Alta Terra di Lavoro

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I Borbone e il problema dei rifiuti

Posted by on Lug 26, 2019

I Borbone e il problema dei rifiuti

Quando un decreto dei Borbone rese Napoli la città più pulita d’Europa
Da Claudia Ausilio

Un triste destino quello di una città come Napoli, vista dal mondo intero come una città sporca e piena di rifiuti, quando pochi secoli fa era considerata come la più pulita d’Europa, simbolo di ordine e la prima a fare la raccolta differenziata e ad insegnare alle altre popolazioni italiane l’uso del bidet.
Il recente trascorso e la pessima gestione amministrativa da parte delle istituzioni induce a delle riflessioni, poiché a differenza di oggi, un paio di secoli fa, c’era un’oculata e responsabile gestione dei rifiuti. Le prime ordinanze nel meridione si ebbero nel lontano 1330, quando nella città di Palermo vennero esposte delle ordinanze relative alla pulizia dei luoghi pubblici ed obbligavano i bottegai a mantenere in ordine gli spazi davanti ai loro locali.
Ma nel XIX secolo, con un decreto del 3 maggio 1832, firmato dal prefetto della polizia di Napoli, Gennaro Piscopo, si ebbero le prime pene detentive per i trasgressori.

Il Re Ferdinando II di Borbone, fu il primo ad ordinare la raccolta differenziata, con il suddetto decreto che obbligava di mantenere l’igiene sulle strade. Il prefetto diede disposizioni in merito, scrivendo nel testo che “Tutt’i possessori, o fittuarj di case, di botteghe, di giardini, di cortili, e di posti fissi, o volanti, avranno l’obbligo di far ispazzare la estensione di strada corrispondente al davanti della rispettiva abitazione, bottega, cortile, e per lo sporto non minore di palmi dieci di stanza dal muro, o dal posto rispettivo e che questo spazzamento dovrà essere eseguito in ciascuna mattina prima dello spuntar del sole, usando l’avvertenza di ammonticchiarsi le immondezze al lato delle rispettive abitazioni, e di separarne tutt’i frantumi di cristallo, o di vetro che si troveranno, riponendoli in un cumulo a parte”. Poi aggiungeva che “Dovranno recarsi ne’ locali a Santa Maria in Portico, dove per comodo pubblico trovasi tutto ciò che necessita” ed inoltre il divieto “di gettare dai balconi materiali di qualsiasi natura”.
Come si legge nel Regio Decreto n.21, le autorità si ponevano il problema della spazzatura, obbligando la popolazione alla raccolta differenziata, in particolare quella del vetro. Insomma, già allora si faceva un’importante riflessione sul problema dell’accumulo di immondizia, e come evitare di far confluire i rifiuti in un unica discarica. A tal proposito vale la pena ricordare l’ammirazione dello scrittore ed erudito Goethe, quando nel 1787, durante il suo viaggio in Italia, rimase stupito per il riciclo degli alimenti in eccesso che si attuava tra la zona di Napoli e le campagne intorno (l’attuale “Terra dei Fuochi“).
Circa duecento anni fa, quindi, una legge borbonica aveva risolto il problema dei rifiuti, che oggi invece sembra essere insormontabile, oltre ad essere diventata una questione che riguarda l’intera nazione.

Da: https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/storia/61087-quando-un-decreto-dei-borbone-rese-napoli-la-citta-piu-pulita-deuropa/

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Quando i Borbone vietavano con un Decreto l’uso di veleni in agricoltura – 1837

Posted by on Lug 19, 2019

Quando i Borbone vietavano con un Decreto l’uso di veleni in agricoltura  – 1837

Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, 6 agosto 1837

Nella “Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie (del 6 agosto 1837)” vi era anche il decreto numero 4164,  che nell’agosto 1837 vietava l’uso di veleni in agricoltura nel regno delle Due Sicilie. Si legge : “Decreto con cui vien prescritto essere reati di competenza delle Commissioni militari lo spargimento di sostanze velenose, ovvero le vociferazioni che si sparga veleno, tendente a turbare la pubblica tranquillità“.

Questo decreto giunse dopo le insurrezioni del colera di un mese prima, allorchè i Borbone furono accusati dai liberali, di essere stati loro a introdurre il colera.

L’Europa del 1837 era invasa dal colera che fra aprile e giugno si diffuse anche a Napoli e in Sicilia. In quegli anni i medici non sapevano bene quale fosse l’origine e come si fosse propagata la malattia, ed erano divisi tra epidemisti e contagionisti. Fu proprio Ferdinando II che confutò le tesi contagioniste. In quei mesi a Napoli si erano verificate tensioni popolari in quanto si era diffusa la notizia che il colera fosse stato causato da un veleno portato in città e diffuso attraverso il pane. Ferdinando II incurante di quella notizia si recò a piedi nei vicoli popolani napoletani e “a stretto contatto con il suo popolo […] mangiò con essi il calunniato pane“.

L’ipotesi che il colera sarebbe stato provocato da un veleno (cvd) fu sfruttata dai liberali e dai carbonari meridionali per insorgere contro i sovrani duosiciliani e, sia con fini politici sia con fini personali, furono loro a cacciare l’ulteriore notizia che quel veleno sarebbe stato diffuso dallo stesso governo borbonico. La calunnia, che avrebbe dovuto sollevare la Sicilia contro i Borboni, scatenò una serie di feroci cacce agli untori, provocando il massacro di molti innocenti. Spesso i liberali non riuscirono a controllare la furia popolare che essi stessi avevano eccitato. L’insurrezione iniziò a Palermo il 15 luglio. La paura dilagò fra la popolazione tant’è che in Siracusa ad esempio, molti siracusani vennero accusati di essere gli “avvelenatori” e furono massacrati dai loro stessi concittadini. Il 23 luglio il popolo insorse contro i borbonici, abbandonandosi ad ogni sorta di violenza.

Fu istituita una commissione di cittadini “probi e preparati” con il compito di giudicare i fatti e gli accusati; ma in essa c’erano anche i propugnatori della teoria del veleno, che erano tutti filo liberali e filo unitari. La commissione stabilì quindi, che la sostanza adoperata era il nitrato di arsenico. Ne conseguì che  si instaurò un governo provvisorio (filo liberale, filo unitario e inneggiante al tricolore italiano savoiardo), il quale proclamò lo stato d’assedio, dispose l’arresto delle autorità governative (fedeli ai Borbone), e costituì un comitato di salute pubblica.

 Nei mesi successivi  Ferdiando II riportò ordine nel suo regno e amnistiò tutti i popolani che avevano aderito alla rivolta, ma non concesse il real perdono ai capi politici e a coloro  che avevano fatto furti, saccheggi e omicidi.

fonte http://belsalento.altervista.org/quando-i-borbone-vietavano-con-un-decreto-luso-di-veleni-in-agricoltura-nel-1837/

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Schegge di storia 8/ Il falso storico del bombardamento di Messina disonestamente attribuito a Ferdinando II di Borbone

Posted by on Lug 9, 2019

Schegge di storia 8/ Il falso storico del bombardamento di Messina disonestamente attribuito a Ferdinando II di Borbone

Questa rubrica – curata da Giovanni Maduli – ci racconta, attraverso scritti e testimonianze, la storia del popolo del Sud che si ribellava all’occupazione da parte dei piemontesi dopo la ‘presunta’ unificazione italiana. Sono testimonianze incredibili di un genocidio che ancora oggi viene tenuto nascosto. Oggi parilaimo di Ferdinando II di Borbone al quale la storia italiana risorgimentale scritta dai vincitori ha attribuito il nome di “Re Bomba” per via del bombardamento di Messina. Un falso storico. Vediamo come sono andate le cose 

di Giovanni Maduli
componente della Confederazione Siculo-Napolitana e vice presidente del Parlamento delle Due Sicilie-Parlamento del Sud®, Associazione culturale

Continuando l’excursus di testimonianze relative al periodo post unitario che difficilmente possono essere soggette a “interpretazioni” o “valutazioni” diverse da ciò che effettivamente sono e denunciano, ecco altre testimonianze circa il cosiddetto “Bombardamento di Messina” del 1848, vigliaccamente attribuito a Ferdinando II che, da allora, venne soprannominato ingiustamente “Il Re Bomba”; su quanto avveniva in quegli anni a Trapani, Girgenti, Sciacca, Favara, Bagheria, Calatafimi e Marsala e su quanto avveniva nel corso del 1861 in quel di Campobasso.

“Mi si perdoni quest’orgoglio municipale cito l’esempio di Messina, che con 25 cannoni, fra i quali uno solo da 36, e undici mortai resistè tre mesi alle scariche di una fortezza guarnita da 200 cannoni di grossissimo calibro e da più che 50 mortai. Ma questi effetti prodigiosi non si ottengono senza prodigiosi sacrifizj, e quel popolo ha veduto con indifferenza convertirsi in mucchi di rovine i suoi palazzi e le sue case, arsa la pubblica biblioteca, arsi i ricchissimi depositi del suo portofranco, né ha esitato a rovinare ed ardere colle proprie mani tutti quelli edifizi che portavano impedimento alla difesa o che potevan servire di riparo agli offensori.”
Giuseppe La FarinaDella guerra attuale e degli ultimi casi del Veneto, Roma 1848, Lettera politica, emessa il 4luglio 1848, p. 7.

“Il furioso Giuseppe La Farina, orgoglioso delirando affermerà ai suoi astanti, che era necessario l’estremo sacrifico per una buona causa: bruciando la pubblica biblioteca, i ricchissimi depositi del suo Porto Franco, rovinando con le proprie mani tutti quegli edifici che potessero servire ai borbonici. Con pochi colpi di pennello, Giuseppe La Farina stava raffigurando ai rivoluzionari veneti la strategia messa in opera su Messina dalle forze fraterne. Altro che livore napoletano, altro che stragi invereconde commesse dai Borbone, i veri assassini di Messina furono le bande armate siciliane e una parte avvelenata dei suoi stessi figli. Così accadde che i liberali siciliani incendiarono le case, sventrando i palazzi, profanando le chiese se questo faceva comodo ai loro progetti; egli lo afferma con la sua bocca e lo pone a paragone, in rapporto alle azioni commesse dai suoi amici, presso il campo di battaglia trovato dentro le strade di Messina. Per una causa giusta, tutto era sacrificabile persino la vita di quelli con cui condivideva i natali”.
Alessandro Fumia, Messina, la capitale dimenticata, Magenes Edizioni, pag. 229.

“Non tutta la Sicilia era contro il governo di Napoli, questa verità si può elaborare, individuando quel corpo estraneo nel partito contro rivoluzionario. Le forze liberali fomentate dall’aristocrazia siciliana ostile al casto dei Borbone, per le ragioni più svariate, fin dal tempo in cui re Ferdinando ebbe a risanare il debito pubblico delle Due Sicilie, intaccando i privilegi e azzerando i monopoli, trovarono la predisposizione mentale di alcuni possidenti di Palermo, ad aprirsi alle richieste dei liberali siciliani, assecondati dalla corona britannica per sovvertire il governo legittimo. Messina da tutto ciò ne subiva il danno maggiore perché con la discesa in campo di queste forze, sarebbero saltate quelle leggi che le avevano permesso di aumentare notevolmente i suoi traffici e le sue finanze.
… La rivolta checché se ne pensi non fu movimento di popolo, ma la discesa in campo di un partito siciliano espressione di una minoranza, legatosi con una burocrazia italiana ai tempi sconosciuta, rimandando il tempo dell’invasione posto in essere dagli ideologici siciliani. La verità non è legittimata con la discesa in campo dei militari napoletani vittoriosi nella campagna militare del 1848-1849. Non furono i soldati ad annientare Messina, se nonché gli stessi siciliani che si dichiararono suoi liberatori”.
Alessandro FumiaMessina, la capitale dimenticata, Magenes Edizioni, pag. 228.

Inoltre, eseguendo una dettagliatissima e lunghissima disamina tecnica dei campi di battaglia intorno a Messina, delle postazioni dei cannoni siciliani e della loro gittata; nonché dei cannoni regi, delle loro postazioni e della loro gittata – disamina che non posso qui riportare per ovvii motivi di spazio – il Fumia dimostra inequivocabilmente che i cannoni regi della Cittadella non avrebbero mai potuto colpire le case di Messina in quanto non disponevano della (eventuale) gittata utile.
G.M.

“Il proclama e la condotta del militare di Licata furono imitati a Trapani, Girgenti, Sciacca, Favara, Bagheria, Calatafimi, Marsala, ove fu distrutto anche il raccolto del vino, e in altri comuni”.
E l’acqua mancò per un’intera settimana!
Sempre D’Ondes Reggio, nella tornata del 7 dicembre 1863, “dà lettura dell’ordinanza d’un altro comandante piemontese che dispone l’arresto di tutti coloro da’ cui volti si sospetti d’essere coscritti di leva, e anche l’arresto dei genitori e dei maestri d’arte dei contumaci”.
“Questo avveniva a Palermo: i cittadini ricorsero al Prefetto che rispose nulla sapere e nulla potere! In una città di 230 mila anime, il capo del governo nulla sa, nulla può!”
“Questa lunga Iliade finiva con due catastrofi: la prima fu quella di Petralia: una capanna fu circondata dalla truppa, non per trovare un coscritto, ma per chiedere informazioni; gli abitanti erano tre, padre, figlio e figlia, e questi tre furono bruciati vivi per non aver voluto aprire!”.
Michele Antonino CrociataSicilia nella storia, Tomo II, pag. 112.

Campobasso, 10 agosto 1861
Il governatore di Campobasso era allarmato e stava in continuo contatto con la Luogotenenza di Napoli e col governatore di Benevento. Cialdini, da Napoli, aveva mandato ordini precisi al generale De Sonnaz: Stroncare col sangue qualsiasi accenno o fermento di ribellione.
Il colonnello del 36° Fanteria ordinò al tenente Cesare Augusto Bracci di portarsi verso Pontelandolfo “per fare argine ai briganti e di battersi solo se sicuro di vincere”.
Alle prime ore dell’alba del 10 agosto il tenente Bracci, a capo di trentasette bersaglieri e cinque carabinieri, partì da Campobasso. Appena fuori dalla città molisana la truppa piemontese cominciò a razziare i campi e le case dei contadini.
Alla stessa ora cinquanta partigiani comandati da Martummè, con i loro cavalli veloci, si diressero verso Guardia Saframmondi, ove disarmarono la guardia nazionale e assalirono la casa del cassiere del comune di Faicchio, prelevando fucili e denaro.


Antonio CianoI Savoia e il massacro del Sud, pagg. 146 – 147

fonte https://www.inuovivespri.it/2019/06/01/schegge-di-storia-8-il-falso-storico-del-bombardamento-di-messina-disonestamente-attribuito-a-ferdinando-ii-di-borbone/

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Battaglia tra laici e Curia per la chiesa dei Borbone di Napoli

Posted by on Lug 3, 2019

Battaglia tra laici e Curia per la chiesa dei Borbone di Napoli

(Lettera Napoletana) Un’antica istituzione di carità napoletana, con oltre cinque secoli di storia, proprietaria della Chiesa di San Ferdinando di Palazzo, vede in pericolo la sua esistenza dopo la decisione della Curia Arcivescovile di commissariare la Reale Arciconfraternita di Nostra Signora dei Sette Dolori in San Ferdinando di Palazzo. Fondata alla metà del ‘500 da nobili spagnoli e napoletani, la Confraternita ebbe nel 1743 l’adesione del Re Carlo di Borbone, che ne divenne Superiore Perpetuo e fratello maggiore, seguito da tutta la famiglia reale e dai successori. Nel 1828, Francesco I di Borbone dette in uso “pleno jure” alla Confraternita la chiesa di San Ferdinando di Palazzo, che – come ricordano gli stemmi con i Gigli d’oro dei Borbone affrescati sulla volta – era la chiesa dei Re di Napoli e delle Due Sicilie. Ancora oggi il titolo onorifico di Superiore dell’Arciconfraternita spetta di diritto ai discendenti dei Re delle Due Sicilie. Lo Statuto della Reale Arciconfraternita fu modificato per l’ultima volta nel 1841, con l’approvazione del Re Ferdinando II, e da allora non è più cambiato. Solo l’assemblea dei circa 200 confratelli potrebbe farlo. Nel 2018, il Cardinale Crescenzio Sepe, Arcivescovo di Napoli, ha varato una riforma delle Confraternite che prevede il nulla osta della Curia per la nomina degli organi direttivi, la presenza di un suo delegato alle assemblee, il controllo dei bilanci ed il versamento alla Curia di una percentuale delle entrate delle Confraternite, che si finanziano con le quote versate dai confratelli ed i lasciti ricevuti in eredità. L’Arciconfraternita di Nostra Signora dei Sette Dolori assicura il culto nella storica chiesa di San Ferdinando di Palazzo, paga lo stipendio al suo rettore ed al sacrestano, sostiene le spese di manutenzione della chiesa e delle Cappelle nel cimitero monumentale di Poggioreale. Il 7 aprile 2019, l’assemblea dell’Arciconfraternita ha eletto, a norma del proprio Statuto, il nuovo vicesuperiore, l’ex generale dei Carabinieri Maurizio Scoppa, affiancato da tre assistenti. La nomina è stata comunicata alla Prefettura di Napoli, che ne ha preso atto. La Curia ha invece dichiarato sospeso il governo dell’istituzione caritatevole ed ha nominato tre commissari. «Siamo nella pienezza dei poteri – ha detto il generale Scoppa – perché la nostra assemblea non ha mai recepito la riforma del Cardinale Sepe. Abbiamo il dovere di tutelare gli interessi degli attuali confratelli e la memoria di chi ci ha preceduto. Dobbiamo lasciare intatto il patrimonio culturale e materiale della Confraternita a chi verrà dopo di noi»(Ansa, 26.6.2019). L’accesso alla chiesa di San Ferdinando dei commissari nominati dalla Curia è stato impedito. L’Arciconfraternita di Nostra Signora dei Sette Dolori ha affidato la propria difesa all’avvocato Riccardo Imperiali di Francavilla, che nel 2016 difese con successo i componenti della Deputazione di San Gennaro in un’altra controversia con la Curia che voleva modificare le modalità di elezione dei componenti della Deputazione, antichissima istituzione laica che custodisce il Tesoro del Santo patrono di Napoli. Il primo ricorso, presentato – come previsto dal diritto canonico – allo stesso Arcivescovo di Napoli, è stato respinto. Ora, sul futuro dell’Arciconfraternita e della chiesa di San Ferdinando di Palazzo, dovrà pronunciarsi il Tribunale Ecclesiastico di Roma. Ma la battaglia legale potrebbe poi trasferirsi davanti al Tribunale civile. (LN136/19). 68 Battaglia delle Idee 32 Libri del Giglio Boutique del Giglio S. M. il Re Ferdinando II Bandiera delle Due Sicilie – “da stadio” Duetto da caffè Fermasoldi Cartolina Cartina delle Due Sicilie

fonte http://www.editorialeilgiglio.it/battaglia-tra-laici-e-curia-per-la-chiesa-dei-borbone-di-napoli/

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