Alta Terra di Lavoro

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Pio XII non teme i documenti

Posted by on Mar 13, 2019

Pio XII non teme i documenti

La sua presunta connivenza con il nazismo è stata abbondantemente smentita da anni di ricerche e da pubblicazioni importanti. Fra un anno ne avremo altre, che confermeranno.

di Marco Invernizzi

Il 4 marzo Papa Francesco ha annunciato che dal 2 marzo del prossimo anno sarà possibile accedere agli archivi relativi al pontificato del Venerabile Papa Pio XII (1876-1958), dal 1939 al 1958. L’annuncio ha giustamente attirato l’attenzione per la drammaticità di quel periodo storico, ma soprattutto perché questo accesso potrebbe permettere di approfondire e forse chiarire alcuni “nodi”, in particolare il tema del “silenzio” del Papa a proposito del genocidio degli ebrei da parte del regime nazionalsocialista tedesco, che è certamente il punto sul quale si è scatenata la maggiore aggressione ideologica contro di lui.

Quello che ne pensa Papa Francesco è bene espresso nel discorso con cui ha annunciato l’apertura degli archivi: «Assumo questa decisione sentito il parere dei miei più stretti Collaboratori, con animo sereno e fiducioso, sicuro che la seria e obiettiva ricerca storica saprà valutare nella sua giusta luce, con appropriata critica, momenti di esaltazione di quel Pontefice e, senza dubbio anche momenti di gravi difficoltà, di tormentate decisioni, di umana e cristiana prudenza, che a taluni poterono apparire reticenza, e che invece furono tentativi, umanamente anche molto combattuti, per tenere accesa, nei periodi di più fitto buio e di crudeltà, la fiammella delle iniziative umanitarie, della nascosta ma attiva diplomazia, della speranza in possibili buone aperture dei cuori».

In sostanza, il Santo Padre riprende la motivazione di fondo che spinse Pio XII, ma anche tutte le potenze occidentali e le stesse associazioni ebraiche, a non condannare formalmente e pubblicamente il genocidio in atto da parte del regime di Adolf Hitler (1889-1945) proprio per potere continuare a salvare il maggior numero possibile di ebrei dalla deportazione nei campi di concentramento nazisti. È una logica che la Chiesa Cattolica ha usato spesso e che continua a provare nella convinzione che il tiranno, mentre parla, non morde. Ma questo non significa approvare il tiranno, come molti ebrei riconobbero a Pio XII dopo la guerra, proclamandolo “giusto fra i gentili”, uno dei massimi riconoscimenti ebraici per un uomo che ‒ si valuta ‒ abbia salvato più di 750mila ebrei, offrendo loro protezione all’interno della Città del Vaticano ovunque fosse possibile.

La campagna di diffamazione contro Pio XII è nata all’interno del mondo cattolico, scatenata da chi al Pontefice non perdonava la posizione netta di condanna del comunismo, come ricorda un bel libro uscito proprio in questi giorni dello storico Alberto Torresani (Storia dei Papi del Novecento. Da Leone XIII a Papa Francesco, edito da Ares). La capacità propagandistica dell’internazionale comunista colse l’opportunità e, a partire dal 1964, quando comparve sulle scene tedesche il dramma Il Vicario di Rolf Hochhuth, che attribuiva al silenzio del Papa la maggiore responsabilità del genocidio, Pio XII è divenuto oggetto di una sistematica campagna di diffamazione che non è ancora finita. Papa san Paolo VI (1897-1978) capì il problema e pertanto incoraggiò la nascita di una commissione di storici affinché venissero pubblicati gli atti inerenti a Pio XII contenuti nell’Archivio segreto vaticano. Questi storici hanno quindi pubblicato dodici volumi di documenti che attestano il lavoro svolto dal Papa per impedire la guerra, per circoscriverla una volta scoppiata, per ridurne i danni una volta in atto e per salvare la vita dei perseguitati, compresi gli ebrei. Dal 2 marzo 2020 altri testi saranno consultabili al fine di ricercare la verità storica sul venerabile Pio XII, che continua a “non avere paura” dei documenti.

fonte https://alleanzacattolica.org/pio-xii-non-teme-gli-archivi/

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L’altro D’Azeglio: gesuita contro l’Unità

Posted by on Feb 2, 2019

L’altro D’Azeglio: gesuita contro l’Unità

Condannato all’oblio per le sue posizioni anti-risorgimentali e rimosso per molti anni dalla storiografia ufficiale per aver difeso a oltranza il magistero di Pio IX (prima e dopo l’Unità d’Italia), ma soprattutto per essere stato il principale «martello delle concezioni liberali» – secondo una felice definizione di Antonio Messineo. È la storia ma anche l’avventura umana, controversa e avvincente, del gesuita Luigi (al secolo Prospero) Taparelli D’Azeglio (1793-1862), direttore e co-fondatore assieme a Carlo Maria Curci de La Civiltà Cattolica; un cognome ingombrante nella storia del Risorgimento e della nobiltà piemontese, perché sarà l’unico dei D’Azeglio (i fratelli Massimo e Roberto saranno senatori del Regno d’Italia) a contrapporsi con vivaci dibattiti pubblici, libelli, saggi alla causa nazionale e a simpatizzare solo per un breve periodo della sua vita per il movimento neoguelfo teorizzato da Vincenzo Gioberti. Ora, a 150 anni dalla morte – che ricorrono esattamente oggi – questo gesuita figlio del suo tempo, imbevuto delle letture di Joseph De Maistre, profondo assertore dell’assolutismo cattolico e dell’Ancien Regime, rimane vivo per l’attualità del pensiero di filosofo, giurista e polemista agguerrito («la penna più acuta della Civiltà Cattolica») e anche per le idee realizzate. A lui si deve per esempio il ritorno nelle università ecclesiastiche dello studio del tomismo e della scolastica (per anni sarà rettore del prestigioso Collegio Romano, la futura Gregoriana); sempre a lui si deve nel 1843 la pubblicazione di un testo fondamentale, il Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, che farà epoca nel suo tempo e verrà ancora additato da papa Pio XI come libro da comodino, quasi di culto, raccomandato dal Pontefice brianzolo ai giovani universitari assieme alle opere di Manzoni e di san Tommaso d’Aquino. Non è forse un caso che, secondo molti studiosi, l’insegnamento di padre Taparelli D’Azeglio come i suoi saggi filosofici abbiano influenzato, anni dopo, la stesura delle encicliche Aeterni Patris e Rerum novarum di Leone XIII; il termine di «giustizia sociale» fu infatti coniato per primo dall’austero gesuita torinese, che per la modernità del suo pensiero nel campo del diritto è stato considerato pure, sul finire degli anni Venti, un «precursore della Società delle Nazioni». Senza omettere di accennare a una sua invenzione (brevettata nel 1854 e sostenuta economicamente dal fratello, il futuro statista piemontese Massimo D’Azeglio) nel campo musicale: il violincembalo, uno strumento che – strano a immaginarsi – riscosse le lodi del grande Franz Liszt. Sarà però la questione del Risorgimento a dividere in fazioni avverse e a incendiare gli animi e a rappresentare – come ha ben scritto lo storico gesuita Pietro Pirri – una «causa di famiglia»: sacerdoti della “reazionaria” Compagnia di Gesù, negli stessi anni di D’Azeglio, erano – solo per citare i casi più famosi – Francesco Pellico (fratello di Silvio), Giuseppe Bixio (fratello di Nino) e Luigi Ricasoli (cugino di Bettino)… Le battaglie polemiche di Taparelli si diressero prima dei fatidici moti del 1848 a duri confronti sul tema spinoso del liberalismo, della questione nazionale ma anche della religione con grandi personalità del suo tempo: Antonio Rosmini, il cugino Cesare Balbo e non da ultimo il grande Vincenzo Gioberti; la polemica più dura e accesa sarà quella combattuta con quest’ultimo, autore tra l’altro di un libro molto critico verso l’amato Ordine e il suo reale potere in Italia: Il Gesuita moderno. A padre Taparelli, comunque, non mancherà mai la stima e l’onore delle armi del grande filosofo e abate piemontese, che lo definirà «una delle menti più acute d’Italia». Ma è soprattutto con la sua famiglia di origine che padre Luigi ebbe e in un certo senso coltivò gli scontri più duri (sia in forma pubblica che privata), seguiti a volte da fraterne riappacificazioni, in particolare con i fratelli Massimo e Roberto; la loro affettuosa unione non verrà mai meno, come dimostrano ancora oggi le belle pagine che Massimo dedica al suo «gesuita» nei Miei ricordi e i loro carteggi. A scatenare la prima frizione in famiglia sarà nel 1846 la dura condanna da parte di Luigi di un opuscolo a firma di Massimo, Gli ultimi casi di Romagna, inneggiante all’insurrezione contro il potere costituito; ma ad accentuare le differenze di vedute politiche nei fratelli D’Azeglio verrà, l’anno dopo, la pubblicazione da parte del gesuita dello scritto «Nazionalità», letto e interpretato come un atto di compiacenza e di legittimazione alla presenza straniera dell’Austria sul suolo della Penisola. Amaro sarà il commento di Massimo: «Il padre Taparelli me l’ha fatta grossa». Nello stesso anno 1847, i due fratelli Massimo e Luigi si incontreranno a Roma e il futuro statista piemontese tenterà invano di avvicinare alla causa nazionale il religioso, introducendolo nei circoli risorgimentali capitolini, allora animati dal bolognese Marco Minghetti. Strano ad immaginarsi, ma saranno invece i moti del 1848 ad avvicinare i tre fratelli D’Azeglio lungo una comune direttrice: padre Luigi si troverà assieme ai confratelli gesuiti nel gennaio di quell’anno a Palermo a soccorrere e solidarizzare con gli insorti contro il potere borbonico. Un entusiasmo che contagerà – anche se per pochi giorni – l’animo dell’austero figlio di sant’Ignazio: «Il Comitato ci ha dimostrato gratitudine, e per la strada molta gente grida “Viva i Gesuiti”. È la prima volta, io credo, che una rivoluzione comincia con questo grido…». Ma la fondazione, per volere di Pio IX, a Napoli e poi a Roma della rivista della Compagnia La Civiltà Cattolica segnerà il vero spartiacque tra i fratelli D’Azeglio. Dalle colonne del prestigioso quindicinale, di cui era diventato direttore, Taparelli si scaglierà contro gli eccessi del liberalismo e non esiterà a condannare pubblicamente il fratello Massimo, allora presidente del Consiglio del Regno di Sardegna, per aver sostenuto nel 1850 la promulgazione delle leggi Siccardi che abolivano il foro ecclesiastico e procuravano la confisca dei beni ecclesiastici. Sono gli ultimi anni di vita di Taparelli D’Azeglio, ormai cieco, spesi per difendere il papa Pio IX e a stigmatizzare le politiche anti-ecclesiastiche del Piemonte del conte di Cavour. A 150 anni dalla sua morte viene spontaneo domandarsi se questo raffinato gesuita fu, a detta di molti storici come Pietro Pirri e Marcello Craveri, «un vinto del Risorgimento», un «monumento anacronistico del suo tempo» o forse – come ha scritto Gabriele De Rosa – un uomo che «accetta di umiliarsi» per «spirito di ubbidienza». La risposta si può ricavare forse ancora oggi nelle belle e intense parole di Massimo alla notizia della morte del caro fratello, avvenuta a Roma il 21 settembre 1862: «Sono molto triste; perché, quantunque gesuita lui e tutto l’opposto io, nonostante ebbimo sempre l’uno per l’altro grande simpatia fin da bambini: e da grandi ci siamo voluti bene, mentre pure ognuno combatteva nel proprio partito, e faceva al partito contrario il peggio che poteva… Povero frate! Certo che la sua vita non fu se non il continuo sagrifizio di sé stesso a ciò che egli credeva la verità e il dovere».

fonte

https://www.avvenire.it/agora/pagine/altro-dazeglio-gesuita-contro-unita
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IL GIRO D’ITALIA E LE CROCIATE

Posted by on Dic 18, 2018

IL GIRO D’ITALIA E LE CROCIATE

Il paragone azzardato del direttore della Gazzetta dello Sport non tiene conto della vera storia delle Crociate, ma della leggenda nera creata dalla propaganda anticristiana

Quest’anno, chissà perché, il Giro d’Italia è partito daGerusalemme. Giro «della pace» lo hanno definito, pace tra israeliani epalestinesi si suppone, visto quel che accade al confine di Gaza. Dopo ventunotappe terminerà a Roma con una cronometro. Traverserà tutta la Sicilia in lungoe in largo, poi risalirà dalla Calabria, taglierà la Penisola di sghembofinendo sulla costa Est, poi percorrerà la Padania dal Veneto fino al Piemontee alla Liguria, per, infine, sbarcare, appunto, a Roma. Da Gerusalemme a Roma,un tragitto che la Gazzetta dello sport ha individuato come «il cammino delleCrociate all’incontrario».

LE DIFFERENZE
Fatte salve le debite differenze storiche (i crociati del Nord Europapercorrevano la via balcanica), le dissonanze tra i due eventi non sono poche,e val la pena di rifletterci sopra un attimo. Tanto per cominciare, i ciclistidel Giro partecipano con la speranza di tornare onusti di gloria e di soldi. Icrociati, al contrario, si indebitavano spesso oltre ogni sopportazione e tornavano,quelli che riuscivano a tornare, alcuni feriti o mutilati, tutti molto piùpoveri di quando erano partiti.
Lo storico Riley-Smith ha dimostrato che i crociati affrontarono spese enormiper pagarsi il viaggio, fino a quattro-cinque volte il loro reddito annuo,talvolta vendendo o impegnando i loro beni e spesso a scapito della famiglia.Per l’equipaggiamento di un cavaliere si spendeva una cifra pari a quellaoccorrente oggi per comprare un’automobile di grossa cilindrata. I prìncipidovevano affrontare spese da capogiro. Per fare un esempio, Riccardo Cuor diLeone per la sua crociata nel 1190 dovette affittare cento navi, comprarecinquemila cavalli e dotarli di dodici ferri ciascuno, pagare gli estensoridella mappe necessarie, gli interpreti, i manovali capaci di costruire torrid’assedio, eccetera. «Solo la fede poté aver fatto quanto in ciò vi era dibene, l’integra fede di pochi, la fede parziale di molti», scrisse il poetaThomas S. Eliot ne I cori della rocca (VIII). Una fede che indusse migliaia emigliaia di nostri antenati a rovinarsi economicamente per andare a buttarequalche anno della propria vita, o la vita stessa, in un viaggio infinito versole sabbie e le sofferenze e i bollori della Palestina. Con la speranza di unsolo premio: la salvezza della propria anima.
Ed ebbe qualcosa di miracoloso il permanere dei regni cristiani in una esiguafascia di terra stretta al mare e schiacciata per tre lati dell’immensa mareamusulmana. Due secoli resistettero, e finché i crociati furono là, la secolareaggressività islamica segnò il passo, per poi riprendere alla conquistadell’Europa dopo la caduta alla fine del XIII secolo dell’ultimo baluardocristiano in Terrasanta, Acri.

LE SOMIGLIANZE
Ma c’è qualcosa di vero in questo parallelo, della «Gazzetta», tra Gerusalemmee Roma. Fino al 1292 (caduta di Acri) i cristiani ebbero una sola città santa:Gerusalemme. Là aveva vissuto, era morto ed era stato sepolto il loro Dio,Cristo. Che diritto avevano i musulmani? Per questi ultimi, anzi, Gerusalemme era«santa» solo in terza battuta, prima venivano La Mecca e Medina. Non eranemmeno citata nel Corano. Tanto ci tenevano, i cristiani, che il papaInnocenzo III per due volte, nel 1213 e nel 1216, cercò di ottenerla per viadiplomatica, «per evitare ulteriore spargimento di sangue», la chiese«umilmente» a Safadino (fratello di Saladino) «in nome dell’unico Dio».
Addirittura Riccardo Cuor di Leone propose un condominio, offrendo a Safadinola mano di sua sorella Giovanna. I crociati pisani arrivarono a riempire lestive delle loro navi di terra palestinese, «terra santa», e con essaapprontarono il Campo, appunto, Santo, vicino al loro duomo. Così grande era ildesiderio di chi non era potuto partire di essere almeno seppellito in quellaterra. Altre città imitarono Pisa ed ebbero anche loro un camposanto. Perdutaper sempre Gerusalemme, otto anni dopo il papa Bonifacio VIII ebbe l’idea disostituirla con Roma: dal sepolcro di Cristo, ormai impossibile, a quello degliApostoli.
E l’indulgenza plenaria venne applicata al viaggio a Roma. Fu il primoGiubileo, quello del 1300, cui partecipò anche Dante. Caricare tutti questiricordi sulle spalle curve dei ciclisti del Giro è effettivamente troppo eimproprio. L’unica somiglianza è, questo sì, l’internazionalità deipartecipanti: l’olandese Tom Dumoulin, vincitore della passata edizione,contenderà la maglia rosa al favorito, l’inglese Chris Froome. Tutto qui.

Rino Camilleri

fonte http://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=5165

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Insorgenza: vecchie e nuove prospettive

Posted by on Dic 17, 2018

Insorgenza: vecchie e nuove prospettive

1. La questione delle insorgenze


Da qualche tempo – all’incirca una quindicina di anni – il tema delle «insorgenze anti-giacobine» – è questa la terminologia più ricorrente, benché imprecisa (1) – è uscito dalle nebbie di un immeritato oblio ed è riuscito a conquistarsi un po’ di spazio nei canali dell’informazione ed anche, anche se in misura limitata, negli studi.

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CENNI SUL BRIGANTAGGIO RICORDI DI UN ANTICO BERSAGLIERE

Posted by on Dic 3, 2018

CENNI SUL BRIGANTAGGIO  RICORDI DI UN ANTICO BERSAGLIERE

Al Lettore, Nel pubblicare questo piccolo mio lavoro non ho avuto altro scopo tranne quello di ricordare in qualche modo alla giovine generazione quei giorni funesti e pericolosi attraversati dall’Italia, quando ad un tempo, guerreggiando contro lo straniero e rovesciando troni, al grido dì Vittorio Emanuele Re d’Italia agognava all’unificazione della Patria. Senza note, ho scritto ciò che è rimasto più impresso nella mia mente, per cui spero essere perdonato se dopo tanti anni fossi incorso in qualche errore di cronologia, ed avessi errato talvolta nell’apprezzare le cose accadute. Giudichi benignamente il Lettore l’opera mia e riponga nella memoria quegli aneddoti, che per quanto interessanti ed istruttivi, la storia troppo spesso trascura. Se questo riuscirò ad ottenere sarà largo compenso alla per me non poca fatica.

L’Autore.

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