e rovesciano la monarchia. Piantano l’albero della libertà, arriva la repubblica a Napoli. Basta con la tradizione, il re e la religione. E chi non ci sta, sono dolori. Intere popolazioni insorgono contro la repubblica e contro gli intellettuali giacobini, e allora comincia la mattanza. Le città rimaste fedeli al re e alla religione vengono distrutte dai soldati francesi e dai loro collaborazionisti napoletani, i giacobini. Decine di migliaia di morti di cui nessuno parla; si parla invece delle decine di condannati a morte dal Borbone.

Avevano la sola colpa di restar fedeli al loro Re e alla loro Fede; alle loro pigre superstizioni, se non volete parlare di tradizioni. I rimedi per liberarli da trono e altare furono peggiori del male, più cruenti. Erano rozze le bande sanfediste del cardinale Ruffo che ad esempio uccisero alcune decine di patrioti repubblicani ad Altamura, tuttora ricordati; ma si dimentica che prima di quel massacro migliaia di abitanti dei centri vicini, di Trani, Andria, Carbonara, Gioia del Colle, Ceglie, Mola di Bari, furono sterminati da giacobini e francesi. Come in Vandea. Comitati, monumenti, libri, film, fiction, opere teatrali raccontano la Repubblica illuminata e il sacrificio di ferventi rivoluzionari. Ma nessuno ricorda quella gente. Marmaglia, vittime di una calamità naturale chiamata progresso, giustizia, illuminismo, emancipazione.

«Lo spettacolo è terribile. Cadaveri da per tutto, nelle strade e nelle case, tutti o parte bruciati dal fuoco delle case che sono state molto danneggiate; dei quartieri non più esistono, le fabbriche cadono, il teatro bellissimo è incenerito… la desolazione, il terrore vi comandano. Seguitano colà le uccisioni… gli orrori circa le violenze alle donne sono inesprimibili… pure le monache». La cronaca è tratta dal diario di un testimone dell’eccidio di Trani, seguito a quello di Andria, il magistrato Gian Carlo Berarducci. Fu pubblicato solo cento anni dopo. «I morti seppelliti finora, parte alla Madonna del Pozzo presso Bisceglie, parte verso Barletta, diconsi circa 2000. Altri ve ne sono», mentre centinaia di scampati si nascosero nei sotterranei di Santa Maria la Neve, «si diede l’orina da bere ai bambini, in altri luoghi si uccisero quelli che piangevano».

Trani e Andria avevano rifiutato di issare la bandiera giacobina e avevano sventolato la bandiera del regno borbonico e la bandiera nera in segno di resistenza a oltranza; ma diventò il sigillo del loro lutto. «Trani arde e il fumo giunge fin qui» scrive Berarducci. Le città vicine, spaventate dai massacri, preferirono la resa. Così Cetara fu distrutta, scempi nell’entroterra campano. Così in Molise o in Terra di Lavoro, nonostante fra’ Diavolo, meridionalista inconsapevole. Il Terrore. Quando il cardinale Ruffo riconquistò il sud, anch’egli con l’aiuto di stranieri, la flotta russo-turca al largo dell’Adriatico, vi furono feste popolari e religiose: «In Trani, Bisceglie, Corato, Ruvo, in tutti i luoghi vicini si sta nell’allegria massima». Il proclama reale dei ritornati borbonici elargiva non per magnanimità ma per riconquistare consensi e stabilità, «perdono generale alle città e individui, salvo alcune eccezioni».

La rivoluzione napoletana colonizzò il sud imponendo un modello astratto ed estraneo. L’esito fu la sanguinosa frattura tra la repubblica settaria delle élite e degli intellettuali giacobini e il popolo meridionale. Quella rivoluzione segnò la definitiva rottura tra riforme e tradizione, avvelenò la monarchia, creò un abisso tra élite e popolo, e in quel vuoto precipitò la borghesia meridionale. Lasciò il regno di Napoli in condizioni peggiori di come l’aveva trovato. «La ruina», come la chiamò Vincenzo Cuoco, cominciò con la Rivoluzione e proseguì con la Restaurazione. Cuoco in un primo tempo seguì la rivoluzione, ma poi da liberale si dissociò e sostenne che le rivoluzioni importate e calate dall’alto sono rovinose per i popoli.

Quando cadde la Repubblica esplosero i peggiori istinti della plebe e la dinastia borbonica finì in balìa dei suoi cinici alleati, gli inglesi. Le repressioni seguenti furono volute soprattutto dall’ammiraglio Nelson (una curiosità: il primo Mac Donald sbarcato al sud duecento anni prima dei fast food fu un generale britannico che fece a polpette gli insorti). La reazione borbonica risentiva del tragico esempio francese: il regicidio, il massacro della Vandea e la ghigliottina. Cuoco osservò: «Il male che producono le idee troppo astratte di libertà è quello di toglierla mentre la vogliono stabilire». Si sacrifica l’umanità reale a un’umanità ideale. Difatti con la repubblica partenopea fu instaurata a Napoli la censura e furono eliminati i Sedili del popolo che rappresentavano, pur rozzamente, le istanze popolane. Memorabile è l’ordine che Eleonora Fonseca Pimentel e i giacobini dettero all’arcivescovo di Napoli: fingere che il sangue di San Gennaro si fosse sciolto per dare l’illusione alla plebe che il protettore di Napoli non fosse ostile alla repubblica. Fu un esempio di manipolazione del consenso attraverso l’uso cinico e superstizioso della fede.

Ingannare il popolo in nome della libertà e del progresso è un tratto tipico dell’ideologia giacobina. Da più di due secoli i peggiori crimini contro l’umanità si compiono a fin di bene. Questa fu la dittatura degli intellettuali, che seppe distruggere ma non costruire.

fonte http://www.ilgiornale.it/news/democrazia-degli-intelettuali-finisce-tirannia.html

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Domenico Petromasi, Alla riconquista del Regno. La marcia del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli

Posted by on Dic 26, 2018

Domenico Petromasi, Alla riconquista del Regno. La marcia del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli

La ricorrenza bicentenaria del Triennio Giacobino in Italia (1796-1799) offre l’occasione per meditare sull’origine delle insorgenze anti-rivoluzionarie e per rileggere con spirito critico quegli avvenimenti, che si pongono agli albori dell’unità italiana. Queste considerazioni valgono in modo particolare per l’insorgenza meridionale, per l’epopea della Santa Fede, che, rispetto ad altre simili vicende italiche, può essere assunta come modello per l’ampiezza del fenomeno, per la minore frammentarietà degli avvenimenti e per la presenza di un nucleo dirigente che, per quanto piccolo, sa coordinare la generosa reazione popolare. La lettura storica di quell’episodio è inquinata dalle interpretazioni di parte liberal-progressista e marxista, che ignorano la matrice religiosa delle insorgenze e riconducono il fallimento della Rivoluzione alla “immaturità” delle popolazioni. Per parte sua, la storiografia di ispirazione cattolica o legittimista ha avuto fortuna breve, anche e soprattutto in conseguenza della manipolazione del patrimonio culturale della nazione compiuta dai “vincitori”, cosicché sono stati relegati nell’oblio avvenimenti e personaggi particolarmente significativi.

La Storia della spedizione dell’Eminentissimo Cardinale D. Fabrizio Ruffo allora Vicario Generale per S. M. nel Regno di Napoli e degli avvenimenti e fatti d’armi accaduti nel riacquisto del medesimo compilata da D. Domenico Petromasi commissario di guerra e tenente colonnello de’ Reali Eserciti di S. M. Siciliana, la cui unica edizione risale al 1801, a Napoli, per i tipi di Vincenzo Manfredi, viene ripresentata con il titolo Alla riconquista del Regno. La marcia del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli.

Il volume si apre con un’introduzione (pp. V-XVII) di Silvio Vitale, uomo politico napoletano nonché editore de L’Alfiere. Pubblicazione napoletana tradizionalista e animatore dell’Editoriale il Giglio. Silvio Vitale, dopo un breve riepilogo delle vicende della Repubblica Napoletana e dell’impresa vittoriosa del card. Fabrizio Ruffo, passa in rassegna la copiosa produzione storica ottocentesca sull’argomento e ricostruisce la polemica storiografica fra i due opposti schieramenti, individuando nell’infelice “autocensura” borbonica le radici della sconfitta culturale dei sostenitori del Trono e dell’Altare. Infatti è re Ferdinando IV a proibire, dopo la prima restaurazione, la pubblicazione di opere sul periodo repubblicano e sulla spedizione della Santa Fede, cioè […] su una vicenda che, seppur vittoriosa, considerava legata agli eccessi di una guerra fratricida e il cui ricordo, a suo avviso, non avrebbe fatto altro che rinfocolare rancori nefasti” (p. XIV). Dopo la spedizione dei Mille, invece, sono gli “unitari” a imporre il silenzio agli storici di parte borbonica, cosicché le vicende del 1799 sono ricordate tuttora secondo la vulgata rivoluzionaria.

Infine, Silvio Vitale traccia una breve biografia di Domenico Leopoldo Petromasi, sulla cui vita si sa poco. Nato ad Augusta, in Sicilia, da famiglia nobile, egli segue il card. Fabrizio Ruffo dall’inizio della sua impresa, ricoprendo la carica di commissario di guerra per le attività logistiche e ottenendo dal re, al termine del conflitto, il grado di tenente colonnello come riconoscimento per l’opera svolta.

Domenico Petromasi si colloca nella schiera dei cronisti di parte regia. La sua intenzione è quella di ampliare la narrazione del domenicano Antonino Cimbalo (La lunga marcia del cardinale Ruffo alla riconquista del regno di Napoli, Borzi, Roma 1967), di cui […] si fece spaccio di tutte le copie” (p. XIX), e di descrivere non soltanto la marcia dell’esercito della Santa Fede dalle Calabrie a Napoli, della quale era stato “testimonio di veduta” (ibidem), ma anche le operazioni militari che avevano portato alla liberazione del Regno e dello Stato Pontificio.

Attenzione particolare è da lui dedicata agli aspetti logistici dell’impresa — dalla confezione delle uniformi all’improvvisazione dell’armamento, dall’organizzazione della tesoreria all’approntamento degli ospedali da campo e della tipografia, fino alla costituzione di una banda musicale —, che danno il senso delle difficoltà affrontate dall’Armata Cristiana e Reale. Rifulgono in quei frangenti la forza d’animo e le capacità organizzative del card. Fabrizio Ruffo, la sua familiarità con i soldati, l’intensa opera di animazione e di direzione, tutti elementi determinanti ai fini della riuscita vittoriosa dell’impresa. Uomo di molte capacità, amministratore sagace, “di rari talenti dotato dalla natura, e di straordinario coraggio fornito dal Cielo” (p. 1), il cardinale possedeva le qualità del condottiero: era risoluto, ponderato e aveva un innato senso del limite e del momento opportuno. Fin dall’inizio la sua azione è molto energica e presto la sua mano organizzatrice si fa sentire. Durante l’avanzata concede alleggerimenti fiscali ai contadini e mostra un volto austero di giustizia, confiscando i terreni di quei nobili, fra i quali suo fratello Vincenzo, che avevano abbandonato il loro posto; d’altro canto, è inflessibile nel reprimere gli attacchi alla legittima proprietà, fino a ordinare la fucilazione dei predatori e dei violenti. Attento alle esigenze della popolazione, si presta volentieri a ricevere “con pubblica giornaliera udienza” tutti coloro che avevano problemi e controversie da risolvere, […] ed ognuno pago rimane di quella giustizia […]. Un tal sistema non lasciò di praticarsi per l’intero corso della Campagna, onde le popolazioni tutte del Regno fossero servite nel miglior modo che si dovea, e poteano permetterlo le circostanze del tempo” (p. 9). Al termine del conflitto, egli si adopera invano affinché la pacificazione auspicata da tutti non sia il frutto di un compromesso con i rivoluzionari, ma miri a ricostituire concretamente il tessuto sociale lacerato e, soprattutto, possa far leva sulla preparazione dottrinale della classe dirigente e sulla messa in guardia della popolazione contro la penetrazione settaria. Ma re Ferdinando IV, che voleva accentuare il dispotismo dell’”assolutismo illuminato”, perde l’occasione di una restaurazione integrale e il cardinale viene emarginato appena possibile. E purtroppo le calunnie hanno degradato fin da allora la nobile figura del card. Fabrizio Ruffo, presentato come generale predone, capo di orde di briganti e di galeotti; la storiografia ufficiale ha tramandato soltanto gli eccessi dei suoi uomini, ingigantiti dal tempo, cosicché lui e la Santa Fede hanno finito con il soffrire da parte dei posteri più ingiusti giudizi che dai loro contemporanei.

La ricostruzione di Domenico Petromasi rende giustizia a quei valorosi e restituisce alla loro impresa il carattere di un’autentica epopea nazionale; inoltre ricorda che i volontari napoletani, per iniziativa del card. Fabrizio Ruffo, sono i primi a entrare, da liberatori, nella città di Roma — anch’essa occupata l’anno precedente dai rivoluzionari francesi —, ponendo il regno di Napoli in una condizione di parità morale nei confronti dei più potenti alleati inglesi, russi e austriaci. Tuttavia il cronista non si addentra nei risvolti politici e culturali dello scontro militare in atto, che rappresentava non più l’ennesima lotta fra case regnanti ma un conflitto fra due irriducibili concezioni del mondo e il primo attacco rivoluzionario al principio della legittimità monarchica. Invece il carattere di radicale novità del conflitto sarà colto, sul versante rivoluzionario, soprattutto da Vincenzo Cuoco, che pubblica, nel 1800, il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli — nel quale individuava le ragioni del fallimento della Repubblica Napoletana proprio nella frattura operata nei confronti della storia e delle tradizioni del regno — e, nel campo legittimista, da Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, che nel 1834 raccoglie le sue riflessioni nella Epistola ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del reame di Napoli del generale Pietro Colletta (ora ristampata integralmente in Silvio Vitale, Il Principe di Canosa e l’Epistola contro Pietro Colletta, Berisio, Napoli 1969).

Ma la diligente ricostruzione di Domenico Petromasi conserva il valore della testimonianza diretta di un suddito leale che, di fronte all’indubbia radicalità del conflitto, sceglie con naturalezza il suo posto di combattimento e vuole tramandare ai posteri la “storica narrazione” di quegli avvenimenti affinché possano “inferirsi delle utili riflessioni in vantaggio della gente tutta” (p. 76).

Francesco Pappalardo

fonte www.alleanzacattolica.org

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La vera storia di Luisa Sanfelice e dei suoi compagni

Posted by on Dic 7, 2018

La vera storia di Luisa Sanfelice e dei suoi compagni

di Roberto Maria Selvaggi

Nel 1847 un decreto reale comunicava al paese che il Ministro delle Finanze Ferdinando Ferri era stato ritirato e sostituito con il Cavalier Giustino Fortunato. Il decreto in questione chiudeva la lunga, sorprendente e disinvolta carriera di un personaggio che fu protagonista, nella sua vita, di importanti avvenimenti storici.

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