Questa rubrica – curata da Giovanni Maduli – ci racconta, attraverso scritti e testimonianze, la storia di un popolo – il popolo del Sud Italia – che si ribellava all’occupazione da parte dei piemontesi dopo la ‘presunta’ unificazione italiana. Sono testimonianza incredibili di un genocidio che ancora oggi viene tenuto nascosto. Oggi parliamo di come venivano trattati i ‘prigionieri’ a Rossano, in Calabria
Dal diario dell’ex garibaldino G. Ferrari:
“In quel paese (Rossano) vi erano carceri grandissime nelle quali rinchiudevano i manutengoli ed i conniventi dei briganti. Due o tre volte al mese giungevano colonne di persone state arrestate dalle pattuglie volanti nei paesi o nei casolari; eranvi anche donne scapigliate coi pargoli al petto, preti, frati, ragazzi vecchi, i quali tutti prima di passare nelle carceri, venivano ricoverati provvisoriamente nei locali vuoti del Quartiere su poca
paglia, piantonati da sentinelle, per essere poi interrogati al mattino successivo dal pretore, dal maresciallo e dal mio Capitano”.
“Queste colonne di venti o trenta persone ciascuna, la maggior parte pezzenti e macilenti, facevano compassione a chi aveva un po’ di cuore; li vedevo sofferenti per la fame, per la sete, per la stanchezza di un viaggio a piedi di 40 e 50 chilometri, venivano sferzati dai Carabinieri e dai soldati di scorta, se stentavano camminare per i dolori ai piedi, od anche se si fermavano per i bisogni che taluni si dimettevano il pensiero di fermarsi, e si insudiciavano per evitare bastonate, tutti questi incriminati, alcuni dei quali innocenti, e le donne specialmente, venivano slegati per conceder loro riposo, ma per compenso si torturavano coi ferri, detti pollici, che i carabinieri ed i Sergenti in specie stringevano fino a far uscire il sangue dalle unghie. Poteva io assistere a tali supplizi senza sentire pietà! Tosto allontanati i carnefici, io allentava loro i ferri colle mie chiavi, e quei disgraziati riconoscenti, piangevano, baciando i lembi della mia tunica, persino gli stivali. Prima dell’alba, li rimetteva al supplizio come erano stati lasciati. Scene poi da vera inquisizione succedevano dopo, allorquando venivano interrogati i rei nelle loro celle, io fungeva da segretario e da teste, il Capitano ed il Maresciallo dei carabinieri da giudici; questi volevano sapere il rifugio, il nascondiglio ed i nomi dei briganti che essi favorivano, ed alle loro risposte negative erano bastonate sulla testa che ricevevano da far grondar sangue”.
Eugenio De Simone, Atterrite queste popolazioni, Magenes Edizioni, pag. 23, 24.
Al Sud, gli eserciti piemontesi dei Savoia hanno compiuto un vero e proprio “genocidio”, migliaia di persone scomparse o costrette a subire la deportazione, .rastrellamenti, marce forzate, torture e fucilazioni senza processi ai cosiddetti “briganti”, uomini armati, che si sono permessi di ribellarsi al nuovo ordine imposto da Torino. Il costo umano sofferto dai meridionali a causa della guerra di aggressione scatenata dai savoiardi fù molto alto. Lo storico Christopher Duggan, in “La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi”, pur mancando di dati recenti, ritiene che i morti sono oltre 150.000. Mentre per la Civiltà Cattolica, la rivista dei Gesuiti di allora, sono addirittura oltre un milione e forse non è un numero troppo azzardato! “Erano essere umani; stavano a casa loro. E questo divenne il loro delitto”. Oltre ai cosiddetti “briganti” che presero le armi, furono condannate le mogli, “come manutengole con complicità di primo grado. Fanciulle di 12 anni, figlie di briganti, avevano subito condanne di 10 o 15 anni”, lo scrive Franco Molfese, che ritrovò nella biblioteca della camera dei deputati, resti della relazione Massari sull’opposizione armata al Sud, spacciata per criminalità. Intanto con il procedere delle ricerche, “si è scoperto che il numero dei deportati civili al Nord fu incredibilmente maggiore di quanto si sapeva, e ancora si trovano insospettati archivi da cui emergono, a migliaia, le tracce di vite distrutte”. Peraltro da questi conti è esclusa la Sicilia, perchè era scandaloso ammettere che l’isola, la culla della rivoluzione, si ribellasse al regno sabaudo. Ancora oggi si ripete che in Sicilia è esistita solo una banda di briganti, invece non è così. Basta solo la rivolta del “Sette e mezzo” a Palermo nel 1866, ma non solo, tutte le altre città della Sicilia si sono ribellate al dispotismo piemontese. Ma la cosa più incredibile è che “non c’è mai stata nelle nostre università, una vera ricerca per sapere quanti furono i meridionali uccisi o fatti morire nella guerra condotta dall’esercito sabaudo contro la popolazione civile (quella con l’esercito borbonico, manco dichiarata, nonostante l’invasione di un Paese ufficialmente amico, finì in pochi mesi; l’altra, contro i cittadini disarmati, e formazioni sparse di ribelli, che durò per dieci anni)”. Da più di un secolo e mezzo, “gira un balletto di cifre più o meno attendibili sui ‘fucilati’ (bastava poco: un sospetto, una calunnia, le mire di un vicino sui tuoi beni, persino su tua moglie o tua figlia); o sui ‘briganti’, abbattuti come tali anche se militari che, con la divisa e le proprie armi, affrontavano da guerriglieri un invasore; o perchè contadini derubati delle terre demaniali[…]”. Poco si è scritto sulle deportazioni subite dai meridionali. Un garibaldino, un certo G. Ferrari, passato nell’esercito sabaudo come bersagliere, tornò in Calabria e scrisse un diario sui fatti che risalgono al 1868-69. Lo ha trovato a Novara nel 2015, il professore De Simone, autore di “Atterrite queste popolazioni”. Il diario si riferisce a Rossano, alle carceri grandissime, dove richiudevano i manutengoli ed i conniventi dei briganti. Queste persone, vecchi e lattanti costrette a spostarsi per 40-50 chilometri, bastonati, senza fermarsi neanche per i bisogni, “venivano sferzati dai carabinieri e dai soldati di scorta”. Qui il diario dell’ex garibaldino è molto preciso, e ci fornisce molti dettagli sulle torture subite da questi poveri cristi. Infatti i carcerieri piemontesi per estorcere informazioni sui briganti, torturavano a più non posso, comportandosi come dei veri e propri carnefici: “In quel paese (Rossano) vi erano carceri grandissime nelle quali rinchiudevano i manutengoli ed i conniventi dei briganti. Due o tre volte al mese giungevano colonne di persone state arrestate dalle pattuglie volanti nei paesi o nei casolari; eranvi anche donne scapigliate coi pargoli al petto, preti, frati, ragazzi vecchi, i quali tutti prima di passare nelle carceri, venivano ricoverati provvisoriamente nei locali vuoti del Quartiere su poca paglia, piantonati da sentinelle, per essere poi interrogati al mattino successivo dal pretore, dal maresciallo e dal mio Capitano”. “Queste colonne di venti o trenta persone ciascuna, la maggior parte pezzenti e macilenti, facevano compassione a chi aveva un po’ di cuore; li vedevo sofferenti per la fame, per la sete, per la stanchezza di un viaggio a piedi di 40 e 50 chilometri, venivano sferzati dai Carabinieri e dai soldati di scorta, se stentavano camminare per i dolori ai piedi, od anche se si fermavano per i bisogni che taluni si dimettevano il pensiero di fermarsi, e si insudiciavano per evitare bastonate, tutti questi incriminati, alcuni dei quali innocenti, e le donne specialmente, venivano slegati per conceder loro riposo, ma per compenso si torturavano coi ferri, detti pollici, che i carabinieri ed i Sergenti in specie stringevano fino a far uscire il sangue dalle unghie. Poteva io assistere a tali supplizi senza sentire pietà! Tosto allontanati i carnefici, io allentava loro i ferri colle mie chiavi, e quei disgraziati riconoscenti, piangevano, baciando i lembi della mia tunica, persino gli stivali. Prima dell’alba, li rimetteva al supplizio come erano stati lasciati. Scene poi da vera inquisizione succedevano dopo, allorquando venivano interrogati i rei nelle loro celle, io fungeva da segretario e da teste, il Capitano ed il Maresciallo dei carabinieri da giudici; questi volevano sapere il rifugio, il nascondiglio ed i nomi dei briganti che essi favorivano, ed alle loro risposte negative erano bastonate sulla testa che ricevevano da far grondar sangue”. Ci fù un piano coordinato per distruggere il Regno delle Due Sicilie dove la Gran Bretagna ha complottato per abbattere il Regno Duosiciliano, sul quale poi si è innestato il piano dei Savoia, “con la lunga opera di corruzione di ministri e alti ufficiali dell’esercito e della Marina napoletani; le trame di Cavour con la Francia; gli accordi con la malavita siciliana, la rete massoniche e liberale allertata per l’insurrezione e l’appoggio ai garibaldini e all’esercito piemontese; le collette dei massoni stranieri per amare la spedizione di don Peppino, rimpolpata da migliaia di ‘disertori’ sabaudi e mercenari di mezzo mondo, e assistiti dalla flotta britannica […]”. L’economia napoletana venne demolita e da allora non si è più ripresa. Chiuse le grandi fabbriche, rubate e spostate al Nord i vari macchinari, stessa cosa per l’oro delle banche, requisiti i beni ecclesiastici che erano parte rilevante del sistema economico. Epurazione pure nelle scuole e università , dove il l ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis: “per immettervi docenti il cui unico o maggior pregio era la fedeltà ai Savoia (che molti scoprirono all’istante. E più di sessant’anni dopo, quando Mussolini obbligò i docenti universitari a giurare fedeltà al Fascismo, solo una quindicina su 1.200 rifiutarono)”. Inoltre i piemontesi chiusero tutti gli istituti superiori di Napoli, un migliaio di scuole in tutto il Regno, soprattutto quelle private. Vennero chiuse una trentina di giornali, ecco perché non si è potuto raccontare la vera storia dell’aggressione e conquista militare del Regno da parte dei piemontesi. Chi lo ha fatto doveva usare pseudonimi o pubblicare all’estero. “Dichiararsi cittadino del proprio Paese invaso divenne reato punibile con la morte, la deportazione, il carcere, la perdita dei beni[…]”. Furono rimossi quasi tutti i vescovi, alcuni esiliati, svuotati e chiusi i conventi, soppressi gli ordini religiosi (meno quelli dei mendicanti che non avevano nulla da farsi rubare), sorvegliate le prediche in chiesa e messi sotto vigilanza i fedeli che frequentavano parrocchie di sacerdoti non filo-piemontesi; fù avanzata perfino la pretesa di controllare le confessioni. Praticamente per chi non accettò il nuovo corso o divenne sospetto di non accettarlo o persino di tiepida adesione, la sua vita smise di essere un diritto. Inoltre il Piemonte come Stato violò ogni accordo, legge, trattato e persino ogni limite di decenza e umanità, in nome di un progetto politico-economico. Torino aveva fortemente bisogno di denaro, il Regno di Sardegna stava fallendo, non avevano più soldi per pagare i dipendenti pubblici e i soldati. Così ne approfittò di inglobare il ricco Regno. “Il Piemonte impose se stesso, le sue armi, la sua libertà chiudendo giornali, riempiendo le carceri, deportando e fucilando, impose le sue tasse, le sue leggi e persino i suoi impiegati e le sue balie negli orfanotrofi di Napoli, poi disse che gliel’avevano chiesto gli italiani. E quelli che cercarono di smentire o opporsi fecero una brutta fine”. Normale quindi che “la dimensione del massacro nascosto sotto il mito del Risorgimento è stata sempre contestata (su come si scrive la storia del nostro Paese, basti dire che l’Istituto cui fu affidato tale incarico, nel Regno di Sardegna che poi divenne d’Italia, aveva il compito di impedire la consultazione dei documenti che potessero offuscare la dinastia sabauda; le carte scomode potevano essere distrutte, e l’elaborazione dei documenti avuti in consultazione era sottoposta a doppia censura durante e dopo la stesura dei testi in cui erano citati)”. Bisogna aspettare il 2014, per intravedere qualcosa sull’enormità del prezzo pagato dal Sud, in vite umane. Un rapporto dello Svimez condotto dal dott. Delio Miotti, svela che nel 1867, la popolazione meridionale diminuì, invece di crescere. Succederà solo altre due volte, in un secolo e mezzo. Tutte testimonianze incredibili di un genocidio che ancora oggi viene tenuto nascosto.
La peste del
1656 inasprì la tensione tra potere civile ed ecclesiastico che si trascinava
da anni soprattutto per la specificità della nunziatura napoletana che
derogando dalle norme che dovunque caratterizzavano l’istituzione (a Napoli
mancavano gli elementi essenziali di sovranità e indipendenza statale) era
fonte di continui problemi.
La dipendenza del Regno dalla Spagna, dove già era regolarmente accreditato
un nunzio pontificio, impediva di fatto alla nunziatura napoletana di
costituire un’istituzione importante per la discussione di problemi di politica
internazionale (che avveniva altrove) e la faceva scadere a istituzione
secondaria funzionale agli interessi del papa che poteva tenere a Napoli un
proprio rappresentante investito delle funzioni di nunzio.
Viceré e Collaterale[1], consapevoli dell’illegalità di fondo di tale
insediamento, impedirono che potesse diventare strumento di rafforzamento del
potere ecclesiastico: perciò bolle, brevi, lettere di giurisdizione straordinaria,
provvedimenti e disposizioni provenienti da Roma potevano avere esecuzione nel
Regno solo dopo essere stati vagliati e approvati col regio exequatur.
Allo stesso iter procedurale erano sottoposte nomina e destinazione dei
vescovi nel Regno e qualsiasi deroga a tali norme concordate produsse sempre
reazioni decise da parte del Collaterale che fece della difesa del potere
civile un punto irrinunciabile del proprio operato politico come testimoniano
le tensioni giurisdizionali fomentate dal Filomarino, cardinale arcivescovo di
Napoli.
Dopo gli aspri contrasti che avevano caratterizzato il governo dell’Oñate,
il tentativo del successore, conte di Castrillo, di instaurare rapporti più
distesi con l’autorità ecclesiastica fu bloccato da un gesto del
cardinale interpretato dal viceré come un attacco aperto alla real
giurisdizione.
All’indomani della peste il Cardinale aveva creduto, come un po’ tutta
l’aristocrazia, di trovarsi di fronte ad una profonda crisi dell’organizzazione
statale e provvide ad emanare un editto che proibiva l’accesso a Napoli degli
ecclesiastici sprovvisti di licenza sanitaria arcivescovile scritta sostenendo
di aver ricevuto quest’ordine dalla Sacra Congregazione. Ma poiché un analogo
provvedimento era stato dettato dal viceré per chiunque si fosse recato a
Napoli, l’editto del Cardinale (privo peraltro del regio exequatur)
sembrò voler affermare l’esclusione degli ecclesiastici dal provvedimento
governativo e il Collaterale, nella seduta del 28 febbraio 1657, ne votò la
revoca.
Il documento contenente tale decisione, consegnato al Filomarino ai primi
di marzo dopo il fallimento di una soluzione diplomatica, fu seguito
dall’emanazione di un bando che documentava l’illegalità dell’intervento
ecclesiastico in materia sanitaria.[2]
A questa tensione di fondo, che si sarebbe protratta fino
all’esasperazione, si sovrapposero altri due eventi: la nomina papale di un
nuovo inquisitore a Napoli e il trasporto in processione alla maniera degli
scomunicati, deciso dal vicario del Filomarino, di uno sbirro assassinato dopo
aver arrestato un pregiudicato in una strada pubblica davanti alla chiesa delle
Scuole Pie .
Sulla nomina del nuovo inquisitore, anticipando la linea politica che
avrebbe tenuto in seguito, il Collaterale suggerì al viceré di rispondere “che
non voleva questi impiastri, ma che risolutamente gli facesse intendere che non
avrebbe permesso che venisse un forestiero qua per un simile ufficio” mentre
in merito alla processione pretese dal Cardinale l’espulsione del suo vicario
anche se poi ammorbidì la propria posizione.[3]
Restò intransigente sulla questione sanitaria precisando nella risposta ad
un breve pontificio le differenti competenze delle due autorità: al papa quelle
spirituali, al governo civile quelle politiche, economiche e sanitarie del
Regno.[4]
Ma l’intervento pontificio riaccese le velleità del Cardinale che, senza
chiedere il regio exequatur, ripubblicò l’editto col divieto assoluto
per il clero di accogliere forestieri in casa. Il Collaterale replicò
impartendo ordini più severi ai castelli sul divieto di accesso per chiunque
fosse sprovvisto dei bollettini sanitari conformi alle disposizioni vicereali e
invitando il Filomarino a richiedere il regio exequatur.[5]
Il Cardinale si giustificò sostenendo di aver agito su ordine del Papa e
alla minaccia di duri provvedimenti nei suoi confronti si mostrò irremovibile e
disposto allo scontro aperto, pronto ad utilizzare tutti i mezzi che la
giurisdizione ecclesiastica gli consentiva, dalle censure agli interdetti.[6]
La risposta dei Reggenti si limitò al sequestro del suo casale nei
pressi di Aversa perché, quando si trattò di proseguire con l’arresto dei
parenti e la sua espulsione dal Regno, si creò in seno al Collaterale una
profonda spaccatura e la maggioranza del Consiglio ritenne più prudente
attendere conferme da Madrid e avviare una soluzione diplomatica preparando un
incontro a Roma tra l’ambasciatore e il pontefice.[7]
In questo clima di tensione venne intrapreso, nel gennaio 1658, il viaggio
del Sobremonte a Roma con un’agenda fittissima di impegni.
Lo scopo essenziale della missione fu la ricerca di una soluzione alle
numerosissime questioni aperte con lo Stato Pontificio quali il regio
exequatur alla bolla relativa alla soppressione dei conventini, la
conferma in perpetuum della bolla di Leone X e di quella che vietava ai
pregiudicati di rifugiarsi nelle chiese, l’accordo sul rientro degli esuli
masanielliani, l’exequatur per le lettere provenienti da Roma, il
conferimento degli ordini maggiori solo a chierici di una certa età,
l’esenzione dei chierici coniugati dal godimento del foro in civilibus,
le donazioni fraudolente a favore di ecclesiastici per sottrarsi agli oneri
fiscali, la limitazione della competenza dei tribunali ecclesiastici alle sole
questioni spirituali nei confronti dei laici, le usure e i contratti illeciti
rilasciati a chierici anche defunti.[8]
La presenza a Roma del Sobremonte si rivelò anche un efficace strumento per
seguire più da vicino le decisioni della curia romana e ricevere informazioni
di prima mano come la decisione del pontefice, ai primi di ottobre, di inviare
come inquisitore nel Regno il forlivese mons. Piazza .[9]
Se questa notizia riconfermò in seno al Consiglio la linea politica di
intransigente ostracismo nei confronti dei vescovi extraregnicoli destinati a
quest’incarico, più morbido apparve l’atteggiamento verso il Filomarino per non
intralciare la missione diplomatica del Sobremonte e l’instaurarsi di un clima
di maggiore distensione che doveva portare, proprio in quei giorni, alla
riapertura del commercio con lo Stato Pontificio e con la Repubblica di Genova,
indispensabile alla lenta ripresa del Regno avviato ad uscire dal completo
isolamento in cui lo aveva relegato la peste del 1656.[10]
Con la partenza del conte di Castrillo, sostituito al vertice del governo
dal conte di Peñaranda, la situazione sembrò subire un ulteriore miglioramento.
Il nuovo viceré avviò a soluzione la questione dei conventini
dibattuta da più di dieci anni ed esplosa con la razionalizzazione dei conventi
operata nel 1652 da Innocenzo X: la determinazione papale di rendere
autosufficienti i conventi aveva portato alla chiusura di quelli con meno di 12
religiosi.
Non erano state estranee a questa decisione del papa sia la pressione
esercitata dal clero regolare e dai vescovi per liberarsi della concorrenza
della vasta e capillare opera di apostolato esercitata dagli ordini religiosi
sia la possibilità dei vescovi di acquisire i beni dei conventi soppressi e
utilizzarli per il sostentamento dei giovani che entravano nei nuovi seminari
istituiti dal concilio di Trento.
La soppressione di 1513 conventi in seguito alla bolla Instaurandae
aveva colpito soprattutto gli ordini mendicanti del meridione e del napoletano.
Non tutti i monaci dei conventi soppressi poterono essere assegnati come
soprannumerari ad altri conventi dell’ordine di appartenenza; anzi
moltissimi avevano lasciato indebitamente il chiostro vagando senza fissa
dimora facendo diventare l’apostasia da conventi e congregazioni religiose un
problema di ordine pubblico che coinvolse il potere statale: coinvolgimento
attivo che sembrò creare una forte solidarietà tra viceré, curia romana e
arcivescovo napoletano.[11]
Ma la tensione di fondo non era stata eliminata: le pretese ecclesiastiche
di immunità fiscale per i chierici coniugati, i contrasti per le immunità delle
chiese e l’attività zelante del nuovo inquisitore napoletano inviato a Napoli
in un delicato momento che aveva impedito al governo un’efficace opposizione
alla nomina, aprirono uno scontro tra potere civile ed ecclesiastico che si
sarebbe acutizzato con il caso Peluso e con l’opposizione popolare
all’Inquisizione.
È vero che a dicembre mons. Piazza, nonostante la sua azione inflessibile
mietesse già le prime vittime (tra cui il conte di Mola arrestato, trasferito a
Roma e processato per questioni di S. Ufficio), vedeva riconosciuta la sua
nomina di inquisitore dal viceré e una lettera del Sobremonte ne certificava le
buone qualità; ma l’intensificarsi dell’attività inquisitoriale e
l’intransigenza dei due contendenti avvertiva che si stava scivolando verso la
guerra aperta sul problema giurisdizionale. [12]
A farla esplodere fu un banale ma sanguinoso e crudele episodio di cronaca
cittadina avvenuto nell’aprile 1660 e illustrato in Collaterale dal giudice
Marciano.
Un certo Marco Peluso, soprannominato Carcioffola, cocchiere
dell’arcivescovo, aveva accoltellato e ucciso la moglie di un ortolano con cui
era venuto a lite: la donna era all’ottavo mese di gravidanza e la creatura le
fu estratta dal ventre e battezzata.
Il Peluso, in seguito alla generale commozione e all’indignata protesta
della città, fu immediatamente arrestato e tradotto in giudizio davanti alla
Vicaria[13].
Ma il cardinale, trattandosi di un suo dipendente, invitò il vicario
generale Orazio Maldacea ad inviare ai ministri di Vicaria un monitorio,
cioè una diffida a procedere contro il Peluso con l’ordine di consegnarlo entro
24 ore al tribunale ecclesiastico e di presentarsi essi stessi per rispondere
della violazione della bolla “Coenae Domini”.[14]
Le autorità laiche replicarono con una lettera al Vicario in cui si
riaffermava la competenza della Vicaria nel procedimento giudiziario in corso e
con l’invio del segretario del Regno dal Cardinale nel tentativo di convincerlo
ad accettare il provvedimento regio che avrebbe soddisfatto le aspettative
generali. Il tentativo fallì e il cardinale minacciò di fulminare scomuniche se
non gli fosse stato consegnato il cocchiere.[15]
Il Collaterale provò allora a far pressione sul Vicario, ma quando questi
rispose di non poter venire incontro alle aspettative del viceré perché
l’Arcivescovo aveva avocato a sé la causa, non esitò a ordinare ai giudici di
procedere nella loro azione giudiziaria nei confronti di Marco Peluso.[16]
Nonostante l’interessamento del Nunzio e di Roma il Cardinale continuò per la
sua strada: il 16 aprile fece affiggere alle porte dell’Episcopio, della
Vicaria e della Nunziatura un monitorio ultimativo con la richiesta di
un’immediata consegna del reo minacciando di infliggere una scomunica a tutti i
giudici; ma questi riaffermarono le motivazioni di competenza a procedere e
intimarono al Vicario, se il Cardinale avesse inflitto la scomunica, di
abbandonare Napoli entro 6 ore e il Regno entro 5 giorni.[17]
Il 17 aprile, mentre la Vicaria completava il processo con la condanna a
morte di Marco Peluso, il Filomarino preparava i cedoloni di scomunica
per i giudici e quando il governo, il giorno seguente, fece eseguire la condanna
in piazza Mercato ne ordinò l’affissione.
Al gesto dell’arcivescovo il governo rispose con l’espulsione del Vicario e
Roma tornò ad interessarsi alla questione: la serrata controversia sul
principio dell’autonomia e della pienezza giurisdizionale invocata da entrambi
i contendenti tenne impegnati fino a metà giugno il segretario di stato
pontificio mons. Pacca, il Filomarino, il nunzio Spinola e lo stesso Viceré.
Quando il Pontefice, tramite il Nunzio, impose al Maldacea, che stava già
allontanandosi da Napoli, di ritornarvi subito e tentò di anticipare
l’opposizione del Collaterale facendo balenare la possibilità di interdire il
Regno, i Reggenti non si lasciarono intimorire e ribadirono la legalità della
loro azione, consapevoli che permettere il rientro del Vicario avrebbe
significato la resa del potere laico a quello ecclesiastico.
Questa linea di fermezza spinse la parte ecclesiastica a tentare un
approccio diplomatico: il Nunzio addossò ogni responsabilità all’intransigenza
dell’Arcivescovo e si accordò col Viceré sul rientro del Maldacea con la
clausola che sarebbe stato richiesto personalmente dal Papa.[18]
Ma la lettera del card. Chigi del 3 maggio non sembrò averla recepita:
diretta non al Viceré ma al Nunzio, lo invitava ad adoperarsi per il rientro
del Vicario come se un tale evento dipendesse da lui e non dalla volontà del
governo.
Ancora una volta l’azione diplomatica saltò e il Collaterale provvide ad
inviare al Filomarino la richiesta di revocare le censure e di scacciare il
Maldacea dal palazzo arcivescovile dove si era rifugiato dopo essere riuscito a
rientrare a Napoli.[19]
Il Cardinale provò a minimizzare il caso in cui erano invece in gioco il
prestigio e l’autorità del potere statale e declinò sostanzialmente le
richieste del governo: non poteva scacciare il Vicario in quanto gli era stato
consegnato dal Nunzio e non poteva ritirare le censure perché la causa era
stata avocata dalla S. Congregazione dell’Immunità.[20]
Il Collaterale, preso atto delle giustificazioni addotte, decise di lasciar
passare alcuni giorni: si era alla vigilia di Pasqua e si sperava che da Roma
giungessero segni di distensione; ma svanita anche questa speranza attuò una
serie di provvedimenti quali l’arresto dei nipoti del cardinale
(Ascanio e Francesco Filomarino) tenuti in blanda prigionia in Castel
Nuovo, il sequestro del suo casale nei pressi di Aversa e dei suoi depositi
(sia i 44.000 ducati sul Monte della Pietà che i 9.000 sul Monte dei Poveri) e
il mandato di arresto anche per i parenti del Maldacea domiciliati a Massa.[21]
Il Vicario tentò comunque di sottrarsi all’ordine di espulsione: partito da
Napoli alla volta di Messina, a Vietri si pentì della decisione presa e si
ritirò nel monastero della Trinità della Cava tanto che il Collaterale fu
costretto a scrivere al governatore della città di ricercarlo e costringerlo a
riprendere il viaggio. A metà di giugno l’ordine doveva essere stato eseguito
se il Nunzio faceva affiggere un monitorio contro il Vicario per avere
lasciato il Regno senza l’ordine del Papa e per essersi sottomesso al potere
civile. Seguì in agosto un decreto che lo privò di ogni dignità
ecclesiastica e degli ordini sacri con conseguente divieto di celebrare messa;
ma il Collaterale ne prese le difese: si accertò dell’esistenza del decreto
ecclesiastico, ne contestò la validità perché affisso senza regio exequatur e
contestò al Nunzio la pretesa di avere poteri illimitati su tutti gli
ecclesiastici del Regno.[22]
Intanto i giudici di Vicaria si erano visti ritirare la scomunica in cambio
della liberazione dei nipoti del Cardinale e ai primi di luglio il canonico
Paolo Garbinato aveva preso possesso dell’ufficio lasciato vacante dal
Maldacea.
Da tale controversia fu il potere civile a conseguire la soddisfazione
maggiore: giocò a suo favore sia l’isolamento in cui era stato lasciato il
Filomarino dall’opinione pubblica colpita dall’odiosità del delitto commesso e
dalla sensazione che il Cardinale si stesse battendo per ritardare il castigo
del reo sia, soprattutto, il generale deterioramento della posizione del clero
napoletano.
La nuova società che si andava formando nel Regno cominciava ad essere
stanca di una Chiesa che agli interessi spirituali prediligeva l’arricchimento
sfrenato, le liti giudiziarie e le complicazioni ereditarie e patrimoniali.
Le due consecutive vittorie ottenute dal potere civile su licenze sanitarie
e caso Peluso indicavano chiaramente come il governo potesse agire sulla base
di una cosciente collaborazione popolare.
L’opinione pubblica, consapevole che i contrasti giurisdizionali
nascondevano grossi problemi di carattere economico, continuò ad appoggiare il
viceré anche nella controversia sul contributo richiesto dal Pontefice agli
ecclesiastici del Regno da inviare all’imperatore Leopoldo I per la guerra
contro i Turchi e a cui il Collaterale negò costantemente il regio
exequatur.
Il documento papale prevedeva che tutti gli ecclesiastici del Regno che
avevano entrate su chiese e luoghi pii avrebbero dovuto versare a Roma per
dieci anni il 6% del loro reddito tramite la Nunziatura; ma il viceré,
contrario alla fuga all’estero dei capitali del Regno, non volle concedere la
propria autorizzazione dando luogo ad una tensione col potere ecclesiastico
durato vari mesi. Il Collaterale ne fece consulta al re di Spagna nel marzo
1661, ma il Filomarino continuò imperterrito a richiedere i pagamenti anche
senza l’autorizzazione governativa motivando la sua posizione con
un’autorizzazione pontificia che definiva la decima un’imposizione universale e
non necessaria di regio exequatur.[23]
Quando però il Collaterale impartì l’ordine tassativo agli istituti
religiosi di non inviare denaro a Roma non trovò la solita accanita reazione:
il cardinale, insofferente delle fortune del Chigi e desideroso di trovare pace
nei suoi agitati rapporti col potere civile, si rifiutò di esigere le decime
protestando la propria incompetenza in quanto materia propria della Nunziatura.
Altrettanto difficile si rivelò la battaglia ingaggiata nel 1661 sulla
questione dell’inquisizione in cui intervenne in modo molto duro lo stesso
nunzio Spinola che sul problema delle licenze sanitarie e sul caso Peluso si
era adoperato a far valere la voce della ragionevolezza sia con il governo che
con la corte pontificia.
Con l’eccezione degli incidenti provocati da mons. Petronio tra il 1626 e
il 1631, l’Inquisizione napoletana affidata al Tamburello, già vicario
diocesano di Napoli, non aveva suscitato difficoltà di rilievo fino al 1656,
quando, per la morte del vescovo, l’incarico fu ricoperto momentaneamente fino
alla nomina di mons. Piazza.
La riattivazione di un organo la cui attività si era fino ad allora
istradata sui binari della più assoluta normalità raggiunse la coscienza
popolare attraverso i casi vistosi dell’incriminazione del conte di Mola Duarte
Vaaz per segreta pratica di ebraismo con conseguente confisca dei beni e di
quella del duca delle Noci per aver letto un libro censurato. Ma non vanno
dimenticati né il proliferare delle carceri del S. Ufficio, che raggiunsero in
numero di sette o otto, né l’aumento dei procedimenti divenuti più sommari ed
arbitrari né le malversazioni e prepotenze scandalose con cui il nuovo
inquisitore e i suoi agenti e rappresentanti portavano avanti la loro attività.
A mettere in moto le Piazze di Napoli fu la reazione del duca delle Noci:
da una riunione di gran cavalieri e cittadini tenuta in S. Lorenzo il 31 marzo
scaturì la decisione di riunire le Piazze il sabato successivo 2 aprile.[24]
Il 5 aprile la Deputazione eletta dalle Piazze si presentò in Collaterale a
chiedere l’allontanamento di mons. Piazza e la conservazione della prassi
inquisitoriale nel Regno quale era stata fissata 114 anni prima in seguito ai
tumulti avvenuti per le stesse ragioni nel 1547.
Il viceré, nell’accomiatare la Deputazione, assicurò che nei giorni
successivi avrebbe fatto conoscere la sua decisione: aspettava infatti di
conoscere l’esito dei contatti diplomatici che aveva avviato, tramite
l’ambasciatore a Roma, con il pontefice il giorno precedente quando,
incontrando anche il Nunzio, lo aveva invitato ad esortare mons. Piazza ad
allentare la sua zelante attività e a ritirarsi per qualche tempo nel convento
di Monte Oliveto o in quello di Monte Cassino.[25]
L’8 aprile giunse da Roma la decisione di espellere mons. Piazza dal Regno
e la notte del 10, con una scorta di soldati a cavallo messa a disposizione dal
viceré, l’inquisitore venne accompagnato alla frontiera.
A maggio la sua ventilata sostituzione suscitò la protesta del Collaterale
perché il successore designato aveva già creato problemi alla real
giurisdizione come vescovo di Ragusa e Barletta. I Reggenti erano intenzionati,
dopo tanti contrasti, a dare una loro impronta precisa all’elezione del nuovo
inquisitore che, oltre ad essere vescovo del Regno, avrebbe dovuto mostrarsi
ligio alla politica vicereale.[26]
Come già nel 1656 con le licenze sanitarie e nel 1660 col caso Peluso,
anche questo contrasto tra Stato e Chiesa si concluse con la vittoria del
potere civile e se la questione si protrasse ancora fu per i contrasti sorti
tra le Piazze cittadine e il viceré: gli ambienti aristocratici avevano tentato
di strumentalizzare il problema dell’inquisizione per riaffermare una presenza
politica che dal 1648 in poi non aveva trovato modo di farsi valere; ma il
viceré, conte di Peñaranda, consapevole della manovra, si preparò a
vanificarla.
Dopo lunghe riunioni tra aprile e maggio alla ricerca di una comune
piattaforma rivendicativa delle sei Pazze due sole richieste trovarono
l’accordo unanime: che i processi per S. Ufficio non implicassero il sequestro
dei beni e che pertanto venissero dissequestrati quelli del conte di Mola. Per
il resto la spaccatura fu profonda: se le Piazze di Capuana, Porto e Montagna
chiedevano che l’inquisizione napoletana fosse affidata al locale arcivescovo
come ordinario, senza particolare delega pontificia e secondo le norme
canoniche, la Piazza di Nido, la minoranza di quella di Portanova e quella del
Popolo ammettevano che vi fosse un inquisitore come figura distinta da quella
dell’arcivescovo purché procedesse secondo l’uso invalso nel Regno prima degli
eccessi di mons. Piazza.[27]
Questa divisione facilitò l’opera di repressione messa in atto dal viceré
nei confronti di ciò che restava ancora dell’agitazione: il primo luglio il
Collaterale vietò la riunione delle Piazze programmata per il giorno seguente e
minacciò di applicare una pena pecuniaria di 4.000 ducati a chiunque dei
deputati e dei 5 e 6 delle Piazze avesse contravvenuto all’ordine. Il 15
luglio, alla luce di una lettera del re di Spagna indirizzata agli Eletti della
città, dichiarò decaduta la Deputazione eletta il 2 aprile per affrontare il
problema dell’inquisizione e le tolse definitivamente il compito il 18 luglio allorché,
su richiesta dell’eletto del Popolo, decretò che “ si levasse l’inibitoria
ai cinque e sei deputati di potersi unire e convocare le Piazze a rispetto di
tutte quelle che avevano da trattare per beneficio del pubblico eccettuato però
il negotio di mons. Piazza il quale resta sopito…”[28]
Dopo un tentativo del Nunzio in settembre di voler assumere l’ufficio di
inquisitore e le aspre proteste del Collaterale che portarono ad un serrato
scambio epistolare tra Viceré e Pontefice, in ottobre si decise per la
successione di mons. Piazza che intanto si era stabilito a Terracina.[29]
Così quando tra novembre e dicembre prima la Piazza del Popolo e poi la
Deputazione e gli Eletti si recarono in visita al viceré, questi confermò loro
la decisione di Madrid di conservare l’inquisizione, seppur con i procedimenti
precedenti a quelli attuati da mons. Piazza.
La vittoria del Viceré fu completa e la nobiltà, che aveva puntato tutto
sul passaggio dell’Inquisizione dalle mani del ministro pontificio a quelle del
locale arcivescovo, venne sconfitta.
Nel luglio 1662 furono dissequestrati i beni del conte di Mola e nell’aprile
1663 il papa nominò inquisitore del Regno il vescovo di Bitonto Alessandro
Crescenzi che, pur essendo vescovo del Regno, non era regnicolo e pertanto la
sua nomina contraddiceva uno dei punti essenziale degli accordi tra Piazze e
Vicerè.
Proteste però non ve ne furono: segno evidente che tanti mesi di lotte e
agitazioni sul problema dell’inquisizione erano state determinate da obiettivi
eminentemente politici.[30]
Tra il 1662 e il 1667 continuarono gli strascichi relativi alla bolla sulle
decime:
l’opposizione vicereale all’esecuzione della bolla pontificia nel Regno e
l’esenzione decretata dal Collaterale per tutte le estaurite
(chiese tenute da laici) esasperarono la tensione tra stato e chiesa. Era
chiaro che la questione coinvolgeva una più vasta problematica economica che si
trascinava da anni ma delle cui dimensioni il governo si rendeva conto
forse solo ora.[31]
L’eccezionale proliferazione del clero, l’illegale tassa sul commercio
domenicale e festivo imposto dal Filomarino e la pretesa di raddoppiare le
tratte di vino per la curia pontificia diventarono l’oggetto su cui si instaurò
il braccio di ferro tra potere civile ed ecclesiastico.
Nell’estate del 1665 il governatore della Terza denunciò in un memoriale
l’eccessivo numero di ricchi cittadini che negli ultimi trent’anni avevano
abbracciato gli ordini sacri per sottrarsi al pagamento degli oneri fiscali
gravanti sulle loro terre che così continuavano a possedere a titolo di
donazione.[32]
Sollecitato da tale denuncia il Collaterale emanò un decreto che prevedeva
l’arresto di quanti facessero donazioni alla Chiesa, ma il provvedimento non
fermò la corsa agli ordini sacri: due anni dopo, un censimento sugli
ecclesiastici del Regno accertava che, tra sacerdoti, diaconi, suddiaconi,
clerici in minoribus, coniugati, diaconi selvaggi e oblati, essi avevano
raggiunto il consistente numero di 56.446. I Reggenti ne fecero consulta al Re
di Spagna chiedendo provvedimenti che ne determinassero la diminuzione,
consapevoli che l’esenzione fiscale di cui godevano determinava il raddoppio
degli oneri per i contribuenti laici.[33]
Tra le fine del 1665 e gli inizi del 1666 fu affrontata la questione della
chiusura domenicale e festiva dei negozi che anche la Chiesa già da tempo
faceva osservare, ma su cui sorvolava dietro congrui pagamenti.
Fu la protesta dei negozianti, esasperati dalle richieste ecclesiastiche
divenute ormai insostenibili, a imporre l’intervento del governo che il 21
dicembre 1665 decretò illegale l’esazione imposta dal Filomarino ai
rifornimenti annonari e ai viveri di prima necessità, ma non alle botteghe di calzolai
e barbieri per le quali si nutriva ancora qualche dubbio. Ad avallare la
decisione governativa c’era il breve del pontefice Urbano VIII, la decisione
presa dalla S. Congregazione nel 1603 in un’analoga questione e tutto
l’insegnamento della Chiesa. Pertanto, mentre il Viceré avviava una soluzione
diplomatica della questione, il Collaterale affidava ai tribunali civili e
all’avvocato della Città Ignazio Provenzale l’incarico di difendere i sudditi
dalle illegali pretese dell’Arcivescovo.[34]
Gli incontri diplomatici si intensificarono sollecitati da una nuova
protesta cittadina sui danni arrecati dalla “oppressione e vessattione che
danno li cursori del sig. cardinale Filomarino Arcivescovo a quelli che
introducono cose comestibili” e sembrarono avere esiti positivi: il
Cardinale si impegnò ad abolire la tassa sul commercio festivo sia alle porte
della città che nei borghi e si convenne di porre nei giorni festivi una tavola
di fronte alle botteghe e un drappo davanti alle macellerie.[35]
Ma l’impegno restò sulla carta. Lo si scoprì neanche due mesi dopo con
l’arrivo in Collaterale di un nuovo memoriale “sopra li eccessi che
continuano li cursori della Curia Arcivescovale di nuove esattioni in danno del
pubblico” e il governo decretò l’abolizione della tassa ecclesiastica
almeno sul commercio all’ingrosso alle porte della città lasciando ai piccoli
negozianti la possibilità di una libera contrattazione con l’Arcivescovo in
attesa che l’ambasciatore del Regno a Roma sollecitasse un risolutivo
intervento pontificio.[36]
La questione della tratta dei vini fu affrontata tra settembre e ottobre
del 1667: il Viceré illustrò i danni arrecati all’Arrendamento dalla
stipulazione della tratta di ulteriori 200 botti di vino destinate al Collegio
Ungarico e Germanico di Roma oltre le 200 già inviate annualmente per antica
consuetudine e invitò i Reggenti a farne consulta al Re di Spagna chiedendone
l’abrogazione. Il 3 ottobre, sulla scorta della risposta del sovrano e in
seguito ad una sollecitazione del Nunzio, si chiarì che la concessione era a
discrezione del sovrano e a favore dei cardinali fedeli alla corona e non, come
stava diventando, un preciso dovere nei confronti di un organismo ecclesiastico
che il governo non riconosceva in quanto tale.[37]
[1] Il Consiglio Collaterale, organo istituito da Ferdinando
il Cattolico nel 1507 e posto, come consiglio di Stato, accanto al viceré (le
sue pronunce furono rese vincolanti da una prammatica di Filippo II nel 1593)
caratterizzò il periodo vicereale. Composto da viceré, che ne era il capo, da
due reggenti (che poi crebbero di numero), dal segretario del regno e da due
segretari privati del viceré, il Collaterale assumeva il governo per morte o
assenza del viceré. Accentrando nella sua struttura sia funzioni consultive che
deliberative e giudiziarie aveva una cancelleria, una segreteria diretta da un secretarius
regni ed un tribunale. Soppresso il 7 giugno 1735, fu sostituito dalla
Camera di S. Chiara.
[2] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 61: 26 febbraio e 5, 8, 13 e 16 marzo 1657.
[3] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 61: 12, 15,19 e 22 giugno 1657.
[4] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 61:;13 e 22 agosto 1657.
[5] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 61: 24 agosto e 1 settembre 1657
[6] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 61: 13 e 24 settembre; 12 ottobre 1657
[7] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 61: 19 ottobre 1657
[8]Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale 62: 21 gennaio 1658
[9] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale
62: 2 e 5 ottobre 1658
[10] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale 62: 18, 21 e 30 ottobre 1658
[11] Cfr. G. Galasso, Napoli Spagnola dopo Masaniello(Politica
– Cultura – Società), ESI, Napoli, 1972, pag 59 e E. Boaga, La soppressione
innocenziana dei piccoli conventi in Italia, Edizioni di Storia e Letteratura,
Roma, 1971.
[12] Archivio di Stato di Napoli, Not. del Consiglio
Collaterale, vol. 63: 27 agosto, 5 e 9 settembre, 3 dicembre 1659.
[13] La Gran Corte di Vicaria, prima magistratura di appello
di tutte le corti del Regno di Napoli, istituita da Carlo II d’Angiò attraverso
la fusione del Tribunale del Vicario con la Gran Corte, ebbe sede a Castel
Capuano con la riforma voluta nel 1537 da don Pedro Toledo. Strutturata in 4
sezioni giudicava in prima istanza reati commessi nel napoletano e in
appello tutti quelli commessi nelle province nel Regno.
[14] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 6 aprile 1660.
La bolla “In coena Domini” pubblicata da Pio V nel 1568 rese molto tesi i rapporti dei vari stati europei e italiani col Papato. Essa vietava ai principi di accogliere persone non cattoliche nei propri territori e di intrattenervi rapporti anche epistolari nonché di punire per colpe civili cardinali, prelati e giudici ecclesiastici nonché i loro agenti, procuratori e congiunti. Vietava ai sovrani temporali di imporre pedaggi, gabelle, prestiti, decime sui beni dei chierici senza l’approvazione della curia romana. Vietava all’autorità laica di sequestrare la rendita delle chiese, dei monasteri e i benefici ecclesiastici; tutte le cause che riguardassero questioni del genere dovevano essere sottratte al foro temporale e riservate a quello ecclesiastico. Proibiva al principe l’esercizio dell’exequatur sulle concessioni e i decreti pontifici e lo considerava scomunicato qualora occupasse terre della Chiesa o le muovesse guerra.
[15] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 7 aprile 1660
[16] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 14 e 15 aprile 1660
[17]Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 16 aprile 1660. Cfr. anche G. Galasso, Napoli
spagnola…, op. cit., pag. 59.
[18] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 27 e 30 aprile 1660.
[19] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 3 e 13 maggio 1660.
[20] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 14 maggio 1660.
[21] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 31 maggio 1660.
[22]Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 7, 9 e 15 giugno; 11,12, 18 e 23 agosto 1660.
[23] Archivio di Stato di Napoli, Not. del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 13, 22 e 23 marzo; 12 agosto e 9 settembre 1661.
[24] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 31 marzo 1661.
[25]Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 4 e 5 aprile 1661.
[26] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 8 aprile e 9 maggio 1661.
[27] Cfr. G. Galasso, Napoli spagnola…, op. cit., pag. 64.
[28] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 1, 15 e 18 luglio 1661.
[29] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 22 e 26 sett., 8 e 20 ottobre 1661.
[30] Cfr. G. Galasso, Napoli spagnola…, op. cit., pag. 67 e
68.
[31] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 6 febbraio 1662 e vol. 66, 20 nov. 1663.
[32] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 67: 28 agosto 1665.
[33] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 67: 22 aprile 1667.
[34] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 67: 4 e 17 dicembre 1665.
[35] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 67: 23 dicembre 1665.
[36] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 67: 4 febbraio 1666.
[37] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 67: 16 settembre e 3 ottobre 1666.
5
La Chiesa vive un’epoca di sbandamento dottrinale e morale. Lo scisma è deflagrato in Germania, ma il Papa non sembra rendersi conto della portata del dramma. Un gruppo di cardinali e di vescovi propugna la necessità di un accordo con gli eretici. Come sempre accade nelle ore più gravi della storia, gli eventi si succedono con estrema rapidità. Domenica 5 maggio 1527, un esercito calato dalla Lombardia giunse sul Gianicolo.
L’imperatore Carlo V, irato per l’alleanza politica del papa Clemente VII con il suo avversario, il re di Francia Francesco I, aveva mosso un esercito contro la capitale della Cristianità. Quella sera il sole tramontò per l’ultima volta sulle bellezze abbaglianti della Roma rinascimentale. Circa 20 mila uomini, italiani, spagnoli e tedeschi, tra i quali i mercenari Lanzichenecchi, di fede luterana, si apprestavano a dare l’attacco alla Città Eterna. Il loro comandante aveva concesso loro licenza di saccheggio.
Tutta la notte la campana del Campidoglio suonò a storno per chiamare i romani alle armi, ma era ormai troppo tardi per improvvisare una difesa efficace. All’alba del 6 maggio, favoriti da una fitta nebbia, i Lanzichenecchi mossero all’assalto delle mura, tra Sant’Onofrio e Santo Spirito. Le Guardie svizzere si schierarono attorno all’Obelisco del Vaticano, decise a rimanere fedeli fino alla morte al loro giuramento. Gli ultimi di loro si immolarono presso l’altar maggiore della Basilica di San Pietro. La loro resistenza permise al Papa di riuscire a mettersi in fuga, con alcuni cardinali.
Attraverso il Passetto del Borgo, via di collegamento tra il Vaticano e Castel Sant’Angelo, Clemente VII raggiunse la fortezza, unico baluardo rimasto contro il nemico. Dall’alto degli spalti il Papa assisté alla terribile strage che cominciò con il massacro di coloro che si erano accalcati alle porte del castello per trovarvi riparo, mentre i malati dell’ospedale di Santo Spirito in Saxia venivano trucidati a colpi di lancia e di spada.
La licenza illimitata di rubare e di uccidere durò otto giorni e l’occupazione della città nove mesi. «L’inferno è nulla in confronto colla veste che Roma adesso presenta», si legge in una relazione veneta del 10 maggio 1527, riportata da Ludwig von Pastor (Storia dei Papi, Desclée, Roma 1942, vol. IV, 2, p. 261).
I religiosi furono le principali vittime della furia dei Lanzichenecchi. I palazzi dei cardinali furono depredati, le chiese profanate, i preti e i monaci uccisi o fatti schiavi, le monache stuprate e vendute sui mercati. Si videro oscene parodie di cerimonie religiose, calici da Messa usati per ubriacarsi tra le bestemmie, ostie sacre arrostite in padella e date in pasto ad animali, tombe di santi violate, teste degli apostoli, come quella di sant’Andrea, usate per giocare a palla nelle strade. Un asino fu rivestito di abiti ecclesiastici e condotto all’altare di una chiesa. Il sacerdote che rifiutò di dargli la comunione fu fatto a pezzi. La città venne oltraggiata nei suoi simboli religiosi e nelle sue memorie più sacre (si veda anche André Chastel, Il Sacco di Roma, Einaudi, Torino 1983; Umberto Roberto, Roma capta.Il Sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi, Laterza, Bari 2012).
Clemente VII, della famiglia dei Medici non aveva raccolto l’appello del suo predecessore Adriano VI ad una riforma radicale della Chiesa. Martin Lutero diffondeva da dieci anni le sue eresie, ma la Roma dei Papi continuava ad essere immersa nel relativismo e nell’edonismo. Non tutti i romani però erano corrotti ed effeminati, come sembra credere lo storico Gregorovius. Non lo erano quei nobili, come Giulio Vallati, Giambattista Savelli e Pierpaolo Tebaldi, che inalberando uno stendardo con l’insegna “Pro Fide et Patria”, opposero l’ultima eroica resistenza a Ponte Sisto, né lo erano gli alunni del Collegio Capranica, che accorsero e morirono a Santo Spirito per difendere il Papa in pericolo.
A quella ecatombe l’istituto ecclesiastico romano deve il titolo di “Almo”. Clemente VII si salvò e governò la Chiesa fino al 1534, affrontando dopo lo scisma luterano quello anglicano, ma assistere al saccheggio della città, senza nulla poter fare, fu per lui più duro della morte stessa. Il 17 ottobre 1528 le truppe imperiali abbandonarono una città in rovina.
Un testimone oculare, spagnolo, ci dà un quadro terrificante della città un mese dopo il Sacco: «A Roma, capitale della cristianità, non si suona campana alcuna, non sì apre chiesa non si dice una Messa, non c’è domenica né giorno di festa. Le ricche botteghe dei mercanti servono per stalle per i cavalli, i più splendidi palazzi sono devastati, molte case incendiate, di altre spezzate e portate via le porte e finestre, le strade trasformate in concimaie. È orribile il fetore dei cadaveri: uomini e bestie hanno la medesima sepoltura; nelle chiese ho visto cadaveri rosi da cani. Io non so con che altro confrontare questo, fuorché con la distruzione di Gerusalemme. Ora riconosco la giustizia di Dio, che non dimentica anche se viene tardi. A Roma si commettevano apertissimamente tutti i peccati: sodomia, simonia, idolatria ipocrisia, inganno; perciò non possiamo credere che questo non sia avvenuto per caso. Ma per giudizio divino» (L. von Pastor, Storia dei Papi, cit., p. 278).
Papa Clemente VII commissionò a Michelangelo il Giudizio universale nella Cappella Sistina quasi per immortalare il dramma o che subì, in quegli anni, la Chiesa di Roma. Tutti compresero che si trattava di un castigo del Cielo. Non erano mancati gli avvisi premonitori, come un fulmine che cadde in Vaticano e la comparsa di un eremita, Brandano da Petroio, venerato dalle folle come “il pazzo di Cristo”, che nel giorno di giovedì santo del 1527, mentre Clemente VII benediceva in San Pietro la folla, gridò: «bastardo sodomita, per i tuoi peccati Roma sarà distrutta. Confessati e convertiti, perché tra 14 giorni l’ira di Dio si abbatterà su di te e sulla città».
L’anno prima, alla fine di agosto, le armate cristiane erano state disfatte dagli Ottomani sul campo di Mohacs. Il re d’Ungheria Luigi II Jagellone morì in battaglia e l’esercito di Solimano il Magnifico occupò Buda. L’ondata islamica sembrava inarrestabile in Europa. Eppure l’ora del castigo fu, come sempre l’ora della misericordia. Gli uomini di Chiesa compresero quanto stoltamente avessero inseguito le lusinghe dei piaceri e del potere. Dopo il terribile Sacco la vita cambiò profondamente.
La Roma gaudente del Rinascimento si trasformò nella Roma austera e penitente della Contro-Riforma. Tra coloro che soffrirono nel Sacco di Roma, fu Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona, ma che allora risiedeva a Roma. Imprigionato dagli assedianti giurò che non avrebbe mai abbandonato la sua residenza episcopale, se fosse stato liberato. Mantenne la parola, tornò a Verona e si dedicò con tutte le sue energie alla riforma della sua diocesi, fino alla morte nel 1543.
San Carlo Borromeo, che sarà poi il modello dei vescovi della Riforma cattolica si ispirerà al suo esempio. Erano a Roma anche Carlo Carafa e san Gaetano di Thiene che, nel 1524, avevano fondato l’ordine dei Teatini, un istituto religioso irriso per la sua posizione dottrinale intransigente e per l’abbandono alla Divina Provvidenza spinto al punto di aspettare l’elemosina, senza mai chiederla. I due cofondatori dell’ordine furono imprigionati e torturati dai Lanzichenecchi e scamparono miracolosamente alla morte.
Quando Carafa divenne cardinale e presidente del primo tribunale della Sacra romana e universale Inquisizione volle accanto a sé un altro santo, il padre Michele Ghislieri, domenicano. I due uomini, Carafa e Ghislieri, con i nomi di Paolo IV e di Pio V, saranno i due Papi per eccellenza della Contro-Riforma cattolica del XVI secolo. Il Concilio di Trento (1545-1563) e la vittoria di Lepanto contro i Turchi (1571) dimostrarono che, anche nelle ore più buie della storia, con l’aiuto di Dio è possibile la rinascita: ma alle origini di questa rinascita ci fu il castigo purificatore del Sacco di Roma. Roberto de Mattei
Già dalla prima scena si è capito che la nuova versione-kolossal de Il nome della rosa, finanziata da RaiCinema, cioè dal contribuente, era anche peggio della precedente, il film di Jean-Jacques Annaud del 1986, tratto dal «palinsesto» di Umberto Eco. La storia della lotta per le investiture ci dice l’esatto opposto della nuova fiction.
Già dalla prima scena si è capito che la nuova versione-kolossal de Il nome della rosa (finanziata da RaiCinema, cioè dal contribuente) era anche peggio della precedente, il film di Jean-Jacques Annaud del 1986, tratto dal «palinsesto» di Umberto Eco. Il quale, pretendendo questa aggiunta nei titoli, chiarì che il film non poteva rappresentare tutta la complessità del romanzo bestseller omonimo. La prima scena di cui dicevamo è una scritta che avverte lo spettatore che nel 1327, anno in cui si svolge la vicenda, l’imperatore Ludovico stava cercando di «separare la politica dalla religione». Messa così, è chiaro che la simpatia dello spettatore si orienterà verso l’imperatore, che la Chiesa vorrebbe sottomettere imponendo ai posteri uno stato teocratico di tipo, per intenderci, khomeinista.
La storia, vera, dice però il contrario: tutta la lunga Lotta per le Investiture, dal secolo XI al Concordato di Worms del 1122, fu combattuta perché era l’imperatore a voler mettere il cappello sulla Chiesa decidendo lui la nomina dei vescovi. L’imperatore che regnava nel 1327, Ludovico IV il Bavaro, aveva deciso allora di tagliare del tutto i legami con la Chiesa. Infatti, fu il primo imperatore a farsi incoronare non dal papa, ma da un laico, quello Sciarra Colonna che aveva preso a schiaffi il papa Bonifacio VIII ad Anagni. Gesto che simbolicamente chiuse il Medioevo cristianissimo. Gesto la cui portata Bonifacio VIII comprese benissimo, tant’è che ne morì di crepacuore.
La Chiesa, come previsto, finì alla mercé del potere politico: nel 1327 il pontificato non era più a Roma ma ad Avignone, deportato in Francia da Filippo il Bello, il distruttore dei templari. Il potere politico, privo della guida, e del freno, di un’autorità morale, da allora divenne sempre più assoluto, culminando nei totalitarismi del secolo XX.
Il kolossal televisivo già dalla prima puntata ci ha presentato un inquisitore veramente esistito, Bernardo Gui, come la quintessenza del fanatismo più ottuso e ideologico, quasi che l’Inquisizione fosse stata l’antesignana della Gestapo, delle SS e del Kgb. Ora, poiché nessuno storico da decenni si sente di sostenere una fesseria del genere, ecco che una fiction ricavata da un romanzo (fiction a sua volta) ripropone in tutto il suo squallore «gotico» la leggenda nera sull’Inquisizione e i «secoli bui», propalandola per il pianeta alle nuove generazioni (la fiction, infatti, è stata acquistata da molti Paesi).
Trent’anni fa medievisti come Franco Cardini e Marco Tangheroni si spesero per ricordare che a) i monasteri medievali erano fari di cultura, non di ignoranza; b) essi sfamavano i dintorni, tant’è che è rimasto il detto «cosa passa il convento oggi?; c) le biblioteche monastiche non avevano affatto passaggi segreti o libri inaccessibili; d) il divieto di ridere lo immaginava Eco, laddove i monaci copiarono e tramandarono anche opere pagane licenziose come quelle di Ovidio; e) Bernardo Gui fu un mite inquisitore e un fine intellettuale, stimato come il maggiore storico del suo tempo; f) non si potevano accendere roghi su due piedi, la procedura era complessa e garantista; g) i dolciniani, per realizzare il loro comunismo utopico, saccheggiavano e uccidevano. Ancora: il papa Giovanni XXII mai si sognò di abolire i francescani, ma disputava con gli eretici «fraticelli» francescani che intendevano instaurare la povertà assoluta; e i termini della questione sfociavano nell’eresia dell’abolizione, di principio, della proprietà privata. Eccetera.
Ma la potenza delle immagini, in prima serata e a puntate, è praticamente invincibile. La generazione dei Tangheroni, ma anche dei Messori e, ma sì, dei Cammilleri, ha già dato. Tocca adesso alle nuove leve, se ci sono, ricominciare, con pazienza, di nuovo tutto da capo.