Posted by altaterradilavoro on Apr 23, 2019
Ai tempi di Tacito, l’ignoranza popolare non conosceva e non comprendeva i riti cristiani, come quello battesimale ed eucaristico. È facile comprendere come la comunione venisse intesa come antropofagia. Lo storico latino, nei suoi Annales, sembra farsi promotore di queste accuse infamanti.
Negli Annales Tacito apre differenti ipotesi sui motivi dell’incendio di Roma, la più insistente delle quali chiama in causa l’imperatore stesso, Nerone, accusato di voler costruire una nuova città e uno splendido palazzo: la Domus aurea. Per questa ragione, “per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani” (Annales XV, 44).
Le nefandezze di cui scrive Tacito, in latino indicate con flagitia ovvero crimini, misfatti, scelleratezze, riguardano l’accusa di infanticidio, di cannibalismo, di promiscuità sessuale. L’ignoranza popolare non conosceva e non comprendeva i riti cristiani, come quello battesimale ed eucaristico. È facile comprendere come la comunione venisse intesa come antropofagia. Tacito sembra farsi promotore di queste accuse infamanti, non verificate e non esplicitate expressis verbis nel testo.
Il capitolo 44 del XV libro degli Annales diventa un’importantissima fonte storica per documentare la diffusione del cristianesimo, una fonte pagana, di un autore chiaramente ostile alla nuova religione, che attesta che negli anni Sessanta del I secolo d. C. il cristianesimo era già molto diffuso a Roma. Tacito spiega anche l’origine di quella nuova superstitio chiarendo la sua diffusione con precisione storica e geografica:
Origine di questo nome (ovvero cristiani) era Cristo, il quale sotto l’impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso (Annales XV, 44).
Il cristianesimo è definito exitiabilis superstitio, perché considerato mortifero e pernicioso per il mos maiorum romano, per le tradizioni, per i culti, i sacrifici, il pantheon politeistico. A Roma approdavano tutti i nuovi culti orientali, esoterici e misterici. Superstitio è oramai un termine che si oppone alla religio e che indica quei culti stranieri che non hanno ottenuto un riconoscimento pubblico a Roma. Scrive, infatti, Cicerone nel De legibus, rifacendosi a prescrizioni antiche attribuite addirittura all’età monarchica:
Si accostino castamente agli dei, facciano uso della pietà, allontanino lo sfarzo. Se qualcuno agisse in maniera diversa, dio stesso lo punirà. – Nessuno abbia dei particolari, né nuovi né forestieri, se non pubblicamente riconosciuti; in privato coltivino i [culti che ricevettero] secondo il rito dei loro padri. – Vi siano templi [nelle città]; vi siano boschi sacri nelle campagne e sedi dei Lari. – Conservino i riti della famiglia e dei padri. – Onorino gli dei, sia quelli da sempre ritenuti celesti, sia quelli che i loro meriti abbiano posti in cielo, Ercole, Libero, Esculapio, Castoro, Polluce, Quirino, cosi quelle Virtù, per cui è concesso all’uomo l’ascesa al cielo, Mente, Valore, Pietà filiale, Fede, e di queste virtù vi siano templi, nemmeno un’ombra dei vizi. – Celebrino solenni sacrifici.
Per questo il cristianesimo è accomunato ad altre religioni orientali, smodate ed esagerate. L’imperatore Nerone decide di infierire contro i cristiani additandoli come colpevoli e sottoponendoli a pene crudeli e ricercatissime:
Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l’accusa dell’incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio (Annales XV, 44).
I cristiani presenti a Roma e condannati rappresentavano già un’ingens multitudo. Il risultato ottenuto dall’imperatore con le persecuzioni fu, però, opposto, perché la crudeltà e l’esasperazione dei castighi suscitarono la compassione del popolo:
Benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo (Annales XV, 44).
Nel contempo, la testimonianza di molti cristiani che andavano incontro alla morte certi dell’eternità e della misericordia divina divenne strumento di conversione di un numero sempre crescente di Romani. Come avrebbe scritto più tardi Tertulliano nell’Apologeticum: «Il sangue (dei martiri) è il seme dei cristiani».
Tacito espresse un giudizio negativo sui cristiani, accomunati agli Ebrei: entrambi, cristiani ed Ebrei, erano così attaccati ai loro ideali, ai loro principi e alla loro fede che non potevano essere romanizzati. Vedremo nelle Historiae l’ostilità che proprio per questa ragione Tacito riservò alla terra di Giudea e agli Ebrei. Ebrei e cristiani credevano in un Dio unico. Per Tacito erano popolazioni o gruppi difficilmente distinguibili, nocivi per la cultura romana e per la religione, non assimilabili al popolo romano.
Giovanni Fighera
fonte http://lanuovabq.it/it/tacito-e-le-prime-fonti-storiche-pagane-sui-cristiani
Read More
Posted by altaterradilavoro on Apr 18, 2019
Nel XV libro degli Annales Tacito descrive l’incendio che scoppiò tra il 18 e il 19 luglio del 64 d. C. a partire dal Circo Massimo e che si diffuse poi per la città provocando migliaia di vittime. Le voci diffuse sostenevano che Nerone «cercasse la gloria di fondare una nuova città». L’imperatore fece allora ricadere la colpa sui cristiani, dando il la alle prime grandi persecuzioni
Nel XV libro degli Annales Tacito descrive l’incendio che scoppiò tra il 18 e il 19 luglio del 64 d. C. a partire dal Circo Massimo e che si diffuse poi per la città provocando migliaia di vittime, distruggendo tre quartieri e danneggiandone altri sette. Solo quattro rimasero intatti. Fu una delle catastrofi peggiori mai accadute a Roma, come Tacito dichiara da subito:
Seguì una catastrofe, per caso o per dolo del principe è incerto (infatti, gli autori tramandano l’uno e l’altro), ma di tutti quelli che sono accaduti all’Urbe per violenza del fuoco il più grave e crudele. Ebbe inizio in quella zona del circo che è contigua ai monti Palatino e Celio dove il fuoco, subito scoppiato attraverso le botteghe artigiane nelle quali vi era merce che la fiamma alimenta, e subito forte e spinto dal vento rapidamente avvolse tutto il perimetro del circo (Annales XV, 38).
Emerge la prassi storiografica di Tacito che tende a riportare tutti i rumores e le voces, quelli più accreditati, ma anche quelli meno credibili. Lo storico sembra non escludere nessuna opinione, anche se la lettura attenta del testo ci fa intuire l’ipotesi più accreditata per lo scrittore. La precisione del racconto specifica i luoghi in cui si è diffuso l’incendio e le ragioni che hanno provocato lo scatenarsi delle fiamme. Il testo latino sottolinea in modo icastico («per violentiam», «corripuit», etc.) la furia devastante dell’incendio.
Brevitas espressiva, estrema sintesi ed inconcinnitas (assenza di armonia ed equilibrio nel periodo)delineano la rapidità della diffusione del fuoco che si espande rapidamente perché i palazzi o i templi non erano delimitati da muri o da recinzioni. Lo storico descrive il panico che si crea in città: una moltitudine di donne atterrite, di vecchi stanchi e di bambini smarriti.
Non c’era scampo per nessuno, perché ovunque si fuggisse si trovavano luoghi «in preda alle fiamme, e anche i posti che credevano lontani risultavano immersi nella stessa rovina». I cittadini scappavano in direzioni diverse, cercavano rifugio nei campi. Molti preferivano morire o perché avevano perso tutti i beni o perché erano ormai scomparsi tutti i cari.
Tacito ci offre a questo punto un indizio sul carattere doloso delle fiamme:
Nessuno osava lottare contro le fiamme per le ripetute minacce di molti che impedivano di spegnerle, e perché altri appiccavano apertamente il fuoco, gridando che questo era l’ordine ricevuto, sia per potere rapinare con maggiore libertà, sia che quell’ordine fosse reale (Annales XV, 38).
L’imperatore non si trovava in quei giorni a Roma, ma ad Anzio, e rientrò nella capitale solo alla notizia che le fiamme si stavano avvicinando alla sua residenza. Il Palazzo imperiale venne distrutto. La lontananza di Nerone potrebbe rappresentare in realtà un alibi costruito ad arte dall’imperatore.
Nerone si mostrò generoso e disponibile ad aiutare la popolazione aprendo il Campo Marzio, i monumenti di Agrippae i suoi giardini per accogliere gli indigenti e i senzacasa. Fece anche costruire delle baracche per ospitare i bisognosi. Dai comuni vicini arrivarono beni di prima necessità. Il prezzo del frumento fu abbassato.
Tacito lascia intendere che l’imperatore abbia volutamente preso provvedimenti favorevoli al popolo per accattivarsi la sua simpatia. L’obiettivo non venne raggiunto perché
era circolata la voce che, nel momento in cui Roma era in preda alle fiamme, Nerone fosse salito sul palcoscenico del Palazzo a cantare la caduta di Troia, raffigurando in quell’antica sciagura il disastro attuale (Annales XV, 39).
L’incendio si protrasse dal 18 fino al 23 luglio quando venne domato alle pendici dell’Esquilino. Ma il giorno dopo scoppiò di nuovo suscitando «commenti ancora più aspri, perché era scoppiato nei giardini Emiliani, proprietà di Tigellino», il famigerato prefetto del pretorio. Le voci diffuse sostenevano che Nerone «cercasse la gloria di fondare una nuova città». Molte opere d’arte e letterarie andarono distrutte nell’incendio. Nerone ne approfittò per costruirsi una dimora, la Domus aurea
in cui destassero meraviglia non tanto le pietre preziose e l’oro, di normale impiego anche prima, in uno sfoggio generalizzato, quanto prati e laghetti e, a imitazione di una natura selvaggia, da una parte boschi, dall’altra distese apriche e vedute panoramiche, il tutto opera di due architetti, Severo e Celere, che avevano avuto l’audacia intellettuale di creare con l’artificio ciò che la natura aveva negato, sperperando le risorse del principe. Avevano, infatti, promesso di scavare un canale navigabile dal lago Averno fino alle foci del Tevere, attraverso spiagge desolate e l’ostacolo dei monti (Annales XV, 42).
Dopo l’incendio si ricorse a riti propiziatori e alla consultazione dei riti sibillini, in seguito alla quale «si tennero pubbliche preghiere a Vulcano, a Cerere e a Proserpina, e cerimonie propiziatorie a Giunone».
Nulla riuscì, però, ad allontanare il sospetto che l’incendio fosse stato comandato. Fu allora, racconta Tacito, che Nerone indicò come colpevoli dell’incendio i cristiani. Iniziarono così le prime grandi persecuzioni.
Svetonio propende per la colpevolezza di Nerone nel De vita Caesarum nel capitolo dedicato all’imperatore in cui scrive che il principe, come infastidito dallo squallore degli edifici e dalla ristrettezza dei vicoli, incendiò la città. Svetonio afferma senza ombra di dubbio che gli incendiari furono i servi di Nerone, che cantava la caduta di Troia addirittura in abiti di scena. Anche Cassio Dione nella Storia di Roma (III secolo), giuntaci solo attraverso epitomi, attribuisce a Nerone la responsabilità dell’incendio.
Giovanni Fighera
fonte http://lanuovabq.it/it/lincendio-di-roma-e-la-responsabilita-di-nerone
Read More
Posted by altaterradilavoro on Apr 4, 2019
Dies
Veneris. Hora Tertia. Baiae, domus di Gellia…
Particolare cura all’acconciatura dedicano le donne romane che, se ricche, hanno in casa la ornatrix, una serva addetta a tale
compito. I capelli sono in genere raccolti sulla nuca, in una crocchia che
copre il coculum (reticella); il resto dei capelli può essere arricciato e
lasciato cadere sulla fronte. Le donne devono comparire in pubblico col capo
velato da vittae (scialli o veli) o con i capelli raccolti in un reticello.
Le matrone portano una particolare acconciatura che
le distingue: è il tutulus, ovvero un insieme di bende intrecciate a forma di
cono attorno al capo per trattenere i capelli. Si usano anche voluminose
parrucche o trecce posticce e tinture; per esempio: il biondo si ottiene con il
sapo, ovvero sego (grasso) di capra e cenere di faggio.
Nel triclinio estivo della sua villa di Baiae…
Gellia è stata per due ore a depilarsi le gambe.
Vuole apparire bella e desiderabile. La depilazione è stata lunga, soprattutto
dolorosa. Cornelia, la serva, ha usato la pinzetta e la cera di resina e pesce,
bruciando i peli più tenaci con noci arroventate. Ora la pelle delle sue gambe
bianche, lunghe e affusolate, si è chiazzata di rosso intenso, brucia e avverte
un prurito insopportabile.
“Dell’acqua, Cornelia! Uh, ohi ohi! Dammi quelle
vesti…Ahi! Portami lo specchio e dell’acqua fredda. Anzi, freddissima!”
chiede isterica, urlando dal dolore.
Per truccarsi alla greca, anche lei si è cosparsa
il viso e le braccia di cerussa*, preparata con carbonato di piombo. Mette da
parte la fuliggine e sceglie l’antimonio per il contorno degli occhi dal colore
del mare, mentre usa il cinabro per le gote e le labbra già belle e
conturbanti, morbide e carnose, delicate e armoniose. Già così è una meraviglia
di donna, ma oggi intende fare colpo con un abbigliamento adatto all’occasione.
Lei sa bene che ancor più dell’acconciatura è
l’abbigliamento il vero segno distintivo della sua appartenenza sociale; gli
accessori stessi non sono puramente ornamentali, ma indicativi di ruolo, età e
rango sociale.
In un lontano passato, il buon vecchio Ovidio
affermò: “Le donne hanno tante maniere di acconciarsi più numerose delle
ghiande di una quercia”.
Finalmente, grazie alla frizione leggera praticata
sulle gambe con acqua adeguatamente fredda, ora può indossare lo strophium (una
fascia pectoralis, una specie di reggiseno) e il subligar (una sorta di perizoma
annodato alla vita). Alla hora quarta (dalle 9,00 alle 10,00) si va alle terme
Posidiane, e non intende sfigurare. Come tutte le giovani nobildonne, anche
Gellia è molta attenta non solo all’abbigliamento, ma pure ai colori; per cui
se c’è un colore di certo c’è un abbinamento, magari a una cintura, oppure ad
un gioiello con pietre dure colorate.
Di particolare bellezza e raffinatezza sono i
crotalia d’oro (orecchini) a tre pendenti di perle, le periscelides
(cavigliere), gli aghi crinali e le collane (monilia, catenae), e poi le
armillae (bracciali). Insomma, a farla breve, Gellia è tutta un provocante
scintillio.
Per modellare la tunica di lino usa un cingulum,
una cintura di stoffa, decorata con borchie dorate e pietre dure. Un giro e un
altro ancora e il malizioso gioco è fatto: l’uno incrociato sui seni mettendoli
in evidenza, l’altro intorno alla vita. Ora il suo seno già prosperoso sembra
esondare dalla stola, come avviene per il biondo Tiberino in giornate di piena.
“Come sto? Ti sembro bella?” chiede a Cornelia.
Soprattutto allo specchio.
“Sei bellissima, mia signora. Non ci sarà sguardo
maschile che non ricadrà su di te!”
Lucilla, la ornatrix, ha fatto davvero un gran bel
lavoro.
Rinfrancata, Gellia dà un ultimo ritocco ai
capelli, poi applica una buona quantità di Rhodinum* su collo e braccia ed esce
dal triclinio, accompagnandosi alla sua fedele serva.
La grande sala da pranzo è tutta affrescata da
tabulae coloratissime, con colonne in primo piano su un alto podio e colonnati
in secondo piano nella consueta fuga prospettica. Sulla parete che guarda a
Misenum, sull’architrave dell’edicola centrale domina una maschera teatrale,
con due bellissime anfore d’argento ai lati. Sull’altra, invece, si notano vari
elementi decorativi che danno prova dell’abilità dell’artista e della sua
capacità di rappresentare la natura con straordinario realismo: una coppa in
vetro con le melagrane, un cesto di frutta coperto da un leggero velo
trasparente, alcuni grappoli d’uva, una scena di caccia, e poi un fagiano al
centro di un vassoio poggiato su un piccolo treppiede, con ai lati menadi
danzanti come spiritelli, amorini giocosi e cacciatori, centauri e ninfe.
Continua….
* Cerussa: antico nome del colorante bianco, oggi
detto comunemente biacca o bianco di piombo;
* Proveniente dalla Persia, il Rhodinum – Profumo
alle rose dell’isola di Rodi – era composto da questi elementi basici: rosa,
onfacio, zafferano, calamo, miele, giunco, fior di sale o ancusa, vino e
cinabro.
Ph. Juan Giménez Martín: Un momento di vita quotidiana
e tolettatura nell’antica Roma, con una matrona romana intenta a farsi
acconciare i capelli da una schiava.
Ciro Amoroso
Read More
Posted by altaterradilavoro on Mar 14, 2019
L’antica città di Sinuessa è venuta a trovarsi più volte nel pieno di una discussione storica che ancora non è stata definitivamente chiarita: è effettivamente esistito un episcopato sinuessano o si è trattato solo di una montatura storica? Molti sono stati gli studiosi che hanno accolto la tesi dell’esistenza di una diocesi a Sinuessa, altri studiosi l’hanno caldamente respinta. Ma andiamo per gradi.
Furono forse gli onnipresenti Pelasgi a fondare l’ antica Sinope, più tardi divenuta colonia romana col nome di Sinuessa. Secondo lo storico greco Strabone, la città fu fondata da coloni provenienti dalla Tessaglia, gli Aminei, che la chiamarono Sinope per la molle sinuosità della costa su cui sorse e che per primi iniziarono la coltivazione della vite e che più tardi rese celebre il vino Falerno. Nel 296 a.C. arrivarono i romani e ne fecero una colonia marittima, gemella della vicina Minturnae, e ne cambiarono il nome in Sinuessa, dal nome della nutrice di Nettuno, Sinoessa.
La funzione principale della colonia era quella di controllo del territorio e di difesa dagli attacchi dei Sanniti, ma l’ ubicazione sulla via Appia, il porto e le salutari acque sulfuree fecero sì che essa diventasse ben presto città di supremazia commerciale dell’ area e luogo di villeggiatura del patriziato romano.
A
Sinuessa affluivano tutte produzioni della Campania settentrionale per essere
ridistribuite altrove. Vi affluiva soprattutto la produzione vinicola del
Falerno per essere esportata verso la capitale.
Light
Secondo Nugnes, qui morì l’imperatore Claudio, e non a Roma come comunemente si crede, avvelenato dalla consorte Agrippina che volle così assicurare l’impero a Nerone, suo figlio di primo letto. Nel 69 d.C. vi morì anche il feroce Tigellino, ministro di Nerone.
L’abbandono di Sinuessa non fu un fenomeno rapido, ma un fenomeno che richiese del tempo e a cui contribuirono diverse concause. Una di queste fu senz’altro un aggiramento della via Appia a favore di Suessa Aurunca che fece perdere a Sinuessa la sua posizione di supremazia commerciale e ne favorì l’abbandono. A questa causa economica vanno aggiunti i notevoli fenomeni di bradisismo che interessavano la zona e che dimezzarono di molto l’attività commerciale, ma anche i continui assalti delle feroci bande barbariche che ormai scorrazzavano lungo la penisola. La città fu probabilmente abbandonata definitivamente verso la fine del V sec. a causa delle strutture portuali rese inutilizzabili dall’insabbiamento (Eliodoro Savino).
Tra i ruderi della città, nei secoli passati fu scoperta una lapide marmorea con un epigramma in greco attribuito al poeta Pompeo Teofane Giuniore e tradotto in latino dall’ Abate Ottaviani:
Litoribus finitimam Sinuessanis Venerem
Hospes, rursus pelago cerne egredientem.
Templa mihi collucent per Eonem, quan olim sinu
Drusi, et uxoris enutrivit delicium domus.
Morum vero suadela, et desiderium abstraxit illius
Totus locus hilari aptus laetitiae,
Bacchi enim sedibus me contubernalem coronavit,
Ad me calicum tumorem attrahens.
Fontes vero circa pedem scatent lavacrorum,
Quos meus filius urit cum igne natans.
Ne me frustra, hostites, praetereatis vicinam
Mari, et Nymphis Venerem, et Baccho.
Eone, ancella o liberta di Druso ed Antonia, eresse un tempio a Venere per mettere sotto la sua protezione i commerci che in questa città aveva, tra cui terme ed alberghi, e invita gli ospiti ad onorare, con Ciprigna e Bacco, le Ninfe della salute di queste acque sinuessane. La statua della Venere posta nel tempio rappresentava la dea che emergeva dalle acque e perciò fu detta Anadiomene, o marina.
Come ben sappiamo, la Venere di cui parla l’epigramma, fu rinvenuta nel 1911 duranti dei lavori di sterro. Dopo una breve sosta al Museo Civico Archeologico “Biagio Greco” di Mondragone, ora è conservata al Museo Archeologico di Napoli.
Non si sa molto dell’evoluzione che la
colonia subì dopo il periodo romano. Molti studiosi ci raccontano alcuni
avvenimenti legati ad una supposta diocesi di Sinuessa, basandosi su documenti
che probabilmente sono dei falsi medioevali, come disserta il nostro Ugo Zannini in un suo studio molto interessante.
Lo studioso del XVII secolo Cesare Baronio, nei suoi Annali Ecclesiastici, è molto minuzioso nell’esporre le vicende legate a Marcellino papa, avvenute durante la feroce persecuzione di Diocleziano contro i cristiani.
Il Baronio ci dice che all’anno 303 di Diocleziano
sono datati gli atti di un concilio fatto a Sinuessa contro papa Marcellino I,
accusato da due presbiteri e un diacono di aver incensato agli dei pagani così
come imposto da un editto dell’imperatore. Il concilio si svolse nella Grotta
di Cleopatra, nei pressi di Sinuessa, perchè tutte le chiese cristiane
erano state distrutte e bruciate per ordine imperiale. Nella grotta si
radunarono 300 vescovi, cinquanta per volta al giorno, secondo la capienza del
luogo. In un primo tempo Marcellino negò la sua colpa, ma poi fu costretto ad
ammetterla e chiese ai vescovi di giudicarlo. La risposta definitiva dei
vescovi riportata negli atti fu: prima sedes non iudicabitur a quoquam, la
prima sede non può essere giudicata da alcuno.
Gli atti terminano dicendo che Diocleziano, saputo di questo Concilio in cui si erano radunati 300 vescovi, trenta preti e tre diaconi della chiesa romana, ne fece martirizzare molti di loro.
Se si accoglie la tesi che questi documenti siano dei
falsi storici, allora sorge una domanda molto spontanea. Qual’era lo scopo di
queste falsificazioni documentarie? Cosa volevano provare?
Due sono le posizioni che circolavano tra gli
studiosi. La prima asseriva che furono i donatisti,
zelanti scismatici, il cui ideale era una chiesa che soffre e il totale
distacco del clero dalla politica, a confezionare la storia del
Concilio di Sinuessa al fine di sostenere il loro pensiero. La seconda tesi
riguardava l’affermazione dell’ infallibilità papale che non può e non deve
essere giudicata da alcuno di inferiore posizione.
Anche le notizie riguardanti i martiri della supposta
chiesa sinuessana e quella sessana, S. Casto e Secondino, potrebbero non
essere veritiere, ma studi specifici al riguardo ci chiariranno meglio le idee.
fonte http://carinolastoria.blogspot.com/2011/
Alcuni testi consultati
Joannes
Bollandus – Acta Sanctorum Maii – vol. 18 – Roma. 1866
Acta Sanctorum Martii – vol. 6 – ? -1668
Acta Sanctorum Julii – vol. I, Parigi, 1719
Arthur Paul – Romans in Northern
Campania – Rome, 1991
Baronio Cesare – Annali
ecclesiastici – vol. I, Roma, 1656
Citti Francesco – Orazio, invito a
Torquato – Bari, 1994
Corcia Nicola – Storia delle Due Sicilie dall’antichità più remota al
1789, vol 2 – Napoli, 1845
De Luca Giuseppe – L’Italia
meridionale o l’antico Reame delle Due Sicilie – Napoli, 1860
Giannone Pietro – Istoria civile
del Regno di Napoli – Italia, 1821
Odescalchi Carlo – Difesa della
causa di S. Marcellino I – Roma 1819
Romanelli Domenico – Antica
topografia istorica del Regno di Napoli – Napoli, 1818
Salzano Maestro – Corso di storia
ecclesiastica – Milano,
1856
Savino Eliodoro – La Campania
tardoantica – Bari, 2005
Vacca Salvatore – Prima sedes a
nemine iudicatur – Roma, 1993
Zaccaria Francesco A. – Raccolta
di dissertazioni di storia ecclesiastica – Vol II – Roma, 1840
Zannini Ugo – La scomparsa di
Sinuessa e l’invenzione del suo episcopato – in Rivista Storica del
Sannio 23 – Napoli, 2005
Read More
Posted by altaterradilavoro on Mag 24, 2018
Codice Vaticano Latino 8782
- 22
Dignum et necessarium est o proceres si quod de nobis et universi
regni nostri statu meritis non presumimus; a largitate divina gratia consecuta recepimus;
Read More