Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Storie di donne diverse: le brigantesse ottocentesche del meridione d’Italia

Posted by on Nov 18, 2019

Storie di donne diverse: le brigantesse ottocentesche del meridione d’Italia

Nel febbraio del 1861, con la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, il Regno delle Due Sicilie cessa, di fatto, di esistere. Francesco II, ultimo Re di Napoli, ripara a Roma, ospite dello Stato Pontificio.

La precarietà dell’esilio, la solidarietà di numerose dinastie europee e le notizie – spesso ingigantite – delle difficoltà che il nuovo stato italiano incontra per radicarsi nel territorio, lo spingono a coltivare la speranza di un sollecito ritorno sul trono………………………………………….

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“La barbarie mascherata da legalità”

Posted by on Nov 17, 2019

“La barbarie mascherata da legalità”

Vi proponiamo una recensione di Edoardo Vitale a questo libro, edito da Controcorrente Edizioni e scritto da Gaetano Marabello, al fine di una reale riflessione di quanto accaduto in quell’infausto decennio all’indomani della cosiddetta “unità”. Buona lettura.

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La resistenza duosiciliana

Posted by on Nov 2, 2019

La resistenza duosiciliana

Proprio con lafarsa dei plebisciti scoppiarono con grande violenzacontro gli invasori piemontesi le prime rivolte, che sipropagarono a macchia d’olio in tutto il Sud. Fu una verae propria guerra che durò più di dieci anni ed in cuile truppe piemontesi compirono tanti delitti e talidistruzioni che non si erano mai visti in alcuna altraguerra. Le forze militari impegnate dai piemontesi furonodi circa 120.000 uomini, ai quali vanno aggiunti 90.000militi della collaborazionista guardia nazionale. Questeforze, verso il 1865, comprendevano circa 550.000uomini, quanto gli Americani nel Vietnam. Dopo la resa diGaeta intere zone della Lucania, della Calabria, dellePuglie e degli Abruzzi si erano liberate dei presidipiemontesi ed avevano innalzato i vessilli duosiciliani.I piemontesi nel ritirarsi compirono molte rappresagliesu civili inermi. Nell’aprile del 1861 si formarono leprime: grosse bande di partigiani comandati da Carmine Crocco, detto Donatello, Nicola Summa, detto Ninco Nanco, Domenico Romano, detto il sergente Romano, cheliberarono centinaia di paesi. La reazione piemontese fuimmediata. Interi paesi furono distrutti a cannonate echi si opponeva all’occupazione veniva fucilatoimmediatamente. Significativo quanto avvenne il 14 agostodel 1861 a Potelandolfo e Casalduni, ove allo scopo di terrorizzare le popolazionivi furono saccheggi, violenze, stupri e le case furonobruciate e completamente rase al suolo. Vi furono oltreun migliaio di morti. Alcuni furono trucidati nel modo piùbarbaro, con le teste mozzate poi esposte agli ingressidei paesi come monito. I generali piemontesi, come Cialdini e tanti altri, furono dei veri e propricriminali di guerra. Lo Stato “italiano” ancoraoggi li venera come eroi. Dai dati ufficiali piemontesi,non attendibili, nel solo 1862 i paesi rasi al suolofurono 37, i fucilati furono 15.665, i morti incombattimento circa 20.000, incarcerati per motivipolitici 47.700, le persone senza tetto circa 40.000. Manonostante l’impari lotta di un popolo male armato escoordinato, costretto ad una vita difficilissima nellevalli e tra i monti, la guerriglia diventò sempre piùfiera, tanto che nel 1863 il Savoia valutò la possibilitàdi abbandonare i territori conquistati, ma poi il suogoverno emanò la tremenda legge Pica che autorizzava fucilazioni immediate senzaalcun processo. La repressione continuò più ferocemente.I Partigiani duosiciliani con velocissime incursioniattaccavano ovunque i rifornimenti militari, le colonnemilitari, distruggendo i collegamenti telegrafici epostali. Ma era una guerra impari e destinataall’insuccesso perché senza alcun aiuto esterno. Nelfrattempo tutti i macchinari industriali utili eranostati trasferiti al Nord, il resto fu distrutto condeterminazione e per cause belliche. L’Ansaldo di Genova,ad esempio, che era una piccola officina, nacquepraticamente con i macchinari dello Stabilimento diPietrarsa. Nel 1862 chiusero la maggior parte degliopifici tessili, le cartiere, le ferriere della Calabria,le concerie. Alle ditte lombardo piemontesi furonoaffidati i lavori pubblici da compiere nelle provinceduosiciliane. La solida moneta duosiciliana d’argento edi oro fu sostituita da quella cartacea piemontese.L’economia meridionale ebbe così un crollo verticale ela disoccupazione si aggiunse al dramma della guerriglia.Nel 1863 il debito pubblico piemontese fu unificato conquello di tutto il resto d’Italia. Il Sud “liberato”ne sopportò tutte le spese. Da quell’anno incominciòl’emigrazione, che in pochi anni diventò una vera epropria diaspora. A tutt’oggi sono emigrati dal Suddell’Italia circa 20 milioni di persone che si sonosparse in tutto il mondo. Nel 1864 furono espropriati evenduti tutti i beni ecclesiastici e demaniali del Sud,il cui ricavato venne usato per il rilanciodell’agricoltura della Valle Padana. È di quell’anno loscandalo delle speculazioni Bastogi nella costruzionedelle ferrovie meridionali. Intanto in Sicilia, percatturare i renitenti alla leva, interi paesi venivanocircondati e privati dell’acqua potabile. I renitentitrovati, oppure i loro parenti, venivano fucilati comeesempio. Interi boschi furono bruciati perché i “briganti”non avessero più la possibilità di rifugiarvisi. Nel1865 fallirono quasi tutte le fabbriche meridionali,perché senza più commesse. In quell’anno il caricofiscale venne aumentato dell’87%, ma il danaro cosìdrenato fu tutto speso al Nord. Soprattutto quello trattodall’agricoltura meridionale che finanziò le nascentiimprese industriali del Piemonte e della Lombardia. Nel1866 anche in Sicilia si ebbero delle serie sommosse.Palermo fu ripresa dopo un lungo assedio da parte dimigliaia di soldati piemontesi. Oltre ai duemila morticausati dalle cannonate, si ebbero poi in tutta laSicilia, nel giro di circa una settimana, 65.000 mortiper il colera scoppiato tra le truppe piemontesi.Diventarono sistematiche la pratica della tortura e leritorsioni sulla popolazione inerme, con stragi di interivillaggi e la distruzione dei raccolti per affamare ipaesi dove si trovavano i resistenti legittimisti. Laguerra per la definitiva conquista piemontese, duratacirca 10 anni, costò al Regno delle Due Sicilie oltre unmilione di morti, 54 paesi rasi al suolo, 500.000prigionieri politici, l’intera economia distrutta e ladiaspora di molte generazioni. Il Piemonte ebbe il doppiodei morti che aveva avuti in tutte le sue sedicentiguerre d’indipendenza.

fonte http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/RegnoDueSicilie/Storia%20Regno%20DueSicilie.htm#resiste

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IL BRIGANTAGGIO FU SOLTANTO LA GUERRA DEI POVERI

Posted by on Set 29, 2019

IL BRIGANTAGGIO FU SOLTANTO LA GUERRA DEI POVERI

La lotta armata nel Sud delle bande contro i proprietari terrieri e l’esercito del Regno trae origine da un grave disagio sociale.
Che brigante, si dice bonariamente di un individuo dall’elasticità morale comprovata che non esita per il proprio tornaconto a ricorrere a furberie di ogni genere pur di condurre l’acqua al suo mulino. Il termine, attualmente usato soprattutto per stigmatizzare la condotta riprovevole di una persona in campo sentimentale, nel secolo scorso indicava l’appartenenza a una delle numerose bande che, in un arco temporale ristretto, dal 1860 al 1865, imperversarono nel Sud dell’Italia dando vita a quel fenomeno dalle implicazioni sociali e politiche classificato dagli storici sotto l’etichetta di “Brigantaggio meridionale”. Ma chi erano i briganti? Gruppi di malfattori riuniti in una zona delimitata e disciplinati sotto l’autorità di un capo che attentavano con le armi in pugno alle persone e alle proprietà. Razziatori, ladri, delinquenti o, come si direbbe oggi, tutti coloro che agendo al di fuori della legalità appartengono alla cosiddetta malavita organizzata. Ma anche se i metodi e le “imprese” non differivano da quelli della delinquenza comune, la connessione finiva lì. Il brigantaggio, infatti, a cominciare dalla sua durata che si manifestava per poi estinguersi in un periodo di tempo definito, si è sempre discostato, almeno per le cause da cui trae origine, dal banditismo fine a se stesso ed è sempre stato l’espressione di un profondo disagio socio-economico.

Nel 1860, alla caduta del regime borbonico sconfitto dall’esercito dei volontari garibaldini, il Meridione veniva annesso di fatto agli altri Stati già sotto il dominio di Casa Savoia e si presentò all’appuntamento unitario in condizioni di profonda arretratezza e di grande squilibrio sociale. Nella vasta zona dello Stato pre-unitario popolata da oltre 700.000 abitanti, quasi un terzo della popolazione globale italiana dell’epoca, la distribuzione della ricchezza che traeva la sua unica fonte dalla produzione agricola era iniquamente spartita fra un ristrettissimo numero di latifondisti mentre la massa di braccianti agricoli era ridotta alla fame. Le premesse per una rivolta popolare erano già nell’aria fomentate dalla propaganda borbonica che incitava le masse dei diseredati a considerare i conquistatori piemontesi come il nuovo nemico da combattere e nell’autunno del 1860 una violenta guerriglia sfociò in tutta la parte continentale dell’ex Regno delle due Sicilie, con una diffusione massiccia nell’area compresa tra l’Irpinia, la Basilicata, il Casertano e la Puglia. Capitanati da ex braccianti, disertori, ex soldati borbonici e garibaldini, decine di migliaia di ribelli si diedero alla macchia rifugiandosi nelle zone montuose più impervie e inaccessibili per dare inizio a una guerriglia condotta su un duplice fronte, quello delle incursioni per razziare e depredare i ricchi proprietari terrieri, e quello sul piano squisitamente militare contro l’esercito piemontese.

In un primo tempo la matrice della ribellione sembrava essere circoscritta a fattori di natura prettamente politica e configurarsi nella lotta armata contro l’oppressore, ma quando la giurisdizione del Regno d’Italia s’insediò ufficialmente, la vera causa della sollevazione popolare si rivelò come il prodotto di un incontenibile disagio sociale. Il vecchio regime borbonico era caduto per l’iniziativa garibaldina di tipo rivoluzionario che aveva alimentato nelle masse meridionali concrete speranze di un radicale rinnovamento della società locale, ma il nuovo governo che nel 1861 prese le redini del potere era l’espressione della borghesia, quella Destra storica che affrontò la questione meridionale con un patto di alleanza fra i ricchi possidenti del Nord e i proprietari terrieri del Sud, eludendo la promessa della tanto agognata riforma agraria che doveva destinare la terra ai contadini. La realtà apparve ben presto in tutte le sue sfaccettature negative per il popolino: le strutture economiche e sociali rimasero immutate mentre faceva capolino un nuovo nemico agli occhi delle masse di diseredati. Lo Stato forte dell’Italia unificata imponeva una rigida centralità amministrativa introducendo pesanti balzelli che andavano a gravare sul capo dei più deboli, l’insopportabile ingerenza dei prefetti di polizia e la norma della ferma militare obbligatoria, particolarmente invisa alle popolazioni povere del Sud. A tutto ciò andava aggiunta l’incapacità da parte della Destra conservatrice di affrontare la questione del Mezzogiorno focalizzando come esigenza primaria la questione sociale che fu invece la vera molla scatenante dell’esplosione di quel gravissimo fenomeno di rivolta popolare noto come brigantaggio meridionale.

Qual era la consistenza delle forze ribelli dislocate su un territorio che si espandeva fino ai confini meridionali dell’Abruzzo? Si calcola che le bande di briganti siano state oltre 350, di cui almeno 33 con oltre 100 uomini e le più corpose con un organico che sfiorava le 400 unità, e che schierarono in campo decine di migliaia di ribelli “prelevati” con la persuasione o con la forza dall’immenso serbatoio delle masse contadine. Le “formazioni” erano comandate da capi dal nome leggendario come Crocco, La Gala, Pasquale Romano, Caruso, Luigi Alonzi, Gaetano Manzo, Tranchella.

Crocco, al secolo Carmine Donatelli, era originario di Rionero e dominava la zona della Basilicata e del Melfese. Arruolatosi nell’esercito borbonico, aveva ucciso un commilitone nel 1850 e aveva disertato per evitare la forca. Dieci anni dopo si aggregò a un gruppo di patrioti lucani insorti per iniziativa di alcuni borghesi di Rionero. Di nuovo ricercato, si diede alla macchia nei boschi del Vulture seguito da un manipolo di compagni di sventura e divenne un temuto fuorilegge. Le sue file ben presto si ingrossarono e Crocco si mise a disposizione dei reazionari borbonici da cui ricevette assistenza e sovvenzioni. La sua banda nutrita e compatta impegnò in durissimi scontri le truppe regolari piemontesi, ma alla fine di luglio del 1864 Crocco prese la decisione di ritirarsi dalla guerriglia e si trasferì nel territorio dello Stato Pontificio convinto di farla franca. Benchè il clero appoggiasse ufficiosamente gli insorti, il capobanda lucano fu arrestato dal governo papale e incarcerato per le sue nefandezze. Nel 1872 fu processato dalle autorità italiane a Potenza e condannato all’ergastolo. Morì dopo oltre 30 anni di reclusione nel penitenziario di Santo Stefano a Ventotene.

Michele Caruso di Torremaggiore era considerato uno dei capibanda più sanguinari e temibili. Agiva con i suoi briganti nel Molise, nel Beneventano e nella Capitanata ( l’attuale provincia di Foggia ). Le sue azioni di vera e propria guerriglia organizzata diedero molto filo da torcere alle forze dell’esercito del Regno d’Italia dal 1862 al 1863. Catturato in seguito alla soffiata di un delatore il 10 dicembre 1863 nei pressi di Molinova, venne trasferito a Benevento e fucilato il giorno successivo dopo un processo sommario. Con la sua morte la banda in breve tempo si disperse.

Luigi Alonzi, soprannominato “Chiavone”, originario di una famiglia di agiati contadini e guardaboschi di Sora, capeggiava una banda di oltre 400 briganti e combattè contro le truppe regolari del Regio Esercito tra il 1861 e il 1862 nelle zone confinanti del Sorano, del Casertano e dello Stato Pontificio. Venne fucilato nell’estate del 1862 per ragioni rimaste oscure, forse per rivalità, dall’ufficiale spagnolo Raffaele Tristany, inviato sul luogo su preciso ordine borbonico per organizzare azioni di guerriglia contro l’esercito italiano. Il Tristany assunse successivamente il comando di tutte le bande di briganti che operavano ai confini dello Stato Pontificio.

Gaetano Manzo di Acerno, un centro del Salernitano, comandava una banda di medie proporzioni ed era noto con il nomignolo di Mansi. Il suo campo d’azione era ristretto ai territori situati intorno a San Cipriano Picentino e Giffoni Valle Piana, nell’entroterra del Salernitano. La sua banda si arrese alle truppe regolari solamente nel 1866.

Gaetano Tranchella, a capo di una banda di media consistenza formatasi nel 1861, infieriva pure lui nel Salernitano e precisamente nelle zone fra Eboli, Battipaglia e Persano. Fu ucciso nel 1864 dalle truppe regolari e la sua banda fu decimata.

I briganti, ovviamente, godevano dell’incondizionata simpatia delle masse rurali che li identificavano alla stregua di veri e propri eroi, una specie di ottocenteschi Robin Hood paladini di una Dea Giustizia che brandiva la spada contro i soprusi dei ricchi e il pericolo costituito dalle autoritarie imposizioni del nuovo padrone, il Regno d’Italia. Forti degli appoggi tangibili forniti dalla corrente reazionaria borbonica e a volte addirittura da quegli stessi proprietari terrieri che essi depredavano, ma che avevano accolto con sospetto l’arrivo della dominazione sabauda, i fuorilegge potevano contare anche sull’aiuto della Chiesa, che non aveva digerito la mozione del primo Parlamento italiano nella seduta del 27 marzo 1861 tenutasi nel salone di Palazzo Carignano a Torino in cui fu presa la decisione di dichiarare Roma futura capitale del Regno, mentre la città era ancora saldamente nelle mani di Papa Pio IX, fermamente intenzionato a non rinunciare al potere temporale sui territori dello Stato Pontificio. In virtù di quella ufficiosa connivenza i briganti potevano trovare riparo nei conventi e sfuggire alla cattura nel caso in cui la loro sortita contro le truppe regolari si fosse risolta in un frettoloso ripiegamento.

Fin dai primi mesi del 1860, il fenomeno del brigantaggio assunse dimensioni dilaganti e costrinse i piemontesi a portare il numero dei soldati impiegati nel Sud dagli iniziali 22.000 a un contingente di 50.000 nel dicembre del 1861, aumentato a 105.000 unità l’anno successivo fino a raggiungere il numero di 120.000 nel 1863. La lotta armata fra briganti meridionali e truppe dell’esercito regolare in cinque anni fece un’ecatombe di vittime assumendo le proporzioni di una guerra civile. Si calcola che tra il 1861 e il 1865 rimasero uccisi in combattimento o passati per le armi 5212 briganti e che ne siano stati tratti in arresto 5044. Occorsero misure severissime di pubblica sicurezza per stroncare definitivamente il brigantaggio e fu determinante al riguardo la “Legge Pica” del 15 agosto 1863, che sottopose alla giurisdizione militare le zone di maggiore attività dei banditi.Venne proclamato lo stato d’assedio, con rastrellamenti di renitenti alla leva, di sospetti, di evasi e pregiudicati. Le rappresaglie furono atroci e sanguinose da entrambe le parti e spesso le masse furono coinvolte loro malgrado negli scontri pagando con la distruzione di interi villaggi e le fucilazioni senza processo di centinaia di contadini ritenuti a torto fiancheggiatori dei briganti.

A proposito del brigantaggio e delle cause che lo scatenarono, vale la pena di sentire l’autorevole relazione dello storico e letterato napoletano Pasquale Villari, che condusse sull’argomento una meticolosa ricerca raccolta sotto il titolo di “Lettere meridionali”, una diagnosi quanto mai spietata e realistica sui mali che affiggevano il Mezzogiorno d’Italia negli anni dell’unificazione.

“Il brigantaggio è il male più grave che possiamo osservare nelle nostre campagne. Esso certamente può dirsi la conseguenza d’una questione agraria e sociale che travaglia quasi tutte le province meridionali. Le prime cause del brigantaggio sono quelle predisponenti e prima fra tutte la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo , che in quelle province appunto dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice: i contadini non hanno nessun vincolo che li stringa alla terra. Mangiano un pane ” che non mangerebbero neppure i cani”, diceva il direttore del Demanio e delle tasse. Nelle carceri di Capitanata ( quelle della provincia di Foggia ), e così altrove, quasi tutti i briganti sono contadini proletarii. Le bande del Caruso e del Crocco, molte volte distrutte, si ricostituirono senza difficoltà con nuovo venuti e in una medesima provincia si osservava che là dove il contadino stava peggio, ivi grande era il contingente dato al brigantaggio; dove la sua condizione migliorava, ivi il brigantaggio scemava o spariva. Anzi nell’Abruzzo, per la sola ragione che il contadino ridotto alla miseria e alla disperazione può andare a lavorare la terra della campagna romana, dove piglia le febbri e spesso vi lascia le ossa, lo stato delle cose muta sostanzialmente. Questa emigrazione impedisce l’esistenza del brigantaggio e prova come esso nasca non da una brutale tendenza al delitto, ma da una vera e propria disperazione…

“Per distruggere il brigantaggio noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi, ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato. In questa, come in molte altre cose, l’urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la riproduzione di un male che certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurghi e pessimi medici…”.

Quando queste “Lettere” furono pubblicate, un ufficiale dell’esercito, che si trovava ancora nelle Province Meridionali, dove aveva partecipato alla campagna del brigantaggio, mandò al Villari le sue memorie, che cominciò a scrivere a Viggiano, in Basilicata, nel 1861, e che continuò fino al 1868. Egli non volle che fosse reso noto il suo nome, avendo mandato quel manoscritto solo per fargli conoscere i risultati della sua personale esperienza, l’opinione sua e quella di molti altri ufficiali dell’esercito intorno alle vere origini del brigantaggio. Villari rispettò la sua volontà e pubblicò in forma anonima qualche brano di quelle memorie nella versione originale. Eccone alcuni stralci.

“Il brigantaggio antico e contemporaneo, a mio debole vedere, trae unicamente origine dalla triste condizione sociale delle popolazioni, non dagli avvenimenti politici, che se possono aumentargli forza non basterebbero mai a dargli vita; e neppure da cattiva indole o nequizia degl’indigeni, che in verità hanno dalla natura vivezza d’ingegno, carattere dolce e sommesso e in alcune province, come nell’antico Sannio, negli Abruzzi e nelle Calabrie, a queste naturali disposizioni uniscono una robustezza e un’energia invidiabili. Errerò, ma secondo quello che io penso il brigantaggio in sostanza altro non è che una questione ardente agraria e sociale

“Fa meraviglia il trovare, in quasi tutti i centri popolosi, soltanto quattro o cinque famiglie ricche, spesso fra loro imparentate, e il resto nullatenenti. E così, ad eccezione di pochi soddisfatti, che imperano al lor talento, e dispotizzano, ovunque si volga lo sguardo non si vedono che miserie e guai, quasi a derisione illuminati dal più bel cielo. Vive ognora, per inveterato costume tramandato dal feudalesimo, il diritto nei proprietari di pretendere in determinati giorni dell’anno l’opera gratuita del lavoratore. E non è raro il caso nel quale, invece di retribuire la mercede in cereali o denaro, la si paga con una data misura del più abbondante prodotto della terra, come sarebbero frutta, agrumi, cedri ecc., generi tutti che, per il difetto di esportazione o mancanza di vie di comunicazione discendono a vilissimo prezzo; per il che il povero subisce una nuova perdita sul già magro salario.

“Nei mesi di giugno e di luglio, tempo delle messi, molti lavoratori si recano nelle Puglie o nella Terra di Lavoro ( la provincia di Caserta ) per segare il grano e guadagnare due lire al giorno, quando lavorano, e il pasto. Ma per ottenere così abbondante e straordinaria mercede, oltre gli stenti e le spese di disastrosi viaggi, sovente ritornano al loro paese malati per effetto delle grandi fatiche sopportate sotto la sferza del sole o per causa della malaria. In tal modo le famiglie, lottanti giorno per giorno con la fame e coi più stringenti bisogni, abbrutite da tutti questi guai, non conservano che una ben debole affezione per la loro prole e cercano ogni mezzo per alleggerire il peso della miseria, e trovare qualche sollievo. In molti paesi mandano fuori i bambini ad accattare ( chiedere la carità ), a suonare chitarre ed arpe, a ballare tarantelle, a cantare romanze. Cedono per pochi Ducati a vili speculatori le loro creature e questi mercanti di carne umana vivono e lucrano sui sudori d’innocenti che trasportano nelle più lontane contrade, in Francia, America, Germania, Malta, Algeria.Tutte queste angherie, tutte queste prepotenze ed abusi creano e alimentano quell’odio che separa le due classi; spingono ad atroci vendette o alla volontaria emigrazione, non quella feconda, lucrosa e intraprendente dei Genovesi e Biellesi, ma bensì quella che non ha altra mira che di sfuggire alle miserie e alle soperchierie, che spopola e isterilisce interi paesi, vi fa mancare le braccia robuste, e priva le famiglie dei loro cari più vegeti e più atti al lavoro. Il brigantaggio, ripeto, è solo la conseguenza dell’odio vicendevole fra oppressi e oppressori, cioè fra quelli che possiedono e i nullatenenti, odio tanto più intenso quanto meno progredita è la civiltà.

” Nè è a credere che, per i danni e per le stragi che fa il brigante, sia egli dalla generalità esecrato, tutt’altro. Anche i più tranquilli e i più onesti del basso popolo hanno lo spirito talmente pervertito e il livore contro il signore così vivo che inclinano a vedere nel bandito la personificazione gloriosa e legittima della resistenza armata verso chi li tiranneggia. Non è dunque da meravigliare se trovansi facilmente tanti manutengoli ( sostenitori ), non essendo l’orrido mestiere del brigante aborrito. Per le plebi i banditi sono anzi eroi e questo universale favore fa sì che qualche volta anche i maggiorenti ( i ricchi ), i quali naturalmente non possono vedere nei briganti che i loro acerrimi nemici, li temono, li accarezzano e invece di cercare il rimedio nell’educare e nel trattare meglio le plebi, non disdegnano di passare nelle file dei manutengoli, largamente sovvenendo e non mai tradendo il brigante. Allorchè il capobanda Mansi ricattava il ricco… a Giffoni, nell’interno del paese, entrando coi suoi in sull’imbrunire d’un bel giorno d’estate, ed operandone l’arresto presso un tabaccaio e caffettiere, egli tradusse seco il malcapitato proprietario e appena fuori dall’abitato un’onda di campagnuoli, anzichè prestarsi alla liberazione del loro padrone, proruppe in un’ovazione al bandito, gridando a squarciagola “Evviva il capitano Mansi!”. E fecero corteo alla banda di briganti. I terrazzani ( contadini legati alla terra da contratto con il proprietario ) di Postiglione, Serre, Persano e luoghi limitrofi parlano ancora oggi con religioso rispetto di quella “buona anima” di Don Gaetano, che in vita fu il famigerato Tranchella.

” E’ certo che la calma materiale, come abbiamo al presente, si potrà sempre ottenere con la repressione, ma questa per se stessa non è che un’operazione violenta di sangue e di terrore, è il tagliare del chirurgo senza l’opera curativa del medico, dell’igienista e del moralista: perciò è utile che le due azioni vadano di conserva ( insieme ), e che i mezzi preventivi e d’incivilimento prevalgano”.
Il brigantaggio, insomma, era stato stroncato con le leggi speciali e la forza e si estinse nel 1865 scomparendo definitivamente dal Meridione dell’Italia continentale. Gli equilibri politici andavano mutando e nel 1876 la questione meridionale che la Destra non aveva saputo capire fu ereditata dalla Sinistra che si avvicendò al potere. Ma il modello di quest’ultima, fondato sul protezionismo frutto del blocco agrario-industriale, avrebbe di fatto contribuito ad allontanare ancora di più il Sud dal Nord. E il problema del Mezzogiorno si è trascinato insoluto fino a oggi.

fonte https://www.pontelandolfonews.com/storia/il-brigantaggio/il-brigantaggio-la-lotta-dei-poveri/

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La Storia violata

Posted by on Set 15, 2019

La Storia violata

Gli storici continuano a voler ignorare una storia piena di dolore, disperazione e di morte che da quasi 150 anni aspetta di essere scritta sui testi scolastici. L’esempio più emblematico di questa continua censura storica è il Lager di Finestrelle.

Ma facciamo un piccolo passo indietro, cosa ha comportato l’Unità d’Italia?
Le cifre ufficiali, anche se molto sotto-valutate, sono terrificanti: 5212 condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Una vera e propria repressione consumata all’indomani dell’Unità d’Italia dai Savoia e forse la si può definire come la prima pulizia etnica dell’epoca moderna, operata sulle popolazioni meridionali, dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti.

Se queste argomentazioni ci indignano, niente può farci venire il ribrezzo più delle vicende che hanno coinvolto il forte di Fenestrelle dal 1860 al 1870. In quel periodo si concretizzò il primo campo di sterminio della storia moderna, in esso trovarono la morte più di 8.000 soldati del Regno delle Due Sicilie, ai quali va aggiunto un numero imprecisato di letterati, preti, briganti e miseri contadini.

Ma tutto ciò continua ad essere ignorato dalle menti illustri della storiografia “ufficiale” italiana e dai letterati; addirittura sul sito dell’Amministrazione Provinciale la fortezza viene presentata come “Monumento simbolo della Provincia di Torino “ (con tanto di foto in notturna per decantarne implicitamente la bellezza), mentre sul sito ufficiale del Forte, si invita alla devoluzione del 5 per mille! Sempre sul sito De Amicis scrive: “Uno dei più straordinari edifizi che possa aver mai immaginato un pittore di paesaggi fantastici: una sorta di gradinata titanica, come una cascata enorme di muraglie a scaglioni, un ammasso gigantesco e triste di costruzioni, che offriva non so che aspetto misto di sacro e di barbarico, come una necropoli guerresca o una rocca mostruosa, innalzata per arrestare un’invasione di popoli, o per contener col terrore milioni di ribelli. Una cosa strana, grande, bella davvero. Era la fortezza di Finestrelle”. Si chiude con “Guardiano immobile e supremo della nostra indipendenza e del nostro onore”.
E’ la pura esaltazione dell’ inferno! Ora immaginate se invece di Fenestrelle si parlasse di Auschwitz , e con in mente il nome del famoso lager nazista rileggete le parole di De Amicis appena sopra riportate!!

Noi popolo meridionale abbiamo l’obbligo morale di dire tutte le verità sulla cieca e razzista politica di aggressione che i Savoia e i Piemontesi hanno fatto nelle nostre meravigliose regioni!
Di seguito riporterò la vera storia, quella che non troverete mai nei testi scolastici dei vostri figli, leggetela con attenzione e con una lacrima nel cuore, come quella che avevo io mentre la trascrivevo.

Fenestrelle, storia di un lager sconosciuto

“ Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce” (iscrizione messa in epoca fascista).
E’ l’iscrizione che un visitatore legge oggi su un muro, entrando a Fenestrelle, fortezza ubicata sulle montagne piemontesi dove, dal 1860 al 1870, furono deportati i migliaia di meridionali che si opposero all’unità d’Italia e alla colonizzazione piemontese.
Gli internati erano soprattutto poveri contadini ed ex soldati borbonici, gli stessi che sarebbero morti di stenti e vessazioni perpetrati da chi si reputava un liberatore! Un insieme di forti protetti da altissimi bastioni ed uniti da una scala di 4000 gradini scavata nella roccia: ecco cos’era a quel tempo Fenestrelle, una gigantesca cortina fortificata resa ancor più spettrale dalla naturale asperità di quei luoghi e dalla rigidità del clima.


Assassini, sacerdoti, giovani, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura privi di luce e coperte, senza neanche un pagliericcio lottavano tra la vita e la morte in condizioni disumane; perfino i vetri e gli infissi venivano smontati per rieducare con il freddo i segregati.
Laceri e poco nutriti passavano le giornate standosene appoggiati ai muraglioni nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi di sole invernali, e chissà che in quei momenti non ricordassero con nostalgia il calore di climi più mediterranei. Pochissimi riuscirono a sopravvivere: le aspettative di vita in quelle condizioni non superavano i tre mesi e spesso i carcerati venivano uccisi anche solo per aver proferito ingiurie contro i Savoia. Nessuna spiegazione logica dunque alla base della loro misera prigionia, molti non erano nemmeno registrati, da qui la difficoltà di conoscere oggi il numero preciso dei morti, processati e non.
E proprio a Fenestrelle furono imprigionati la maggior parte di quei soldati che, subito dopo la resa di Gaeta nel 1861, avrebbero dovuto trovare la libertà. Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero, invece, subire un trattamento infame: disarmati, derubati di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi, morirono di stenti. Poi, il 22 agosto del 1861 arriva il tentativo di rivolta: uno sforzo inutile, sventato per tempo dai piemontesi e che ebbe come risultato l’inasprimento delle pene tra cui la costrizione di portare al piede palle da 16 chili, ceppi e catene. L’unica liberazione possibile era dunque la morte, delle più atroci: i corpi venivano sciolti nella calce viva, collocata in una grande vasca nel retro della chiesa all’ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti.

di Valerio Rizzo

fonte http://briganti.info/la-storia-violata/

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