Regno di Napoli, Ferdinando IV di Borbone (1759-1816) 6 Tornesi 1801 — (collezione privata del dott Giovanni Greco
“Na bbona parola nu custa turnisi” Una buona porola
non costa tornesi
dicevano i nostri avi salentini. Ma anche altri detti
antichi (e ormai dimenticati), erano colmi di quella saggezza popolare e
contadina dettata sia da azioni concrete come anche di ricchezza d’animo e
ironia di spirito. Tutti elementi utili oggi a recuperare un mondo trascorso ma
denso di significati. Altri proverbi salentini contenenti la parola tornesi
“turnisi”, recitavano “Ci nu ttene turnisi, nu vascia alla fera” chi non ha
tornesi, non vada alla fiera; “Ci nu ttene turnisi, prugetta la luna” chi non ha
tornesi, fa progetti campati in aria; “Ci nu vvite cca li turnisi, num
bole bbene a cciuveddi” chi non vede altro che tornesi, non vuole bene a
nessuno.
Ho arricchito la mia collezione numismatica delle monete circolate nella Terra
d’Otranto durante il periodo borbonico con questa 6 tornesi del 1801,
una moneta in rame coniata al tempo di Ferdinando IV (1759-1816) fra
il 1799 e il 1803 (secondo periodo, 1799-1805), nella Zecca Napoli. Non è una
moneta comune ma non è nemmeno particolarmente rara. L’esemplare comunque è
unico nel suo genere per il Regno Borbonico delle Due Sicilie degli anni
1799-1803. *testa del Sovrano a dx. / *Valore e data. . . Questa moneta
valeva 1/40 di una piastra. 6 Tornesi = 3 Grano = 1/40 Piastra (1/40). Il SCWC
nota che 240 tornesi = 6 tari = 1 piastra, dove una piastra è
approssimativamente uguale a un peso.
Si legge sul fronte: FERDINAN·IV·SICIL·ET HIE·REX P·
Nel verso si legge: TOR NESI A. 6 P. 1801
Durante la Repubblica Napolitana del 1799 furono
coniate due monete da 6 e 4 tornesi. Entrambe recavano al diritto il fascio
consolare sormontato dal berretto frigio. La seconda monetazione di Ferdinando
IV (1799-1805) presenta monete da 6 e 4 tornesi. Sulla moneta da 1 tornese
c’era l’indicazione del valore in cavalli.
FERDINANDO IV DI BORBONE (Napoli 1751 – ivi 1825). Re di Sicilia come Ferdinando III (1759-1816), re di Napoli come Ferdinando IV, re delle Due Sicilie come Ferdinando I (1816-1825). La monetazione di Ferdinando IV è stata vastissima e comprende tre periodi. Sotto il suo regno la coniazione aurea durò fino al 1785 e fu enorme, oltre 3 milioni di pezzi. Notevole anche la coniazione in argento e rame. La moneta da tre tornesi di FerdinandoIV aveva invece la scritta “PVBLICA COMMODITAS”. Sulla moneta da un tornese era scritta l’indicazione del valore “TORNESE CAVALLI VI” su quattro righe. Furono coniate anche monete da 10, 8, e 5 tornesi, tutte di rame.
Banconota 10 ducati Regno delle due Sicilie / con lo stemma della provincia di Lecce. Nel Regno i Borbone non hanno mai emesso banconote di carta ma solo monete in metallo (come lo furono i ducati d’oro) e fedi di credito. Questa banconota che ho in mano qui in foto quindi, è una rielaborazione contemporanea ed un’opera d’ingegno sia graficamente che nella stampa, pertanto non ha valore, ma è, diciamo, una simpatica rievocazione, e anche un gradevole “falso d’autore” per collezionisti. E anch’essa infatti, fa oggi parte della mia collezione di “cimeli” della storia del sud. Giovanni Greco
Ricerche a cura del dott Giovanni Greco;
dott in Conservazione dei Beni Culturali, con laurea in archeologia industriale, è studioso e autore di numerose ricerche sul Salento, Erasmus in Germania nel 1996, ha viaggiato per venti anni in Italia e in Europa, ha lavorato un anno in direzione vendite Alitalia nell’aeroporto internazionale di Francoforte, ha diretto per cinque anni la sezione web di un giornale settimanale cartaceo italiano a Londra, libero professionista, videomaker, artista raku, poeta, webmaster, blogger, ambientalista, presentatore, art director, graphic designer, speaker radio, giornalista freelance Internazionale iscritto presso l’agenzia GNS Press tedesca, collabora come freelance con diverse realtà sul web e sul territorio locale. Dal 1998 è direttore responsabile della rivista on line “BelSalento.com – arte, storia, ambiente, politica e cultura della Terra dei Due Mari – Servizi di Fruizione Culturale”.
altro non era che una elite aristocratica (meridionale) che da
parecchie generazioni impersonificava un feudalesimo stagnante, ossia una
“casta” (si direbbe oggi) costituita da “non veri” rappresentanti della
dinastia borbonica.
Dopo
alcuni anni di studio sull’epoca borbonica, pare sempre più verosimile avallare
(è una mia ipotesi) che, a
differenza di quanto avveniva nel resto del Regno delle Due Sicilie, l’elite
locale del Salento di inizi ‘800 abbia mantenuto uno stile parassitario ai
danni delle comunità locali; un feudalesimo mai
terminato che si è perpetuato all’ombra dei re di Napoli. Questa ipotesi può
essere una chiave di lettura (nuova per alcuni) per spiegare il sorgere e il
dilagare delle sette segrete e carbonare della Terra d’Otranto, nate l’indomani
la sconfitta di Napoleone a Waterloo e il Congresso di Vienna (1815) e in
seguito al conseguente avvio della Restaurazione dell’Ancien
Régime; con quest’ultimo si avviava la ricostituzione del
vecchio ordine feudale, riportando sul trono gli stessi sovrani spodestati da Napoleone.
Essi vollero ripristinare gli antichi diritti – quelli dell’Ancien règime
appunto. Concluso il Congresso di Vienna, si ricostituì il “Regno borbonico” in
“Regno Delle Due Sicilie” (9 maggio 1815). Il re si fece nominare Ferdinando I.
Ma
con il ritorno al potere delle antiche dinastie regnanti e delle
precedenti leggi, costumi, guardie nazionali (…), nella Terra d’Otranto la
popolazione paventava un ritorno a quello stile simil feudale con il quale le
aristocrazie meridionali avevano oppresso le genti sino ad allora. Infatti nel
tacco d’Italia e sulla scia del onda di libertà dell’esempio francese, si
diffusero i nuovi fermenti rivoluzionari e non casualmente si costituirono le società
segrete, le quali ebbero il favore di molti elementi della
borghesia cittadina (come artigiani e mercanti), che non avevano perdonato al
sovrano borbonico la sua politica favorevole ai grandi proprietari terrieri.
In
questa chiave di lettura, direi che nel sud (e anche nel Salento) l’opposizione
all’Ancien Regime era indirizzata genericamente alla dinastia dei Borbone, ma
concretamente era rivolta ai loro rappresentanti locali; ossia quella elite aristocratica
meridionale che da parecchie generazioni impersonificava un feudalesimo
stagnante. Quindi una “casta” si direbbe oggi
(costituita da “non veri”
rappresentanti della dinastia borbonica), la quale tornava a tormentare e ad
opprimere le poveri genti. Lo scontro e la reazione diveniva irreparabile. Ecco
quindi una lettura del perchè particolarmente nel Salento di inizio Ottocento,
dilagarono sette segrete e carbonare.
Già
sin dal 1700 il
governo dei Borbone aveva posto attenzione al problema del Feudalesimo in Terra
d’Otranto. In quel secolo studiosi come il Giuseppe Palmierie altri, con
la concezione Illuministica dello Stato, avevano tentato di opporsi al regime
del baronaggio feudale, che perdurava ancora nel XVIII sec. Questo regime
(feudale) fu inteso come “regime
mostruoso e il più opposto all’armonia sociale”. Cfr : V. Valsecchi
L’Italia nel Settecento (1714.1788), vol VII, 1° ed. Milano 1959, pag 760-761.
Difatti il baronaggio del 1700, conservava delle prerogative che “usurpavano il potere allo Stato, che facevano del feudo un
piccolo stato nello stato. Rimane il diritto di esercitare la giustizia e di
esigere tributi, che sottopone i sudditi all’arbitrio del feudatario. Tutti
residui di una concezione politica e sociale ormai superata, che andavano
eliminati”.
E’
sorprendente e anche “illuminante” (…) dare una consapevole rilettura al volume
più noto di David Winspeare, la Storia degli abusi feudali del 1811,
notizie sul feudalesimo in Terra d’Otranto, nel quale si ha
un’ampia e dettagliata documentazione; il questo volume si stabilì che in poco
meno di tre anni, vi furono ben 1.395 vertenze in ordine ai diritti feudali,
oltre a quelli di cui godeva in tutto il regno, cioè i diritti sulle persone e
sulle proprietà private. Qui è anche efficacemente delineata la storia e la
struttura del sistema feudale, il
quale, a detta dell’autore, aveva promosso all’interno della società e in tutte
le parti dell’ordinamento statuale un’accesa e deleteria rivalità. E,
soprattutto nel contesto del Regno di Napoli,
esso si era sviluppato in modo artificioso, non spontaneo, passando di dinastia
in dinastia, per provare «l’esperimento dei mali di tutte le nazioni»,
generando guerre intestine, rozzezza nei costumi e nella cultura, nonché contrasto
alla giustizia. Il sistema feudale per Winspeare era «semplicemente come un “mostro”, uscito dalle foreste dei
barbari ed allevato dalla ignoranza e dagli errori di tredici secoli»,
che era stato sconfitto solo con l’avvento dell’Illuminismo.
Non
a caso già nel 1817 i
Borbone inviarono in Terra d’Otranto il marchese di Pietracatella Giuseppe Ceva Grimaldi,
nella qualità di “Intendente della Provincia”, nel suo “viaggio dell’Intendente borbonico da Napoli a Santa Maria
di Leuca“, col delicato compito di conoscere ed eventualmente sedare
le azioni violente di gruppi di carbonari e di briganti.
Ma
quello del feudalesimo era un problema che si trainava di dinastia in dinastia
e che aveva generato decenni di povertà e pressione tali da esplodere con la
Restaurazione dell’Ancien Régime
quando, a mio avviso, sfociò la rabbia repressa negli anni precedenti dalla
maggior parte della popolazione meridionale (e salentina); e questa rabbia trovava sfogo nel grido di libertà offerto dai
moti rivoluzionari di inizio del XIX secolo quando, tra la fine degli
anni ’10 e gli inizi degli anni ’20, sorsero per l’appunto le svariate sette
carbonare e massoniche della Terra d’Otranto, nelle quali confluivano varie
correnti; non solo esponenti del popolo
(gente dal basso), ma anche aristocratici (sia
filo-borbonici, sia anti-borbonici), ma anche gente del clero (sia
filo-borbonici, sia anti-borbo nici), o la classe borghese …
ma anche confluirono in queste sette “vili
ladri di galline” diranno alcune cronache contemporanee. Con
l’esempio dei moti carbonari francesi quindi, nel Salento sorse in quel
peridodo di inizio ‘800, la coscienza della necessità di crerare un progetto
carbonaro fra le province, quale unica soluzione per togliersi dal giogo
oppressivo imposto dalla maggior parte delle aristocrazie locali (…) lontane
fisicamente e ideologicamente dai Borbone in Napoli. Nella Terra d’Otranto
queste sette carbonare videro l’adesione di masse contadine e non solo; tutti
volevano un nuovo governo e riforme radicali; pretendevano la distribuzione
delle terre e la riduzione delle tasse, come quella sul sale. La necessità di
rivendicare i diritti basilari era divenuta la priorità. Il quadro complessivo
pertanto, era abbastanza frastagliato. La ricerca della libertà e
dell’autonomia portò all’aggregazione in sette di professionisti, artigiani,
commercianti, ufficiali dell’esercito, rappresentanti del basso clero, e dei
piccoli proprietari terrieri. I borghesi (la nuova classe dirigente di quei
tempi) erano contro la vecchia aristocrazia feudale; e ad esempio la nascente
società segreta dei Filadelfi si batteva
per la Costituzione ma anche per l’instaurazione della Repubblica rivendicando
la riforma agraria, l’abolizione della proprietà privata delle terre e la loro
distribuzione ai contadini.
Ad
esempio la setta dei Filadelfi ad Andrano (Le) del 1821.
Se da un lato questa setta si opponeva ai ricchi possidenti locali, dall’altro
essa riuscì anche a intimorire anche l’intera popolazione.
Altro
sulle SETTE CARBONARE E LIBERALI DI TERRA D’OTRANTO
Altro
su SISTEMA FEUDALE IN TERRA D’OTRANTO
Ricerche a cura del dott Giovanni Greco; dott in Conservazione dei Beni Culturali, con laurea in archeologia industriale, è studioso e autore di numerose ricerche sul Salento, Erasmus in Germania nel 1996, ha viaggiato per venti anni in Italia e in Europa, ha lavorato un anno in direzione vendite Alitalia nell’aeroporto internazionale di Francoforte, ha diretto per cinque anni la sezione web di un giornale settimanale cartaceo italiano a Londra, libero professionista, videomaker, artista raku, poeta, webmaster, blogger, ambientalista, presentatore, art director, graphic designer, speaker radio, giornalista freelance Internazionale iscritto presso l’agenzia GNS Press tedesca, collabora come freelance con diverse realtà sul web e sul territorio locale. Dal 1998 è direttore responsabile della rivista on line “BelSalento.com – arte, storia, ambiente, politica e cultura della Terra dei Due Mari – Servizi di Fruizione Culturale”.
Francesco II lasciò
ingenuamente Napoli nel 1860 facilitando, senza volerlo, la conquista dei
garibaldini
Il
13 novembre 1860 Pio IX scrive a Francesco II di Borbone, re delle Due Sicilie:
“Ho fatto tutto quello che per mia parte era possibile per sostenere in
Vostra Maestà la causa della giustizia, e tanto più volentieri l’ho fatto in
quanto che ho veduto la Maestà Vostra tradita da uomini cattivi o inetti o
deboli […] ho detto tradito perché è verità”. Salito al trono a 23 anni
all’improvvisa morte del padre, Francesco è completamente digiuno dell’arte di
governo. Cattolico devoto, il re è animato da buonissimi sentimenti ma
l’inesperienza e la buona fede lo rendono facile preda della congiura massonica
che lo avvolge come in una spirale. Succede così che segue i consigli
sciagurati del ministro dell’interno, il massone Liborio Romano segretamente
alleato di Garibaldi. Questi lo convince a lasciare Napoli senza combattere
facendo appello all’attaccamento alla città, all’amore per il popolo e per la
religione cattolica. Ecco il testo della lettera che Liborio Romano indirizza a
Francesco II il 20 agosto 1860. Dopo aver accennato ai “segreti disegni
della Provvidenza”, alla malvagità degli uomini e alla sfiducia che si è
infiltrata nell’esercito e nella marina, il ministro scrive: “La lotta, è
certo, farebbe scorrere fiumi di sangue”. Anche ammessa una vittoria
momentanea continua – si tratterebbe di “una delle vittorie malaugurate,
peggiore di mille disfatte; vittoria acquistata a prezzo del sangue, di uccisioni
e di rovine […] Dopo aver rigettato, secondo che ci ispira l’onestà della
coscienza, il partito della resistenza, del conflitto e della guerra civile,
quale sarà il partito saggio, onesto, umano e degno del discendente di
Enrico?”. Il “saggio” consiglio che Liborio Romano offre al re è
di allontanarsi da Napoli, invocare a giudice l’Europa, ed aspettare “dal
tempo e dalla giustizia di Dio il ritorno della fiducia, ed il trionfo dei suoi
diritti legittimi”. Accade l’incredibile: Francesco II lascia la capitale
senza opporre resistenza per risparmiare ai napoletani la guerra e a Napoli la
distruzione. Ecco il manifesto che indirizza ai sudditi immediatamente prima
della partenza: “Una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha
invaso i miei Stati, nonostante che io fossi in pace con tutte le potenze
europee”. Il corpo diplomatico conosce il mio amore per
Napoli e il mio desiderio di “guarentirla dalle rovine e dalla guerra, salvare i suoi abitanti e le loro proprietà, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni di arte, e tutto quello che forma il patrimonio della sua civiltà e della sua grandezza, e che appartenendo alle generazioni future è superiore alle passioni di un tempo. Discendente di una Dinastia che per 126 anni regnò in queste contrade […] i miei affetti sono qui. Io sono Napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio ai miei amatissimi popoli, ai miei compatrioti. Qualunque sarà il mio destino, prospero od avverso, serberò sempre per essi forti ed amorevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini. Che uno smodato zelo per la mia corona non diventi face di turbolenze”. Il sovrano lascia Napoli il 6 settembre e si ritira a Gaeta dove tenta una valorosa quanto inutile difesa, sostenuto dall’eroismo della moglie Maria Sofia e dall’attaccamento dell’esercito. L’8 dicembre 1860, il giorno dell’Immacolata, Francesco II invia ai popoli delle due Sicilie un manifesto per ricordare ancora una volta le iniquità che ha subite: “Il mondo intero l’ha visto; per non versare sangue, ho preferito rischiar la mia corona. I traditori, pagati dal nemico straniero, sedevano nel mio consiglio, a fianco dei miei fedeli servitori; nella sincerità del mio cuore, non potevo credere al tradimento […] In mezzo a continue cospirazioni, non ho fatto versare una sola goccia di sangue, e si è accusata la mia condotta di debolezza. Se l’amore più tenero per i sudditi, se la confidenza naturale della gioventù nella onestà altrui, se l’orrore istintivo del sangue meritano tal nome, sì, io certo sono stato debole. Al momento in cui la rovina dei miei nemici era sicura, ho fermato il braccio dei miei generali, per non consumare la distruzione di Palermo. Ho preferito abbandonare Napoli, la mia cara capitale, senza esser cacciato da voi, per non esporla agli orrori d’un bombardamento”. “Ho creduto in buona fede che il re del Piemonte, che si diceva mio fratello e mio amico, che si protestava disapprovare l’invasione di Garibaldi […] non avrebbe rotto tutti i trattati e violate tutte le leggi per invadere tutti i miei stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra”. Oltre che dai numerosi massoni presenti a corte e nei vertici dell’esercito, Francesco II è tradito dal cugino Vittorio Emanuele, “re galantuomo”, che ne invade il regno il 15 ottobre 1860. L’ordine che l’esercito sabaudo riporta è quello che Francesco descrive nel proclama appena citato: “Le finanze non guari sì fiorenti, sono completamente ruinate, l’amministrazione è un caos, la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni sono piene di sospetti, in luogo della libertà, lo stato d’assedio regna nelle province e un generale straniero pubblica la legge marziale decretando le fucilazioni istantanee per tutti quelli dei miei sudditi che non s’inchinano innanzi alla bandiera di Sardegna […] Uomini che non hanno mai visto questa parte d’Italia […] costituiscono il vostro governo […] le Due Sicilie sono state dichiarate province d’un regno lontano. Napoli e Palermo saranno governate da Prefetti venuti da Torino.
Chi segue questo sito sa che Saviano non ci ha mai entusiasmato – ovviamente ci riferiamo alla sua opera (abbiamo letto il libro “Gomorra” e abbiamo visto anche il film che ad esso si è ispirato) e non alla persona, per la quale abbiamo tutta la comprensione umana possibile. Ciononostante venerdì sera – L’era glaciale in onda su Raidue alle 23.40 del 25 settembre 2009, intervista con Daria Bignardi – siamo rimasti colpiti dall’astio mostrato dai ragazzi di Casal di Principe nei confronti dello scrittore. Sono le stesse risposte date tempo fa da ragazzi diversi di quel comune, ma stavolta i toni erano ancora più rancorosi e pieni di livore. …………