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Il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara nella storia

Posted by on Ott 12, 2019

Il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara nella storia

             Il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara nella storia

Premessa

Dieci anni or sono (1995) avevo scritto per la rivista “Calabria letteraria” l’articolo che riporto, al quale ora ho apportato alcuni aggiornamenti, alla luce di nuove acquisizioni.

Negli anni scorsi ero stato stimolato dal compianto Direttore Frangella a rivedere ed aggiornare l’articolo, che a lui era piaciuto.

Il Direttore Frangella non è più tra noi ed io penso di onorare la sua memoria

seguendo il consiglio che tanti anni fa mi aveva dato.

Propongo l’articolo aggiornato al nuovo Direttore Franco Del Buono, assieme all’augurio di sereno e buon lavoro. Egli è certamente degno del suo illustre predecessore.

Tra appena un lustro saranno duecento anni che Fabrizio Ruffo di Bagnara, Cardinale dell’ordine dei Diaconi di Santa Romana Chiesa, attende dalla storia un atto di giustizia: liberare definitivamente dalle menzogne e dalle partigiane montature – in ogni tempo suggerite ed alimentate dal clima politico del momento o influenzate dall’ambiente dal quale provenivano – che fecero di lui un capo di bande brigantesche che, ottenuta la capitolazione di Napoli, affogò nel sangue l’ultimo anelito di libertà dei patrioti repubblicani.    

Giusta o ingiusta che fosse la sua causa, Egli ha questo diritto.

In verità la storia lo ha da tempo riabilitato! Tuttavia c’è ancora, nel mondo della cultura, chi non ha accettato quella riabilitazione e, nel giudicarlo, quasi fossero Vangelo, continua ad ispirarsi agli scritti del Cuoco, del Botta, del Colletta. Questi Autori che, nello scrivere anche di storia non seppero superare le emozioni derivanti dalla loro condizione di contemporanei ed attori, appartenenti alla fazione dei soccombenti, dissero del Cardinale le cose più infamanti. Oggi, che la consultazione di archivi è possibile anche con scarso impegno, risulta facile, a chi non accetti la riabilitazione operata dagli storici nostrani e stranieri, effettuare specifiche ricerche e riaprire il processo, nel caso di nuove acquisizioni documentali storicamente attendibili.

Vincenzo Cuoco, studioso di letteratura, filosofia ed economia, per avere aderito alla Repubblica fu esiliato da Napoli. Durante la dominazione francese ritornò a Napoli nel 1806, dove ricoprì alte cariche, che conservò anche dopo il ritorno dei Borbone. Scrisse, tra l’altro (1800), “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”. Le falsità, le ingiurie, le atrocità che attribuì a Fabrizio Ruffo trovano parziale spiegazione, ma non giustificazione, nella impossibilità che ebbe di controllare le notizie che gli venivano riferite. D’altra parte la difficoltà di comunicazione era tale che la notizia dei progressi della spedizione Sanfedista giunse a Napoli soltanto quando quelle truppe furono arrivate a Nola, come dire alle porte della Città! Lo scrisse lo stesso Cuoco a pag. 263 della seconda edizione di quel suo libro (1806), nel quale, ammettendo di avere scritto basandosi soltanto sui propri ricordi, non poté fare a meno di rivedere  alcune  sue precedenti  asserzioni, limitatamente, però, a taluni avvenimenti.

Carlo Botta, piemontese, era un medico militare al seguito delle armate francesi. Fu uomo politico ed autore di tre opere storiche. In una di queste: “Storia d’Italia dal 1789 al 1814”, non seppe fare di meglio che unirsi ai faziosi nel coro di calunniose bugie, alle quali quei contemporanei del Cardinale ricorsero, scrivendo dell’impresa di questi. Questo libro, a parere degli storici, risente negativamente della mancanza di diretta informazione ed è privo di giudizio critico. In esso il Botta riportò alla parola quanto scritto dal Cuoco.

Pietro Colletta, fu Generale dell’esercito napoletano. Nel ’99 aderì alla repubblica, ma restaurata la Monarchia ritornò al servizio dei Borbone. Passò a servire i Francesi, nel decennio del loro dominio sul Regno di Napoli. Durante tale periodo fu, tra l’altro, giudice di famose cause politiche. Egli, nella sua “Storia del Reame di Napoli” -opera invero universalmente riconosciuta non solo di parte ma anche di scarso valore scientifico-, a conferma della sua animosità e prevenzione, presenta Fabrizio Ruffo con parole addirittura diffamatorie, ingiuriose e menzognere. Ne scrisse in questi termini:

“Fabrizio Ruffo, nato di nobile ma tristo seme, scaltro per natura, ignorante di scienze o lettere, scostumato in gioventù, lascivo in vecchiezza, povero di casa, dissipatore, prese ne’ suoi verdi anni il ricco e facile cammino delle prelature. Piacque al Pontefice Pio VI, dal quale ebbe impiego supremo nella Camera pontificia; ma, per troppi e subiti guadagni perduto ufficio e favore, tornò dovizioso in patria, lasciando in Roma potenti amici, acquistati, come in città corrotta, co’ i doni e i blandimenti della fortuna”.

Di parere diverso dal Colletta e dagli altri due autori sopra menzionati, furono altri napoletani, scrupolosi studiosi di storia di quei tempi, quali Benedetto Croce, Raffaele Palumbo, Benedetto Maresca, i quali lumeggiarono e collocarono al giusto posto eventi e personaggi del dramma che insanguinò Napoli alla fine del XVIII secolo.

Ma come nacque e chi fu veramente Fabrizio Cardinale Ruffo?

Egli appartenne ad un ramo dell’antichissima Casa dei Ruffo di Calabria: a quello dei duchi di Baranello e principi di S. Antimo, diventati proprio nel ‘99  duchi di Bagnara, per estinzione del ramo principale.

Fabrizio Ruffo nacque a San Lucido, baronia della sua famiglia, il 16 settembre 1744 dal duca Letterio e da Giustina Colonna, principessa di Spinoso, marchesa di Guardia Perticara e signora di Accetturo e Gorgoglione.

Dovendo dare notizie sull’educazione ricevuta dal bambino Fabrizio, ritengo utile riportare quanto scrisse, dieci anni dopo la morte del Cardinale, l’Abate Domenico Sacchinelli in “Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo”, poiché egli riportò un episodio che potrà poi spiegare l’interesse che, il Papa Pio VI, ebbe per Fabrizio Cardinale: “Non ancora aveva compiti quattro anni quando fu portato in Roma per essere ivi educato sotto gli auspici del di lui zio (in verità era suo prozio, essendo fratello del suo avo Paolo) Cardinal Tommaso Ruffo, Decano allora del Sacro Collegio. Trovavasi nella Corte di quel Porporato, in qualità di uditore, il Prelato Giovanni Angelo Braschi di Cesena, il quale per far carezze al piccolo Fabrizio il prese a farlo sedere sulle sue ginocchia. Volea Fabrizio giocare con la bella chioma di Braschi: tentò più fiate di svolgerne gli inanellati capelli, ma venne sempre con diligenza impedito; infastidito finalmente di quell’ostacolo superiore alle sue forze, colla sua mano bambina gli tirò una guanciata, della quale occorrerà parlare.

Le amorevoli cure del Cardinal Tommaso per l’educazione e studi di Fabrizio, non furono senza grande effetto. Superò Egli di molto l’aspettativa che si avea de’ suoi sublimi talenti; e nell’età ancor giovanile, avea già acquistato fama di molto sapere nelle scienze filosofiche, e specialmente nelle fisiche ed in quelle di economia pubblica; e perciò gran nome lasciò di sé nell’illustre Collegio Clementino, in cui passò più anni in qualità di alunno, ugualmente che ve li aveva passati il di lui zio Cardinal Tommaso, soggetto degnissimo del Triregno, come lo chiama ne’ i suoi annali il Muratori.

Salito Gio’ Angelo Braschi alla Cattedra di S. Pietro col nome di Pio VI, non si era dimenticato della guanciata ricevuta, e spesso, in aria di benevolenza, ne faceva menzione a Fabrizio. Quella sovrana benevolenza non rimase inoperosa; poiché tanto per merito personale di Fabrizio, quanto per la gratitudine alla memoria del Cardinal Tommaso, il Santo Padre non tardò nominarlo prima a Chierico di Camera, ed indi a Tesoriere generale di Roma, che era allora (sia detto per chi l’ignorasse) la carica più cospicua, e la più importante della Stato Pontificio; perché in Roma il Tesoriere avea quelle stesse attribuzioni, che negli altri regni sono divise a’ ministri delle finanze, dell’interno, della guerra, e della marina”.

A proposito della nomina a tesoriere, l’austriaco barone von Helfert, il quale con grande meticolosità studiò e ricercò quanto era stato scritto sulla rivoluzione e controrivoluzione del 1799, nel suo libro “Fabrizio Ruffo…” scrisse: “nella quale carica il Ruffo non solamente attivò una quantità di provvedimenti utili all’universale, ma rimise in ordine e assetto tutto il sistema di finanze papali”. Ed ancora “Non mancò senza dubbio d’attirargli disfavore la fermezza con la quale quei provvedimenti recò ad effetto; una gran parte delle classi privilegiate era sdegnata contro di lui per avere diminuiti gli antichi diritti feudali; i contrabbandieri l’odiavano e maledivano perché i nuovi ordinamenti doganali sciupavano loro il mestiere […] Però la vastità delle sue cognizioni era ammirabile; si hanno suoi scritti sulle fonti e condutture d’acqua, sui costumi delle diverse specie di piccioni, sui movimenti delle milizie, sull’equipaggiamento della cavalleria. I romani in complesso avevano più ragione di essergli grati che di sbeffarlo; il suo nome è collegato a istituzioni di cui dura ancor oggi la benefica efficacia. Nessuno poteva attaccarlo nella interezza del suo carattere pubblico. Anche gli avversari dovevano rendergli giustizia, e confessare, che tutto quello a cui metteva le mani sapeva con rara energia e con incontestata abilità condurlo a fine”.

L’avvedutezza e le capacità del Tesoriere Ruffo furono tali che Papa Pio VI gli propose di trovar modo di potenziare e di rendere economicamente attiva l’agricoltura nello Stato di Castro e nel Ducato di Ronciglione. La riforma agraria attuata dal Ruffo portò le rendite di quelle terre da 50200 scudi, che erano, a 67200. Ma furono avvantaggiati soprattutto i contadini, ai quali erano state concesse le terre in “Enfiteusi perpetua a linea mascolina, progressiva nei maschi dell’ultima femmina di ciascun enfiteuta”. Il Papa ne fu così contento che volle estendere quella riforma a tutto lo stato pontificio. Tali riforme, che abolivano di fatto gli abusi feudali, venivano tanto più apprezzate in quanto erano state concepite e messe in pratica da un Cardinale appartenente ad una famiglia, tra le più illustri della nobiltà napoletana, ricca di feudi. La riforma agraria e le possibilità di benessere che concesse ai contadini gli inimicarono, per contro, la nobiltà feudale ed i grandi proprietari terrieri. In ogni occasione comunque il senso che ebbe dello Stato e la consapevolezza che un Ministro debba sempre operare al fine di tutelare il superiore interesse della Nazione, gli diedero la forza di superare ogni considerazione opportunistica ed il coraggio di opporsi a quanto riteneva ingiusto e di ostacolo al bene comune. A questo proposito l’anonimo autore della “Istoria della casa dei Ruffo” scriveva nel 1873: “… fu sì popolare la sua fama che tuttavia lo si celebra per modello di tesoriere, per grande economista, per uomo di magnanimi disegni e di opere grandiose e benefiche”.                                              Come uomo la sua indole fu umana e generosa. Il Sacchinelli ed il von Helfert riferiscono un episodio che conferma la sensibilità del suo animo. Visitando un giorno i lavori idraulici per il prosciugamento delle Paludi Pontine ed inoltrandosi da solo a caccia nella foresta, il Cardinale vide un lavoratore colpito dalla malaria. Egli allora se lo caricò sulle spalle e lo portò per un lungo tratto di sentiero sino alla sua carrozza. Lo condusse a Roma all’Ospedale di Santo Spirito, dove lo fece curare a sue spese.

Scrisse il Colletta che il Cardinale uscì ricco dall’incarico di Tesoriere! Il Sacchinelli non fu dello stesso parere, poiché a sua volta scrisse: “Il disinteresse di Ruffo, e la sua illibatezza nello esercizio della ricca carica di Tesoriere, ricordavano a Roma gli antichi eroi della Storia. In quella carica stessa nella quale altri da poveri divenivano in poco tempo ricchi, Egli in molti anni di esercizio non si avea formato un peculio da poter supplire alle indispensabili spese del corredo Cardinalizio. Gli convenne perciò prendere il denaro ad usura, ipotecando, precedente Pontificio Chirografo, i beni della Prelatura Ruffo”. Von Helfert non riferì a questo proposito cose diverse:         “Conferitogli nel Concistoro del 29 settembre 1791 il cappello cardinalizio, il Ruffo lasciò il suo posto di tesoriere, che aveva dato modo ai suoi predecessori di accumular grandi ricchezze, e lo lasciò con le mani vuote, tanto che gli fu mestieri di contrarre un imprestito per coprire le prime spese alla sua novella dignità”.

Debbo però rilevare un errore, in questa affermazione di von Helfert. È vero che la nomina del Ruffo al cardinalato risale alla data che questo autore cita (29 settembre 1791: era una di quelle nomine che si definivano “in pectore”), ma è anche vero che essa fu pubblicata soltanto il 21 febbraio 1794 e che il Ruffo esercitò la carica di Tesoriere generale e le altre di cui era investito, anche negli anni ’92 e ’93 ed in parte del ’94. Ciò serve a chiara dimostrazione che il Pontefice non lo fece Cardinale, come asserì il Colletta, per allontanarlo da Roma e dalla carica di Tesoriere: quando lasciò gli incarichi di governo e Roma Fabrizio Ruffo era Cardinale già da tre anni! 

Resta da chiarire la nascita di Fabrizio Ruffo da “nobile ma tristo seme” e l’essere stato egli “ignorante di scienze e lettere “, come ha scritto Pietro Colletta.

Alla prima affermazione del Colletta, rispose Alessandro Dumas: “La sua nascita adunque, come si scorge, era non solo nobile ma illustre. Infatti vi è un proverbio italiano che dice per accennare i principi della nobiltà nei vari paesi: Gli Apostoli in Venezia, i Borboni in Francia, i Colonna a Roma, i Sanseverino a Napoli e i Ruffo in Calabria. Ora si è visto che il cardinale era Ruffo pel padre e Colonna per la madre”.

Tristo seme! Viene a me ora in mente cosa scrissero gli storici su Fulcone Ruffo di Calabria, poeta e glorioso soldato, carissimo a quel grande Imperatore che fu Federico II, o su Fabrizio Ruffo Priore di Bagnara e Gran Priore di Capua, Capitan Generale dell’armata Gerosolimitana, vincitore assieme a Morosini della battaglia di Candia, il quale con perizia e grande valore salvò a Zoclaria, presso la Canea, il grosso delle forze navali veneziane e francesi già sopraffatto dai turchi, o su Gaetano Ruffo, anche egli poeta e luminosa figura di patriota che, anelando l’unità d’Italia, bagnò del suo giovane sangue il suolo di Calabria, o, per arrivare sino ai nostri tempi, cosa si scrisse su Fulco Ruffo di Calabria, il “Cavaliere del cielo”, eroe e medaglia d’oro della guerra ’15-’18! Ma il Generale Pietro Colletta non conosceva evidentemente la storia e non visse tanto da conoscere il martirio di Gaetano e l’eroismo dell’ultimo Fulco!

Alla terza affermazione “ignorante di scienze e lettere” risponde ai giorni nostri Mario Casaburi nella sua opera biografica: Il “Cardinale Fabrizio Ruffo” (Rubbettino Editore).

Scrivendo degli studi del giovane Fabrizio presso l’esclusivo Collegio Clementino, Casaburi ci dà queste notizie:

 “[…] Sollecitavano i padri nei discenti anche un sano spirito di emulazione. Era ritenuto molto utile nelle varie classi  per ogni mese  “qualche saggio scolastico privato o pubblico a ciò che tutti siano esercitati nel recitare et ogni scuola habbi il suo honore per il profitto de’ scuolari”. Lingua d’uso per discenti e maestri non poteva essere che il latino.

Era senza dubbio quello del Clementino un ambiente congeniale al carattere di Fabrizio, che per  ben dodici anni assorbì con straordinaria efficacia tutto quanto gli veniva insegnato.

Il giovane superò in poco tempo il comprensibile trauma iniziale, era già abituato a stare fuori casa, lontano da genitori, fratelli e sorelle, e in poco tempo divenne un elemento di spicco, un laeder, del Clementino, capace di imporsi su tutti e in grado di distinguersi tra i suoi compagni per intelligenza, concretezza operativa e, soprattutto, per il grande amore che nutriva per i classici latini e greci […]”.

Il Re Ferdinando IV, quando seppe il Ruffo libero da incarichi presso la Corte Pontificia, lo invitò a trasferirsi a Napoli, offrendogli l’Intendenza di Caserta e la ricca badia di Santa Sofia di Benevento, dichiarata di regio patronato e per tale motivo contestata dal governo pontificio. Ottenuta l’autorizzazione dal Papa, il Cardinale si trasferì a Caserta e si dedicò alle fabbriche e manifatture di seta della colonia di San Leucio, portandole in pochi anni ad un livello produttivo mai raggiunto prima. Immerso nei suoi studi visse a Caserta sino al 1799, sognando -o addirittura presagendo- futuri “tempi ed occasioni di azione”.

L’ultimo decennio del XVIII secolo trovò il Regno di Napoli in una situazione economica disastrosa. Il commercio era fermo, quasi paralizzata l’industria, oppressa da assurde e complicate leggi l’agricoltura. I ceti più poveri erano super tassati, mentre erano fiscalmente privilegiati i ceti più ricchi.

Da quando la Regina, l’austriaca Maria Carolina, in virtù della nascita del Principe ereditario, era entrata a far parte del Governo (era previsto nel contratto di matrimonio), il potere era passato nelle sue mani ed in quelle del generale Acton, chiamato a Napoli dalla Regina nel 1778. Il Re, più propenso ai piaceri che alle cure del Regno, che aborriva, interveniva negli affari di Stato soltanto per avallare una spregiudicata politica estera, che portò il Paese ad affrancarsi dalla tutela spagnola, per cadere sotto l’influenza prima austriaca e poi degli inglesi, che lo spinsero ad entrare in conflitto con la Francia.         

Ormai il Regno era completamente nelle mani del cosiddetto “partito inglese”, essendo Acton Primo Ministro, Lord Hamilton, ambasciatore inglese -la cui consorte godeva i favori della Regina (e del Nelson)- e questo Ammiraglio, con la sua flotta, nel porto di Napoli.

Nel 1793 l’esercito napoletano contava 36 mila uomini -in verità per metà stranieri indisciplinati e poco addestrati- e la marina 102 navi da guerra, di diverse classi, armate di 618 cannoni e con un equipaggio di 8600 marinai. Il 12 luglio di quell’anno il Primo Ministro Acton e Lord Hamilton avevano fatto firmare al Re un trattato di alleanza con l’Inghilterra. Questo trattato poneva la Nazione napoletana tra quelle che avevano il dominio del Mediterraneo. Nonostante quell’armamento -il cui costo aveva non poco contribuito al grave impoverimento della Nazione- e quel trattato con gli Inglesi, il Governo napoletano non ardì reagire ed accettò le imposizioni francesi, quando nel porto di Napoli si presentò l’Ammiraglio La Touche al comando di una squadra di 14 navi da guerra francesi per imporre, sotto la minaccia dei cannoni, il riconoscimento del Governo repubblicano di Francia, che tempo prima il Re non aveva voluto riconoscere.

Quelli che seguirono furono anni disgraziati per i napoletani. La polizia, nell’intento di frenare e controllare l’insofferenza più o meno apertamente dimostrata da taluni strati sociali, seminava il terrore effettuando arresti indiscriminati che i tribunali trasformavano in condanne severe e numerose furono le sentenze capitali. C’era stata la sfortunata guerra con la Francia e l’armistizio del maggio 1796, imposto da Napoleone, che combatteva, vittorioso, sul suolo italiano. Ma la pace durò poco ed una nuova disastrosa guerra contro la Francia terminò con una pace pagata a caro prezzo ed ottenuta a condizioni umilianti.

Il 1798 vide le truppe di Napoleone a Roma, la proclamazione della Repubblica romana e l’ottantenne Papa Pio VI esule. Egli, prigioniero a Valence, cessò di vivere il 29 agosto 1799.

Nei primi sei mesi del 1798, le coste siciliane patirono incursioni dal naviglio francese, ma dopo la strepitosa vittoria navale, ottenuta dall’Ammiraglio Nelson in agosto di quello stesso anno ad Aboukir, una nuova ventata di coraggio arrivò alla Corte di Napoli. Ma ormai il destino del Regno di Napoli era segnato. Con l’esercito francese alle porte e gli Inglesi in casa, la sua indipendenza era solo apparente ed esisteva addirittura il concreto pericolo che il più antico Regno della Penisola scomparisse per sempre. I contrapposti interessi francesi ed inglesi, in assenza di una saggia politica estera – d’esito forse felice negli anni precedenti – tendente a mantenere neutrale la Nazione, che in quella guerra occupava geograficamente un’importante posizione strategica, avevano trasformato il Regno in una terra da conquistare.

La politica interna, non era stata più avveduta. Le finanze della Stato, come si è detto, erano fortemente impoverite. Il popolo era stanco e le classi sociali più elevate frastornate e divise. Intellettuali e Lazzari – tale era il nome che gli Spagnoli, durante il loro governo, avevano affibbiato ai più poveri e derelitti -, decimati i primi ed eccitati i secondi dal regime di persecuzione degli ultimi anni, sembravano ora affrontarsi. Aristocratici e borghesi erano incerti su chi appoggiarsi, per difendere il loro patrimonio. L’interesse e gli intrighi inglesi, così autorevolmente rappresentati in seno al governo, avevano portato il Paese sulla soglia della guerra civile, quando le vittoriose truppe francesi suggerirono alla Corte di abbandonare Napoli per Palermo.

Il trasferimento avvenne sulla nave inglese Vanguardia, mentre Nelson affondava nel porto le navi napoletane; si disse per non farle cadere in mano al nemico. La partenza dei reali avvenne alle ore 20:30 del 21 dicembre 1798, ed ebbe la consistenza di una vera e propria fuga!

Un mese dopo, il 23 gennaio 1799, il generale Championnet entrava in Napoli e la Repubblica napoletana era ufficialmente proclamata! Strano destino quello di questa neonata Repubblica, che infiammava in quei giorni i più nobili ed eletti intelletti napoletani, destinata, come certamente era, a cedere prima o poi alla prodigiosa ambizione di potenza del novello Cesare francese, alle rivendicazioni spagnole o agli interessi inglesi.

Gli Inglesi e gli Spagnoli, da sempre, non amavano le repubbliche e Napoleone, mentre le creava, già dava segni di preferire anch’egli le monarchie. Lo dimostrò con i fatti appena dieci mesi dopo, quando il 18 novembre 1799 divenne Primo Console, sulle ceneri del Direttorio e del Consiglio dei cinquecento. Da quel momento non solo non creò più repubbliche, ma da lì a pochi anni si sarebbe incoronato Imperatore ed avrebbe trasformato in monarchie quelle poche repubbliche create e scelto i Re in seno alla propria famiglia.

Benedetto Croce nel suo “La rivoluzione napoletana del 1799” in prefazione scrisse: “[…] se i repubblicani napoletani avessero avuto piena coscienza della situazione, e avessero seguito l’istinto della propria salvezza, una sola linea di condotta si presentava semplice e dritta: fare ai francesi ciò che, poco dopo, i francesi, quando il loro interesse lo richiese, non ebbero ritegno di fare ad essi: abbandonarli, e intendersela con i propri Sovrani.

Per fortuna, i Patrioti di Napoli erano grandi idealisti e cattivi politici. Nessuno pensò a tradire i francesi, e entrare in accordi coi Sovrani; moltissimi, amanti disinteressati della Repubblica, erano pronti a difenderla sino all’estremo, e qualunque cosa accadesse. Così tennero in piedi, anche dopo la partenza dell’esercito francese, la loro barcollante Repubblica, tra illusioni smisurate e piccoli effetti, propositi arditi e mezzi deficienti: una vita che oscillò tra la commedia e la tragedia, sinché quest’ultima, alla fine, prevalse. La Repubblica cadde. Ma se i patrioti di Napoli, per il loro idealismo, la loro ostinazione e la loro mancanza di senso politico, andarono incontro a certa rovina, furono questi stessi fatti e circostanze che salvarono il frutto dell’opera loro. Nella storia, è grandissima quella che potrebbe dirsi l’efficacia dell’esperimento non riuscito, specie quando vi si aggiunga la consacrazione di una eroica caduta”.                

Il 14 gennaio 1799 giunse a Palermo il Cardinale Fabrizio Ruffo. Non si conoscono i motivi che lo trattennero a Napoli ben tre settimane. La tradizione orale di Casa Bagnara affermava che Fabrizio -il quale aveva vivamente sconsigliato al re il trasferimento della corte a Palermo (a tale riguardo esistono effettivamente documenti), trasferimento che egli considerava fuga non necessaria, vergognosa e, comunque, prematura– rimase a Napoli per valutare la possibilità di riordinare almeno una parte dell’esercito, ormai senza guida, ed opporsi alle deboli truppe francesi d’invasione. Suo fratello Francesco raggiunse Palermo ancora più tardi, assieme al generale Pignatelli che, per mandato reale, avrebbe dovuto difendere Napoli. Furono entrambi arrestati al momento dello sbarco, ma liberati il giorno dopo, avendo il Pignatelli presentato al re giustificazioni che questi ritenne valide.  

Alla tradizione orale non si può riconoscere validità di documento storico; l’ho qui riferita soltanto perché tale tesi fu sostenuta anche da altri Autori.

Il Cardinale trovò che a Palermo nella corte regnava un’atmosfera di sconforto e di paura. Il Re sembrava sfuggire alla tragica realtà, apparendo rassegnato ed assente. La Regina, la cui speranza di salvezza era riposta esclusivamente nell’Ammiraglio Nelson, scriveva in quei giorni alla sua confidente Lady Hamilton “qui tutti siamo più morti che vivi”.

Piero Bargellini, nel suo romanzo FRA DIAVOLO, così descrive l’ambiente di corte in quelle prime settimane di esilio:

“Soltanto un personaggio, che ancora non abbiamo mai nominato, s’aggirava per la corte con un volto dove non era né viltà né indolenza. Aveva cinquantacinque anni: i capelli lunghi, precocemente imbiancati, gli s’arricciolavano sugli orecchi quasi per natura. Nel volto pallido s’infossavano due occhi ardenti di Calabrese. Il naso lungo e la bocca ermetica. Tutto nero ed accollatissimo il costume, con sul petto una croce e sulla spalla manca, un mantello rosso: principe della Chiesa. […] Era il Cardinale Fabrizio Ruffo, nato in Calabria, educato in Roma dal canonico di Cesena che col nome di Pio VI doveva morire prigioniero a Valenza. Tutt’altro che ignorante, come di lui è stato ingiustamente scritto, si era dedicato alla scienza del secolo: la economia politica, mantenendo anche nelle opere scritte un senso di realismo e di equilibrio che non ebbero gli < astratti speculatori >, com’egli stesso chiama gli infausti illuministi.

Per avere scontentato i feudatari con la riforma enfiteutica – che sarà poi solo merito di Leopoldo di Toscana -, per avere scontentato gli speculatori con la libertà di commercio – che sarà poi solo merito dei rivoluzionari -, per avere danneggiato contrabbandieri e loro protettori con le riforme doganali, egli fu licenziato da Roma […]. Malvisto dal ministro Acton, spregiato dall’ammiraglio Nelson, burlato dal Re che s’è visto non aveva molta simpatia per gli abiti talari, non curato dalla Regina che sognava o filosofi a reggere stati o generali a imprendere guerre, Fabrizio Ruffo era appena sopportato nella reggia a Napoli. Ma a Palermo, nella disgrazia, quel volto sereno e quegli occhi in fondo ai quali non si volea mai spegnere il fuoco della speranza, cominciò ad avere un fascino nuovo. E il fascino aumentò quando, dopo neppur venti giorni che il Regno era perso, si seppe che egli pensava alla riconquista”.

Munito di un diploma reale, che lo nominava VICARIO GENERALE DEL REGNO, Fabrizio Ruffo si trasferì a Messina e, da qui partito, sbarcò in Calabria la mattina di venerdì 8 febbraio 1799.

Sull’inizio dell’impresa del Cardinale, riporto quanto scritto, nel suo libro   “Giacobini e Sanfedisti in Calabria”, dal compianto On. prof. Gaetano Cingari, ordinario di storia moderna presso l’Università degli studi di Messina:     “[…] Di mezzi, in verità, il Ruffo ne trovò ben pochi: già le prime lettere del suo interessante epistolario di quei mesi mettono in luce tutte le difficoltà dell’audace spedizione. A Messina, anzi, erano palesi i sintomi di una non lontana rivolta giacobina, che, se fosse riuscita a collegare insieme Messina e Reggio, avrebbe infranto ogni suo proposito.

Nondimeno il Cardinale non si lasciò fermare dalle remore amministrative né dall’atmosfera di sospetto e di paura di cui fu circondato all’indomani del suo arrivo a Messina. Egli, difatti, era un uomo di molta capacità e, sebbene non avesse una notevole esperienza militare, possedeva le qualità peculiari dell’ottimo condottiero: era risoluto e ponderato e possedeva soprattutto un nativo senso del limite e dell’opportunità. D’altronde, nato in Calabria, conosceva i costumi e forse un po’ i problemi dei Calabresi; infine, uomo di chiesa, poteva contare sull’appoggio dei prelati e, ancor più, del basso clero, di cui seppe sollecitare la vanità e anche riconoscere i troppo conculcati diritti. […] Così, sebbene esistessero larghe promesse per la formazione di un primo forte nucleo di realisti, il Ruffo si trovò a Pezzo pressoché‚ solo.”

Allo sbarco a Capo Pezzo, in Calabria, il Cardinale era accompagnato dal marchese Malaspina, dall’abate Lorenzo Sparziani, dal cameriere personale Carlo Cuccaro, da tre domestici, da Annibale Caporossi e da Domenico Petromasi.

Superate le prime difficoltà, ebbe inizio la marcia di riconquista del Regno. Scrive il Cingari: “E non si deve dimenticare che l’arrivo del Ruffo in Calabria aveva suscitato larghe speranze tra i Calabresi e specie nel basso popolo; si sperava che la vittoria delle forze sanfedistiche avrebbe recato un sensibile sollievo alla vita economica e sociale, eliminando le cause più dirette del disordine amministrativo e delle ricorrenti ingiustizie di cui restava vittima l’indifeso ceto popolare”.

Dallo stesso Cingari si apprende – e la notizia, ampiamente documentata, è in netto contrasto con quanto sin’ora è stato scritto – che: “Scarso dunque, contro ogni previsione, fu l’apporto dei paesi posti nei feudi della famiglia Ruffo e pressoché‚ trascurabile la partecipazione degli abitanti di Scilla e di Bagnara.”  

Sin dall’inizio della sua impresa, il Cardinale dimostrò, con i fatti, che aveva  a cuore la buona riuscita della sua spedizione, ma non a scapito del superiore interesse futuro del Regno. Si era reso subito conto -o meglio forse faceva parte di un progetto lungamente da lui meditato negli ultimi anni- dell’inutilità di provvedimenti economici radicali che, sebbene vantaggiosi al momento, si sarebbero resi pericolosi, a pacificazione avvenuta, per la struttura economica ed amministrativa dello Stato. Scrive ancora il Cingari: “Egli risolse di eliminare i balzelli più gravosi e, in primo luogo – si badi – quelli che, per il fatto che contribuivano ad arricchire i galantuomini, suscitavano più frequentemente le aspre reazioni popolari”.

Nonostante le gravi preoccupazioni ed i massacranti impegni che lo assillavano in quei tempi, già da Montaleone (la odierna Vibo Valentia), il Cardinale iniziò ad assumere provvedimenti diretti ad alleviare la forte crisi del commercio della seta, che aveva inevitabilmente causato conseguenze fortemente limitative sulla produzione di questo prodotto, che da sempre rappresentava la migliore risorsa della intera regione. Rimosse non soltanto gli ottusi regolamenti dell’Amministrazione Generale, che avevano paralizzato negli anni precedenti questo commercio, ma modificò anche il sistema doganale in modo da favorire tutte le attività commerciali. Scrive il Cingari: “A differenza di quel che non avevano saputo o potuto fare i repubblicani, il Ruffo cercò di alleggerire il carico fiscale, eliminando, se non i più pesanti contributi, certo i più impopolari: l’abolizione degli annotatori e dei loro sostituti e dei soprabilancieri, figure odiatissime della vita calabrese, più che ogni altro provvedimento valse a vieppiù avvicinare il ceto popolare al Ruffo e ad alimentare il concorso dei realisti all’Armata cristiana. La quale, anche per effetto dell’editto di perdono nei confronti di tutti coloro che, pur compromessi nel moto repubblicano, ritornavano all’obbedienza, si apprestava a marciare verso paesi spontaneamente <realizzatesi>”.

Partì, il Cardinale, da Monteleone con circa 4000 uomini diretto, attraverso varie tappe, a Catanzaro.

Questa Città creò non poche preoccupazioni al Porporato, essendo il partito repubblicano più radicato che altrove.

Sino a quel momento gli uomini del Cardinale non avevano trovato oppositori, essendosi <realizzati> spontaneamente i paesi incontrati.

Ma anche Catanzaro si <realizzò> spontaneamente, mentre ancora il Cardinale era con la sua truppa a Borgia, dove lo raggiunse per trattare la resa la delegazione catanzarese. Da quella delegazione il Cardinale seppe anche che in Catanzaro regnava un clima di terrore ed una grande anarchia, che consentiva efferate vendette private ed atroci delitti. Scrisse allora a D. Francesco Giglio, comandante delle masse che sarebbero entrate in Catanzaro, dicendo:     “[..] che la guerra dovea farsi soltanto à giacobini ostinati, i quali stessero con le armi in mano, non già contro coloro, che sebbene per l’addietro fossero stati aderenti a’ ribelli, si fossero poi pentiti e rimessi alla clemenza del Re, e molto meno contro le robe dei cittadini pacifici. Gli ordinò pertanto, che sotto la sua responsabilità procurasse di far subito finire l’anarchia, i saccheggi, le vendette private e qualunque altra offesa per via di fatto”.

Sulla <realizzazione> di Catanzaro il Cingari scrive: “Il Ruffo -come s’è detto-  non andò a Catanzaro, ma preferì fermarsi alla marina prima di riprendere la sua marcia di riconquista. Comunque ciò non significa ch’egli non ebbe particolare cura per i problemi sorti dalla <realizzazione> della capitale della Calabria Ultra. Viceversa egli dedicò i pochi giorni di sosta per ricercare utili soluzioni ai problemi interni della città, riordinandone l’amministrazione e accarezzando l’idea di separare Reggio da Catanzaro, non solo per snellire l’attività amministrativa e giudiziaria, ma per meglio controllare l’attività politica delle due città, molto “guaste” e fonte di pericolosi rivolgimenti. Inoltre precisò ancor meglio il suo atteggiamento nei confronti delle richieste popolari con provvedimenti atti a moderare i diritti dei baroni senza distruggerli, a moderare i fiscali e i pesi a beneficio dei poveri e a facilitare il commercio quanto è possibile, senza correre il pericolo di soffrire penuria all’interno”.  

Realizzata Catanzaro, le masse Sanfediste mossero alla conquista di Cotrone, dove giunsero nella notte tra il 17 e il 18 marzo.

Il Colletta scrisse che Cotrone dopo le prime resistenze “dimandò patti di resa, rifiutati dal Cardinale, che, non avendo danari per saziare le ingorde torme, né bastando i guadagni poco grandi che facevano sul cammino, aveva promesso il sacco di quella città. […] Cotrone fu debellata con strage di cittadini armati o inermi, e tra spogli, libidini e crudeltà cieche, infinite”.

Il Prof. Cingari, nel già citato “Giacobini e Sanfedisti in Calabria” scrive che si conoscono i particolari della conquista di Cotrone, avvenuta nella notte tra il 18 e 19 marzo, quando i repubblicani di quella città tentarono una sortita. Tale sortita permise agli uomini di Panzanera di impedire la chiusura della porta, attraverso la quale poté passare il grosso della massa Sanfedistica. Da quel momento ebbe inizio il feroce saccheggio dei beni delle famiglie nobili e civili: “nulla fu risparmiato, anche se il basso popolo seppe imporre il rispetto delle donne.”

Il castello, ancora in mano ai giacobini, cedette il giorno 21 marzo, giovedì santo. Scrive ancora il Cingari: “A quel punto il Perez e il Rajmondi inviarono il capomassa D. Giovanbattista Griffo per recare al Ruffo l’importante notizia e -particolare curioso- il loro ambasciatore venne fermato e predato da quattro ladroni. Il Ruffo giunse a Cotrone il 25 marzo […].Senza dubbio, la conquista di Cotrone, piazzaforte ben munita, che lo aveva preoccupato non poco nel corso della sua spedizione, gli recò viva soddisfazione. Nondimeno, egli non poté godere il meritato riposo, giacché i sanfedisti, compiuto il saccheggio se ne erano tornati in gran numero ai paesi di origine; ed egli, pertanto, dovette ricominciare a formare l’Armata Cristiana”.

In quel periodo il Cardinale scriveva al Generale Acton che i Calabresi stentavano a seguirlo, preferendo restare armati in difesa dei propri beni e delle proprie famiglie, insidiati dai molti ribelli fuggiti.

Quando il Cardinale era partito da Montaleone diretto a Catanzaro, una banda di sanfedisti si era staccata dal grosso dell’esercito per avviarsi verso Paola, al comando di Giuseppe Mazza, appartenente a famiglia patrizia di Taverna.

Il Sacchinelli scrisse: “Qui fa d’uopo avvertire, che tutte quelle sanguinose battaglie date dall’armata del Cardinale, raccontate dagli scrittori Coco, Botta e Colletta, con incendi e saccheggi delle città di Cosenza, di Rossano, di Paola ecc. furono tutte favole sognate dà detti scrittori. Accaddero in alcuni luoghi vari sconcerti nel momento della contro-rivoluzione, commessi dagli stessi cittadini per vendette private e per spirito di sangue e di rapina, mali inevitabili nelle guerre civili; ma il Porporato Ruffo, colla sua armata, non passò mai per quei luoghi ed eseguì la sua marcia per la via del Jonio, come appresso si dirà”.

A proposito di Paola l’Abate Sacchinelli non risulta però bene informato. Paola fu effettivamente saccheggiata – ci furono anche quattro morti- dalle truppe sanfediste (il distaccamento comandato da Mazza) alle quali si era unita “molta gente di San Lucido per lo più senza armi”. Al saccheggio presero addirittura parte cittadini paolani. Questa certezza la dà un documento pubblicato dal professor Cingari, in appendice al suo già citato libro. E’, comunque, assolutamente vero che il Cardinale, alla testa del grosso delle truppe, seguì la via dello Jonio e, quindi, non passò da Paola.

Ancora a Cotrone, dove attendeva alla ricostruzione del suo esercito, il Cardinale poteva scrivere all’Acton: “Le Calabrie sono ormai interamente ridotte all’obbedienza del Re N.S.” 

Con la spontanea sottomissione delle ultime città calabresi era stata infatti pacificata l’intera regione, anche se disordine ed anarchia erano presenti in diversi paesi.

Il Sacchinelli riferisce che, essendo rientrata la colonna al comando di Giuseppe Mazza, lasciato il territorio calabrese, il Cardinale volle fermarsi qualche giorno nella zona di Sibari per fare una verifica delle truppe a sua disposizione.

L’esercito, secondo il Sacchinelli, era così composto:

Truppa regolare di fanteria: dieci battaglioni di 500 uomini l’uno. Tutti soldati del vecchio esercito sbandato.

La cavalleria disponeva di 1200 cavalli, ma i cavalleggeri portavano le armi più diverse e vestivano in maniera “fantasiosa”. A tale cavalleria era affiancato un corpo di cavalieri “baronali” ben vestito e bene armato, ma del quale non è conosciuta la consistenza: era usato dal Cardinale per impedire o limitare la diserzione, le rapine e delitti in genere.

L’artiglieria era costituita da undici cannoni di diverso calibro e da due obici, con diverse casse di munizioni. Vi erano molti artiglieri del vecchio esercito, ma nessuno ufficiale.

Le truppe irregolari erano composte da cento compagnie ciascuna di 100 uomini di Calabria, ed ogni compagnia era al comando di tre capi. Questi irregolari non sarebbero aumentati di numero, con il progredire della marcia, poiché l’impegno futuro del Cardinale era rivolto ad accrescere soltanto il numero delle truppe regolari. Erano armati “secondo il costume dei calabresi di schioppi, pistole, baionette e stili”. Erano mal vestiti, ma traboccanti di coraggio e di entusiasmo.

Al momento di lasciare la Calabria, volendo il Cardinale liberarsi -e liberare la Calabria- dai galeotti perfidamente mandatigli a suo tempo dagli inglesi, formò con essi un corpo di 1000 uomini, lo mise al comando del capo banda Panedigrano, lo spedì al Commodoro Trowbridge e “l’avvertì che il corpo di mille uomini, comandato da Panedigrano, era stato formato da quei servi di pena, che   gli inglesi avevano disbarcato nelle coste delle Calabrie […].”

La marcia in terra di Basilicata non trovò particolare resistenza. Così come era avvenuto in gran parte della Calabria, anche le popolazioni di questa regione ritornavano spontaneamente ad accettare l’autorità regia. Soltanto Altamura mostrava volontà di chiudersi in difesa.

In Puglia l’atteggiamento della popolazione non fu diverso che in Basilicata. In questa regione si verificò però un avvenimento che dovette arrecare grande dispiacere al Cardinale, ma che servì a rendergli vieppiù evidente l’atteggiamento ostile, nei suoi confronti, del  partito inglese che, come si è detto, imponeva a Corte la propria politica.

Da una fregata russa sbarcò, sul territorio pugliese, il Cav. Antonio Micheroux, ministro plenipotenziario del Re di Napoli presso l’armata russa, il quale diffuse una lettera del Re, datata Palermo 31 marzo 1799, con la quale si invitava la popolazione a rientrare sotto la regia autorità. Micheroux non si limitò solo a questo, ma passò a destituire le autorità di recente nominate dal Cardinale, sostituendole con personaggi di sua scelta. L’intenzione del Ministro poteva essere, a prima vista, quella di mettere in dubbio l’autorità del Cardinale come Vicario Generale del Re e la legittimità della spedizione, ma ad un più approfondito esame molto più verosimilmente costituiva un primo

“assaggio della capacità e volontà di reagire” del Cardinale, se addirittura, cosa ben più grave, non rappresentava il tentativo di liquidarlo, facendogli perdere autorità agli occhi del suo indisciplinato e composito esercito. E la reazione di questi fu immediata, ferma e tanto determinata da suggerire al Ministro di reimbarcarsi in tutta fretta. Nel ripristinare nelle loro cariche i suoi prescelti, Fabrizio Ruffo diede agli stessi ordine di perseguitare, come nemico del Re, chiunque si opponesse o modificasse i suoi ordini. Nello stesso tempo scrisse al Micheroux diffidandolo di ingerirsi in avvenire negli affari di competenza del Vicario Generale. Al Cardinale fu ben chiaro che il suo disegno di non infierire sugli insorti, di ogni grado e responsabilità, per rendere possibile, riconquistato il regno, la pacificazione e ritrovare l’unità nazionale, iniziava a produrre effetti concreti in opposizione ai suoi disegni.

Forse questa amara constatazione valse a non farlo trovare impreparato, quando la corte palermitana tentò di ritardare il suo ingresso vittorioso a Napoli, per dare tempo alla flotta di Nelson di ancorarsi in quel porto.

Tali miserabili tentativi, che incredibilmente portavano in calce la firma del Sovrano, non potevano costituire un incoraggiamento per il Cardinale, che si apprestava ad affrontare la ribellione di Altamura, città ben munita ed in grado di opporre valida resistenza.

Già da Policoro, Ruffo aveva partecipato al Presidente Acton alcune perplessità sue sull’orientamento della corte, che raccomandava di assumere provvedimenti di rigore nei confronti dei giacobini napoletani. Ed essendo, di conseguenza, a lui evidente che i successi in Calabria della sua spedizione suscitavano sin da allora l’invidia dei suoi avversari e preoccupazione al governo ed ai regnanti, con altra lettera invitava apertamente il Re ad unirsi a lui, adducendo motivi che avrebbero dovuto indurre il Sovrano a seria riflessione.

Queste furono le due lettere spedite dal Cardinale:                           

Policoro, 30 aprile 1799

“Ho sentito da una lettera particolare che fra le altre cose mandate verso Procida, siavi stato mandato un giudice processante, e si è anche saputo che questo era il suo ufficio. Io credo impolitico tale passo, e da questo fatto permettendolo le circostanze prendo l’ardire di umiliare a V.E. non richiesto, i miei sentimenti, i quali potrà ella valutare poi come le sembrerà più opportuno. La difficoltà di convertire Napoli, la più forte la veggo nel timore della pena meritata, nella disperazione di non potere giammai aver cariche, posti e considerazione, nella certezza di essere sempre in mezzo al rinnovato governo monarchico sospetti e maltrattati ad ogni occasione.[…]Ora se noi mostriamo di voler processare e punire, se non facciamo loro credere che siamo persuasissimi, che la necessità, l’errore, la forza dei nemici, non la reità fu cagione della ribellione, noi coadiuveremo le mire dei nemici; e ci precluderemo le strade alla riconciliazione. Sembra che si dovesse anche, avuto nelle mani qualsiasi reo anche grande, anche distintosi nella ribellione, perdonarlo. Questo tale esempio farà credere possibile la riconciliazione agli altri e disuniranno. Si legga la storia di Francia e le molte capitolazioni avute coi ribelli, e si vedranno perdonati spesso capi di partito, che militarono contro i Re […] E perché non si deve adoperare una somma clemenza e con pochissima eccezione? È forse un difetto la clemenza? No, si dirà, ma è pericolosa. Io non lo credo, e con qualche precauzione la credo preferibile alla punizione che non può eseguirsi con giustizia.[…] A che giova il punire, anzi come è possibile di punire tante persone senza una indelebile traccia di crudeltà, ma dirò meglio è questo piano della punizione ineseguibile, e si taglia da se medesimo la riuscita.

[…]A me è successo così, non ho mai preclusa la fuga, perché coloro che assolutamente diffidano possono andarsene senza disperarsi e lusingarsi di ritornare a sostenere il partito e riavere i propri beni. Facile sono stato a ricevere i ribelli ed anche impiegarli, facendo loro credere che i falli da loro commessi s’ignoravano, o pure ho fatto credere che avevano anche fatto bene o sia innocentemente ad entrare nella ribellione, da tutto questo ne è venuto che hanno per me agito i buoni ed i cattivi. Il timore di essere tradito da costoro potrebbe forse escludere il piano come pericoloso, ma io non so vedervi pericolo, se non quando vi sia una forza straniera ed imponente che dia tuono ai club di quattro falliti.[…] Meno rigore, replico, e si rinunci alla vendetta, o pure sia questa ristretta e sopratutto molto tarda.”

Policoro, 30 aprile 1799

“io, signore, ho sparata la mia poca polvere, venga S.M. e vedrà quanta ancora ve ne sia da sparare. Anche altra considerazione dovrebbe indurre la M.S.. Venendo questi Russi, Turchi sarà ben difficile che io li governi, li tenga a freno, e distruggeranno mezzo mondo, ma con la Sua autorità non faranno che quello che si deve. Io ancora spero questo giorno felice.”

La mattina del nove maggio Altamura venne circondata dalle truppe sanfediste. Due giorni prima soldati di quella città avevano fatto prigionieri due ingegneri sanfedisti, che si erano avvicinati per studiare le fortificazioni. Quello stesso giorno il Cardinale aveva inviato alla città un parlamentare, D. Raffaele Vecchioni (sembra, però, si fosse chiamato Giobatta), munito di credenziali che lo autorizzavano a trattare la resa e la liberazione dei due ingegneri. Fu introdotto in città, ma non fece più ritorno.

Lo stesso giorno nove arrivò ad Altamura il Cardinale, che volle personalmente ispezionare le fortificazioni avversarie.

Le mura erano ben robuste e dai bastioni proveniva un nutrito fuoco di fucili e colubrine. Notò il Cardinale che sul lato nord della cinta muraria esisteva una porta, nota come “porta Napoli”. Nell’intento di lasciare, ai difensori della città, la possibilità di fuga, ordinò che fosse lasciato libero da assedio quel lato delle mura. Aveva in mattinata notato che una moltitudine di armati di Altamura, che all’arrivo delle truppe Sanfediste si trovava fuori delle mura, non era rientrata in città, ma si era allontanata in direzione nord. Questo faceva sperare al Cardinale che, approfittando della notte, anche i difensori rimasti in città, avessero scelto la fuga. E questo in realtà durante la notte avvenne. Il dieci maggio, abbattuta una porta, le truppe Sanfediste entrarono in Altamura senza trovare resistenza. Trovarono invece, ammucchiati in una fossa comune 48 cadaveri di realisti, incatenati due a due, e tra questi i corpi dei due ingegneri e dell’ambasciatore Vecchioni. Il Vecchioni non era ancora morto. Curato, guarì dalle ferite e visse certamente sino al 1821, come documenta una sua lettera indirizzata al Cardinale Fabrizio -da me rinvenuta nell’archivio privato dei Ruffo principi della Scaletta-, che pubblico.

Con i Sanfedisti erano entrati in città più di un migliaio di male intenzionati, provenienti dai paesi intorno ad Altamura, in massima parte disarmati, ma tutti animati da desiderio di preda.

Nonostante vari tentativi che il Cardinale fece per evitare il sacco della città, Altamura fu per due giorni in balia di quanti vollero approfittare per mietere bottino.

Sulla conquista di Altamura il Colletta scrisse:

“Perciò gli Altamurani, difendendo le brecce col ferro e con travi e sassi, uccisero molti nemici; e, quando viddero presa la città, quanti poterono uomini e donne, per la uscita meno guernita, fuggendo e combattendo scamparono. Le sorti de’ rimasti furono tristissime, ché nessuna pietà sentirono i vincitori: donne, vecchi, fanciulli uccisi; un convento di vergini profanato; tutte le malvagità, tutte le sevizie saziate. […] Quello inferno durò tre giorni; e nel quarto il cardinale, assolvendo i peccati dell’esercito, lo benedisse, e procedé a Gravina, che pose a sacco”.

Sacchinelli sullo stesso argomento per contro scrisse:

“Fu grande la sorpresa nel sentirsi che dentro Altamura non vi erano abitanti. Non solo i patrioti, ma tutti gli altri della popolazione se n’erano fuggiti quella notte, all’infuori di alcuni vecchi, che poi trovaronsi nascosti e ad eccezione di qualche infermo abbandonato. Quantunque oltre della porta di Napoli avessero fatto, per facilitare l’uscita, altre due aperture, pure recava non poca meraviglia l’essere fuggita tanta gente in una sola notte del mese di maggio. Si seppe poi che moltissimi di quei cittadini, conoscendo l’ostinazione dei repubblicani si erano allontanati prima del blocco, trasportandosi il meglio che avevano.

Considerando il Cardinale le funeste conseguenze del saccheggio di Cotrone, che fece sparire quasi tutta l’armata, aveva persuaso i capi delle truppe regolari ed irregolari, che prendendosi la città di Altamura per assalto non si permetterebbe il saccheggio della città, ma invece si imponesse una grossa contribuzione di guerra […]. Alla vista di quell’immane e sanguinoso spettacolo (il Sacchinelli allude al ritrovamento dei corpi dei due ingegneri, del parlamentare Vecchioni e degli altri 45 fucilati) come poteva più evitarsi il saccheggio di Altamura. […] Tutte le misure che poté prendere il Cardinale si ridussero ad impedire la diserzione delle truppe dopo il saccheggio […]. In occasione del saccheggio fu trovato nascosto il Conte Filo, che venne trascinato innanzi al Porporato. Appena ivi giunto e nell’istante che il Conte mettevasi in attitudine supplichevole, una fucilata tirata per isfogo di barbara vendetta da G. L. che si disse congiunto dell’estinto Ingegniere Olivieri, lo fece cadere morto innanzi ai piedi del Porporato! Avendo quella barbarie riempiti tutti di orrore, si credé necessario di frenare tanta licenza.

[..] Nell’intervallo di giorni quattordici, che il Cardinale dovette trattenersi  in Altamura per lo disbrigo di urgenti affari, e specialmente per accrescere ed istruire la sua armata, comparve in dettaglio quella profuga popolazione, rientrando prima le donne e poi gli uomini; quel Vescovo Monsignor di Gemmis vi rientrò il giorno 15.”

Segue una nota di questo tenore: “L’autore di queste memorie assicura che per l’avvenimento di Altamura scrisse esattamente tutto ciò che vide co’ i propri occhi; e che siccome non tacque, ne aggiunse alcuna circostanza, così debbasi tenere, come menzogniere e calunniose, le maligne asserzioni avanzate contra del Cardinal Ruffo dagli scrittori Coco, Botta e Colletta nell’esporre il suddetto avvenimento”

Il 24 maggio l’armata sanfedista lasciò Altamura. Al Cardinale, che aveva ricevuto notizia che il governo repubblicano aveva deciso la mobilitazione di tutti gli uomini validi, premeva raggiungere Napoli prima che queste nuove leve  fossero armate ed evitare d’essere costretto ad occupare la città con la forza.

Ma leggendo l’epistolario del Cardinale, composto da lettere scambiate con il ministro Acton e con la Regina, viene da sospettare che la fretta di raggiungere Napoli fosse suggerita al Porporato da ben altre considerazioni e principalmente da una: aveva sempre saputo di essere considerato dagli Inglesi inaffidabile ed addirittura un nemico!

I successi della spedizione Sanfedista -che priva di truppe regolari si svuotava di uomini dopo ogni conquista, che mancava di armi e vettovaglie, che priva praticamente di artiglieria era pur sempre in marcia vittoriosa, che si concedeva il lusso di privarsi dell’apporto delle schiere di briganti rispedendole agli inglesi che le avevano, a suo tempo, regalate al  Cardinale    (ben 1000 uomini bene addestrati ed ottimi combattenti anche se per sete di bottino) mentre questa marciava all’assedio di Altamura- avevano allarmato il  “partito inglese” e quanti avevano sperato nel fallimento di quella spedizione.                        

L’interesse inglese, in guerra con la Francia, era sempre stato quello di operare loro la riconquista del Regno, magari con l’aiuto di turchi e russi, onde poter disporre con tutta sicurezza di quella importante posizione strategica. Gli eventi erano precipitati in gennaio, per la inattesa e non gradita iniziativa del Cardinale ed al punto in cui erano ora le cose non restava che impedirgli  di arrivare da solo sotto i forti napoletani. Lo facesse assieme alle truppe russe e turche e con la flotta di Nelson nel porto, onde impedire che fosse egli il solo arbitro della capitolazione. Queste truppe alleate tardavano ad arrivare e non era indispensabile la loro partecipazione   per conquistare Napoli, considerata la consistenza annunciata. Lo sapeva Fabrizio Ruffo e lo sapevano gli inglesi, ed appunto per questo i tentativi di ritardare la marcia si moltiplicavano. Nelle sue lettere ad Acton, alla Regina ed allo stesso Re il Cardinale aveva ripetutamente proposto larga clemenza per i repubblicani ed un comportamento che potesse addirittura creare la possibilità di recupero dei loro capi: “Oltre le preghiere che ripeto a V.E. di leggere il mio grifonaggio, ove si parla di clemenza e di perdono, aggiungo che con mio rammarico nelle lettere dei padroni si segue sempre a parlare di rigore ora più ora meno, ma sempre di punizione; ora io seguito a credere che la condotta sarebbe assolutamente diversa, e che sinceramente dovessersi perdonare i passati trascorsi”. Nella lettera del 30 aprile (che ho più sopra in parte trascritto) faceva riferimento al comportamento di perdono dei francesi nei confronti dei giacobini, citandolo ad esempio: “Si legga la storia di Francia e le molte capitolazioni avute coi ribelli, e si vedranno perdonati spesso capi di partito, che militarono contro i Re, né sono molto lontani da noi gli esempi di accordi e perdoni del diritto di chi era poi meno scusabile del fatto presente, in cui una forza sinora invincibile ha quasi obbligati i popoli alla rivoluzione, ma allora toglievansi i principi dalla ubbidienza dei loro Sovrani per migliorare di condizione, o per danaro che avevano percepito, cosa che non è seguita nella più grande parte dei rei”.

Il dubbio che il Cardinale vagheggiasse cambiamenti istituzionali (non già quello di portare sul Trono di Napoli suo fratello Francesco, come alcuni con superficialità o mala fede scrissero) e di sostituirsi, a conquista avvenuta, ad Acton nel riassetto di un Regno costituzionale, serpeggiava a Corte e poteva corrispondere a realtà se si medita sulla condotta del Cardinale, che mutava tono e sostanza man mano che le possibilità di riuscita divenivano sempre più concrete. Negli ultimissimi tempi aveva smesso di insistere nella richiesta che il Re si unisse alle truppe e faceva pressione perché fosse il Principe ereditario a raggiungerlo. Aveva persino favorito la diffusione della “notizia”, naturalmente falsa, opera di un certo de Cesare, che il Principe si trovasse in Puglia. Aveva questo un significato? Pensava forse che dopo la restaurazione dovesse Ferdinando abdicare a favore del figlio, per rendere più facile il ritorno alla pace e più reale la possibilità di dare al Regno una struttura più consona ai tempi? Desiderava per questo il recupero dei capi giacobini, che in definitiva costituivano il fior fiore della cultura napoletana? Il sospetto di tale suo disegno politico doveva certamente essere presente in taluni ambienti di corte, vicini alla regina, e Nelson ne doveva essere certo, se con tanta violenta determinazione si opponeva al Cardinale vittorioso. Più in generale, l’esigenza di un cambiamento, che esitasse nella definitiva scomparsa di quel che rimaneva del feudalismo laico ed ecclesiastico ed in un maggior benessere sociale, non solo era da più lustri sentita nel regno, ma in tal senso la via delle riforme era stata da tempo intrapresa. Purtroppo l’allarme creato dalla Rivoluzione francese aveva portato il Governo di Napoli ad assumere diverso atteggiamento, con la conseguente reazione dei più illuminati strati sociali. Ed il Cardinale non aveva espresso forse la concreta volontà di andare in quella direzione quando, ministro dello Stato Pontificio, promosse la riforma agraria e quelle altre riforme che fecero, contro di lui, insorgere Cardinali e feudatari? Che Fabrizio Ruffo la credesse necessaria e pensasse ad una riforma democratica dello Stato, non credo possano esserci dubbi! Ed allora perché combattere la neonata Repubblica?

A parte ogni altra considerazione egli sempre si mosse spinto da un triplice ideale: il suo DIO, il suo RE, la sua CASTA! Sui primi due non solo non ebbe mai tentennamenti, ma al secondo pagò, in più occasioni, tributi altissimi, in assoluto silenzio, vincendo ogni tentazione di ribellione -se mai ne ebbe- o di difesa della sua persona.

La sua casta! Sicuramente sentì l’orgoglio del nome che portava, ma in tutta la sua vita, per motivi di interesse o di convenienza, non si lasciò mai condizionare né dalla “casta” alla quale apparteneva per nascita né da quella religiosa. Infatti, quando fece politica, come si è visto, attuò riforme per le quali si inimicò Cardinali ed aristocrazia feudale. Non accettò però gli “estremismi” della rivoluzione francese (pur accettandone molti principi. Lo conferma un insospettabile, il teologo Nicola Spedalieri, nella dedica che nel 1794 gli fece del suo libro “Sui diritti dell’uomo) e si adoperò con tutte le sue forze perché tali eventi non si verificassero né durante la sua marcia di conquista né quando la stessa si concluse. Purtroppo non sempre vi riuscì.

Poteva un siffatto uomo concepire la Repubblica, per giunta sorta da un conflitto internazionale, subordinata agli umori, alla fortuna ed agli interessi dei vari contendenti? E poi, quello era tempo di monarchie, le quali a distanza di pochi decenni si sarebbero trasformate in monarchie costituzionali!

Ed allora, concepì veramente il Cardinale l’idea di una Monarchia Costituzionale e combatté per quel fine? Non conosco documenti che possano convalidare queste mie supposizioni e, pertanto, esse mantengono il valore che meritano, essendo state avanzate non da uno storico, ma soltanto da un appassionato di studi storici. A tali conclusioni si può arrivare soltanto attraverso la lettura di un documento? Ora che molte “verità” sono conosciute e sono radicalmente mutati tempi e tramontate ideologie, ci pensino gli storici a tirare le conclusioni. Le nuove acquisizioni lo consentono. È certo, comunque, che Fabrizio Ruffo durante gli anni trascorsi a Caserta ed a San Leucio -spettatore certamente tormentato del degrado del Regno- aveva lungamente meditato sulla struttura economica, politica ed amministrativa che avrebbe dovuto avere un Regno per poter essere aderente alla nuova realtà scaturita dalla rivoluzione di Francia. Se così non fosse stato, non potrebbe trovare spiegazione la lucidità con la quale andava dettando tutti quei provvedimenti legislativi, sempre opportuni, sempre giustamente calibrati, mano a mano che procedeva nella sua vittoriosa marcia e che avevano in comune la caratteristica di essere aderenti alla situazione contingente e quella, più importante, di non risultare di ostacolo domani, quando si sarebbero gettate le basi del nuovo assetto politico, amministrativo, giuridico dello Stato. Tutto questo non poteva essere certamente frutto di improvvisazione!

Di tappa in tappa, non senza difficoltà e contrattempi, le truppe del Cardinale arrivarono a Napoli. Lo stesso giorno, il 13 giugno, le compagnie calabresi al comando del reggino tenente colonnello Francesco Rapini, espugnarono il forte Viglienza. Due giorni dopo, per cause che con certezza non furono mai accertate, Rapini e 150 dei suoi calabresi saltavano in aria, per l’esplosione del forte.

La notte tra il 13 ed il 14 giugno, truppe calabresi, all’insaputa del Cardinale, attaccarono ed espugnarono il castello del Carmine. Nonostante l’indisciplina degli irregolari e le scarse possibilità che si avevano in quel momento di controllare le truppe che cingevano d’assedio Napoli -non c’era stato ancora il tempo materiale per organizzare quel composito esercito- le due autonome e non coordinate azioni di guerra, furono di grande aiuto alle truppe sanfediste. Infatti, la conquista del castello del Carmine aveva segnato la sconfitta dell’armata del generale Writz, che morì in battaglia, e l’occupazione del forte di Viglienza fornì la possibilità di accelerare la conquista della città. Una dopo l’altra le tre armate repubblicane cedettero all’impeto dei sanfedisti: quella al comando del generale Schipani, -la stessa che si era allontanata dal bivacco intorno ad Altamura, all’arrivo delle truppe sanfediste- in pratica, non tentò neppure di difendersi.

Ma già dal giorno 14 i lazzari napoletani, rinforzati da schiere di facinorosi provenienti dai paesi vicini, erano usciti sulle strade della città apportando morte e distruzioni. Si massacrava, si spogliava, si saccheggiava, si incendiava solo per risentimento o per turpi motivi di rapina o di vendetta. A questo proposito il Sacchinelli scrive: “Il Cardinale Ruffo occupato nel suo campo                          al ponte della Maddalena a prendere misure, e tenere le sue truppe riunite […] disturbato per gli eccessi orribili, che si commettevano dentro l’abitato della città, era dolentissimo di non potere adoprare alcun rimedio onde far finire quell’orrenda anarchia. Colle fortezze in potere dei nemici, quali, e quante truppe sarebbero state necessarie per frenare l’irritata ed immensa plebe, accresciuta da tante migliaia di uomini armati de’ convicini paesi, entrati in città dalle porte Nolana e Capuana”. E più oltre “[…] non sapeva quali espedienti prendere per frenare l’orrenda anarchia che regnava dentro la città, non permettendogli la prudenza di adoperare le sue truppe pel timore, che il rimedio non divenisse peggiore del male […]”.

Pietro Colletta dei massacri napoletani scrive invece in questi termini:        “Caduta la repubblica, finita la guerra dei campi, cominciò altra guerra più crudele ed oscena dentro la città. I vincitori correvano sopra i vinti: chi non era guerriero della Santa Fede o plebeo, incontrato, era ucciso; quindi le piazze e le strade bruttate di cadaveri e di sangue […] I lazzari, i servi,        

i nemici e i falsi amici denunziavano alla plebe le case che dicevano dei ribelli; ed ivi non altro che sforzare, involare, uccidere: tutto a genio di fortuna. […] Il cardinale Ruffo, gli altri capi della Santa Fede, ed i potenti sulla plebe, validi ad accendere gli sdegni, non bastavano a moderare la vittoria”.

Lo stesso Cardinale in quei giorni scriveva al ministro Acton:

“Dalla Real Casina al Ponte della Maddalena presso Napoli 21 giugno 1799.

Eccellenza, sono al Ponte della Maddalena; sono vicini, a quello che pare a rendersi ai Moscoviti, e al cav. Micheroux i Castelli dell’Uovo, e Nuovo, sono così affollato e distrutto, che non vedo come poter reggere in vita, se seguirà un tale stato per altri tre giorni. Il dover governare, o per meglio comprimere un Popolo immenso, avvezzo all’anarchia la più decisa; il dover governare una ventina di Capi ineducati, ed insubordinati di Truppe leggiere, tutte applicate a seguitare i saccheggi, le stragi e la violenza, è così terribile cosa e complicata, che trapassa le mie forze assolutamente. Mi hanno portati 1300 Giacobini, che non so dove tenere sicuri, e tengo ai Granari del Ponte, ne avranno strascinati, o fucilati almeno 50, in mia presenza senza poterlo impedire, e feriti almeno 200, che pure nudi hanno qui trascinati.

Vedendomi inorridito a tale spettacolo mi consolano, dicendomi, che i morti erano veramente Capi di Bricconi, i feriti erano decisi nemici del Genere umano, ché il Popolo insomma li ha ben conosciuti. Spero, che sia vero, e così mi quieto un poco. A forza di cure, di Editti, di Pattuglie, di prediche si è considerabilmente diminuita la violenza del Popolo, per la Dio grazia.[…] È certo, che il caso di far Guerra, e temere della rovina del Nemico è la più crudele situazione, ed è la nostra.

Se a questo si aggiunge la nostra Truppa ben numerosa ma irregolare anzi sfrenata, è cosa, che fa sudare nel colmo dell’Inverno. […] Intanto il Popolo, e tanti Fuoriusciti, che sono venuti a combattere pel Re, ed ottanta maledetti Turchi rubano e spogliano a man salva.”

La vittoria sui repubblicani si concluse con un trattato che fu firmato, su richiesta dei soccombenti, dal Vicario Generale Cardinal Ruffo a nome del Re di Napoli, dal capitano E. I. Foothe a nome di Sua Maestà Britannica, dal generale Baillie comandante le truppe di Sua Maestà l’Imperatore di tutte le Russie, dal generale Acmet comandante le truppe Ottomane, da Antonio Cavaliere Micheroux, Ministro plenipotenziario di S.M. il Re di Napoli presso le truppe russe e per i repubblicani dal generale Massa comandante del Castel Nuovo e dal generale Aurora comandante del Castel dell’Uovo.

Per i repubblicani controfirmava l’atto di resa il francese generale Mejean.

Le condizioni di resa, concesse dal Cardinale furono le seguenti:

1)  I castelli Nuovo e dell’Uovo saranno rimessi nelle mani del comandante delle truppe di S.M. il Re delle due Sicilie e di quelle dè suoi Alleati il Re d’Inghilterra, dell’Imperatore di tutte le Russie e della Porta Ottomana, con tutte le munizioni da guerra e da bocca, artiglierie ed effetti di ogni specie esistenti ne’agazzini, di cui si formerà l’inventario da’ comessari rispettivi, dopo la firma della presente capitolazione.

2)  Le truppe componenti le guarnigioni conserveranno i loro forti sino a che i bastimenti di cui si parlerà qui appresso, destinati a trasportare gli individui, che vorranno andare a Tolone, saranno pronti a far vela.

3)  Le guarnigioni usciranno cogli onori militari; armi, bagagli, tamburo battente, bandiere spiegate, micce accese, e ciascuna con due pezzi di artiglieria. Esse deporranno le armi sul lido.

4)  Le persone, e le proprietà mobili ed immobili di tutti gli individui componenti le due guarnigioni saranno rispettate e garantite.

5)  Tutti i suddetti individui potranno scegliere di imbarcarsi sopra bastimenti parlamentari, che saranno loro preparati per condurli a Tolone, senza essere inquietati essi, né le loro famiglie.

6)  Le condizioni convenute colla presente capitolazione, saranno comuni a tutte le persone de’ due sessi racchiuse ne’ forti.

7)  Le stesse condizioni avranno luogo riguardo a tutt’i prigionieri fatti sulle truppe repubblicane dalle truppe di S.M. il Re delle due Sicilie, e da quelle de’ suoi alleati ne’ diversi combattimenti, che hanno avuto luogo prima del blocco de’ forti.

8)  I Signori Arcivescovo di Salerno, Micheroux, Dillon, ed il Vescovo di Avellino detenuti, saranno rimessi al comandante del forte Santelmo, ove vi resteranno in ostaggio, finché sia assicurato l’arrivo a Tolone degl’individui che vi si manderanno.

9)  Tutti gli ostaggi e prigionieri di Stato rinchiusi ne’ forti, saranno rimessi in libertà subito dopo le firme della presente capitolazione.

10) Tutti gli articoli della presente Capitolazione non potranno eseguirsi, se non dopo che saranno intieramente approvati dal comandante del forte Santelmo.

Erano, queste, condizioni di resa inique, imposte dal feroce vincitore e sanguinario capo di bande di briganti, che per odio,  malvagità e desiderio di bassa vendetta agognava soltanto di “soffocare nel sangue l’ultimo anelito di libertà dei patrioti napoletani” ? Esse rendono nota, piuttosto, la volontà del vincitore, chiara ed inequivocabile, di non distruggere, ma di “salvare” il  nemico soccombente, con la segreta speranza che l’evolvere degli eventi         -siccome il suo acume politico gli faceva prevedere- maturasse tempi e clima politico tali da consentire il ravvedimento e magari la partecipazione.

Può tale pretesa evidenza trovare conferma nei fatti?

La conferma è contenuta nello epistolario del Cardinale ed ulteriore conferma, ove ce ne fosse bisogno, si legge nell’ultima lettera che il Cardinale scrisse ad Acton il 21 giugno, dal Ponte della Maddalena: “È certo, che il caso di far guerra, e temere la rovina del Nemico è la più crudele situazione, ed è la nostra”. E più avanti: “Non so quali saranno le condizioni, ma molto clementi sicuramente per mille motivi, che non serve dire ad uno ad uno, e che dalle antecedenti può immaginare”.

Ciò che avvenne nei giorni che seguirono è a tutti noto e persino i più accaniti denigratori del Cardinale Ruffo, almeno di quella colpa, non gli fecero carico. Il Cardinale fu destituito dalla carica di Vicario Generale, nominato Capitan Generale ed affiancato da una Giunta di stato, scelta (su suggerimento della corte palermitana) dal Nelson, che aveva il compito di strettamente controllarlo. Nelson ignorò addirittura il trattato di resa, che pure era stato firmato da chi sotto i castelli napoletani, che si arrendevano, rappresentava il suo Signore e Re e, stimando che l’interesse dell’Inghilterra fosse quello, soffocò nel sangue non solo la repubblica, ma certamente anche ogni nobile aspirazione ad un futuro ricco di speranze e nuove prospettive, segnando fatalmente il fatale declino del Regno di Napoli.                                                    

Il Cardinale, posto nella assoluta impossibilità di difendere il trattato di pace e di liberamente operare, tentò con ogni mezzo di limitare almeno l’entità della strage, che si andava prospettando. Scrisse il Dumas: “In mezzo a tutti questi preparativi di morte un uomo, quegli che aveva fatto più di tutti, il Cardinale Ruffo, accusato non solamente di simpatia pei giacobini, ma di intrigare con loro, passivo, e avendo le mani legate dal suo nuovo titolo di Luogotenente del Re, vedeva prepararsi la terribile reazione che si avanzava”.

Riuscì il Cardinale a salvare la vita – come affermò Helfert – a 500, dei 1300  patrioti in mano a Nelson, i quali il 12 agosto finalmente partirono per la Francia. E l’odio di Nelson contro il Cardinale, che strappava dalle mani del carnefice ben cinquecento patrioti, lo si legge nella lettera che l’Ammiraglio scrisse il 20 agosto a Lord Minto: “Mi sono adoperato sotto i vostri ordini pel bene pubblico e per amore del mondo civile. Fate che possiamo lavorare insieme e che la più grande azione della nostra vita sia di fare impiccare Thugut, il Cardinale Ruffo e Manfredini […] i loro consigli sono dannosi tanto al Re quanto all’Europa. Traduceteli innanzi al tribunale e vedrete che sono amici dei francesi e che tradiscono l’Europa. Perdonate questo modo di parlare ad un uomo di mare che dice la verità. Mio caro Lord, questo Thugut cospira contro il nostro Re inglese di Napoli […] ma lasciate impiccare questi tre birbanti e tutto andrà benissimo”. Forse pochi sanno -o si è voluto dimenticare- che Fabrizio Ruffo aveva fatto sospendere le sentenze di condanna alla forca per Mario Pagano, Domenico Cirillo, Ignazio Ciaia e Giorgio Pignacelli, perché erano compresi tra gli ottanta di Castelnuovo, cui si sarebbe dovuto applicare la capitolazione, “rimettendo consulta al Re” in data 11 ottobre. Lo stesso giorno, avendo avuto sentore che il suo decreto non sarebbe stato confermato, chiedeva di essere esonerato dalla sua carica e qualche giorno dopo partiva per il Conclave di Venezia.

Il Cardinale, non volle mai difendersi dalle terribili accuse che gli mossero i suoi avversari, confidando che la verità avrebbe trionfato in tempi lontani da quelle passioni. Ne parlò, che si sappia, una sola volta, ma fu uno sfogo fatto privatamente, scrivendo al suo amico Nicola Maria Nicolai:

 “[…] Brigante, come se non fosse questo nome facile ad accordarsi ad ogni soldato quando il di lui partito va a soccombere, od avesse rubato qualche cosa ad alcuno! -Chi difende il suo Paese, che ha l’autorità e la legittima missione, non è stato mai avuto dalle Nazioni civilizzate come un miserabile, né ha avuto niente da vergognarsi né l’avrà presso gli uomini sensati. – Che più? Come ho io usato della mia vittoria? Chi nol sa? – E pure quattro falliti democratici di nome, poiché non ne hanno la virtù ed il disinteresse, mi perseguitano perché li ho difesi e risparmiati [..]”.

Alcuni Autori scrissero che Fabrizio Ruffo continuò a fare politica attiva, negli anni che seguirono. Mi corre l’obbligo di precisare che, dopo la restaurazione del 1815, il Cardinale non volle più interessarsi di politica. Chi scrisse il contrario lo confuse con un altro Ruffo del suo stesso nome: il principe di Castel Cicala o con il principe Alvaro Ruffo della Scaletta, personaggi della sua stessa famiglia.

Iniziando queste note ho scritto che la storia ha riabilitato Fabrizio Ruffo. Aggiungerei che sebbene assolto non è stato mai compreso non dico dai contemporanei, ma neppure dai posteri. Si accontentarono di accertare che non fu un capo di briganti, che non fu il responsabile delle stragi di Napoli ed il boia dei Patrioti, che non fu lui a venir meno ai patti di resa. Non andarono oltre! Eppure quegli eventi videro protagonisti allo stesso livello -e fu il motivo per il quale negli anni assunsero stimolante importanza- un Re, una Regina, il più grande Ammiraglio inglese, Napoleone Bonaparte ed un Cardinale che, senza eserciti, conquistava regni.

Debbo rilevare con amarezza e sorpresa (e non è l’occasione del comune cognome che mi anima) che -ricorrendo il secondo centenario di quegli eventi- nessuno storico fu stimolato a ricercare le ragioni che indussero il Cardinale Fabrizio Ruffo a schierarsi contro il volere del suo re, con determinazione inequivocabile, pur sapendo di correre il rischio di rimetterci la testa; fu ad un passo dall’arresto, già ordinato dal re, il quale scriveva nel suo diario in data mercoledì 26 giugno (ASN, Borbone, f. 238, cc. 356-386):

“[…] Ricevuto una nuova spedizione da mia Moglie di Procida con notizie sempre più disgustose, il Cardinale avendo accordata una Capitolazione infame ai ribelli […]”

Nella stessa pagina nella nota 2 si legge:

“In data 27-6-1799, con lettere dell’Acton, il duca della Salandra, il Generale De Gambs ed il Colonnello Tschudy vennero incaricati di arrestare il Cardinale Ruffo e di consegnarlo a Nelson […]. Il Governo militare e civile sarebbe stato assunto collegialmente da Simonetti, Zurlo, Legerot e dal duca della Salandra […]”

Se i disegni del re mutarono –provocando in Nelson rabbia e dispetto- ed il Cardinale ebbe salva la testa, fu per la paura che le truppe calabresi, fedelissime al Cardinale, incutevano al Borbone ed agli stessi Inglesi.

Chiudo queste note, che non hanno certo il merito della completezza, ma soltanto quello di un assunto documentale, riportando quanto Alessandro Dumas scrisse nella sua “Storia dei Borboni di Napoli”:

“Eppure noi intraprenderemo uno strano assunto, quello cioè di provare che fin qui il Cardinale Ruffo è stato calunniato dalla Storia, o meglio dagli storici: noi speriamo riuscirvi; e ciò come si comprende, per puro amore del vero. Diciamo cosa fosse in quell’epoca il Cardinale Ruffo, il quale tra non molto diverrà uno degli eroi più coraggiosi di quei disgraziati tempi, in cui tutti coloro che parteggiavano per la corte eran ritenuti come completamente privi di senso morale, d’onor nazionale e di diritto delle genti. Non si creda che noi ci lasciamo trascinare dall’amore del paradosso. Chi leggerà vedrà e sopra tutto giudicherà”. Ed ancora aggiungeva:

“La nostra parzialità consiste a non volere che l’uomo di genio, di semplice audacia se volete, che ha concepito il piano della restaurazione di Ferdinando I, che ha varcato lo stretto con tre mila ducati, un luogotenente del Re, un segretario, un cappellano, un cameriere, un domestico, che ha messo il piede in Catona, in mezzo a trecento insorti, che ha traversata tutta la Calabria, combattendo per una causa ingiusta, ma, infine combattendo tuttavia, che è arrivato a Napoli con 60 mila uomini, che fino all’ultimo momento ha difeso la capitolazione firmata da lui, e che è caduto in disgrazia del Re, che doveagli il proprio regno, per aver propugnato contro Nelson, Acton, e Carolina, i diritti dell’umanità, venisse trattato come un banale bandito

Giovanni Ruffo

fonte http://www.sbti.it/bibliotelematica/Arch.Ruffo-Cardinale_fabrizio_ruffo%20di%20bagnara.htm

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IL MITO DI GARIBALDI E IL RISORGIMENTO CHE NON ABBIAMO STUDIATO

Posted by on Set 3, 2019

IL MITO DI GARIBALDI E IL RISORGIMENTO CHE NON ABBIAMO STUDIATO

Il genocidio italiano cancellato dai libri di Storia e dalla coscienza collettiva

Con lo sbarco dei Mille e le imprese eroiche di Giuseppe Garibaldi, patriota carismatico e di indubbio valore militare, amato dal popolo e relegato per sempre nell’Olimpo mitologico, è nata l’Italia, la nostra Patria.

Nessuno metterebbe in discussione un dogma nazionale tanto radicato nella nostra Cultura se non ci fossero prove, ormai evidenti, di un altro Risorgimento occultato, fatto di dolore, di crudeltà, di ferocia, ma soprattutto di fango. L’altra faccia di un’epopea i cui protagonisti principali furono partigiani ante litteram, briganti e banditi, milioni di innocenti a cui furono strappate, nel giro di pochi mesi, identità e dignità.  Una storia rimossa dai libri, cancellata dalle coscienze, epurata dei ricordi per non scalfire l’immagine di chi credette, forse in buona fede, chissà, di combattere per unire un popolo, e che invece si ritrovò a salvaguardare gli interessi di una ristretta élite, causando un grave mutamento economico-culturale attraverso cui  furono gettate le basi per il totalitarismo che devastò l’Italia e l’Europa nel XX secolo.

Il Sud prima dell’Unità d’Italia

Era la primavera del 1860. Erano passati più di settecento anni dalla notte di Natale del 1130, da quando il normanno Ruggero II di Altavilla, dopo aver sconfitto gli arabi e con l’appoggio di papa Anacleto II, divenne re di Sicilia, Puglia e Calabria dando vita al terzo stato più grande d’Europa, unificato, nel 1815, da Ferdinando II di Borbone. Seicento Natali e più erano invece trascorsi dalla salita al trono di Federico II di Svevia.

Il paese di Federico II era avanzato sotto ogni punto di vista intellettuale, artistico e politico. Era il centro del mondo, il catalizzatore di culture diverse tra loro, con una popolazione che parlava tre lingue, il latino, il greco e l’arabo e seguiva in pace fedi religiose differenti tra loro.

Con l’Università di Napoli era stato fondato il più importante polo culturale d’Europa e del Medioevo, un punto d’incontro  tra le tradizioni greca, araba ed ebraica. Fu proprio a Napoli, infatti, che nacque la Scuola poetica Siciliana, una corrente filosofica-letteraria che dette vita alla lingua romanza,  mezzo secolo prima della Scuola Toscana. Il fior fiore della Cultura e dell’Arte, si è detto, con la più alta percentuale di medici per abitanti e la più bassa percentuale di mortalità infantile d’Italia.

Dopo Federico II, il Mezzogiorno visse un periodo di prosperità con i Borbone, famiglia al quale appartennero sovrani quali Enrico IV, detto anche Enrico il Grande, e Luigi XIV, Le Roi Soleil, grandi protagonisti della Storia d’Europa.

Nel 1737 era stato creato il Teatro di San Carlo, il primo teatro lirico sul globo terrestre, e negli stessi anni istituita la prima cattedra di Economia al mondo. Furono costruiti castelli, fortezze, rocche, palazzi, luoghi di culto, ed emanate le prime leggi alla cui redazione lavorò Pier delle Vigne, il più grande maestro dell’Ars Dictandi. Venne realizzata la Napoli-Portici, il primo tratto di Ferrovia nel nostro Paese, aperto il primo istituto per sordomuti, creata la prima compagnia di navigazione a vapore di tutto il Mediterraneo e persino la prima fabbrica italiana per operai.

L’età dell’oro, venne chiamata quell’epoca.

La Storia ci racconta che, nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, Garibaldi partì da Quarto alla volta del Regno Duosiciliano a capo di un esercito di mille volontari, che poi mille non erano. Con l’occupazione di Palermo, il generale si ritrovò circa ventimila uomini al suo seguito, per lo più stranieri e malavitosi, ben foraggiati di armi e denaro, con i quali si mosse verso Napoli distruggendo tutto nel suo avanzare trionfante:  Calatafimi, Milazzo,  Palermo, Messina, Siracusa, Reggio, Cosenza, Salerno, Napoli.  Obiettivo: scacciare i Borbone ed unificare l’Italia.

Questo è ciò che ci è stato insegnato. Ed in effetti… tutto fu distrutto. Quello che non ci è stato detto, invece, è che il Regno delle Due Sicilie fu conquistato e a caro prezzo.

La spedizione dei Mille

Giuseppe Garibaldi nasce a Nizza da genitori liguri. A quattordici anni decide di arruolarsi come mozzo, deludendo le aspettative del padre che lo voleva dedito alla carriera di medico o avvocato. Dopo qualche decennio di esperienza sui mercantili, approda in sud America partecipando in prima persona alle guerre di indipendenza. Imprese che faranno la sua formazione e gli regaleranno l’appellativo di eroe dei due mondi. Tornato in Italia, Garibaldi si avvicina ai movimenti patriottici europei ed italiani ed entra in contatto con Giuseppe Mazzini.

Fu per scongiurare una reazione delle forze cattoliche davanti ad una possibile invasione degli Stati ancora appartenenti alla Chiesa, reazione che avrebbe distrutto la politica di Cavour – all’epoca presidente del Consiglio dei ministri – che il condottiero fu distratto dai suoi obiettivi internazionalisti e coinvolto in quella che avrebbe dovuto essere inizialmente l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte e alla Lombardia. I suoi ideali di libertà ed indipendenza,ma non solo quelli, lo spinsero a condurre la spedizione dei Mille in direzione Marsala, e ad assumere, in quel di Salemi, la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II, (Fonte Enciclopedia Treccani)il quale desiderava, più che l’unificazione nazionale, pagare i debiti contratti dal Piemonte.

O la guerra o la bancarotta” scrisse Pier Carlo Boggio, deputato alla Camera del Regno di Sardegna e braccio destro del Conte di Cavour

Vani furono gli sforzi di Re Francesco II per contrastare l’avanzata che, come si evince dall’immagine in basso, coinvolgerà buona parte degli Stati della penisola. L’ultimo baluardo borbonico a cadere, dopo Messina e Gaeta, fu la fortezza di Civitella del Tronto. Venne espugnata il 20 marzo 1861, tre giorni dopo l’incoronazione di Vittorio Emanuele II, a Re d’Italia.

Otto anni dopo la sua epica impresa, Garibaldi scriverà “gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio“.

Quel 1860 arrivò pertanto come una maledizione.  Furono cancellate dal Regno le istituzioni politiche e sociali, sventrato completamente il tessuto industriale e mercantile per favorire la crescita di un nord in miseria ed affamato, e senza alcuna attività economica avanzata. Depredato l’oro e l’argento del Banco di Napoli e del Banco di Stato di Sicilia – le casse contenevano circa 400 milioni di lire, una cifra impressionante per quell’epoca – smontati i macchinari di officine e industrie manifatturiere, meccaniche, cantieristiche, minerarie, siderurgiche, militari e ferroviarie e trasportati nei territori di Terni, La Spezia, Genova, Torino, Milano, Brescia e Bergamo. Tutto razziato per pagare i debiti del Piemonte e per finanziare patrimoni privati.  Sparirono in un colpo ministeri, ambasciate, la Zecca; 30mila posti di lavoro cancellati da un giorno all’altro. Furono annullati tutti gli accordi di scambio tra il regno borbonico e l’estero, costretto il sud ad importare dal nord, ma non viceversa, tanto che la lana abruzzese fu rimpiazzata con quella neozelandese. Fu introdotta la tassa sul macinato e persino per mangiare un agnello del proprio allevamento bisognava pagare un dazio. 22 nuove tasse introdotte contro le precedenti 5 imposte dai Borbone. Dulcis in fundo, il meridione, ormai in ginocchio, dovette accollarsi anche le spese di guerra.

Una conquista del Nord sulla pelle delle genti del Sud”, dichiarò Antonio Gramsci. Nel 1920, su Ordine Nuovo, scrisse: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.

I desaparecidos italiani

5.212 condanne a morte, 500.000 persone arrestate, 62 paesi rasi al suolo, fucilazioni di massa, contadini morti di fame perché veniva impedito loro di recarsi nei campi a procurarsi del cibo, violenze disumane e stupri efferati dei quali vi risparmio i crudeli ed orripilanti dettagli. 

O si moriva di stenti o si finiva ammazzati, e spesso la seconda scelta appariva quella meno dolorosa. Un’alternativa era quella di darsi al brigantaggio. 

40mila deportati, delinquenti insieme ad innocenti, uomini di chiesa, contadini, intellettuali, ex soldati dell’esercito borbonico, civili accusati di brigantaggio, prigionieri politici, ex garibaldini disertori, lasciati morire deliberatamente di fame, sevizie, maltrattamenti inenarrabili,  segregati in campi di concentramento ante litteram dove la temperatura era quasi sempre sotto lo zero. A Fenestrelle, 1.350.000 mq di struttura a 2000 metri di altezza sulle Alpi cozie,  vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo polare  i prigionieri.

L’Armonia, un giornale piemontese dell’epoca, definiva così i prigionieri di Fenestrelle: “La maggior parte dei poveri reclusi sono ignudi, cenciosi, pieni di pidocchi e senza pagliericci. Quel poco di pane nerissimo che si dà per cibo, per una piccola scusa si leva e, se qualcuno parla, è legato per mani e per piedi per più giorni. Vari infelici sono stati attaccati dai piedi e sospesi in aria col capo sotto ed uno si fece morire in questa barbara maniera soffocato dal sangue e molti altri non si trovano più né vivi, né morti. E’ una barbarie signori”.

Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce”, recitava la scritta all’ingresso della struttura, 80 anni prima di Auschwitz.       

Vi entrarono in migliaia. E in migliaia scomparvero nel nulla, forse disciolti nella calce viva per cancellarne il ricordo e la memoria. Di tale obbrobrio non vi sono prove ufficiali, e gli autori revisionisti che hanno definito Fenestrelle un campo di concentramento hanno incontrato un fervido quanto improbabile debunking a smentire ogni tesi, ma presso lo Stato Maggiore dell’Esercito si conservano 150.000 pagine che contengono la verità, ancora e stranamente protetta dalla censura di guerra. Dopo oltre 150 anni.

Sul muro della struttura intanto campeggia in bella vista una targa abusiva e mai rimossa che commemora le vittime. E “I pochi che sanno s’inchinano”.

Tacciati di inciviltà e bollati come selvaggi, gli abitanti del Sud, definiti una razza inferiore, dovevano essere annientati. Il folle disegno era appoggiato dalla ‘alta scuola’ del criminologo Cesare Lombroso, medico, antropologo, sociologo, filosofo e giurista – un genio insomma – sostenitore accanito delle follie teoriche della Frenologia che, visitando la Calabria per poche settimane, si convinse di conoscere tutto sui meridionali. Grazie inoltre ad una legge promossa dall’aquilano Giuseppe Pica (da cui il nome), che il 15 agosto 1863 introdusse il reato di brigantaggio, fu resa legale ogni forma di violenza e permesso che un tribunale militare giudicasse, senza cognizione di causa,  chiunque e senza un regolare processo. Chi si ribellava veniva seviziato e alla fine sepolto  vivo e senza alcuna lapide affinché non vi fosse traccia dei crimini compiuti.

Il caso più eclatante accadde a Bronte, nel catanese. Sperando nelle terre promesse da Garibaldi e nell’aiuto dei Mille, in paese scoppiò una sommossa di contadini. Garibaldi inviò Bixio a reprimerla – lo stesso che aveva rubato le navi per la spedizione – con un processo sommario durato poche ore, che si risolse con l’esecuzione di 150 cittadini tra cui il sindaco del paese, completamente innocente, e persino un giovane demente.

A Gaeta, negli anni ’60, durante gli scavi per la costruzione di una scuola media, furono rivenuti 2000 cadaveri di soldati borbonici e gente comune. E chiuso ancora una volta il sipario.

Mezzo milione di persone sparite, volatilizzate, e paesi interi come Contessa Entellina, Ustica, Cefalù, Corleone, Palazzo Adriano, Trabia, Gibellina, Vallelunga, Alia, Sambuca, Gibellina, Caccamo, Bisacquino, svuotati dei loro abitanti.  (Fonte: Storia vera e terribile tra Sicilia e America di Enrico Deaglio)

O briganti o emigranti!

Dal 1870 al 1913, furono imbarcati sui velieri diretti al ‘nuovo mondo’, chi con la forza e chi con l’inganno, milioni di italiani per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e nei campi di cotone al fine di rimpiazzare i neri finalmente liberati. Una delle più grandi truffe perpetrate ai danni di una popolazione intera dai governi moderni. Lì, ad accoglierli, miseria, soprusi, fatica e linciaggi a morte.

O briganti o emigranti era il motto. In effetti, di armate brigantesche post-unitarie ne nacquero a centinaia, appoggiate incondizionatamente dalle popolazioni civili, e alla cui ferocia l’esercito sabaudo rispose con brutali rappresaglie che colpivano familiari fino al terzo grado di parentela.  Solo in Abruzzo, terra che non fu risparmiata dall’eccidio, se ne contavano 39 di bande.

Quando il governo sabaudo cominciò ad avere difficoltà a placare le sommosse che scoppiavano continuamente nelle prigioni, sorvegliate ormai dalle poche truppe restanti al nord, poiché la maggior parte era concentrata a reprimere il brigantaggio nel meridione, fu decisa una sorta di “soluzione finale”: la deportazione dei prigionieri in un’isola portoghese in mezzo all’Oceano Atlantico. Al rifiuto del Portogallo, i sabaudi tentarono di trovare accordi con altri governi, in particolare con l’Argentina per la concessione della Patagonia, un territorio desertico e totalmente inospitale che avrebbe dovuto ‘accogliere’ i prigionieri, ma fortunatamente il piano non poté essere attuato.

Sette secoli di splendore andati perduti

Il piemontese Alessandro Bianco di Saint Jorioz, capitano nel Corpo di Stato Maggiore Generale che prese parte alla distruzione del Regno delle Due Sicilie scrisse:  “Ero convinto di combattere la povertà dei coloni agricoli, la rapacità e la protervia dei nobili, l’ignoranza turpe, la superstizione, il fanatismo, l’idolatria, la sregolatezza dei costumi, l’immoralità, le corruttele di  impiegati, magistrati e pubblici funzionati, la rapina, il malversare. Insomma: il male. Questo, mi avevano raccontato, era il Sud. Quel popolo invece era, nel 1859, vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto».

Un divario fra Nord e Sud tutt’ora non sanato ed iniziato proprio con l’Unità d’Italia. Un declino inarrestabile che inizialmente sembrò trovare sollievo grazie all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, definitivamente chiusa nei primi anni ’90, ma che finì di incrementare la criminalità organizzata. O forse servì proprio a creare una sorta di alleanza tra questa e Stato.

Questa è l’altra faccia del Risorgimento, quella che si deve tacere per evitare di essere politicamente scorretti. Un genocidio cancellato non soltanto dai libri di Storia ma anche dalla coscienza collettiva; un’onta talmente infamante che il figlio stesso di Garibaldi, Ricciotti, venuto a conoscenza dei fatti, si schierò dalla parte dei briganti. La pronipote Anita, durante la trasmissione Porta a Porta condotta da Bruno Vespa, conferma il fatto: ”Mio nonno si indignò talmente tanto dello sfruttamento del Meridione da parte della nuova Italia, che andò a combattere con i briganti”.

Italiani contro italiani, fratelli contro fratelli

Non c’è in questo scritto alcuna intenzione di generare imbarazzo tra popoli con la stessa bandiera e la stessa lingua, né quella di attentare alla vita del giovane ed ignaro Savoia trasferito da poco in Italia, giammai. Tanto meno intendo svilire ciò che è stato il mito di Garibaldi per la mia generazione. Vorrei piuttosto contribuire, con quelle che sono le mie conoscenze, ricavate da letture e da lunghe ricerche personali e approfittando dei nuovi mezzi di comunicazione, a ridisegnare i contorni di un genocidio che meriterebbe almeno un giorno di commemorazione.

Accendere i riflettori su una verità storica insabbiata è un atto di democrazia o, se mi è consentito, di onestà intellettuale. Gli eroi a cui intitolare piazze, ponti e strade sono certamente altri.

di Alina Di Mattia

Bibliografia:

  • I Viceré”, Federico De Roberto
  • “II brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863”, Alessandro Bianco di Saint Jorioz  
  •  “Terroni”, Pino Aprile
  • “I Savoia e il massacro del Sud”,  Antonio Ciano
  • “L’identità ferita”, Massimo Viglione
  • “Risorgimento da riscrivere”, Angela Pellicciari
  • “Tra Sicilia e America”, Enrico Deaglio
  • Desir d’Italie”, Jean Noel Schifano

fonte https://ilfaro24.it/il-mito-di-garibaldi-e-il-risorgimento-che-non-abbiamo-mai-studiato/?fbclid=IwAR16b7Sxc69IeiudfIG2f-qzouLVGxIFJzgd1GiXfaVCFl7Sj3x2C1lx8CE

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Pompei : i misteri di una città sepolta

Posted by on Ago 16, 2019

Pompei : i misteri di una città sepolta

Per duecentocinquant’anni, tutti hanno ripetuto stupidamente che gli abitanti di Pompei stessero riparando i guasti del terremoto del 62, quando è capitata l’eruzione del Vesuvio. Li si è veramente presi per buoi ! Per undici anni, senza tregua, con ostinazione, l’archeologo Antonio Varone, facendo giravolte da una passarella in asse di legno, ha scavato nel cuore di un vasto edificio molto sciupato della via dell’Abbondanza, dove, lungo la viuzza adiacente, sono visibili tre fosse settiche. Avrebbero essi lasciato per diciassette anni queste fosse aperte ? Orbene, è così che il Varone le trovò, oltre vent’anni fa, piene di deiezioni ricoperte dalle pietre pomici dell’eruzione.
Perché ? Perché Pompei aveva subìto, alcuni giorni prima dell’eruzione, un nuovo terremoto e sono le tracce di quest’ultimo che i pompeiani si sforzavano di cancellare. Un’altra prova ? Vecchie fenditure colmate dalla calcina e già annerite lungo un camino.

Erotismo torrido
Questo sisma spiega forse perché non si sono ritrovati che duemila corpi in una città il cui anfiteatro contava quindicimila posti ed il teatro cinquemila : i più assennati erano già fuggiti all’alba del 24 agosto.
Dall’atrio alla stalla giacevano al suolo gli scheletri di cinque asini e di un cavallo, dinenticati dal loro padrone. Al momento del dramma, si era in corso di refezione nella sala da pranzo, il cosiddetto “triclinium”.
I pittori cominciavano ad affrescare dall’alto. La prova ? La parte inferiore del muro non è ancora imbiancata di vernice. Orbene, per gli affreschi non si pone la spalmata che al momento di dipingere.
Come era organizzato il lavoro ? In squadre, molto gerarchizzate apparentemente. Su una delle pareti divisorie, una grande superficie di vernice fresca è stata appena posta. Un apprendista si apprestava verosimilmente a passarvi il fondo nero. In compenso, il rettangolo vuoto nel mezzo del muro del fondo è ben più piccolo. E’ lì lo spazio riservato al maestro affinché dipinga il suo quadro.
Su questo muro quasi terminato vi sono dei piccoli motivi in rilievo. Vi erano dunque due altri impiegati, subalterni senza dubbio, incaricati di realizzare, al metro e a secco sugli affreschi, i motivi architettonici decorativi…
Il suolo del piano è ricoperto da tre metri di pietra pomice, brutalmente sbarrato da uno strato duro, di dieci centimetri di spessore. Le pietre pomici sono cadute dal mezzogiorno alle 8 della sera. Fin lì, erano morti solo gli schiavi ai ferri, il cane al guinzaglio, i cavalli dimenticati dal padrone. Però, alle 20, brutalmente, sono apparsi dei gas e delle ceneri incandescenti, della velocità di 80 chilometri orari. La maggior parte delle vittime sono state trovate in questo sottile strato. E’ lo strato della morte della città.
Seguono un nuovo strato di pietre pomici, più fine, poi una nuova nube di gas incandescenti e di fango proiettato lateralmente a grandissima velocità” : lo strato duro ch esso ha lasciato è pieno di mattoni, di tegole, di ferràglia. Resta un interrogativo: perché questo nome di “casa dei Casti Amanti” ? Abbiamo trovato scene di un erotismo così torrido nel guardaroba delle terme suburbane pompeiane che il quadro scoperto qui, che rappresenta un tenero bacio, ci è parso degno di essere salutato per la sua castità… anche se la signora in questione ha tutte le probabilità di essere una prostituta!
Villa dei Misteri : editi due libri su uno degli insiemi pittorici più importanti del mondo romano

Così va la vita scientifica che, ad alcuni mesi di intervallo, due grandi libri propongono due interpretazioni opposte di un monumento fra i più celebri della pittura antica e che ha già suscitato pubblicazioni in gran numero. Nella primavera del 1998, Paul Veyne prendendo largamente il contropiede delle interpretazioni anteriori, non voleva vedere in questo sontuoso afftresco, riservato agli appartamenti privati di una ricca donna di Pompei, che l’evocazione di un matrimonio, in cui i simboli del sacro non figuravano che per quanto essi impregnano tutta la vita degli uomini dell’Antichità. Dimostrazione stupenda e che strappava largamente la convinzione.
Gilles Sauron in “Il grande affresco della Villa dei Misteri a Pompei”, dopo la stupefacente interpretazione di Paul Veyne, procedendo ad una lettura più “classica” della suddetta villa, contesta questa interpretazione e sostiene, con non meno fulgore e talento, una lettura più tradizionale, ma anche più complessa, di questo affresco “concepito come un enigma”. Si sarebbero rappresentate “in parallelo tre storie, da una parte quella di Semele (a destra) e quella di Dioniso (a sinistra), e d’altra parte quella della sacerdotessa che rivive queste due storie in certi avvenimenti apparentemente, puramente umani della sua vita ma anche per la sua partecipazione alle iniziazioni femminili (come iniziata, poi come iniziante) e maschili (solo come iniziante), ai misteri dionisiaci, e la fusione in una sola narrazione pittorica di queste tre storie parallele forma tutta la materia di questa sontuosa illustrazione della storia di una donna che ha preteso di identificarsi con gli dei”. Interpretazione che si inscrive, dunque, nel drittofilo della maggior parte degli autori che l’hanno preceduta. Ciò non significa che Sauron non apporti niente di nuovo.Lo si misura tanto meglio in quanto si prende la pena di stendere un bilancio storiografico appassionante, che mostra la varietà infinita delle identificazioni del particolare quanto delle interpretazioni di insieme.
Gilles Sauron, grazie ad una serie di raffronti iconografici spesso decisivi, ne ricusa molti e rischiara molti dei simboli oscuri o mal compresi. E il suo apporto, su certi punti, pare difficilmente contestabile, come l’identificazione di Semele (non di Ariana) al fianco di Dioniso (idea ripresa da Boyancé), o la distinzione tra i sileni si Apollo e quelli di Dioniso. In linea di massima, la concatenazione della dimostrazione seduce e, con una felicità d’espressione mai colta in fallo, Gilles Sauron conduce il lettore ad aderire alle sue conclusioni. In altri termini, egli dà dell’interpretazione classica la spiegazione meglio argomentata, entrando nei particolari , senza mai perdervici, non lasciando niente nell’ombra, non trascurando né la forma di una acconciatura né il colore di un mantello. Un’erudizione senza incrinatura, la sua, ma costantemente dominata ed esposta con una limpidezza che rende la lettura scorrevole per tutti.

ESITAZIONI

E tuttavia, impeccabile che sia la dimostrazione, si esita ad abbandonare Veyne per Sauron. Perché ? Seducente senza alcun dubbio, la tesi di Sauron poggia però su un postulato espresso presto : l’affresco si situa nel contesto “delle pratiche iniziatiche dionisiache che ne formano l’essenziale dell’ispirazione”. Certo, nessuno pensa a negare la presenza di Dioniso e di elementi che si rapportano al suo culto o ai suoi miti (Semele, il ventilabro mistico), ma a formulare, per ipotesi, che ci si trovi di fronte ad una scena di misteri, il rischio era grande di finire per dimostrare che si tratta ben di misteri ! Ciò conduce Sauron, per esempio, a ritrovare la “Domina” in parecchi personaggi dell’affresco, a momenti diversi della sua vita di donna e di iniziata, e a supporre una composizione di una grande complessità, di cui l’accomandante avrebbe ordinato ogni particolare. Malgrado l’intelligenza della dimostrazione. si esita a sottoscrivere senza riserva tante sottigliezze.
Si accorderà volentieri a Sauron che questa decorazione “esprime sotto forme velate una verità ed una sola” ed occorre dunque rinunciare all’idea che ogni lettura sia legittima.
Certo, “se gli esegeti contemporanei si sono contraddetti, è perché essi sono vittime dell’ “offuscamento” concertato, che ha presieduto alla messa in forma del messaggio plastico che esso esprime”, ma, più ancora, l’esegesi ci fa misurare qui quale abisso ci separa da una civiltà che rivendichiamo come nostra, ma i cui aspetti essenziali ci restano tanto oscuri quanto i miti dei Papuasi o quelli degli Aruachi, dell’America Centromeridionale, poiché, piuttosto che di offuscamento concertato, è di perdita di senso che occorrerebbe parlare : questa cultura ci è divenuta largamente estranea poichè, benché ci abbia lungamente nutriti della sua lingua e dei suoi miti, essa obbedisce ad altri comportamenti di fronte al sacro, ad altri codici sociali e morali, che non possiamo provare a capire dall’esterno, come quelli dei Papuasi o degli Arauchi ! La comprensione delle opere non ci è più possibile senza un formidabile apparato didattico e dotto, senza una dimostrazione scientifica necessariamente sottomessa alla valutazione, poiché non possediamo più i referenti intellettuali e spirituali che ne permetterebbero il deciframento simultaneo. Resta il potere di seduzione di una plastica di una rara perfezione, che affascina ed emoziona, a dispetto delle nostre ignoranze.

Pompei licenziosa

La capra ha uno sguardo languoroso per il dio Pan, mezzo uomo, mezzo capro. Questa scultura, in marmo bianco, “lasciva, ma bella”, secondo uno storico d’arte di questo secolo, costituisce una delle opere di maggior rilievo della collezione “erotica” di Pompei presentata dal Museo archeologico di Napoli. Realizzata nel II secolo a. C., la statua proviene dalla città gemella di Herculanum, seppellita nella stessa eruzione del Vesuvio nell’anno 79 della nostra era.
Circa 250 pitture, sculture ed oggetti erotici furono assemblati dall’archeologa Marinella Lista con il sovrintendente Stefano De Caro nelle tre salette precedute da un vestibolo che i Borbone avevano pudicamente chiuso al pubblico, valente alla collezione il nome di “gabinetto segreto”.
Bisogna innanzitutto attraversare la casa del Fauno, che contiene i più bei mosaici colorati di Pompei, con i suoi affreschi nilotici popolati da innumerevoli animali africani (coccodrilli, ippopotami, ibis) e con l’immensa epopea della battaglia di Alessandro Magno contro Dario. Questi mosaici datanti al 120 a. C. furono resi al pubblico, dopo un restauro durato due anni.
Nell’anticamera, un mosaico in bianconero, di grande dimensione : rappresenta tre barche nelle quali si amano delle coppie di pigmei, mentre un asino tradisce il compagno. Un poco più lontano, Pan tenta di sedurre un giovane efebo. In una vetrina, una profusione di ex voto molto espliciti, a carattere divinatorio.
La prima sala presenta pitture che mostrano il mondo degli dei, quello di Venere e, standole di fronte, quello di Apollo. Le pitture sono graziose e delicate. Ciò non esclude le licenziosità, come quel fauno che stuzzica un ermafrodito sotto lo sguardo sconcertato di una bella Menade. La seconda sala è consacrata al giardino, o più esattamente ad una natura, in cui Ermes, il protettore dei campi, mette ordine ed organizzazione. Ecco i termini (delimitanti i terreni) dalle forme molto mascoline, dei fauni scatenati contro delle baccanti.
Ancora più esplicite, ed anche francamente salaci, le scene della terza sala, che rappresentano la vita domestica, il banchetto, la vita dei lupanari che abbondano a Pompei (trentacinque. di cui due grandi, per una popolazione di 12000 abitanti). Scene di piacere, scene educative. Scene di sbicchierata ancora accompagnate dagli strumenti del rito, lampade ad olio scolpite di giochi acrobatici erotici…Questi oggetti, graziosamente lavorati, sono destinati ad allontanare gli spiriti maligni.
In linea di massima, questi quadri e questi oggetti non erano destinati al pubblico, neanche ordinariamente mostrati alle spose. Essi erano conservati nei “cunicoli”, camere dei padroni di casa, dove erano rappresentati gli amori di Giove per Danae o per Ganimede. O ancora riservati ai lupanari. Ciò non vuol dire che le strade di Pompei erano pudibonde. Tutta la città rendeva omaggio alla virilità, simbolo di ricchezza e di fertilità. “Ic habitat felicitas”, proclama un’iscrizione, che era il solo mezzo di informazione e di pubblicità che si possedeva incisa su un sesso in tufo appeso al di sopra del forno di un panettiere. L’epigrafe vuol dire : “Qui abita la prosperità.”

Alfredo Saccoccio

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Un’analisi della catastrofe del 1860

Posted by on Ago 11, 2019

Un’analisi della catastrofe del 1860

Quasi sempre la geografia determina la storia.

La conferma vine dalla osservazione di una qualunque mappa geografica: si troverà che i confini degli Stati quasi sempre coincidono con elementi naturali che caratterizzano il territorio. A questa regola non è sfuggita la geografia politica della Francia: a sud i Pirenei e il Mediterraneo, ad est il Reno e le Alpi, ad ovest l’Oceano Atlantico, a nord una zona di pianura ancora indefinita confinante col Belgio, che forse con l’andar dei secoli troverà la sua definitiva soluzione geopolitica.

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«ALTAMURA. LA STRAGE DELLE INNOCENTI». UN FALSO STORICO CONTRO L’INSORGENZA ITALIANA

Posted by on Lug 27, 2019

«ALTAMURA. LA STRAGE DELLE INNOCENTI». UN FALSO STORICO CONTRO L’INSORGENZA ITALIANA

1. IL FATTO

Il Corriere della Sera di mercoledì 17 febbraio 1999 ha pubblicato con ampio risalto sulla prima delle sue pagine culturali un articolo di Maria Antonietta Macciocchi dal titolo Altamura. La strage delle innocenti (1).

Nell’articolo è narrato un fatto di sangue che sarebbe accaduto duecento anni or sono, nel corso della guerra civile che nella prima metà del 1799 vide contrapposte le popolazioni del Regno di Napoli — inquadrate in gran parte nell’esercito della Santa Fede, guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo dei duchi di Baranello (1744-1827), vicario generale di re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825) — e i rivoluzionari francesi, affiancati dalle milizie della giacobina Repubblica Napoletana, proclamata il 21 gennaio dello stesso anno. Secondo la studiosa, le truppe sanfediste avrebbero perpetrato, nel corso del saccheggio seguito all’espugnazione della città pugliese di Altamura, roccaforte giacobina, nel maggio 1799, lo «stupro di massa» e il massacro di quaranta religiose di clausura, di cui non viene specificato l’ordine di appartenenza, ma che sarebbero orsoline, secondo le fonti di cui si è avvalsa.

2. LA NARRAZIONE

Maria Antonietta Macciocchi nasce il 22 luglio 1922 a Isola del Liri, in provincia di Frosinone; nel 1942 aderisce al Partito Comunista Italiano e nel 1950 si laurea in storia dell’arte all’Università La Sapienza di Roma. Sposa il giornalista Alberto Jacoviello, dal quale poi divorzierà. Dal 1956 al 1961 dirige il settimanale comunista Noi donne e dal 1961 al 1968 la rivista, sempre comunista, Vie nuove; è quindi corrispondente de l’Unità, l’organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, da Algeri, da Bruxelles e da Parigi. Nel 1968 è eletta deputata nelle file del PCI. Nel 1971 entra in dissenso con la linea ufficiale del partito, che di conseguenza non la ricandida al Parlamento. Nel 1972 si trasferisce a Parigi, doveconsegue il dottorato in scienze politiche alla Sorbona e ottiene un lettorato all’università di Parigi VIII a Vincennes. Nel 1977 lascia il PCI e aderisce al Partito Radicale, nelle cui liste è eletta nel 1979 sia alla Camera dei Deputati, sia al Parlamento Europeo. È ancora parlamentare europea dal 1984 al 1989 con la Sinistra Indipendente. Collabora attualmente con i quotidiani Corriere della Sera, Le Monde, di Parigi, e El País,di Madrid. È promotrice della Convenzione di Venezia degli intellettuali europei e nel 1986 riceve dal governo francese l’Ordre des Arts et des Lettres. Ha pubblicato una quindicina di libri — per lo più su temi interni al movimento rivoluzionario italiano ed europeo —, gli ultimi dei quali dedicati alle due maggiori esponenti femminili della Repubblica Napoletana, Eleonora de Fonseca Pimentel (1752-1799) e Luisa Sanfelice (1764-1800), entrambe vittime della «ferocia misogina dei crocesegnati», ovvero dei sanfedisti (2).

Prendendo spunto dal clamore suscitato da una sentenza della Corte di Cassazione relativa a un caso di stupro e sfavorevole alla vittima — sentenza definita senza mezzi termini «sgangherata e beffarda» —, la scrittrice introduce il tema, connesso al primo, del duecentesimo anniversario dei moti repubblicani di Altamura, del quale sono in corso rievocazioni da parte di un comitato locale, e di uno «stupro di massa consumato dalle bande dei sanfedisti contro le suore di clausura del Monastero del Soccorso» di quella città. L’iniziativa nasce dalla scoperta fortuita, nel fondo Ginguené (3) della Biblioteca Richelieu di Parigi, del diario manoscritto relativo al saccheggio della città pugliese, in cui l’episodio dello stupro sarebbe narrato con efferati particolari. L’episodio sarebbe divenuto oggetto dell’attenzione della scrittrice non solo perché giudicato particolarmente grave e odioso e perché ne ricorre il secondo centenario, ma anche in quanto suonerebbe come l’ennesima conferma della tesi femminista secondo cui la violenza sessuale sulle donne, e in generale l’oppressione dell’elemento femminile, sarebbero un dato strutturale della società occidentale, da cui le interessate dovrebbero emanciparsi attraverso un’azione politica e sociale organizzata. Secondo questa prospettiva, lungo i secoli si sarebbe attuato un ininterrotto «martirio delle donne», di cui sarebbero responsabili non soltanto il maschio uti singulus, ma anche e soprattutto le leggi, il «sistema», ovvero le istituzioni sociali e religiose. Alla radice di tale oppressione plurisecolare sarebbe una ideologia «maschilista», misogina e illiberale, che risalirebbe in ultima analisi alla cultura e alla mentalità cattoliche — o, forse, a una concezione del cristianesimo «deviata» in quanto istituzionalizzata — e al potere esercitato dalla Chiesa sulle coscienze. Questa mentalità sarebbe particolarmente radicata in correnti ideologiche considerate come avverse pregiudizialmente alla modernità, di cui il sanfedismo sarebbe l’estrema manifestazione (4). La figura del cardinale Ruffo (5) e quella di re Ferdinando IV di Borbone, che rappresentano rispettivamente il «sacerdozio» e il «dispotismo», ovvero i due cardini della repressione istituzionale, vengono così percepite come gli emblemi della più bieca repressione anti-femminile. La responsabilità del «martirio» di Altamura e delle esecuzioni di numerosi «patrioti», vittime della giustizia borbonica dopo la caduta della Repubblica Napoletana — in particolare le donne, due volte martiri, della libertà e della condizione femminile —, viene attribuita in ultima istanza alla Chiesa e al Papa. Pertanto la Macciocchi, che pure si dichiara favorevole alla «rievangelizzazione del mondo» — che equivarrebbe curiosamente solo a «una Chiesa riconciliata con il Vangelo» e non a un mondo riconciliato con la Chiesa, quindi con il Vangelo —, si sente autorizzata a domandare pressantemente a Papa Giovanni Paolo II, definito un «Papa colossale» (6), di aggiungere l’eccidio delle «innocenti» di Altamura alla lista degli atti di contrizione che la Chiesa sarebbe prossima a compiere in occasione del Giubileo dell’anno 2000. Questo gesto, inoltre, dovrebbe essere accompagnato dalla condanna ufficiale del cardinale calabrese, reo di aver insignito del nome di «Esercito della Santa Fede un’accozzaglia di assassini e di stupratori», troppo a lungo «difeso da una fitta rete di complicità che passa per gli intellettuali borbonici, i fascisti e persino la Chiesa». La condanna dovrebbe essere estesa a re Ferdinando IV «[…] che allagò del sangue delle sue vittime tutta Napoli».

3. CONSIDERAZIONI STORICHE

L’episodio di Altamura e il modo con cui è affrontato dalla Macciocchi si prestano ad alcuni rilievi, sia sul piano della verità dei fatti — ovvero sul piano storico, con la sua premessa di metodologia storiografica —, sia su quello politico ed etico in generale. Va premesso che la Macciocchi aveva già fatto menzione tanto delle suore di Altamura — senza però citare come fonte il diario anonimo parigino, che peraltro avrebbe già dovuto conoscere —, quanto del mea culpa cattolico nella sua opera su Luisa Sanfelice, pubblicata nel 1998 (7).

3.1. Le fonti a disposizione

Sotto il profilo storico, il fatto rievocato — oltre a essere tutt’altro che inedito — poggia su basi molto fragili, se non del tutto inesistenti. Non risulta infatti dalla stragrande maggioranza delle fonti che vi sia stato ad Altamura nel 1799 un eccidio di religiose, tanto meno con le modalità particolarmente efferate denunciate. L’unico dato certo è che ad Altamura vi sono stati un assedio e una battaglia, culminati con l’espugnazione della città murata da parte dei «crociati» e con il saccheggio — non esente da tutte le intuibili forme di violenza privata proprie della rappresaglia —, che venne peraltro temperato proprio dal cardinale Ruffo e dai suoi ufficiali. Inoltre, non risulta che esistano rami claustrali delle orsoline, né che vi sia mai stato un convento di tale ordine in città.

Queste riserve sono state espresse da uno storico di Altamura, Giuseppe Castelli — i cui antenati furono fra i difensori della città in occasione dell’assedio sanfedista del 1799 —, che in un articolo sul quotidiano Avvenire ha precisato che dall’abbondante documentazione esistente — fra cui tutto quanto pubblicato in occasione del primo centenario dei fatti, non escluse le dichiarazioni di testimoni oculari, raccolti molti anni prima — non risulta alcun fatto nei termini riferiti dalla Macciocchi (8).

Fra le fonti disponibili figurano non poche cronache locali del tempo, anzitutto i resoconti di Gian Carlo Berarducci (1762-1837) e del sacerdote Vitangelo Bisceglia (1749-1817), pubblicati dallo storico Giuseppe Ceci (1863-1938) nel 1900 (9). Il primo, più laconico, si limita ad affermare che nel sacco di Altamura «si contano […] due monache, una morta e l’altra ferita» (10); il secondo precisa che «[…] il cardinale Ruffo, per risparmiare le claustrali dalle violenze, ordinò che fossero uscite [sic] dalla città, ed avessero occupata la casa di Montecalvario, dove con esse furono trasportate molte dame» (11). Il curatore precisa in una nota al testo: «Talune [donne] per minacce, altre co’ doni presi dal saccheggio, altre lusingate da promesse di matrimonio, si prestarono alle infami voglie» (12); parla però di «prostituzione» e non di violenze, e non dice nulla sulle religiose. Medesima impostazione ha l’abate Domenico Sacchinelli (1766-1844), il quale, scrivendo nel 1836, sostiene che «[…] le donne Altamurane (facendo le dovute eccezioni) produssero all’armata Cristiana quegli stessi effetti, che un tempo cagionarono ai soldati di Annibale le donne Capuane» (13). Nel 1899, in occasione del primo centenario del sacco di Altamura, il senatore pugliese Ottavio Serena (1837-1914) dà alle stampe un saggio su Altamura nel 1799, non favorevole al cardinale Ruffo, che non fa cenno alcuno dell’episodio raccontato dalla Macciocchi e pubblica l’importante relazione del parroco della cattedrale di Altamura, che, attingendo ai registri parrocchiali, riporta i nomi di tutte le vittime del saccheggio del 10 maggio — in totale trentasette, cioè tre di meno delle asserite vittime religiose — e la precisa indicazione: «Ora in Altamura non vi fu mai un monastero di Orsoline; le monache Clarisse del Soccorso prima dell’assalto abbandonarono il monastero» (14). Inoltre, nell’appendice documentaria sono edite le Notizie di un Anonimo altamurano, il quale, a proposito delle «Signore Monache di Clausura d’ambi i Monasteri del Soccorso e S. Chiara» (15), scrive che il cardinale «[…] ordinò che trasportate fossero nelle rispettive abitazioni ed ivi fossero custodite» (16); quindi «[…] anche le clausure delle monache sacrate se ne uscirono, e lasciarono in abbandono gli Monasteri e si ritirarono tutte unite in casa sicura di un Signore con guardia permessa dal Ruffo» (17). Lo stesso anonimo cronista altamurano, testimone dei fatti, è ripreso senza riserve dallo storico degli anni 1930 Massimo Lelj (1888-1962) — di orientamento sfavorevole ai sanfedisti e in genere piuttosto ben documentato — al capitolo XI della sua opera La Santa Fede. La spedizione del cardinale Ruffo (1799) (18). Infine, la tesi della protezione richiesta dalle religiose al cardinale è confermata dal tenente colonnello borbonico Domenico Petromasi, commissario di guerra presso l’armata sanfedista ed estensore di una cronaca della riconquista del Regno di Napoli, che è testimone oculare senz’altro interessato dei fatti, ma fondamentalmente equilibrato e onesto nel suo resoconto (19).

3.2. Le fonti utilizzate

Se mancano testimonianze tali da accreditare la versione della Macciocchi, a smentire la realtà dell’eccidio, per la loro intrinseca debolezza e inattendibilità, sono proprio le fonti utilizzate dalla scrittrice. Francamente non basta un diario — anche se manoscritto e inedito, e per di più letto dalla studiosa «quasi tremante» — per stabilire la verità di un fatto storico. Tanto più se il cronista non è testimone oculare dei fatti e, come traspare dai toni «apocalittici» utilizzati, si tratta di un «giovane che si era battuto», quindi di un militante rivoluzionario, di un giacobino, ossia di una persona pregiudizialmente avversa per ragioni ideologiche ai sanfedisti. Inoltre la prosa del cronista non convince: è troppo stranamente simile a quella di una qualunque delle gazzette giacobine del periodo, per le quali era più importante combattere la «battaglia delle idee» che riferire la verità. Basta aprirne una a caso, a Napoli come a Brescia o a Milano, per accorgersi che le vicende dell’Insorgenza sono generalmente riferite negli stessi termini e con i medesimi toni, faziosi e altamente emotivi, dell’anonimo.

Quanto ai «testi più solidi» cui la studiosa dice di essersi rifatta, sono molto dubbi il loro valore e la loro attendibilità. Tutti sono marcatamente favorevoli alla Rivoluzione: Jules Michelet (1798-1874), anticlericale e partigiano a oltranza dell’Ottantanove (20); Carlo Botta (1766-1837), ex giacobino, autore di un’ampia sintesi della storia d’Italia che si avvale spesso di fonti di dubbio valore (21); Pietro Colletta (1775-1831), prima seguace di Gioacchino Murat (1767-1815), poi carbonaro, autore di una Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, sulla quale lo stesso curatore esprime il seguente giudizio: «Quella del Colletta è una delle opere che maggiormente hanno bisogno di chiarimenti e di delucidazioni per esser ricca di errori, o voluti dall’autore per motivi di ordine politico o personale, o da attribuire alle fonti da lui usate» (22); Vincenzo Cuoco (1770-1823), già protagonista della Repubblica Napoletana (23); Adolf Wilhelm Theodor Stahr (1805-1876), autore di Die Republikaner in Neapel, «I repubblicani a Napoli», il cui anonimo traduttore precisa che «l’opera che pubblichiamo[,] tradotta dal tedesco, appartiene a quel genere commisto di vero e di falso del quale più si piacque questo secolo e che romanzo-storico vien detto» (24). Così non si capisce se la scena descritta da Stahr, nella quale il diacono cardinale Ruffo — che, ammette per inciso lo studioso, «[…] sentiva talora qualche piccolo accenno di umanità» (25) — celebra la Messa al campo, sia una forzatura romanzesca oppure l’autore — non alieno da studi presso facoltà teologiche protestanti — alluda a una partecipazione del cardinale stesso alla Messa nel suo limitato ruolo ministeriale (26).

La sorpresa maggiore, però, deriva dalla consultazione delle opere di Giovanni La Cecilia (1801-1880), perché si constatata che gran parte del testo della Macciocchi, sia fra virgolette sia in parafrasi, come pure tutti gli autori citati come fonti autorevoli e più solide, sono ripresi letteralmente da un volume del polemista napoletano (27). In particolare, la descrizione della truculenta scena dell’eccidio non è tratta dalle pagine dell’anonimo «parigino», che sarebbe stato senz’altro più autorevole, ma, senza avvertirne il lettore,dalla prosa dello scrittore mazziniano, confidando forse sul fatto che, siccome lo stile dei due autori è affine, il lettore inavvertito non se ne accorga. Anche La Cecilia, comunque, non suffraga il fatto specifico con alcuna «pezza d’appoggio», anzi ricorre al discorso diretto (28), come se si trattasse di una parentesi romanzata nella narrazione. Ciò avvalora l’ipotesi che sia una interpolazione dell’autore, fatta quanto meno a scopo narrativo, di spunti forniti da altri.

Del resto, La Cecilia, carbonaro e poi mazziniano, è un militante a tempo pieno, un «rivoluzionario di professione» — in una nota del volume confida di credere che «[…] il papato fu ed è il flagello d’Italia» (29) —, non uno storico ma un propagandista e un uomo d’azione, giudicato da Alessandro Galante Garrone come autore di «pittoresche romanzature» (30) e una «testa calda» (31). Il libro in questione colpisce immediatamente per la sua scarsa scientificità. La versione dei fatti è inattendibile, le fonti citate sparute e quasi mai di prima mano, l’apparato critico nullo, il linguaggio inadeguato a un’opera storica. Lo studio, quindi, si colloca all’interno del genere letterario del «romanzo d’appendice» — molto in voga nell’Ottocento e in verità mai tramontato —, piuttosto che in quello storiografico. La Cecilia si sforza di trasmettere della monarchia borbonica di Napoli l’immagine di un regime corrotto e inetto, che si avvale di ogni bassezza e di agenti spregevoli — per esempio, del cardinale Ruffo dice che manteneva un «Harem di corrotte femmine» (32) — pur di conservare il potere. Per rafforzare questo quadro La Cecilia non esita a far dipingere ad hoc ben cinquanta illustrazioni a colori, che raffigurano scene fra le più inverosimili — ma efficaci —, come quella del capitano borbonico Gennaro Rivelli, aiutante di campo del cardinale e particolarmente inviso a La Cecilia, che offre a Ruffo le teste mozzate di una madre incinta e della bambina strappatale dal ventre, al fine d’intascare due volte la taglia posta dal re sulle teste dei giacobini (33). In un’epoca in cui non esisteva la televisione, si può intuire come queste scene s’imprimessero nell’immaginario del lettore e dessero vita ad altrettante leggende. Pubblicato alla vigilia dell’invasione garibaldina del Regno di Napoli — e ripreso da non pochi scrittori politici «nazionali» che, evidentemente, lo hanno trovato utile (34) —, è difficile non vedere il volume come un lavoro di propaganda, inteso a «preparare il terreno» alle camicie rosse di Giuseppe Garibaldi (1807-1882). Questa è l’opera da cui la Macciocchi trae il succo della sua argomentazione: quando si trattano temi delicati e complessi come quello evocato, che stanno a cuore a molti, sia favorevoli che contrari, sarebbe però opportuno fondare la propria argomentazione su «pezze d’appoggio» un po’ meno fragili e screditate.

Per completezza di quadro, occorre esprimere non poche riserve sullo stile. In una persona di cultura, e in particolare in uno storico, i già segnalati toni altamente emotivi — verrebbe spontaneo scrivere «che rasentano l’isteria» — di cui risente pesantemente la prosa dell’illustre pubblicista sono stonature fatali. Alcuni passaggi meritano di essere riportati: «Su Parigi l’aria era fredda, pioveva, mentre continuavo a decifrare quasi tremante il manoscritto che avevo messo sul leggio. Tutto sembrava silenzio»; il diario scoperto a Parigi è un «eccezionale testo», scritto «con una calligrafia limpida e una prosa poderosa»; la folla di Altamura che ascolta la rievocazione della stessa studiosa è «fitta, bella e severa, assiepata davanti al monumento della Libertà». Frasi a effetto, che scadono però in autentiche contumelie e «clave ideologiche» quando, passando ai fatti storici, la Macciocchi descrive l’esercito della Santa Fede come un insieme di «bande» o di «orde», «un’accozzaglia di banditi e di stupratori», ignorando o dimenticando che con il cardinale Ruffo — «un vero bandito», che «si abbeverava di sangue» — combattevano reparti dell’esercito regolare napoletano. Oppure quando lascia cadere attributi enigmatici sui sanfedisti, come quando — riprendendo acriticamente un tema caro a La Cecilia — ricorda che il «mostro» Gennaro Rivelli, aiutante di campo di Ruffo, era stato «meniño», ovvero «fratello di latte» di re Ferdinando, lasciando intendere velatamente che il capo sanfedista e il re avessero condiviso chissà quali turpitudini (35). Oppure ancora quando, per accentuare la corresponsabilità del cardinale nei massacri, parla di una «piena assoluzione della Chiesa» che Ruffo avrebbe impartito ai suoi accoliti prima di lanciarli al massacro e al saccheggio, cosa da intendersi eventualmente nel senso di mancata o ridotta sanzione giudiziaria, civile o ecclesiastica, e non certo di assoluzione sacramentale, l’autentica «piena assoluzione della Chiesa», dato che, essendo solo diacono, «in virtù del [suo] sacro ministero», il cardinale non poteva assolvere proprio nessuno.

Certo la riconquista borbonica del Regno di Napoli avviene e culmina in un quadro di guerra civile, che causa profonde divisioni e odi. Essa costa sangue, come in genere tutte le guerre civili, ma nel 1799 la popolazione è tutta con il re. E non si può dimenticare che gli «illuminati» dirigenti della Repubblica Napoletana — in via di «beatificazione laica» — nei nove mesi della loro permanenza al potere comminarono migliaia di condanne, nel tentativo di «purificare» la repubblica proprio dallo spirito sanfedista. Come meravigliarsi che vi siano state vendette, anche sanguinose, da parte degli avversari? Del resto, proprio ad Altamura, come riferisce Lelj, i giacobini assediati, prima di fuggire ingloriosamente, avevano passato a fil di spada circa cinquanta realisti, politici e ostaggi, fra i quali più di un ambasciatore inviato dai sanfedisti (36). Di queste rappresaglie il cardinale Ruffo, come ormai è riconosciuto unanimamente, fu sempre, sia durante la guerra, che soprattutto dopo, moderatore intransigente, indipendentemente dal fallimento dei suoi tentativi di opporsi al re e ai britannici.

In conclusione, sotto il profilo storico quello della Macciocchi sembra un modo di accostarsi ai fatti scorretto e dilacerante, che rischia di risvegliare artificialmente passioni civili del tutto fuori luogo. Non è questo il metodo giusto per iniziare una serena e fondata revisione della storia italiana e per ricostruire una memoria comune del nostro popolo, sulla quale fondare — come è pressante necessità — nuove regole di convivenza civile.

4. CONSIDERAZIONI POLITICHE

Tutti questi elementi lasciano intravedere la trama di fondo, rigidamente ideologica, in cui l’intervento si situa. La storia, lo studio dei fatti del passato, in questa prospettiva, diventa puramente strumentale a obiettivi extra-storici, in genere politici o, nel caso della studiosa, funzionali a una militanza ideologica che talora va oltre la politica.

Rievocare un massacro di monache, vero o falso che sia, per la Macciocchi serve solo alla «prassi», cioè a «mettere in azione» persone e gruppi umani — quanto meno il comitato delle sue «amiche» di Altamura — in una prospettiva assunta apoditticamente e pregiudizialmente — verrebbe da dire «metafisicamente» — come buona, ovvero il trionfo del femminismo. E se i fatti scarseggiano o sono dubbi o mancano del tutto, tanto peggio per i fatti! Bastano quattro frasi di un romanzo d’appendice e un diario ideologizzato e i fatti si piegano al wishful thinking o alla «volontà di potenza» di chi scrive. E in questo la studiosa sembra davvero non avere dimenticato le sue radici culturali marxiste…

Quest’ultimo tratto suggerisce alcune riflessioni di tipo generale, che si traducono in altrettanti quesiti. Con tanti tragici casi umani davanti agli occhi, come mai questo interesse per una categoria femminile, normalmente non particolarmente in auge negli ambienti femministi? E perché un interesse che si spinge fino a rivendicare le doti delle religiose, quando si dimentica che cosa ne è stato — non solo delle doti, ma dei monasteri stessi, soprattutto nel Mezzogiorno — in altre condizioni e sotto altri regimi, giudicati invece con favore o comunque meno sgradevoli di quello borbonico restaurato, come le repubbliche giacobine o lo Stato italiano post-unitario? È proprio vero che, quando si tratta di «fare rivoluzione», marxisti o femministe non guardano tanto per il sottile quanto alla «materia prima» disponibile. L’illustre esponente progressista si sofferma sulla «pagliuzza» sanfedista, peraltro non provata, e dimentica l’enorme «trave» costituita dagl’innumerevoli eccidi — di uomini e di donne, anche religiose — e dai saccheggi con i quali i francesi e le milizie giacobine hanno funestato per anni regioni e province intere in Italia — e in tutta Europa —, soprattutto nel Mezzogiorno, dove infieriscono per oltre quindici anni (37). E sempre nella predetta metafora evangelica, sarebbe da chiedere alla studiosa da che parte si situano i massacri di migliaia di religiosi e di religiose perpetrati dai comunisti e dagli anarchici durante la guerra civile spagnola, quando monache e frati vennero uccisi non perché ricchi di famiglia o perché di piacevole aspetto — ma quale «misoginia» si può imputare ai «crocesegnati» nella versione dei fatti della Macciocchi? — e neppure sotto l’influsso del delirio da saccheggio, ma, freddamente, in quanto religiosi, e nessuno si curò che fossero «innocenti» o meno, per riallacciarsi al titolo dell’articolo. E come non ricordare, da ultimo, l’annientamento di intere chiese e comunità religiose — certamente composte da un’alta percentuale di donne — attraverso la deportazione nel GuLag in tutti i paesi sovietizzati a partire dal 1918? Ha letto la Macciocchi quale fu per esempio la sorte dei religiosi russi deportati nel Lager delle isole Solovki a nord-est di Leningrado, nel Mar Bianco, ai limiti del Circolo Polare Artico, di cui solo recentemente — dopo ottant’anni dal martirio — sono state ricostruite le indicibili sofferenze (38)?

Riguardo, infine, al tema della Chiesa e del perdono: certo, la Chiesa e il Papa, quando imperativi di verità lo hanno richiesto, non hanno esitato e non esiteranno a rivedere la propria interpretazione consueta di vicende storiche, che hanno visto un cattivo comportamento da parte di cristiani. Così, se l’eccidio di Altamura fosse autentico, esso potrebbe di certo finire nel novero di tali vicende. Non risulta invece che i responsabili di almeno ottanta milioni di vittime — uomini e donne, laici e religiosi —, a fianco dei quali ha militato per anni e forse ancora milita la Macciocchi, abbiano ancora in qualche forma chiesto perdono del loro operato. Quale senso ha, in questa prospettiva oggettivamente mutila e «squilibrata», avanzare arrogantemente richieste come quelle formulate, se non cercare di sfruttare furbescamente — o marxisticamente — tutte le opportunità, tutte le «contraddizioni» — reali o create ad arte — offerte dalla situazione, sforzandosi nel caso specifico di «arruolare» alla propria causa, sempre più in crisi, le forze ideali dell’avversario?

5. CONSIDERAZIONI FINALI

Concludendo, un ultimo appunto merita la sede in cui la Macciocchi ha potuto divulgare le sue tesi, più consone a testate di parte che non al più diffuso quotidiano italiano. Come mai questo ha ospitato sulla sua prima pagina culturale un contributo così discutibile e gli ha concesso tanto spazio? Semplice ricerca dello scoop? «Simpatia» di fondo per le tesi? Autorevolezza della scrittrice? O forse un «segnale» alla Chiesa e ai vescovi italiani, troppo «schierati» in occasione della battaglia parlamentare sulla legge relativa alla procreazione assistita?

Comunque — tornando a orizzonti maggiori, cioè nell’ottica della storia come deposito di esperienze per la politica e come ricostruzione del passato che, se non spiega il presente, almeno lo fonda —, si deve registrare il fatto che, dopo le dichiarazioni d’inesistenza dell’Insorgenza e/o quelle di perfetta conoscenza dei fatti a essa relativi, si è prodotto anche un nuovo tipo di attacco a un momento essenziale della storia degli italiani: il falso storico. Oscar Sanguinetti

Note

(1) Cfr. Maria Antonietta Macciocchi, Altamura. La strage delle innocenti, in Corriere della Sera, 17-2-1999, p. 33. Tutte le citazioni senza rimando sono tratte da questo articolo.
(2) Cfr. Eadem, Cara Eleonora. Passione e morte della Fonseca Pimentel nella Rivoluzione Napoletana, Mondadori, Milano 1996; ed Eadem, L’amante della Rivoluzione. La vera storia di Luisa Sanfelice e della Repubblica Napoletana del 1799, Mondadori, Milano 1998. Sulla scrittrice vedi I deputati dell’ottavo parlamento repubblicano, La Navicella, Roma 1979, sub nomine; Le donne italiane. Il chi è del ’900, a cura di Miriam Mafai, Rizzoli, Milano 1993, p. 272; e Who’s who in Italy, Sutter’s international red series, Milano 1998, vol. II, pp. 1147-1148. (3) Pierre Louis Ginguené (1748-1816) fu letterato rivoluzionario e uomo politico — ambasciatore presso la corte sabauda nel 1798 — nonché autore di una Storia letteraria dell’Italia in 10 volumi, scritta fra il 1811 e il 1819, in collaborazione con il giacobino Francesco Saverio Salfi (1759-1832). Fece parte della corrente culturale degli «idéologues»; cadde in disgrazia presso Napoleone Bonaparte (1769-1821) per essersi rifiutato di accettare la nuova costituzione del 1799.
(4) Sulla Santa Fede vedi Francesco Pappalardo, 1799: la crociata della Santa Fede, in Quaderni di «Cristianità», anno II, n. 3, inverno 1985, pp. 34-50, rielaborato in Idem, 1799. Rivoluzione e Contro-Rivoluzione nel Regno di Napoli, Istituto per la Storia delle Insorgenze, pro manuscripto, Milano 1999; e Idem, Il sanfedismo, in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte», a cura di Giovanni Cantoni e con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 215-220.
(5) Su di lui, cfr. Giovanni Ruffo, Il cardinale rosso, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1998.
(6) Soprattutto — e forse solo — perché autore della «magnifica frase, quella sul genio delle donne» legato in qualche modo — non è ben chiaro il senso della frase della Macciocchi — alla «mulieris dignitatem», la lettera apostolica di Papa Giovanni Paolo II sulla dignità e la vocazione della donna, pubblicata nel 1988 in occasione dell’Anno Mariano.
(7) Cfr. M. A. Macciocchi, L’amante della Rivoluzione. La vera storia di Luisa Sanfelice e della Repubblica Napoletana del 1799, cit., rispettivamente alle pp. 204-209 e 224-227.
(8) Cfr. Giuseppe Castelli, Troppe leggende sul cardinale Ruffo, in Avvenire. Quotidiano d’ispirazione cattolica, 25-2-1999; cfr. pure Giovanni Formicola, Altamura, gli errori di Maria Antonietta Macciocchi, in Roma, 7-3-1999.
(9) Cfr. Cronache di fatti del 1799, a cura di G. Ceci, Tip. Vecchi, Andria (Bari) 1900.
(10) Diario di Gian Carlo Berarducci, in Cronache di fatti del 1799, cit., pp. 1-279 (p. 121).
(11) Memorie storiche contenenti la serie degli avvenimenti che hanno avuto luogo nella città di Altamura dal principio della rivoluzione fino all’ingresso e dimora dell’armata regia e cristiana nella medesima, vale a dire dal principio di Gennaio 1799 per tutto il mese di Maggio dello stesso anno, scritte nel tempo istesso da un testimonio di vista, in Cronache di fatti del 1799, cit., pp. 281-399 (p. 391).
(12) Ibid., p. 393, nota 2.
(13) Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo, con osservazioni sulle opere di Cuoco, di Botta e di Colletta. Edizione seconda, Tip. Poliglotta, Roma 1895, p. 161.
(14) Cfr. Ottavio Serena, Altamura nel 1799, Casa Editrice Italiana, Roma 1899, p. 79, nota 1.
(15) Ibid., p. 23 dell’appendice.
(16) Ibidem.
(17) Ibidem.
(18) Cfr. Massimo Lelj, La Santa Fede. La spedizione del cardinale Ruffo (1799),Mondadori, Milano 1936, pp. 127-147.
(19) Cfr. Domenico Petromasi, Alla riconquista del regno. La marcia del cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli, Editoriale il Giglio, Napoli 1994 (prec. ed. Manfredi, Napoli 1801), p. 71.
(20) Su di lui vedi Paul Vialleneix, Jules Michelet, in L’albero della rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, a cura di Bruno Bongiovanni e Luciano Guerci, Einaudi, Torino 1989, pp. 481-490.
(21) Su di lui vedi Walter Maturi (1902-1961), Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Einaudi, Torino 1962, pp. 36-91.
(22) Nino Cortese (1896-1972), in Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, 3 voll., Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1956-1957, vol. I, p. XII. Colletta, comunque, descrivendo il saccheggio di Altamura, accenna in meno di una riga a «[…] un convento di vergini profanato» (ibid., vol. II, p. 64). Sull’opera di Colletta, vedi il giudizio del Dizionario di Storiografia (Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 222), secondo cui «[…] quest’opera storico-memorialistica fu largamente discussa e si rivelò un importante strumento politico contro la monarchia borbonica».
(23) A proposito di Altamura Cuoco parla «di cadaveri intrisi di sangue» (Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799, a cura di N. Cortese, Vallecchi, Firenze 1926, p. 270), ma è smentito dal curatore dell’edizione, che precisa: «La città fu data al saccheggio; ma, contrariamente a ciò che dice il Cuoco, è da avvertire che gli abitanti abbandonarono interamente il paese, al momento della resa» (ibid., p. 271, nota 2). Su di lui vedi Stefano Nutini, Vincenzo Cuoco, in L’albero della rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, cit., pp. 152-158.
(24) Adolf Wilhelm Theodor Stahr, I repubblicani di Napoli. Romanzo storico, 2 voll., G. Lobetti-Bodoni, Pinerolo (Torino) 1854, vol. I, p. I. Stahr, storico prussiano dell’antichità greca e romana, scrittore assai prolifico, dopo un viaggio in Italia, in Svizzera e a Parigi, intrapreso nel 1845 e durato un anno — a Roma fra l’altro conobbe la sua futura consorte, la letterata Fanny Lewald (1811-1889) —, pubblicò alcuni volumi di ricordi di viaggio: Ein Jahr in Italien [Un anno in Italia, 1847], Herbstmonate in Italien [Mesi d’autunno in Italia, 1860] e Herbsmonate in Oberitalien [Mesi d’autunno in Italia settentrionale, 1866], nonché — unico suo lavoro di epoca moderna — Die Republikaner in Neapel, apparsonel 1849 a Berlino, un romanzo storico dedicato alla Repubblica Napoletana del 1799 e, in particolare, alla figura dello storico e militante repubblicano Colletta. Su Stahr vedi Allgemeine Deutsche Biographie, 56 voll., Dunder & Humblot, Lipsia 1874-1912, vol. 35, 1893, pp. 403-406.
(25) Ibid., vol. II, p. 115.
(26) Cfr. ibid., vol. II, p. 113.
(27) Cfr. Giovanni La Cecilia, Storie segrete delle famiglie reali o misteri della vita intima dei Borboni di Francia, di Spagna, di Parma, di Napoli e della famiglia Absburgo-Lorena d’Austria e di Toscana per Giovanni La-Cecilia [sic], 4 voll., Tip. Toscana Cecchi, Genova-Firenze 1859, vol. II, I Borboni di Napoli.
(28) Un esempio: «Olà (disse [il capitano Rivelli, indicato quale leader degli stupratori assassini]) mie tenere colombe, cessate dal guaire e andate a provvedere e qui recate quanto avete di meglio di cibi e di vini» (ibid., p. 386).
(29) Ibid., pp. 294-295, nota 1.
(30) Alessandro Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828 -1837), 2< sup>a ed., Einaudi, Torino 1975, p. 170.
(31) Ibid., p. 175. Lo storico torinese, riguardo ad altra opera storica di La Cecilia, le Memorie storico-politiche dal 1820 al 1876. Risorgimento italiano (5 voll., Artero, Roma 1876-1878), dice trattarsi di «[…] opera notoriamente screditata nel campo storico per le sue gravi inesattezze e fantasiose invenzioni […] spesso accolta come verità sacrosanta, anche per penuria estrema d’altre sicure fonti» (ibid., p. 199, nota 16).
(32) G. La Cecilia, op. cit., p. 271.
(33) Cfr. ibid., inserto a pp. 430-431.
(34) Cfr., per esempio, Giovanni Firrao, Cenni storici sulla città di Altamura e i suoi avvenimenti. Dalla sua origine al 1860, Borsella, Cantatore e Soci, Andria (Bari) 1880, che riprende con ampio risalto da La Cecilia il tema della violenza alle religiose. Su di lui lo storico Serena esprime il seguente giudizio: «[…] il Firrao, seguendo ciecamente le storie segrete di Giovanni La Cecilia, ripete cose che possono trovar luogo in un romanzo, […] ma non in una vera e propria narrazione storica» (op. cit., p. 79, nota 1).
(35) Il rapporto fra i due «fratelli di latte» — la madre di Rivelli, Agnese, era stata balia del piccolo Ferdinando — è descritto con maggiore obiettività in Giuseppe Campolieti, Il re lazzarone. Ferdinando IV di Borbone, amato dal popolo e condannato dalla storia, Mondadori, Milano 1999, pp. 10 e 22-23, che tratta anche della deformazione della figura del re e di Rivelli operata da La Cecilia.
(36) Cfr. M. Lelj, op. cit., p. 134.
(37) Cfr., fra l’altro, Marcello Veneziani, 1799: Massacri in Puglia come nel Kosovo d’oggi, ne il Giornale, 1-4-1999. Il giornalista e scrittore si sofferma in particolare sui massacri giacobini di Andria e di Trani, che costarono alcune migliaia di vittime fra gl’insorgenti e i semplici civili e qualche centinaio tra i francesi. L’articolo polemizza en passant con quello della Macciocchi su Altamura.
(38) Cfr. Jurij Brodskij, Solovki. Le isole del martirio. Da monastero a primo lager sovietico, con una prefazione di Vittorio Strada, con illustrazioni, La Casa di Matriona, Milano 1998.

fonte http://www.identitanazionale.it/inso_1007.php

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