Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Eleonora Pimentel Fonseca, anniversari e celebrazioni

Posted by on Giu 27, 2019

Eleonora Pimentel Fonseca, anniversari e celebrazioni

 A volte mi chiedo come sarebbero giudicati dai loro contemporanei i discendenti degli Incas, degli Aztechi, dei Maya o degli Indiani d’America se alcuni di essi, divenuti addirittura storici di professione, considerassero liberatori  i conquistadores spagnoli o l’esercito nordista e si dessero da fare per introdurre nel calendario date e ricorrenze per commemorare il massacro di Sand Creek (29 novembre 1864) o di Wounded Knee (29 dicembre 1890) o per inserire busti o statue del colonnello John Chivington o di  James Forsyth.

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IL PRINCIPE DI CANOSA UN ESEMPIO DI ONESTÀ PER LA DILAGANTE CORRUZIONE NELL’ATTUALE VITA PUBBLICA: ERA RICCO MA È MORTO POVERO.

Posted by on Feb 11, 2019

IL PRINCIPE DI CANOSA UN ESEMPIO DI ONESTÀ PER LA DILAGANTE CORRUZIONE NELL’ATTUALE VITA PUBBLICA: ERA RICCO MA È MORTO POVERO.

Sommario: 1. – La vita e l’attività pubblicistica. 2. – Condannato dai rivoluzionari repubblicani e dal tribunale del Re. 3. – La “leggenda nera”. 4. – La complessa personalità costellata da eminenti doti. 5. – Riflessioni conclusive.

1. – La vita e l’attività pubblicistica. – Antonio Luigi Capece Minutolo, Principe di Canosa, nasce a Napoli il 5 marzo 1768(1), terzogenito dei coniugi don Fabrizio e donna Rosalia de Sangro dei Principi di San Severo (è, perciò, nipote ex matre di Raimondo, grande genio del settecento); dalla sua fede di battesimo conservata nell’Archivio di Stato di Napoli apprendiamo anche il nome della “mammana” (ostetrica): Antonia Ferrara.

Appartiene ad una antica famiglia con signoria sul feudo di Canosa ed era ascritta al primo dei Sedili di Napoli, quello di Capuana.

Nel Duomo di Napoli fa bella mostra la cappella dei Capece Minutolo, ricordata anche da Boccaccio nella novella di Andreuccio da Perugia, dove i ritratti di tredici viceré, due cardinali e una schiera di guerrieri denotano la nobiltà e onorabilità della stirpe.

Compie i suoi studi nel collegio Nazzareno di Roma, sotto la guida dei Gesuiti; successivamente viene avviato alla professione forense, dove si distingue nella trattazione delle cause penali. 2. – Condannato dai rivoluzionari repubblicani e dal tribunale del Re. – Il Principe di Canosa ha avuto il triste privilegio di aver subito la condanna a morte dai repubblicani rivoluzionari, perché incolpato di essere monarchico, ed

ugualmente una sonora condanna dal Tribunale del Re, allorché venne restaurata la monarchia, perché ritenuto colpevole di essersi posto contro l’autorità regale, rappresentata dal suo Vicario.

All’inizio del 1799, invero, nelle torbide giornate della repubblica napoletana, i giacobini lo condannarono a morte per aver organizzato la plebe ed armato i lazzari(2) che, in nome del Re, si opponevano allo straniero invasore ed ai cittadini suoi fiancheggiatori. “I lazzaroni, questi uomini meravigliosi scampati dall’esercito che era fuggito avanti a noi, chiusi in Napoli, sono degli eroi. Si combatte in tutte le strade, il territorio è disputato palmo a palmo, i lazzaroni sono comandati da capi intrepidi, il forte di S. Elmo li fulmina, la terribile baionetta li atterra, essi ripiegano, in ordine, tornando alla carica”(3).

Fortunosamente scampato alla pena capitale, ebbe a subire dolorose traversie con il ritorno di re Ferdinando IV a Napoli e la restaurazione della monarchia: uscito dal carcere repubblicano l’11 luglio 1799, a seguito della capitolazione dei rivoluzionari asserragliati nel castello di Sant’Elmo, il 1° agosto successivo venne rinchiuso nelle regie carceri.

A suo carico pesava, infatti, la contestazione del potere del “Vicario” (Francesco Pignatelli di Strongoli), lasciato come alter ego dal re quando con la corte si era trasferito in Sicilia. Si sosteneva, in proposito, che, secondo antica tradizione, in assenza del sovrano, la potestà di governare la Nazione spettasse ai “Cavalieri della Città” ed ai componenti della “Deputazione straordinaria per il buon governo e per l’interna tranquillità”, che rappresentavano la città di Napoli(4); il Vicario, al più, avrebbe dovuto agire d’intesa con i “sedili”.

In questa situazione erano inevitabili dissidi ed incertezze nel governo della città, per cui lo stesso Vicario decise di rifugiarsi in Sicilia. Peraltro, una volta restaurata la monarchia e ritornato il Re nei suoi poteri, il Canosa venne nuovamente portato in carcere e sottoposto a giudizio per il suo comportamento nei riguardi del Vicario.

Il Presidente del Tribunale della Giunta di Stato, Vincenzo Speciale, che il Canosa definisce “pazzamente feroce”, chiede per lui la somma condanna, ma il Re, sollecitato dalle famiglie dei Cavalieri della Città, decise di affidare il giudizio finale anche alla Giunta del buon Governo, presieduta dal Principe di Cassaro, persona molto equilibrata. Lo stesso Canosa così racconta la vicenda: “i membri della Giunta di Stato furono scissi tra loro nella decisione della causa. La scissura toccò tanto gli estremi, che mentre uno votò per la morte, votarono due affinché venisse fatta relazione al Monarca intorno ai meriti che contratto avea colla buona causa il supposto reo. Tra le tante sentenze strampalate si cavò quasi come media proporzionale, tra chiassi ripetuti e cachinni la condanna di cinque anni di castello”. Precisamente, alla più mite condanna si giunse per l’assoluzione dalla reità di Stato e cioè dall’accusa di aver promosso l’instaurazione di una “repubblica aristocratica”, e per il riconoscimento solo dell’insubordinazione al Vicario(5).

Tuttavia, nel 1801, a seguito del Trattato di Firenze con cui Napoleone aveva imposto una generale amnistia per i giacobini condannati, anche il Canosa, che certamente non rientrava tra costoro, riacquista la libertà.

I repubblicani rivoluzionari, dunque, lo avevano condannato perché “monarchico” ed il Tribunale del re lo condannava perché incolpato di aver voluto instaurare una sorta di repubblica aristocratica: “monarchia” e “aristocrazia”, come rileva Benedetto Croce(6), sono proprio “i due elementi che egli bensì componeva armonicamente nella sua antiquata personalità, ma che la storia aveva scissi e messi in contrasto”.

3. – La “leggenda nera”. – Il Principe di Canosa è perseguitato da una leggenda nera che l’ha dipinto a fosche tinte in vita e continua a perseguitarlo anche dopo la morte; si è giunti ad incolparlo della strage di centinaia di migliaia di “giacobini, murattisti e carbonari”, fino ad attribuire alla sua nefasta influenza presso la Corte di Modena, il supplizio di Ciro Menotti. 4

Vincenzo Gioberti lo ritiene “uomo d’infame memoria, che, dopo commesso in Napoli ogni sorta di ribellione, trovò asilo tra le braccia dei gesuiti alle sponde del Crostole”(7).

Niccolò Tommaseo lo definisce “villano di Canosa, cacciato da Napoli e dalla Toscana come uomo stolidamente torbido e vituperevolmente irrequieto”(8); “prepotente, fanatico e cieco reazionario, nemico di ognuno che aspirasse ad ordini più civili di governo”, lo considera Matteo Mazziotti(9).

Giuseppe Mazzini – dal sicuro dei suoi esili, nota S. Vitale(10) – lo raffigura “colle baionette d’intorno e il carnefice a fianco”(11).

Più astioso è il giudizio di Pietro Colletta, che, ricordando il carcere subito dopo i moti del 1821, lo taccia di essere “aristocratico per dottrina, plebeo per genio”, “diffamato per opere pessime”, “orditore sagace… di trame, ribellioni, delitti”, “cagione di mille morti, o da lui date o dall’avversa parte, per vendetta e condanne”, “doppiamente adultero, sempre ubriaco di vino e di furore”, autore di “opere inique sotto le immagini del Salvatore e dei Santi”, “tenuto malvagio nel mondo”(12).

Sono affermazioni senza alcun fondamento, di cui specialmente quelle del Colletta furono dal Canosa puntigliosamente confutate in vita nell’Epistola ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del reame di Napoli del generale Pietro Colletta, pubblicata a Capolago nel 1834 e recentemente ripubblicata dal Vitale in appendice al suo volume “Il Principe di Canosa”.

A sua volta, il Blanch, dopo un generico apprezzamento dell’umanità del Canosa, bolla le sue vedute politiche come “una idea esagerata che ha la forza di rendere nulle le migliori intenzioni e le virtù stesse”(13).

Più benevolo è il giudizio di B. Croce(14) che di fronte alle voci calunniose della polizia del Saliceti e alle tenaci difese dello stesso Canosa, dichiara di propendere per queste, osservando che “l’uomo era bensì un don Chisciotte(15) della reazione, ma non punto sanguinario, né malvagio e nemmeno ingeneroso”.

Pur dichiarando di non volersi discostare dalle considerazioni del Croce, il Maturi(16) ridimensiona alquanto il sostanzialmente positivo giudizio del Croce osservando che “Accanto al generoso cavaliere, v’è nel Canosa il settario capace per odio di parte delle più basse delazioni e delle più odiose quali l’inasprimento delle pene in materia di opinioni, gli atti più odiosi quali i processi napoletani del 1799 e i processi piemontesi del 1833”.

Il conte Clemente Solaro della Margarita, che pure come il Canosa è fedele al trono e devoto all’altare, non è tenero nei suoi confronti: gli riconosce che è “uomo onesto, devoto ai buoni principi”, ma aggiunge che è “incapace di maneggiare affari di Stato, specialmente nell’epoca difficile di una restaurazione. Più poteva in lui la passione che il senno; non aveva idee fisse; non perseveranza di condotta; voleva il bene non sapeva operarlo; fu tremendo coi carbonari della plebe, i più accorti delle classi sociali riuscirono a schermirsene”.

4. – La complessa personalità costellata da eminenti doti. – I negativi giudizi espressi sul Canosa sono unilaterali e mostrano di non considerare le qualità che il personaggio possedeva in grande misura, come il sommo disinteresse personale, la generosità d’animo non venata da rancori, la costanza dei sentimenti, lo spirito di indipendenza alieno da cortigianeria.

I suoi sentimenti non sono stati mai contaminati da venature di interesse economico: “Io, afferma il Canosa, ero il capo di una patrizia famiglia commoda bastantemente nel mio paese.

Abbandonai tutto sul fondato timore di perder tutto, ed in effetti tutto perdei fuor che il mio onore. Nel venire non ebbi presente giammai altro che il mio dovere, l’odio verso la rivoluzione”(17).

Il tornaconto personale non ha mai ispirato o condizionato la sua attività, per difendere i suoi ideali sacrificò la famiglia (giovane moglie, teneri figli, vecchi genitori), gli studi, la tranquillità ed i suoi averi, tra cui la libreria che aveva “carissima”(18). 6

E’ anche il caso di ricordare che, quando si avvicina il pericolo dell’invasione straniera, il Canosa si arruola volontario nell’esercito regio e recluta, a proprie spese, una cinquantina di uomini a difesa di Napoli e della monarchia.

Il disinteresse economico ha, perciò, costituito la nota dominante della sua attività, come viene dimostrato dal fatto che è morto povero; in un mondo in cui l’utile personale costituisce la direttiva principale per ogni azione, questa sola connotazione contribuisce ad elevare la figura del Canosa ed a farlo assurgere a modello da imitare, anziché a farlo sprofondare tra i soggetti da scansare.

Canosa era senza dubbio generoso, così come può aspettarsi da una persona, come lui, di alto lignaggio; sono significativi, in proposito, alcuni episodi, forse di no grande rilievo, che però aiutano a comprendere meglio la sua personalità.

Così, nel soggiorno in toscano (1816), incontrato un vecchio compagno d’armi che si trovava in difficoltà economiche, gli concede il suo aiuto versandogli mensilmente la somma di cento lire. Si tratta di Giuseppe Torelli che non era propriamente un amico del Canosa perché a Ponza (1807), dove era stato costituito un “punto d’appoggio”, una specie di “resistenza”, per la preparazione di un movimento anti francese a Napoli, aveva cercato di metterlo in cattiva luce con la stessa Regina; in seguito, scomparsa la Regina, il Torelli aveva chiesto inutilmente aiuto al Ministro Medici che lo scacciò in malo modo. In Toscana, dunque, avvicina il Principe che, ricordando che era stato “nemico della rivoluzione, e fedele alla grande Maria Carolina… due attributi che per me canonizzano il demonio”, dimentica precedenti contrasti e gli concede concreto sostegno(19).

Meritevole di essere segnalato è anche il comportamento tenuto nei confronti del generale A. Bergani, che aveva aderito al regime costituzionale ed era rimasto fedele fino all’ultimo a Gioacchino Murat: mosso a compassione dalla supplica della moglie del generale, lo giustificò davanti al Re, facendo richiamo all’osservanza dello spirito militare e alle materiali necessità di sopravvivenza, e lo fece rimettere in libertà(20). 7

In precedenza aveva mostrato la sua magnanimità graziando alcuni sicari inviati a Ponza per la sua eliminazione dal ministro di polizia del napoleonide Giuseppe Bonaparte.

Un altro elemento costante della sua attività è stata l’avversione senza indulgenza ai moti rivoluzionari che cozzavano profondamente con la sua profonda convinzione di legittimista. Contro lo spirito rivoluzionario sostiene che la lotta non può essere affidata ai poteri ordinari e molto meno al potere costituzionale: “il solo che può vincerlo è un dispotismo vigoroso ed estremamente attivo”(21).

Con apprensione rileva, quindi, al ritorno di Ferdinando IV sul trono di Napoli, che i murattiani continuano a mantenere alte cariche nell’amministrazione statale e nell’esercito, i beni confiscati al clero e alla nobiltà non vengono restituiti, la fedeltà dei sudditi non viene in alcun modo ricompensata.

Teme, perciò, che la politica, seguita dai ministri Medici e Tommasi, finisca per isolare il Re che si troverà senza la difesa dei nobili, i cui poteri sono stati annullati, e senza l’ausilio del clero la cui autorità religiosa viene scossa da una diffusa miscredenza.

In questa situazione, osserva il Canosa, le forze rivoluzionarie si faranno vive e finiranno con il prevalere.

Le pessimistiche considerazioni del Canosa vennero esposte nel lavoro “I Piffari di montagna”, pubblicato nel maggio del 1820 ed assunsero subito il significato di una negativa profezia, in quanto, nel luglio successivo, scoppiano i moti rivoluzionari che costringeranno il Re a cedere il potere, salvo poi l’intervento restauratore delle truppe austriache.

Ricordando quegli avvenimenti qualche tempo dopo, il Cav. Luigi Medici, principe di Ottaviano, mestamente osservava che “Quando non si possa (rimettersi la feudalità), come veramente ben che non si possa, qual altro principio vi si surrogherà? Qui Canosa vuole dispotismo puro, i liberali costituzione e rappresentanza. Gli uni e gli altri dicon male: ma sarebbe lunga diceria e non ho tempo. Dico di volo che nel quinquennio [1815-1820] credei di sciogliere il 8

problema; ma, disgraziatamente, due tenenti [Silvati e Morelli che insorsero a Nola, chiedendo la costituzione] mi provarono che ero un coglione, e tutto fu rovesciato. Ond’è che non ci penso più”(22).

Qui, dunque, il Canosa ha avuto ragione; lo ammette anche Croce nel suo interessante saggio sul Principe di Canosa(23).

Senza alcun tentennamento od ombra di dubbio, il Canosa, era convinto monarchico; del resto, in quanto nobile, riteneva fermamente che “ove non vi è Monarchia, non vi è nobiltà”. Dei nobili, però, ricordava le tradizioni di fedeltà e di eroismo a difesa del Re e si rammaricava che, all’epoca, essi si fossero ridotti da aristocratici feudali in accidiosi cortigiani, rinunciando alla propria funzione di comando e di giustizia(24).

Il Canosa, però, non ha assunto mai atteggiamenti di cortigianeria e quando si è presentata l’occasione, senza venir meno all’ossequio dovuto alla maestà del capo dello Stato, ha palesato la difformità delle sue opinioni, mostrando l’indipendenza del suo spirito e nello stesso tempo la rettitudine del suo comportamento.

E’ sintomatico l’episodio del comando impartitogli dalla regina Maria Carolina, con la quale peraltro esisteva una grande comunanza di vedute, e che il Canosa dichiarò di non poter eseguire, perché era contrario alle leggi.

La Regina gli osservò: “Ma le leggi non le facciamo noi? Ebbene noi la sospenderemo o revocheremo”; il Canosa, tuttavia, mantenne il suo rifiuto, dichiarando: “Signora giustissima… non tutte le leggi sono fatte dal Re. Ce ne sono talune che sono leggi di cui la sorgente si trova naturale, nella legge emanata da Dio, che è il Re dei Re. La legge alla quale si oppone il comando, per equivoco, datomi da Vostra Maestà, è appunto una legge universale, una legge di natura”.

L’episodio merita particolare attenzione. Il Canosa, monarchico perinde ac cadaver, non esegue l’ordine regale perentoriamente impartitogli, ma la Regina, che pur sovente ricorda di essere “figlia di Maria Teresa” e perciò abituata a farsi ubbidire senza discussioni, non dubitava della realtà del Principe ed ha accettato le sue spiegazioni. Personaggi di diversa levatura, in simili frangenti si sarebbero

comportati in altro modo e sarebbero stati lieti di appiattirsi sui superiori regii voleri. Rifulge, quindi, nel Canosa la profonda conoscenza del diritto, acquisita in gioventù con l’esercizio della professione forense, e la spiccata accortezza nell’assolvere, al di là di ogni condizionamento, il suo ruolo di consigliere, additando la via più corretta per l’espletamento dell’attività di governo.

Strenuo difensore dei diritti della nobiltà, si oppose alla richiesta, loro rivolta, dall’avvocato fiscale Nicola Vivenzio di prestare il servizio militare in tempo di guerra.

In proposito, rifacendosi al giasnaturalismo, sostenne con fermezza che lo Stato, alla stessa guisa dei privati, deve rispettare i contratti. Orbene, gli antichi feudi concessi o donati dal Re, comportavano l’obbligo del servizio militare; ma l’obbligo venne abolito da Alfonso I d’Aragona e da Ferdinando il Cattolico e convertito in donativi.

Per quanto concerne i feudi moderni, osserva che venivano acquisiti a condizioni venali, ma che tra queste non era contemplato l’obbligo del servizio militare.

Per conseguenza, il Re non poteva pretendere dai nobili il servizio militare perché non era compreso nel contratto; ma, sostiene il Canosa, quando la monarchia si trova in pericolo, i nobili devono accorrere in suo aiuto spontaneamente, fornendo denaro ed uomini contro le avverse minacce.

Coerente con le sue opinioni, quando il Re con la corte si ritira in Sicilia e sorge la necessità di rinforzare l’esercito regio con altre truppe, il Canosa, come abbiamo accennato sopra, si reca nei casali vicini a Napoli, solleva gli animi contro i francesi e raduna, a proprie spese, circa cinquanta reclute.

Ma non “s’indusse a chiedere rimunerazione alcuna dalla generosità del Sovrano, trovandosi molto contento d’aver servito S. M. (D. G.)”(25).

6. – Riflessioni conclusive. – Anche oggi, pur dopo le importanti ricerche di W. Maturi e di S. Vitale e gli interessanti studi di B. Croce che hanno esaminato più estesamente la vita e le opere del Canosa, permane una generale avversione nei 10

suoi confronti, avversione che richiama singoli e certamente secolari episodi per farne discendere giudizi assolutamente negativi e perentori.

In effetti, il Canosa, quale arguto polemista, nel suo discorrere era solito avvalersi di paradossi e di enfatizzazione per colorire meglio le sue argomentazioni e sminuire quelle dei suoi oppositori.

Chi, come il conte Monaldo Leopardi, lo aveva avuto vicino per affinità di idee e per familiarità di rapporti e, quindi, si trovava in posizione privilegiata per valutare i suoi intimi pensieri ed i suoi concreti atteggiamenti, aveva chiaramente affermato che “Egli è l’Argante del Re, e bisognerebbe avere l’animo di Giuda per negargli il diritto all’omaggio e alla riconoscenza di quanti combattono per la difesa della legittimità”; e più oltre sottolineava che “In sostanza, se Voltaire fu il Patriarca dell’empietà, La Fajette è stato il Patriarca della bugiarda libertà, è Canosa incontra stabilmente il Patriarca del realismo e della legittimità”(26).

Alla morte del Canosa, è ancora il Leopardi che unicamente ne tesse l’elogio funebre, con appropriate espressioni che lungi dal diffondersi in ipocriti elogi, come si è soliti in simili occasioni, suonano a monito degli indolenti: “… una vergogna dell’Italia il non aver alzato una voce d’encomio”; ed a coloro che non volessero intendere ricorda apparentemente enfatiche ma rispondenti pienamente alla realtà che “Canosa era un gran dotto, un gran politico, un vero galantuomo e un vero cristiano”(27).

Domenico LA MEDICA

(1) non il 6 marzo, come afferma N. Del Corno, in Gli “scritti sani”, Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all’Unità, Milano, Franco Angeli, 1992, 37; il 6 marzo è la data di battesimo. (2) Il termine “lazzaro” non si rinviene nella letteratura napoletana anteriormente alla rivolta di Masaniello (1647) e forse deriva dallo spagnolo lazaro , cencioso, pezzente, con cui i signori napoletanoi, che spagnoleggiavano nella lingua, indicavano la torma dei popolani seminudi, di cui si circondava quel capopopolo; proprio perché vestiti di stracci, richiamavano alla mente il Lazzaro resuscitato e quello cencioso dell’Evangelo. Di lazzari si torna a parlare nelle burrascose giornate del 1799, per la loro resistenza alle truppe di occupazione francesi e, successivamente, quando, sotto la guida del cardinale Ruffo, si distinsero per la lotta contro i “giacobini”.

In seguito con l’espressione lazzaro si intese quella categoria del sottoproletariato che non aveva alcuna occupazione e viveva accontentandosi del minimo, ma che non per questo aveva perso la sua spensieratezza; come ideali, poi, nutriva “in religione, il culto devoto e fanatico dei Santi protettori e, in primo luogo, di San Gennaro, e in politica, il culto del re” (Croce B., I “lazzari, in Aneddoti di varia letteratura, II, Napoli, 1942, 428 ss.; Benigno F., Trasformazioni discorsive e identità sociali, il caso dei lazzari, in Storica, 2005, 7 ss.).

(3) Così si esprimeva il gen. Championnet, nella sua relazione al Direttorio, come riporta Colletta P., Storia del reame di Napoli, libro III, cap. XXII.

(4) Il privilegio della Città di Napoli di rappresentare la Nazione e di assumerne il governo, in caso di assenza o di imbecillità del Sovrano, si fa risalire all’antico patto tra il Re e Nazione sul quale si fondava la Monarchia. Questo privilegio si sarebbe dovuto ritenere ancora in vigore, in quanto Carlo di Borbone con il manifesto del 1753 aveva conservato alla Nazione i suoi privilegi, ricevendone in cambio il giuramento di fedeltà e con l’atto di cessione del 5 ottobre 1759, aveva trasmesso al suo figlio Ferdinando IV l’obbligo di osservare quei privilegi.

Pertanto, quando il Re si era allontanato da Napoli, la nomina del Vicario venne ritenuta come abuso regio contro i diritti della Città.

In effetti, la monarchia borbonica aveva perso l’antica fisionomia di monarchia feudale temperata dai privilegi per assumere quella di monarchia assoluta, perciò le pretese della Città, più che dirette a restaurare un diritto esistente, erano sembrate che dessero adito alla instaurazione di una sorta di repubblica aristocratica (v. Maturi W., Il Principe di Canosa, Firenze, 1944, 16 ss.)

(5) Merita di essere ricordata la memoria scritta a difesa del suo operato, in cui è evidente lo spirito polemista che caratterizza il suo stile e la cultura giuridica rafforzata nell’esercizio della professione di avvocato (a Napoli, li chiamavano e li chiamano tuttora “paglietta”) precedentemente svolta: “Non v’ha dubbio alcuno, che la lettera di dimissione scritta al signor Vicario Generale fu di vari giorni posteriore all’anarchia accaduta. Dunque la lettera fu scritta quando il potere civile non esisteva nelle mani del Vicario generale, anzi quando, cessato assolutamente tra tutti, era veramente Civitas dissoluta, … Dunque, il generale Pignatelli, nel momento in cui fu scritta la lettera, non era più nel fatto Vicario generale. Dunque con la lettera non se gli venne a togliere se non ciò che aveva col fatto già perduto. Dunque non venendo ad avere alcun affetto di fatto, non poteva averlo neanche di diritto” (riportata da Maturi W., Op. cit., 33).

(6) B. CROCE, Uomini e cose della vecchia Italia, Bari, 1927, 242.

(7) GIOBERTI V., Gesuita moderno, Losanna, 1846, II, 325.

(8) TOMMASEO N., Dell’Italia, I, cap. VII.

(9) MAZZIOTTI M., L’esilio di Pietro Colletta in Austria, in Nuova Antologia, 1° gennaio 1916, 4.

(10) VITALE S., Il Principe di Canosa e l’Epistola contro Pietro Colletta, Napoli, s.d., 8

(11) MAZZINI G., La Giovane Italia, Roma, 1902, 99.

(12) Storia del reame di Napoli (1734 – 1825), Capolago, 1834, I, 314: II, 16ss-; la colpa dell’adulterio si spiega forse perché dopo aver sposato donna Teresa Galluccio, dei duchi di Toro, aveva avuto relazioni con altre due donne che, però, si conclusero, appena il Canosa rimase libero, con regolare matrimonio: precisamente, la seconda moglie, Anna Orsellini, figlia di un cenciaio di Pisa, gli diede tre figli (due femmine ed uno maschio); alla morte di questa (31 dicembre 1836), sposò a Pesaro Teresa Gabellini di Roma, anch’essa di umili origini, alla quale era legato da precedente relazione.

(13) Scritti storici, II, Nota: Il sistema del Principe di Canosa, Bari, 1945, 121 ss.

(14) Op., cit., 244.

(15) Simile definizione era stata data a Metternich dal poeta austriaco Grillparzer, come vicorda Bagger E., Francesco Giuseppe, Milano, 1935, 22.

(16) Op. cit., 281.

(17) Un dottore in filosofia e un uomo di Stato, dialogo del Principe di Canosa sulla politica amalgamatrice, 1832, 15 seg.

(18) V. Epistola, cit., 133; per necessità economiche, fu in seguito costretto a disfarsi dei suoi libri (v. Maturi W., Il principe, cit., 146 n. 3).

(19) MATURI W., Op. cit., 136 n. 3.

(20) MATURI W., Op. cit., 155 seg..

(21) I Piffari di montagna ossia cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del principe di Canosa e sopra i Carbonari, 1820, 163.

(22) Si tratta di una lettera scritta dal Medici nel 1823, di cui dà notizia B. Croce, Uomini e cose, cit., 246. 12 P

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Borbone…no Borboni….chiedo scusa…mi è sfuggito

Posted by on Gen 22, 2019

Borbone…no Borboni….chiedo scusa…mi è sfuggito

Firenze, lì 12 giug…no 1884

“……Ferdinando IV e Maria Carolina seppero a Vienna i fatti della rivoluzione francese, e ritornarono in patria, ove le smodate passioni si svilupparono rapidamente.
Resistette il Re dalle cominciate riforme, e pensò invece a difendere i suoi Stati da’ suoi nemici esterni, e da quelli che congiuravano per dare il proprio paese in preda allo straniero.

Propose una lega tra Principi italiani e concludeva così la sua Nota:

“Il Re delle Due Sicilie, ultimo al pericolo, si offre primo a’ cimenti, e ricorda ai Principi italiani che la speranza di campar soli è stata sempre la rovina d’Italia.”

Egli fece il possibile per salvare l’Italia dall’invasione e dal saccheggio francese, eppure dicono che quello era il sovrano tiranno.
Quella saggia ed animosa proposta non ebbe effetto.

Il Re di Sardegna, che aveva aderito alla Lega, si mostrò pentito della data adesione, ed i suoi popoli furono i primi spogliati e fatti servi da’ rivolzionarii francesi.

Volle Ferdinando organizzare la difesa, ordinò nuove leve, assoldò Dalmati e Svizzeri, accrebbe i Reggimenti mercè molti volontarii di famiglie patrizie; mancando di Generali invitò forestieri, tra questi diversi Principi di casa Reale. Il Principe di Assia Philipstail si distinse molto.
Gli arsenali del Regno fabbricavano armi, nel deposito di Castel Nuovo si stabilì un deposito di 60 mila fucili. L’artiglieria fu accresciuta, le navi da guerra aumentate, epperò i settarii gridavano alla tirannia ed alla dissipazione del denaro dello Stato.

Il Re delle Due Sicilie non poteva lottare colla repubblica francese; non poteva che esserne la vittima.

Lasciato solo, e per non esporre Napoli ad esserne bombardata, dovette accettare l’ultimatum dell’ammiraglio La Touche, e permettere che le sue navi col pretesto di approvvigionarsi restassero a Napoli, dando i suoi Ufficiali consigli ed istruzioni per la rivolta.

Quella sanguinosa Repubblica francese, dopo di aver distrutto nella propria patria leggi, culti, proprietà e vita, si sparse per l’Europa, colle sue terribili legioni, avendola prima invasa colle folle dottrine, spargendo i semi di ribellioni. L’Italia fu la prima aggredita.
L’esercito francese, condotto dai generali Scherer, Massena, Kellerman, invase il Piemonte. Gli austriaci l’arrestarono per poco. Fu nelle battaglie di Montenotte, Millesimo, Dego e Mondavi che si rivelò il genio guerriero di Napoleone Bonaparte, che aveva dato già prova di sé all’assedio di Tolone.

Quell’uomo tanto fatale all’Italia ed all’Europa, dopo aver vinto gli Austro-Sardi, si avanzò terribile e baldanzoso nelle pianure Lombarde, saccheggiando ed incendiando villaggi e città.
Il Re delle Sicilie, vedendo approssimare il nemico, provvide alla difesa. Formò un campo nelle pianure di Sessa, spedì truppe in Lombardia, ed i nostri soldati di cavalleria si distinsero a Cotogno, sul ponte dell’Oglio a Villeggio. I francesi però si resero padroni di tutta l’alta Italia, obbligando l’esercito austriaco ad abbandonare la penisola.

Poté Francesco conchiudere, il 1° novembre, a Parigi, un trattato di pace, pagando alla Repubblica di Francia otto milioni di lire; fu però solo aggiornato l’invasione del Regno, mentre i francesi, accantonati nello Stato Pontificio, incitavano i popoli alla rivolta, facendo propaganda repubblicana, e centro di cospirazione il ministro francese di Gazot a Napoli.

Pretensioni e provocazioni incominciarono più apertamente a farsi strada, ed indussero Ferdinando ad uscire dalla neutralità che era per lui peggiore della guerra.
Si avanzò dunque alla testa di 50 mila uomini nello Stato Pontificio. Comandava l’esercito Napoletano il generale austriaco Mack, mostrando in quell’occasione quanto era usurpata la sua fama di valoroso.
Egli divise e suddivise quelle truppe, ed entrò in Roma gonfio di effimero trionfo, mentre il generale francese Championnet, dalla frontiera ove erasi ritirato, prendeva l’offensiva, profittava degli errori del Mack, e batteva i Napoletani divisi in piccole colonne.
Lo disfece presso Ancona, ed al 20 dicembre marciò con tutto l’esercito francese sul Regno di Napoli.

Le popolazioni in armi, gli fecero, accanita resistenza.
Il popolo ruppe ogni freno, ed il Re fu costretto dagli inglesi a lasciare Napoli e stabilirsi a Palermo, raccomandando al suo Vicario Generale, Principe Pignatelli Strangoli, di salvare la sua diletta Napoli a costo di qualunque sacrificio, sacrificio che anche più nobilmente fu rinnovato dopo sessant’anni dal suo pronipote Re Francesco la sera del 6 Settembre 1860.
La mattina del 22 dicembre 1798 il Re colla real famiglia s’imbarcò per Palermo sopra un vascello inglese comandato dall’ammiraglio Nelson. Per tre giorni la mancanza di vento lo trattene nel golfo di Napoli.

Il popolo mandò diverse deputazioni per farlo desistere dal viaggio, ma la politica inglese prevalse. Nella traversata sorse una tempesta che cagione di morte del piccolo Principe reale D. Alberto, il quale aveva appena 6 anni.

Feste e dimostrazioni di gioia accolsero il Re a Palermo, mentre a Napoli il popolo, esasperato per la partenza sua, si abbandonava alla più selvaggia anarchia, non bastando la pedante vanità del Pignatelli a mantenere l’ordine e la quiete.

Altro ostacolo non trovarono i francesi che le popolazioni in armi. Anche allora tradimenti, diserzioni e vigliaccheria di capi paralizzarono ogni difesa militare, restando solo le masse del popolo armate, per difendere l’indipendenza del Regno e l’onore della Nazione.

Gli abruzzesi specialmente fecero prodigi di valore ed avrebbero forse respinto da soli gli invasori, se il Pignatelli ed il Amck non avessero, l’11 gennaio del 1799, stabilito una tregua di due mesi, con patti vergognosi. Il popolo non volle accettarli. Il Vicario fuggì a Palermo. Il generale Championet marciò su Napoli.
E’ indescrivibile l’ira del popolo Napoletano a quella notizia. Tutti si armarono. Elessero a capo due uomini oscuri e animosi che andarono incontro ai nemici.

La plebe cominciava gli eccessi, ed il 31 gennaio 1799 popolani e lazzaroni corsero ai castelli, presero i più grossi cannoni, li trascinarono a Poggioreale, assalirono gli avamposti francesi, ma battuti, retrocessero.

Championet si avanzò a Capodimonte, ove avvenne altra mischia tra francesi e popolani. Malgrado i rovesci che le masse soffrivano, pure tenevano ancora la linea difesa. Numerosissime si trovarono a Porta Capuana, ove s’avanzava una forte divisione francese.

Il macello fu orrendo, e quei popolani che non avevano armi scagliavano pietre. I francesi furono respinti più volte, e sarebbero stati distrutti, se al valore avessero le masse aggiunto la prudenza. Furono ingannate da mosse strategiche, sbagliate al sopraggiungere di francesi rinforzi.

Sanguinosa pugna avveniva nella stessa città lungo la strada Foria, ed i popolani furono colà attaccati alle spalle da una turba di studenti. Molti lazzaroni furono fatti prigionieri, e vennero immediatamente fucilati.

Entrarono così i francesi a Napoli. Il generale scelse per sua residenza il palazzo di Angrè e proclamò aver liberato Napoletani dalla tirannide, minacciando esemplari castighi a chi non avesse quella libertà voluto accettare, e peggio a chi la avesse ostacolata.

Istituì lo Stato a Repubblica, e scimmiottando la Convenzione francese abolì il Calendario cristiano, incamerò i beni ecclesiastici, soppresse i Conventi, piantava alberi della libertà nelle pubbliche piazze, mandava Commissarii nelle provincie per estorcere denaro a qualunque costo, stabilì una tassa di guerra in 16 milioni di ducati; ma parendo troppo mite (!) quella dittatura, fu richiamato a Parigi dal Direttorio, e prima di giungere a Roma fu arrestato e condotto nella Cittadella di Torino, mandando a Napoli un Fraipoult per esigere da’ Napoletani nuove tasse ed altre spogliazioni.

Odiati gli invasori anche da quelli che in buona fede avevano aiutato la loro venuta, si giudicò opportuno operare un ardito colpo, e volendo restaurare il trono con armi popolari si decise il re Ferdinando a spedire il Cardinale Fabrizio Ruffo, che aveva seguito la Corte a Palermo, gli conferì il grado di Vicario Generale del Regno, assegnandogli solo 30 mila ducati ed un piccolo seguito, e quel coraggioso Cardinale, fidando nella giusta causa che difendeva, s’imbarcò per le Calabrie. Arrivò a Catona l’8 febbraio, e cominciò la difficile impresa con soli trecento contadini armati.

Ma, appena divulgatosi in Calabria il suo arrivo, torme di soldati gli si unirono, ed in poco tempo aveva a’ suoi ordini 17 mila uomini che si dissero dapprima esercito della Santa Fede, poi esercito cattolico.
Espose in un manifesto la missione ricevuta, esortando tutti ad armarsi per difendersi la causa del legittimo Sovrano e della Chiesa, per rivendicare la sua patria, le sostanze e l’onore napoletano oltraggiato. Vedutosi forte di armi e di armati, risoluto marciò sopra Monteleone, centro delle Calabrie, ove entrò il 1° marzo, restaurando il governo del Re.

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Ristorante che cucina “solo” piatti con ricette Borboniche „

Posted by on Gen 5, 2019

Ristorante che cucina “solo” piatti con ricette Borboniche „


„Nelle sue nuove cucine saranno preparati piatti raffinati recuperati dai ricettari dell’epoca dei Borbone scritti dai Monzù (così un tempo venivano definiti i grandi cuochi provenienti da Parigi per rendere gourmet la cucina popolare partenopea) e reinterpretati dallo chef Roberto Lepre“
Onde nasce il sapor delle vivande? “Chi sa l’indole, e la natura dell’uomo, con difficoltà, può definire onde nasce il sapor delle vivande. Tutto può accadere, e da tutto ciò può derivare, ma il più delle volte il sapor delle vivande nasce dalla facoltà naturale. Per intender questa, che io intendo verità, bisogna permettere che il corpo umano secondo sentimento e la struttura si avvicini a diverse sensazioni ed emozioni a capir che una vivanda sia eccellente per il suo gusto”.

“Il Cuoco Galante – Corrado ed. del 1793”  

Da premium bar a ristorante con un menù ispirati a ricettari dei fasti Borboni. L’Archivio Storico, locale sito in via Scarlatti 30 (Vomero) che dal 2013 caratterizza le serate dei napoletani abbinando ad ottimi vini e cocktail iniziative culturali ed eventi di spessore, non è più soltanto un premium bar ma diventa a tutti gli effetti un ristorante: nelle sue nuove cucine vengono preparati piatti raffinati recuperati dai ricettari dell’epoca dei Borbone – scritti dai Monzù (così un tempo venivano definiti i grandi cuochi provenienti da Parigi per rendere gourmet la cucina popolare partenopea) – e che oggi vengono preparati – e reinterpretati – dallo chef Marco Di Martino coadiuvato da una brigata d’eccezione. Un esempio è la Parmigiana di melanzane, la cui prima testimonianza storica è contenuta nel “Cuoco Galante” (1733) di Vincenzo Corrado (cuoco al servizio delle più importanti famiglie aristocratiche della Napoli del ‘700) – che secondo il ricettario veniva preparata con le melanzane o le zucchine fritte nello strutto e poi condite con parmigiano e burro, e infine ripassate in forno – nelle cucine dell’Archivio si trasforma in “Melanzane alla parmigiana in vasocottura”. Il Gattò, sformato di patate che fu introdotto nel Regno delle Due Sicilie grazie ai cuochi francesi chiamati nel Reame di Napoli dalla regina Maria Carolina in occasione delle proprie nozze (1768), diventa “Aria di patata al pepe Sichuan, fonduta di Provolone del Monaco, croccante di salame e briciole di pane raffermo”.  I “uermiculi aglio e uoglie” (ovvero gli “spaghetti aglio e olio), la cui ricetta fu descritta nel trattato “Cucina Teorico Pratica” di Ippolito Cavalcanti (1837), appellati anche come “Vermicelli alla Borbonica” perché
furono il piatto d’eccellenza per l’utilizzo della forchetta a quattro rebbi inventata dal ciambellano di Ferdinando IV di Borbone per raccogliere e gustare la pasta “aglio e uoglie”, sono reinterpretati da Roberto Lepre come “Spaghetti aglio, olio e peperoncino, battuto di dentice al limone e clorofilla di prezzemolo a velo”. Ancora, i Polipetti alla Luciana, un piatto di origini antichissime, così chiamato perché una volta i polpi erano pescati dai pescatori del Borgo Marinari di Santa Lucia e cucinati seguendo un procedimento molto particolare (ovvero venivano tagliati a pezzi grossolani e cotti lentamente nel loro liquido in una casseruola di terracotta, senza mai aggiungere acqua né aprire il coperchio), nel menù dell’Archivio si trasformano in “Moscardini alla Luciana, cracker croccante del suo nero su spuma di ceci di Cicerale”. Tra le proposte del ristorante non potevano ovviamente mancare altri piatti cult della cucina napoletana, come la genovese, il sartù, il soffritto e tanti altri. Un viaggio nella storia della cucina napoletana in cui il babà è protagonista indiscusso: il dolce che – non tutti sanno – affonda le sue radici in Polonia (il “babka ponczowa” era un dessert a lievitazione naturale), poi importato in Francia dallo zar polacco Stanislao Lesczynski lì in esilio – fu reinterpretato dai pasticceri parigini ed oggi presentato ai “commensali” dell’Archivio Storico in una nuova versione – arricchita con crema alla vaniglia bourbon e amarena – che prende il nome di “Lazzarone” (così come veniva appellato il re Ferdinando IV).  

L’Archivio Storico è un omaggio alla gloria della Napoli che fu – spiega Luca Iannuzzi, patron dell’Archivio Storico e Cavaliere di Merito del Sacro Militare ordine costantiniano di San Giorgio di Napoli -. Le cinque sale principali sono dedicate ai cinque Re delle Due Sicilie (Carlo, Ferdinando, Francesco I, Ferdinando II e Francesco II) e alle rispettive Regine. Ci sono immagini che rappresentano i momenti salienti della vita del Regno e una serie di ‘punti di vista’ (culturali, storici, antropologici e ora anche gastronomici) omessi dalla storiografia negli ultimi 150 anni”.

fonte read:http://www.napolitoday.it/cucina/ristorante-ricette-borboniche-archivio-storico-vomero.html?fbclid=IwAR07a6smx7TVXehdXPDcylIEGTbCwwcooNwVLCAMd388OZP68MB3zyg-XGY




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La canzone napoletana dal 1799 al 1887

Posted by on Dic 26, 2018

La canzone napoletana dal 1799 al 1887

Per lungo tempo, il repertorio tutt’oggi conosciuto col nome di “canzone napoletana”, ha mescolato forme di epoche differenti, rendendo comunque possibile ai giorni nostri la sopravvivenza di canzoni anche molto antiche, rivisitate dai cantanti di “genere”. La ricerca sulle tradizioni popolari degli anni 60 e 70 ha cercato di dimenticare il retaggio ottocentesco (da salotto), ignorando però come proprio esso abbia contribuito a tramandare per iscritto molte delle preziose canzoni di cui questa incisione si occupa.
A parte pochi casi, sono qui presenti composizioni di fonte scritta frutto di quel fermento tutto napoletano legato alla editoria musicale, che ebbe inizio con i francesi Girard e Cottrau e che si amplificò, lungo tutto l’ottocento, sino ad arrivare ai noti Bideri e Ricordi.
Simbolo forse di una transizione storica, questo cd percorre un secolo di canzone napoletana; dalla fine del settecento agli ultimi anni del ottocento. La scelta è volutamente circostanziata da fatti e documenti che testimoniano la nascita e lo sviluppo di un genere tutto partenopeo che, dall’anonima arietta Si tu nenna, ci porta sino ai monumenti della poesia in musica dell’ultimo quarto dell’ottocento di cui Di Giacomo e Costa sono di certo i più alti rappresentanti.
Si diceva quindi dell’importanza dell’editoria musicale a Napoli; essa contribuì nettamente dapprima alla riscoperta e messa alle stampe di un repertorio prettamente orale e poi allo sviluppo della canzone d’autore. A Bernard Girard e Guillaume Cottrau (entrambi francesi) si deve lo sforzo di tramandare reperti musicali di origine popolare che, attraverso le loro mani, si trasformarono in arie da salotto e divenenendo la base di un genere canzonettistico che avrà un respiro internazionale. Sono qui presenti diversi esempi tratti dall’edizione del 1824 e 1825 raccolte nei “Passatempi Musicali” pubblicati proprio a Napoli. Le canzonette e le calascionate qui proposte partono dall’arrangiamento armonico suggerito da Cottrau nella parte per pianoforte e sono rielaborate secondo un criterio più consono allo strumento di accompagnamento scelto, in questo caso la chitarra.
I brani selezoinati sono: Tu m’aie prummise, Cannetella, Fenesta vascia, La Fattura e Né né Guè Guè trabotta. Certamente molto più antichi dell’epoca in cui vennero pubblicati, sono il punto di contatto con la tradizione popolare sebbene qui rispecchino già uno stile più romantico.
Il caso di Si tu nenna è interessante: probabilmente un’arietta del teatro buffo, è riconducibile alla fine del settecento; il canto era conosciuto anche con un primo verso parodistico che recitava: Carulì si m’amave n’aut’anno. Sarebbe riconducibile quindi ai moti rivoluzionari napoletani (1799) e con un primo verso riferito a Maria Carolina di Borbone. La versione viene proposta tiene presente della grande popolarità che il canto ottenne nell’ottocento, testimoniata anche dalle variazioni per chitarra scritte a Mauro Giuliani (1781 – 1829) su questa canzone.
Certamente al teatro musicale napoletano si deve la nascita di alcune ariette che divennero veri successi; è il caso di Palommella, che è ciò che resta dell’opera Molinarella di Nicola Piccinni rappresentata a Napoli nel 1766. Questa aria, cantata dal personaggio “Brunetta”, rimase nell’orecchio ai napoletani al punto che, Domenico Bolognese a metà del secolo successivo darà alla luce una personale rielaborazione che, per noi, resta l’unico reperto scritto di questa canzone.
Lo stesso si potrebbe pensare della breve aria La nova gelosia che ha per noi un interesse dovuto anche alla tematica della finestra che avrà un suo filone nelle serenate ottocentesche (si veda Fenesta vascia, Fenesta ca lucive).
Tra i brani forse più importanti della prima metà dell’ottocento troviamo Te voglio bene assaje; è certamente la prima canzone d’autore del repertorio napoletano dell’ottocento. Conosciamo il creatore dei versi, l’ottico Raffaele Sacco, meno sappiamo del compositore musicale (si pensa a Gaetano Donizetti?). Con questa canzone scritta nel 1835 si apre la napoletanissima tradizione di presentare il 7 settembre, durante la festa della Madonna di Piedigrotta, nuove canzoni scritte durante l’anno. È il caso di questo brano che ebbe una notorietà incredibile e che suscitò addirittura polemiche sui quotidiani dell’epoca al suono di sferzanti litigi tra sostenitori e polemici critici verso l’esasperante notorietà del canto. Fu stampato un foglietto in cui un anonimo gentiluomo scrisse: per ogni strada o vicolo – quel canto mi sgomenta – e, caso tremendo, insopportabil è. – Giovani, vecchi, bamboli – ognun convien che abbai: – Te voglio bene assai – e tu non pensi a me.
Ma la celebrità del caso che giunse fino nelle stanze dell’alto clero contribuì alla sua fama al punto che ne nacque una versione con testo religioso dal titolo: L’uomo e Dio. Il successo di questa canzone fruttò una discreta fortuna anche all’editore, si dice che ne furono stampate oltre 170.000 copie.
Di certo con questa canzone ha inizio la scalata e la nascita di talenti noti e osannati dal popolino e dalla borghesia; assume un ruolo di prestigio la figura dell’autore – poeta a cui si accostano i compositori musicali che da Teodoro Cottrau a Raffaele Costa contribuirno ai grandi successi di questo genere musicale.
Quando, nel 1849, morì Guillaume Cottrau era già in piedi una casa editrice di questa famiglia che passò nelle mani del figlio Teodoro (“il francese di Mergellina”); questi fu attivo editore a al tempo stesso compositore, diede vita al periodico L’eco del Vesuvio che restò in vita fino al 1870. A lui si deve una notissima canzone ancor oggi conosciuta in tutto il mondo: Santa Lucia; pubblicata nel 1850, tutt’oggi riecheggia nei carillon venduti a Napoli. La melodia prende forse spunto dall’aria Com’è bello, quale incanto dalla Lucrezia Borgia di Donizetti. La versione proposta è quella con i versi originali in lingua napoletana che però all’epoca vennero presto sostituiti da quelli in italiano di Enrico Cossovich con cui oggi è ancora conosciuta la canzone.
Si arriva così a toccare il più famoso dei poeti napoletani: Salvatore Di Giacomo (1860 – 1934); autore che insieme al compositore Mario Costa meriterebbe un volume a se, viene qui ricordato con due canzoni che sono pietre fondamentali del repertorio di ogni cantante che si rispetti. Era di Maggio uscita per la Società Musicale Napoletana nel 1885 sarà un clamoroso successo che forse contribuì a dimenticare la drammatica epidemia di colera che aveva afflitto la città un anno prima. Il caso invece de La luna nova scritta nel 1887 dimostra la passione del pubblico napoletano verso quest’autore; infatti questa canzone inserita in una rappresentazione del 1887 voluta dall’impresario Persico per il teatro La Fenice, fu l’unico brano che si salvò dai fischi del pubblico accorso alla prima di quella disastrosa piece. Questa canzone uscì per i tipi della Società Musicale Napoletana divenendo la canzone preferita di Papa Leone XIII che spesso la fece suonare in Vaticano. Nell’affrontare una incisione di canzoni napoletane ci si è posti come traguardo quello di un certo rigore filologico, sia nel canto che nell’esecuzione delle armonie. La scelta della chitarra come unico strumento di accompagnamento vuole essere un omaggio ad un tipico esecutore del repertorio del passato: il posteggiatore, capace di cantare accompaganndosi alla chitarra. La scelta degli strumenti d’epoca ci aiuta a riportare in vita il suono del tempo, con un tipo di prassi di desunta dai compositori per chitarra del primo ottocento, tra tutti il pugliese Giuliani e il napoletano Ferdinando Carulli (1770 – 1841), di cui sono presenti alcune composizioni per strumento solo. Non di meno la scelta di introdurre o interpolare le canzoni con brani per chitarra di questi autori offre la possibilità di far ascoltare preludi o variazioni altrimenti de-contestualizzate in un lavoro esclusivamente chitarristico. Il tutto è stato eseguito su strumenti originali* e con tecnica in stile (ad esempio l’uso del mignolo della mano destra appoggiato sul piano armonico come in uso per la chitarra barocca).

fonte http://www.stefanoalbarello.com/Echo%20del%20Vesuvio.htm

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