Alta Terra di Lavoro

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Miliari di epoca borbonica lungo la via Appia nell’ex distretto di Gaeta

Posted by on Feb 7, 2019

Miliari di epoca borbonica lungo la via Appia nell’ex distretto di Gaeta

È noto che la realizzazione della via Appia fu iniziata nel 312 a.C. dal censore Appio Claudio Cieco per collegare Roma con Capua. Meno noto è che nel corso del Medioevo la sua manutenzione fu alquanto trascurata, tanto che divenne di difficile percorribilità, e, insieme con la funzione, se ne perse anche il nome, tanto è vero che, fra la fine del ’700 e gli inizi dell’ ‘800, veniva indicata come “la regia strada di Roma” o, più semplicemente, “la strada” ovvero “il cammino di Roma”.

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FALSI EROI MA VERI CRIMINALI

Posted by on Gen 18, 2019

FALSI EROI MA VERI CRIMINALI

Tutti sanno che esistono parecchie vie dedicate a Garibaldi, e anche diverse vie che portano il nome di Nino Bixio. In alcune località è possibile trovare vie o piazze dedicate a Vittorio Bottego e a Giovanni Miani. Chi erano questi ultimi? Se hanno dedicato loro piazze o vie si intende che possano essere eroi, o perlomeno persone degne di onore. Addirittura, al più noto Pietro Badoglio è stato rinominato un paese, chiamato in suo onore Grazzano Badoglio (AT).
Tuttavia, chi fa ricerca storica si accorge che molti personaggi onorati o spacciati per eroi nell’attuale sistema, in realtà erano criminali incalliti o persone pronte a calpestare qualsiasi senso morale pur di avere fama e successo. Ogni sistema premia o riconosce chi gli è affine.

Nella foto: Giuseppe Garibaldi e i Mille sbarcano a Milazzo.
Per capire la natura del sistema attuale basterebbe accorgersi dei tanti personaggi riconosciuti come eroi, ma che di fatto erano feroci criminali, che ad oggi danno il nome a molte vie o piazze delle città italiane.
Ad esempio, a Parma troviamo un monumento dedicato a Vittorio Bottego, e in altre città troviamo vie a lui dedicate. Questo personaggio fu uno dei più crudeli che esplorarono l’Africa nella seconda metà del XIX secolo. Egli era mosso, più che da intenti scientifici, da motivi politici e strategici: voleva rendere più deboli le tribù indigene mettendole le une contro le altre, per preparare il terreno alla conquista.

Bottego partecipò a diverse spedizioni. Nel 1892 fu incaricato dalla Società Geografica Italiana di esplorare il medio e basso corso del Giuba. Raggiunse il Ganale Doria e l’anno dopo si spinse fino al bacino dell’Omo, armato di tutto punto e con 250 ascari al seguito, come se si trovasse in battaglia e non su un territorio sovrano. A Jellèm (Etiopia) la sua impresa fu definitivamente stroncata: nel tentativo di attraversare l’Etiopia fu fermato e invitato a disarmarsi per avere salva la vita, ma egli preferì combattere e morire.

Privo di scrupoli, Bottego considerò gli indigeni alla stessa stregua degli animali, non ebbe la pur minima considerazione della loro vita e della loro dignità e praticò ogni genere di violenza, di cui parlò nei suoi stessi scritti. Egli, come altri esploratori europei, raccontò di saccheggi, uccisioni, stupri e incendi. Si sentì più che autorizzato a compiere crudeltà e massacri, e del resto, l’atteggiamento di sopraffazione e di violenza prevaleva fra i colonialisti, aizzato da numerose pubblicazioni come il “Bollettino della Società africana d’Italia” che, ad esempio, scriveva:
“Siate ricchi, forti e vi rispetteranno. Allora il negro, al quale pel più lieve gesto d’insofferenza voi avete assestato trenta colpi di frusta sulla schiena, verrà da voi con una pietra sul collo perché gli schiacciate la testa e vi bacerà i piedi e vi sarà grato che gli abbiate lasciato la vita”.(1)
Diversi massacri furono commessi anche dall’esploratore Giovanni Miani, che così raccontò una delle sue scorribande in un villaggio:
“Io circondai l’incinta ponendo vari soldati agli usci, chi cercava di fuggire era preso per così dire al volo. Il scek fu ucciso con tutta la sua famiglia, poi mutilate le mani per cavargli i braccialetti d’onore, indi (i soldati) gli tagliarono il membro portandolo in trionfo sopra una lancia. Dato l’assalto al villaggio, ordinai di estrarre tutto il grano e gli animali che potevano. Il saccheggio fu accordato a tutti i soldati e selvaggi nostri (…) Osservando l’incendio ebbi un gusto superiore a Nerone perché mi feci accendere la pipa col fuoco del villaggio.”(2)

Interminabili furono i crimini di Pietro Badoglio. Egli fu nominato Governatore della Tripolitania e della Cirenaica nel dicembre del 1928, e rimarrà in carica fino al dicembre del 1933. Sarà mandato in Etiopia da Mussolini durante la guerra di conquista.
In Libia darà inizio ad una lotta senza limiti di crudeltà, per realizzare la riconquista definitiva e porre fine al controllo incerto che l’Italia aveva avuto nel periodo di conquista precedente al fascismo. Badoglio, insieme a Graziani, sarà il maggiore artefice delle crudeltà e dei massacri che saranno perpetrati nelle colonie africane. Senza pietà egli commise i crimini più efferati contro la popolazione inerme, utilizzando anche i gas tossici, oltre alle deportazioni, ai lager e alle impiccagioni dopo processi sommari.

Nel 1930 Badoglio approvò una grande offensiva per piegare definitivamente la resistenza libica. Le operazioni di Graziani però daranno scarsi risultati. Gli insuccessi sollevarono le critiche di Badoglio, che voleva inasprire ulteriormente le misure e consigliava le deportazioni. Egli scrisse:

“Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.(…) urge far rifluire in uno spazio ristretto tutta la popolazione sottomessa, in modo da poterla adeguatamente sorvegliare ed in modo che vi sia uno spazio di assoluto rispetto tra essa e i ribelli. Fatto questo, allora si passa all’azione diretta contro i ribelli”.(3)

La soluzione proposta da Badoglio piacque anche a Mussolini, e si dette inizio alla deportazione dal Gebel di 100.000 persone, che furono costrette ad abbandonare i propri villaggi e a fare un viaggio senza ritorno.
Durante il viaggio almeno 15.000 persone persero la vita, alcune per fame o sete, altre uccise dagli italiani o abbandonate nel deserto. Badoglio, soddisfatto scriveva: “Bisogna assolutamente bandire il sistema arabo della sparatoria da lontano (…) (occorre) essere feroce, inesorabile. Deve essere una vera caccia al ribelle nella quale sarà redditizio ogni atto della più sfrenata audacia.”(4)

Badoglio e Graziani, con il pieno appoggio di Mussolini, avevano deciso di ricorrere ai metodi più spietati per distruggere la resistenza libica, e anche il massacro dei civili risultava utile. Dal novembre del 1929 al maggio del 1930, furono lanciate 43.500 bombe in 1605 ore di volo, ma non sappiamo esattamente quante bombe furono caricate di iprite.
Un telegramma di Badoglio a Siciliani e a De Bono consigliava di essere spietati: “Si ricordi che per Omar al-Mukhtàr occorrono due cose: primo ottimo servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa con aviazione e bombe a iprite”.

Il 20 gennaio del 1931 Cufra, città santa per gli islamici, verrà occupata dopo un combattimento molto aspro, in cui la resistenza sarà costretta a fuggire verso il confine con l’Egitto e sarà inseguita e uccisa. Si verificheranno per tre giorni violenze sfrenate e continui saccheggi da parte degli italiani sulla popolazione: fucilazioni indiscriminate, torture anche su bambini e vecchi (ad alcuni estirpati unghie e occhi), indigeni evirati e lasciati morire dissanguati, donne incinte squartate e feti infilzati, testicoli e teste portati in giro come trofei (molte foto terribili di questo e di altri eventi si trovano oggi negli Archivi Storici di Addis Abeba).
L’11 settembre del 1931 Omar al-Mukhtàr fu catturato e impiccato dopo un processo farsa che non considerò nemmeno l’età avanzata del prigioniero (oltre 70 anni). Nel processo fu accusato di tradimento ma in realtà egli non aveva mai riconosciuto l’autorità degli italiani e non si era mai sottomesso al loro potere.
Omar al-Mukhtàr era soltanto un vecchio che aveva lottato per venti anni contro l’oppressione dello straniero e si era dovuto trasformare, da insegnante del Corano, in partigiano combattente.
La condanna a morte di Omar al-Mukhtàr sarà eseguita davanti ai prigionieri senussiti del campo di concentramento di Soluch, che furono costretti ad assistere all’impiccagione del loro eroe, su cui per tanti anni avevano riposto le loro speranze di libertà. Dopo la morte di Omar al-Mukhtàr la resistenza senussita sarà sconfitta, e i pochi combattenti rimasti si arrenderanno oppure si rifugeranno in Egitto, in attesa del riscatto che arriverà con la Seconda guerra mondiale.
In Etiopia Badoglio utilizzò i gas anche per terrorizzare la popolazione e sganciò bombe ad iprite senza sosta su villaggi, fiumi e laghi, uccidendo persone inermi, anche vecchi, donne e bambini.
Con la guerra d’Etiopia, i funzionari della colonia ottennero notevoli vantaggi, come anche la classe ricca, le banche, le grandi industrie e i generali, che furono insigniti di titoli e di ricchi trattamenti economici. Ad esempio, Badoglio ottenne una villa a Roma, un ricco vitalizio e il titolo di duca di Addis Abeba.

Il 6 maggio 1946 un decreto del governo De Gasperi istituì, presso il Ministero della Guerra (poi della Difesa), una Commissione d’inchiesta per i presunti criminali di guerra italiani, che fu attiva fino al 1948 (5); l’impegno principale della Commissione fu di giustificare il rifiuto di consegnare i criminali alla giustizia, accogliendo senza eccezioni le argomentazioni difensive. Il numero stesso degli inquisiti andò assottigliandosi col passare del tempo. Inizialmente, le richieste internazionali al governo italiano di estradizione dei criminali di guerra ammontavano a 295. Nel 1946 il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi aveva reso pubblico un elenco di 40 persone tra militari e civili, accusati di aver violato le leggi del diritto internazionale di guerra compiendo crimini contro l’umanità; nel 1947 la Commissione governativa li aveva ulteriormente e definitivamente ridotti a 29, ma nemmeno questi ultimi verranno mai sottoposti a processo.
Il primo caso vagliato fu quello del generale Badoglio, accusato di aver usato gas tossici e di aver bombardato ospedali della Croce Rossa durante la guerra d’Etiopia. Malgrado le resistenze inglesi, gli etiopici (sostenuti anche da Norvegia e Cecoslovacchia) riuscirono a persuadere la Commissione internazionale a inserire Badoglio nella lista dei criminali di guerra col “grado A” (il massimo), insieme ad altri gerarchi e generali.
Badoglio, insieme a Graziani, Pirzio Biroli, Gallina, Lessona e altri, aveva fatto uccidere soltanto in Etiopia oltre 700.000 persone, eppure non sarà mai processato per questi delitti.
Gli etiopici organizzarono una loro commissione nazionale sui crimini di guerra. Nel 1949 l’Italia respinse la richiesta etiope per l’estradizione di Graziani e Badoglio. Il 17 settembre l’ambasciatore etiope a Londra sottopose la questione al Foreign Office, che consigliò di desistere. Così nessun criminale fu mai estradato. Pietro Badoglio alla sua morte ebbe un funerale di Stato.

A scuola ci hanno raccontato una Storia d’Italia assai mistificata, in cui alcuni personaggi che in realtà erano criminali o mercenari di bassa lega appaiono come eroi di primario splendore. Questo risulta logico se si pensa che la stessa Unità d’Italia fu un evento pilotato da chi deteneva il potere imperiale. Dire la verità significa far comprendere il vero sistema di potere.
Garibaldi, spacciato per “eroe dei due mondi”, in realtà era un criminale al soldo degli inglesi, per i quali aveva praticato il traffico di schiavi e il saccheggio mediante la “guerra di corsa”. Nell’America del sud era stato arrestato e condannato per aver rubato cavalli. Gli stessi Savoia si lamentavano del suo comportamento a dir poco disonesto. In una lettera inviata a Cavour, Vittorio Emanuele II, dopo lo storico “incontro di Teano”, scriveva di Garibaldi: “Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene – siatene certo – questo personaggio non è affatto così docile né così onesto come lo si dipinge, e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il denaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui, che s’è circondato di canaglie, ne ha seguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa”.(6)

L’11 maggio del 1860 i Mille sbarcarono a Marsala, favoriti dalle navi della flotta inglese “Intrepid” e “H.M.S. Argus”, ormeggiate al porto di Marsala (la flotta borbonica non avrebbe mai attaccato gli inglesi). Fra i Mille c’erano diversi delinquenti comuni. Garibaldi stesso aveva scritto: “Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini e criminali di ogni sorta”.(7)
L’impresa dei Mille non fu altro che un modo per soggiogare la popolazione al nuovo potere, e infatti, dopo l’unificazione d’Italia le repressioni saranno ferocissime e riguarderanno molte regioni d’Italia, specie quelle meridionali e il Veneto. Ovviamente, dopo l’impresa militare, nel 1864, Garibaldi sarà accolto a braccia aperte dalla regina d’Inghilterra e dal ministro Henry John Palmerston. Ufficialmente, in quell’incontro Garibaldi ringraziò le autorità inglesi per l’appoggio dato alla spedizione dei Mille, ma non raccontò che da molti anni era al soldo di Londra per commettere nel Sud America ogni sorta di crimine.

Anche Nino Bixio, altro personaggio spacciato per eroe, non risparmiò repressioni nel sangue. Ad esempio, nell’agosto del 1860, egli represse nel sangue le proteste a Biancavilla, Cesarò, Randazzo, Maletto e Bronte.
A Bronte i contadini avevano fatto ricorso alla giustizia, sostenuti dall’avvocato Nicola Lombardo, ma tutte le cause intentate contro gli usurpatori delle loro terre erano fallite. L’unica strada rimasta era quella della sollevazione.
La repressione a Bronte fu feroce, gli insorti furono massacrati durante i tumulti o arrestati e fucilati in seguito. Furono fucilate almeno cento persone, che in nome dei principi propugnati dallo stesso Garibaldi si erano riappropriate di alcune terre usurpate dai parenti di Nelson.
La responsabilità del massacro di Bronte sarà attribuita a Bixio, che in una serie di lettere documentò gli eventi che portarono al fatto criminale. Ad esempio, in una di queste, scritta il 7 agosto 1860 e inviata al maggiore Giuseppe Dezza, dice di aver messo le “unghie addosso a uno dei capi”. Si raccontò anche l’episodio del garzone che chiese il permesso di portare due uova all’avvocato Lombardo, che si trovava in carcere, a cui Bixio disse cinicamente: “altro che uova, domani avrà due palle in fronte!”. Lombardo sarà fucilato insieme ad altre quattro persone, accusate di aver organizzato la rivolta a Bronte.

I fatti di Bronte furono considerati di poco conto e posti sotto silenzio dalla storiografia ufficiale, per proteggere il mito di Garibaldi e dei Mille. Gli eventi furono in parte chiariti soltanto da uno studioso di Bronte, il professor Benedetto Radice, che pubblicò nell’Archivio Storico per la Sicilia Orientale, nel 1910, una monografia dedicata a Nino Bixio a Bronte (1910, Archivio Storico Siciliano).(8) Dopo questo scritto, molti sapevano dell’eccidio, ma nessuno storico considerò questo e altri fatti per modificare l’interpretazione del Risorgimento Italiano.
Nell’ottobre del 1985, il Comune di Bronte pose un monumento alla memoria delle vittime delle repressioni. Sulla targa del monumento si legge: “Ad perpetuam rei memoriam che nell’agosto 1860 di cittadini brontesi donò la vita in olocausto – Amministrazione Comunale – 10 ottobre 1985”. Ciò nonostante, a pochi metri è rimasta una strada dedicata a Nino Bixio, segno che i presunti eroi, anche quando i fatti vengono a galla, tardano ad essere considerati per quello che erano veramente, ovvero criminali al soldo del potere dominante.

Questi personaggi sono diventati “eroi” proprio per aver sottomesso le popolazioni attuando crimini di vario genere e promettendo cose che sapevano di non poter mantenere. Con l’avvento di Garibaldi, i contadini siciliani si erano illusi di poter avere quella libertà che chiedevano da tempo. Con un decreto, Garibaldi abolì la tassa sul macinato e ogni altra tassa imposta dal potere precedente. Il 2 giugno 1860 emanò norme per la divisione delle terre dei demani comunali, assegnandone una quota ai combattenti garibaldini o ai loro eredi, se caduti. Con queste riforme Garibaldi accrebbe la sua popolarità, e accese le speranze dei siciliani, che però ben presto dovettero accorgersi che le riforme erano state soltanto un atto propagandistico, poiché la quantità di tasse da pagare era quella di prima e la redistribuzione delle terre non era avvenuta. I contadini sarebbero diventati ancora più poveri, e quelli che si sarebbero sollevati sarebbero diventati “fuorilegge” e uccisi senza alcuna pietà.

Bixio, Garibaldi e altri “eroi” obbedivano al diktat “Italia e Vittorio Emanuele”, che veniva indicato in tutti i decreti come formula che conferiva poteri pressoché assoluti al fine di imporre l’occupazione in vista dell’unificazione dell’Italia. Nell’art. 1 del decreto del 17 maggio 1860 si legge: “Durante la guerra, il giudizio dei reati…”, tale decreto avrà efficacia anche dopo la “sconfitta” dell’esercito borbonico. Da ciò si inferisce che l’occupazione delle terre veniva considerata uno stato di guerra, e le popolazioni “ribelli” dovevano essere trattate come combattenti in guerra. Tutti coloro che si ribellarono al potere sabaudo furono trucidati, repressi, oppure fucilati dopo un processo sommario nei Tribunali di guerra. In altre parole, il popolo italiano fu considerato come un nemico in guerra, e non come compartecipe ai fatti unitari. Nelle sollevazioni, il popolo faceva richieste economiche precise, e la repressione scattava affinché queste richieste venissero ritirate, in quanto non c’era alcuna intenzione da parte dei Savoia di rispettare la sovranità popolare o di rendere più equa la situazione economica dell’Italia.
I massacri della popolazione e le condanne a morte venivano attuati in nome del re (che soltanto con la legge 17 marzo 1861 n. 4671 diventerà ufficialmente re d’Italia), sulla base del decreto 17 maggio 1860 n. 84, da cui si legge “Le sentenze, le decisioni e gli atti pubblici saranno intestati: In nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia”.

A sua volta, Vittorio Emanuele obbediva alle autorità inglesi che lo avevano messo sul trono. Le autorità inglesi difendevano gli interessi dei Lord e degli altri personaggi dell’establishment. Ad esempio, a Bronte, il Console inglese, John Goodwin, faceva continue pressioni affinché Garibaldi e l’allora Ministro dell’Interno Francesco Crispi tutelassero a tutti i costi gli interessi agricolo-patrimoniali dei Nelson. Nelle lettere, Goodwin invita a punire l’avvocato Nicola Lombardo: “arrestare l’autore di tale assassinio onde essere giudicato dall’autorità competente e condannato. (9)
In conclusione, ieri come oggi molti sono i falsi eroi nazionali, che in realtà sono veri criminali, e molti veri eroi delle terre depredate dalle autorità occidentali risultano essere considerati “terroristi” e per questo perseguitati e uccisi.
Oggi, se volete essere consacrati ad eroi, andate a massacrare innocenti nelle missioni estere, e se morirete ammazzati magari vi dedicheranno una via o una piazza. Di sicuro diranno che siete “caduti per la libertà” e vi offriranno una corona di fiori e una medaglia. La vostra vita sarà valsa una medaglia e molti onori, mentre le vite innocenti che avrete distrutto non avranno nemmeno il valore di un minuto di silenzio.

Antonella Randazzo
Fonte: http://lanuovaenergia.blogspot.com
Link: http://lanuovaenergia.blogspot.com/2009/04/falsi-eroi-ma-veri-criminali.html
10.04.2009

NOTE

1) “Bollettino della Società africana d’Italia”, 1882, cit. in Aruffo Alessandro, “Storia del colonialismo italiano da Crispi a Mussolini”, Editrice Datanews, Roma 2003, p.29.
2) Miani Giovanni, “Diari”, cit. in Aruffo Alessandro, “Storia del colonialismo italiano da Crispi a Mussolini”, Editrice Datanews, Roma 2003, p. 28.
3) ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sottof. 2, in Del Boca Angelo, “Gli italiani in Libia, dal fascismo a Gheddafi”, Laterza, Roma-Bari 1991.
4) ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98, cit. in Del Boca Angelo, “Gli italiani in Libia, dal fascismo a Gheddafi”, Laterza, Roma-Bari 1991.
5) Sulle vicende della Commissione, cfr. in particolare F. Focardi e L. Klinkhamer [a cura di], “La questione dei criminali di guerra italiani e una Commissione d’inchiesta dimenticata”, in “Contemporanea”, a. IV, n. 3, luglio 2001, pagg. 497-528.
6) Smith Denis Mack, “Garibaldi, una grande vita in breve”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993, p. 285.
7)www.brigantaggio.net/brigantaggio/Storia/Meridionale/Q37_Mafia.PDF+inglesi+terre+sicilia+contadini&hl=it&ct=clnk&cd=5&gl=it&ie=UTF-8
8) Sciascia Leonardo, “Nino Bixio a Bronte”, Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta, 1963.
9) Radice Antonio, “Risorgimento perduto”, De Martinis & C., Catania 1995.

BIBLIOGRAFIA

Alianello Carlo, “La conquista del Sud – Il Risorgimento nell’Italia meridionale”, Rusconi, Milano 1982.
Ciano Antonio, “I Savoia e il massacro del Sud”, Grandmelò, Roma 1996.
De Matteo Giovanni, “Brigantaggio e Risorgimento – legittimisti e briganti tra i Borbone ed i Savoia”, Guida Editore, Napoli 2000.
Di Fiore Gigi, “1861. Pontelandolfo e Casalduni: un massacro dimenticato”, Grimaldi & C. Editori, Napoli 1998.
Di Fiore Gigi, “I vinti del Risorgimento”, UTET, Torino 2004.
Izzo Fulvio, “I Lager dei Savoia”, Controcorrente, Napoli 1999.
Pellicciari Angela, “Risorgimento da riscrivere”, Ares, Milano 2007.
Radice Antonio, “Risorgimento perduto”, De Martinis & C., Catania 1995.
Servidio Aldo,”L’imbroglo Nazionale”, Alfredo Guida Editore, Napoli 2000.
Smith Mack Denis, “I Savoia Re d’Italia”, Rizzoli, Milano 1990.
Smith Denis Mack, “Garibaldi, una grande vita in breve”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993.
Zitara Nicola, “Il proletariato esterno. Mezzogiorno d’Italia e le sue classi”, Jaca Book, Milano 1977.
Zitara Nicola, “Negare la negazione”, La Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria 2001.

fonte https://comedonchisciotte.org/falsi-eroi-ma-veri-criminali/?fbclid=IwAR0PDDcobZ7P-t7yBPVj-u4KGwUaVokcUMj7bqwEeQTaunU9iJuHqyxeqng

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Il testamento di Augusto di Alfredo Saccoccio

Posted by on Gen 15, 2019

Il testamento di Augusto di Alfredo Saccoccio

   Nel 13 d. C. Augusto e Livia toccavano il cinquantennio del loro matrimonio . Tale ininterrotta vita coniugale  di Augusto  è un simbolo della continuità della sua carriera  e della costanza con la quale perseguì  le finalità  che si era proposto. Mentre l’esaltazione della sua felice unione con Livia decretava l’erezione di un  tempio della Concordia sull’Esquilino, a ricordo del suo ingresso  settantesimosesto anno di vita, pensò di redigere, secondo la frase di Svetonio,  un sommario, “index rerum a se gestarum”, che servisse al giudizio  dei contemporanei, come a quello dei posteri.

   Tale “index” autobiografico era destinato  ad essere inciso su tavole di bronzo da erigersi davanti a quel suo Mausoleo, che, fin dal 28 a. C.,  spente le guerre civili, debellati i nemici esterni  e chiuso il tempio di Giano,  Augusto, allora Ottaviano,  aveva provvisto a far costruire , per sè e per i suoi,  nella zona settentrionale del Campo Marzio, fra il Tevere  e la Flaminia. Alla sua morte, Tiberio, ottemperando  alla volontà dell’estinto, fece incidere l’ “index”  su due pilastri di bronzo e li fece collocare davanti al Mausoleo. Per quanti secoli i Romani poterono leggerlo sul posto? Non lo sappiamo.

   Ancira, oggi Ankara, la capitale della Galazia, nel pronao del suo “Sebasteion”, il sontuoso tempio  dedicato ad Augusto e a Roma, fece incidere il testo latino dell’ “index”, con accanto la traduzione greca. E là il documento fu letto e, oer la prima volta, copiato nell 1555 dagli ambasciatori inviati da Ferdinando I, imperatore di Germania, al sultano Solimano.

                                               Conquiste, spese e opere

    In una lingua sobria, semplice, chiara e pur solenne, piena di regale dignità, l’ “Augustus” dà la nuda, oggettiva enumerazione di cose e di fatti che hanno avuto ripercussioni così vaste nella storia del mondo. Nessun ornamento di forma. L’imperatore non si abbandona mai ad apprezzamenti o a commenti.

   Augusto rpartisce il novero delle sue “Res gestae” in tre parti. Al primo posto uno sguardo complessivo alle guerre da lui intraprese,, nelle quali si manifestò la sua “clementia”. Nella seconda parte elenca le spese da lui sostenute per lo Stato romano. La terza parte, infine, contiene l’enumerazione delle “Res gestae” vere e proprie.

   “All’età di diciannove anni, di mia propria iniziativa e a spese mie raccolsi un esercito, col quale liberai lo stato dal dominio di una fazione che l’opprimeva.. Per questa ragione, sotto il consolato di Gaio Pansa e Aulo Irzio,  il senato con decreti onorifici mi aggregò all’ordine suo, insieme concedendomi il grado consolare col diritto di voto, e mi conferì  il comando militare.  Ordinò che io, quale propretore, con i consoli provvedessi, affinché la repubblica  non avesse a soffrir danno.  Lo stesso anno il popolo mi nominò console, essendo ambedue i consoli caduti in guerra, e triumviro con il compito di riordinare lo stato.

   “Mandai in esilio coloro che uccisero il padre mio, con procedimenti legali punendo il loro delitto, e poi, movendo essi guerra alla repubblica, due volte li sconfissi in battaglia”.

   Così, con pacata freddezza di cronistorico, Augusto accenna al suo drammatico ingresso nella vita pubblica. Egli era ad Apollonia, in Epiro, per attendere agli studi e alla preparazione  militare, quando, pochi giorni dopo, gli idi di marzo del 44, gli giunse la notizia che Cesare era caduto sotto il pugnale dei congiurati. Senza esitare né ascoltare consigli di prudenza, accorse a Roma  e, rivendicando i suoi dititti di erede, che il console Antonio gli contestava, arruolò, a spese sue, un esercito fra i veterani di Cesare stanziati nella Campania e guadagnò  alla propria causa due delle quattro legioni di Antonio.  La partita era già vinta. Il primo gennaio del 43 a. C. il Senato, su proposta di Cicerone, si aggregava Ottaviano Ottaviano, conferendogli, in pari tempo, la dignità di propretore e il diritto di sentenza e di voto fra i consolari. Sei giorni dopo, rivestito del comando militare (“Imperium”), Ottaviano assumeva , per la prima volta, i fasci, insegna del potere, che non doveva più deporre.

   Nell’ “index” Augusto  allude fugacemente alla nomina a console  e a triumviro. La guerra di Modena era costata la vita ai due consoli, ma Antonio, sconfitto, era fuggito. Ottaviano, rimasto solo a capo dell’esercito, aveva superato, con una rapida marcia militare su Roma, l’opposizione del Senato e dal popolo riunito nei comizi era stato eletto console non ancora ventenne. Dopo di che, andato incontro ad Antonio e a Lepido, aveva costituito con essi il “triumviratus reipublicae constituendae”, che, sanzionato dalla “lex Titia”, il 27 novembre del medesimo 43,  aveva ai tre conferito poteri straordinari  per cinque anni. Dei due colleghi, nessuna menzione nell’ “index”. E si comprende. Essi erano stati, più tardi, dichiarati nemici della patria. La vittoria di Filippi, con la sua duplice azione, terminata la prima con il suicidio di Cassio, la secona con quello di Bruto, aveva chiuso quel drammatico prologo dell’azione politica di Augusto.

   “Guerre per terra e per mare civili ed esterne in tutto il mondo spesso io combattei e, vincitore, risparmiai tutti i cittadini che chiesero grazia. Preferii conservare anziché distruggere  quelle genti straniere, alle quali si poté senza pericolo perdonare. Circa cinquecentomila cittadini romani militarono sotto le mie insegne : di essi, più di trecentomila inviai in colonie o rimandai ai loro municipi, poi ch’ebbero compiuto il loro servizio, e ad essi tutti assegnai campi o donai danaro come premio  del servizio prestato. Catturai seicento navi, non comprendendo in questo numero quelle minori delle triremi”.

                                                                  500.000 uomini

   A settantacinque anni, Augusto accenna, di sfuggita, alle campagne seguite alla vittoria di Filippi per far risaltare la “clementia” con la quale le condusse  e le conchiuse. Ma egli ci tiene a calcolare gli uomini passati complessivamente sotto il suo comando, dal triumvirato  al momento della stesura  del “Testamentum”. Sono cinquecentomila . Numero strabocchevole per l’antichità. E si compiace di ricordare le trecento navi catturate a Sesto Pompeo e le altrettante  catturate ad Antonio e a Cleopatra, ad Azio.

   “Console per la quinta volta, per comando del popolo e del senato accrebbi il numero dei patrizi. Tre volte  procedetti alla revisione delle liste dei senatori. E nel mio sesto consolato feci il censimento  del popolo, avendo collega Marco Agrippa, e celebrai la cerimonia lustrale alla distanza di quarantadue anni dall’ultima celebrazione.  Risultarono allora censiti 4.063.000 cittadini romani. E poi di nuovo ripetei la stessa cerimonia  da solo  con potere consolare, durante il consolato di Gaio Censorino e Gaio Asinio. E furono in questo lustro  censiti 4.233.000 cittadini romani. Per la terza volta, rivestito del potere consolare feci il censimento avendo collega il mio figliuolo Tiberio Cesare, quand’erano consoli Sesto Pompeo e Sesto Apuleio : e risultarono allora cittadini romani 4.937.000.  Con la promulgazione di nuove leggi, richiamai in vigore molte antiche consuetudini, che cadevano ormai in disuso : e io stesso offrii ai posteri esempi di molte cose da imitare”.

    Augusto può sorvolare sulla serie vittoriosa delle sue azioni militari. Ma non può  e non vuole sorvolare su quelle che sono le sue più insigni azioni di pace. Fra queste, eccellono il risanamento interno della casta patruzia e la politica demografica. Già negli ultimi tempi della repubblica le file del patriziato erano diminuite in modo impressionante. Di 136 genti patrizie esistenti al principio di essa, solo quattordici, con circa trenta famiglie, ne sopravvivevano nell’età di Cesare. Occorreva, dunque, costituire una classe  dirigente che fosse idonea ai compiti richiesti dal nuovo ordine di cose. Già Cesare, con la “Lex Cassia”, aveva innalzato al patriziato famiglie plebee. Ora Augusto, nel suo quinto consolato, nel 29 a. C., si era fatto attribuire, in virtù della “Lex Saenia”, la facoltà di aumentare il numero dei patrizi. Ma lo zelo con il quale Augusto aveva tenuto d’occhio l’andamento demografico della cittadinanza romana è mostrayto dalla scrupolosa esattezza con la quale egli registra nell’ “index”, fino all’ultimo migliaio, le cifre progressive dei tre censimenti, quello del 28 a. C., quello dell’ 8 a. C. (particolarmente importante nella storia del Cristianesimo) e quello del 14 d. C..

   “Per onorare il mio ritorno, il senato consacrò  l’altare della Fortuna Reduce davanti al tempio dell’Onore e della Virtù, presso la porta Capena, e comandò che ivi i pontefici e le vergini Vestalii celebrassero un sacrificio ogni anno, ricorrendo il giorno  nel quale, sotto il consolato di Quinto Lucrezio e Marco Vinicio, io ero tornato in città dalla Siria, e chiamò quel giorno “Augustalia” dal nome mio.

   “Quando tornai a Roma dalla Spagna e dalla Gallia, dopo i successi riportati in quelle provincie, durante il consolato di Tiberio Nerone e Publio Quintilio, il senato decretò  doversi consacrare  per il mio ritorno l’altare della Pace Augusta nel Campo Marzio, e comandò che ivi magistrati e sacerdoti e vergini Vestali celebrassero un sacrificio annuale.

   “Il tempio di Giano Quirino, che i nostri maggiori vollero che fosse chiuso quando per tutto l’impero del popolo romano si fosse conseguita con le vittorie la pace per terra e per mare, tre volte, essendo io principe, il senato ordinò che venisse chiuso :  la qual cosa, prima ch’io nascessi, dalla fondazione di Roma, si ricorda essere accaduta due sole volte”.

   Quando Augusto tornò a Roma nel 19 a. C. dal lungo e fortunato viaggio in Oriente, che gli aveva fruttato la restituzione delle insegne  tolte dai Parti a Crasso e ad Antonio, con il conseguente ristabilimento del prestigio romano in quelle regioni, il Senato consacrò l’altare della Fortuna Reduce, di fronte al tempio dell’Onore e della Virtù dedicato da Marco Claudio Marcello nel 208 a. C., ai piedi del Celio, presso la porta Capena. Attraverso questa porta, venendo dalla Campania, per la via Appia, Augusto era entrato in città.

   Quando, sei anni più tardi, Augusto tornò a Roma, dopo il triennio consacrato all’ordinamento  e alla pacificazione della Spagna e della Gallia, il Senato decretò che nel Campo Marzio, presso la via Flaminia, per la quale egli aveva fatto il suo ingresso in città, sorgesse un altare dedicato alla Pace, a quella pace che pareva ora finalmente assicurata al mondo romano.

Bottino di guerra

   Naturalmente il ricordo dell’ “Ara Pacis” suscita, per spontaneo collegamento, quello della chiusura del tempio di Giano. Due volte solamente, secondo la tradizione, il tempio era stato chiuso, prma di Augusto. Una prima volta, al tempo del mitico regno di Numa. Una seconda volta dopo la prima guerra punica, nel 235 a. C.. Aveva ben ragione Augusto di addurre, a titolo di gloria, l’aver chiuso, per tre volte, il tempio fatale, durante il suo lungo impero. Una prima volta nel 29 a. C., dopo la vittoria di Azio e la conseguentre conquista dell’Egitto¸ una secondas nel 25 a. C., al termine delòla guerra cantabrica; una terza,  infine, in epoca non meglio determinabile, fra l’8 e l’1 a. C..

   L’ “index” indugia con particolare e trasparente compiacimento sulle elargizioni al popolo, che hanno contrassegnato, anno per anno, il governo  augusteo.

“Alla plebe romana distribui trecento sesterzi a testa in esecuzione del testamento di mio padre e quattrocento sesterzi a nome  mio dal bottino di guerra, quando fui console per la quinta volta. Più tardi ancora, nel mio decimo consolato, donai quattrocento sesterzi per ciascuno dal mio patrimonio; e quando fui console per l’undicesima volta, feci dodici distribuzioni di grano da me privatamente acquistato. Infine, nel dodicesima anno del mio potere tribunizio, per la terza volta distribuii quattrocento nummi a testa. Questi miei donativi toccarono a non meno di duecentocinquantamila uomini ogni volta. Nel diciottesimo anno del mio potere tribunizio e dodicesimo consolato diedi a trecentoventimila  persone della plebe urbana sessanta danari.  a testa. E alle colonie  dei miei soldati, console per la quinta volta, distribui dal bottino di guerra mille nummi per uno : ricevettero questo donativo trionfale nelle colonie circa centoventimila uomini. Console per la tredicesima volta, donai sessanta danari a testa alla plebe, che allora riceveva il frumento pubblico : godettero di questa elargizione poco più di duecentomila uomini”.

Acque e pietre

      Ma Augusto non ha solamente aperto le sue casse private per farne rifluire oro sul popolo. Con i suoi mezzi privati e mercé sapienti destinazioni del denaro pubblico ha arricchito Roma e l’Impero di mirabili opere pubbliche. Non per nulla aveva voluto per sè la carica di “Curator viarum”.

      “Restaurai il Campidoglio e il teatro di Pompeo, con spesa ingente e senza farvi iscrivere il suo nome. Riparai gli adcquedotti in molti luoghi rovinati dal tempo, e raddoppiai la portata dell’acqua Marcia, immettendo nel suo corso una nuova fonte. Completai il foro Giulio e la basilica fra il tempio di Castore  e il tempio di Saturno, opere iniziate e condotte quasi a termine dal padre mio ; e quando la medesima basilica fu distrutta da un incendio, cominciai a riedificarla su più ampio suolo, sotto il nome  dei figli miei, e comandai che, se non l’avessi finita durante la mia vita, fosse compiuta dai miei eredi. Ottantadue templi degli dei, console per la sesta volta, io restaurai nella città per volontà del senato, non trascurandone  alcuno, che in quel tempo abbisognasse di riparazione. Console per la settima volta, restaurai la via Flaminia dalla città fino a Rimini  e tutti i

ponti tranne il Milvio e il Minucio.

   “Su terreno di mia privata proprietà, costruii il tempio di Marte Ultore e il foro Augusto col bottino di guerra. Edificai presso il tempio di Apollo, su terreno per gran parte comprato da privati, un teatro, che volli portasse il nome del genero mio Marco Marcello. Col bottino di guerra consacrai doni nel Campidoglio, nel tempio del divo Giulio, nel tempio di Apollo, nel tempio di Vesta e nel tempio di Marte Ultore : doni che mi costarono circa un milione di sesterzi. Console per la quinta volta, rimandai ai municipi e alle colonie d’Italia trentacinquemila  libbre d’oro coronario  offerto per i miei trionfi : e poi, ogni qualvolta  fui proclamato “imperator”, non accettai l’oro  coronario, benché  i municipi e le colonie me lo decretassero con la stessa benevolenza di prima”.

   Il grande incendio  dell’83 a. C. aveva distrutto il venerando tempio dedicato sul Campidoglio a Giove Ottimo Massimo, Giunone e Minerva, che la tradizione attribuiva alla fondazione di Tarquinio Prisco. Silla e Lutazio Catulo ne avevano curato la ricostruzione.  Avendolo un fulmine nel 9 a. C. nuovamente danneggiato, Augusto lo restaurò con particolare magnificenza. Il teatro che Pompeo aveva costruito  nel 55 a. C. , che era stato il primo teatro stabile in pietra a Roma, fu ugualmente ricostruito e abbellito da Augusto. Gli acquedotti, inoltre, furono sommamente curati da Augusto. Di quella Acqua Marcia (“optima rerum aqua, optima aquarum Marcia”), che il pretore Q. Marcio Re aveva convogliato verso Roma nel 146 a. C. dalla vallata dell’Aniene , Augusto raddoppò  la portata, immettendovi l’ “aqua Augusta”, raccolta nella vallata fra “Tusculum” e il monte Albano. Il Foro di Cesare e la basilica Giulia, che Cesare aveva dedicato, nel 46 a. C., furono da lui completati. Infine, fra tutte le vie suburbane, la Flaminia riscosse le speciali attenzioni di Augusto.  Era stata aperta nel 220 a. C. dal censore C. Flaminio. Ancora oggi il ponte sulla Marecchia, a Rimini, è testimone glorioso e sorprendente della solida magnificenza con cui Augusto provvide alla vigilanza delle strade.

La pace

   Augusto ha riservato , alla fine del suo “index” autobiografico, l’evocazione delle grandi conquiste   e degli strepitosi successi  diplomatici. L’andatura del testo, pur nella sua sobria compostezza, assume un ritmo intenso.

   “Allargai i confini di tutte le provincie del popolo romano, alle quali erano confinanti popolazioni che non ubbidivano al nostro dominio. Sottomisi le provincie delle Gallie e delle Spagne e similmente la Germania, seguendo il confine dell’Oceano, da Cadice alla foce dell’Elba. Assoggettai le Alpi, dalla regione prossima al mare Adriatico fino al Tirreno, a nessuna gente recando guerra ingiustamente. La mia flotta navigò per l’Oceano dalla foce del Reno verso Oriente fino al territorio dei Cimbri, dove né per terra né per mare alcun Romano prima d’allora era giunto : e i Cimbri e i Caridi e i Semnoni ed altre popolazioni germaniche della medesima regione per mezzo di ambasciatori chiesero l’amicizia mia e del popolo romano.  Per mio comando e sotto i miei auspicii due eserciti furono guidati, quasi contemporaneamente, nell’Etiopia e nell’Arabia detta Felice, e numerosissime schiere dell’una e dell’altra gente nemica furono uccise in campo e moltissime città furono conquistate. Nell’Etiopia si giunse fino alla città di Nabata, ch’è vicinissima a Meroe : e nell’Arabia l’esercito avanzò nel territorio dei Sabei fino alla città di Mariba.

   “Aggiunsi l’Egitto  al dominio del popolo romano. Potendo fare dell’Armenia maggiore una provincia , dopo che ne fu ucciso il re Artasse, preferiii, seguendo l’esempio dei nostri avi,  affidare quel regno  a Tigrane, figlio del re Artavasde e nipote  del re Tigrane, per mezzo di Tiberio Nerone, ch’era allora mio figliastro.  La medesima gente, poi, infedele e ribelle, soggiogata per mezzo di mio figlio Gaio,  diedi da governare  al re Ariobarzane, figlio del re  dei Medi Artabazo  e, dopo la sua morte, al figlio di lui Atavasde. E quando questi  fu ucciso, mandai in quel regno Tigrane, ch’era oriundo della regale schiatta degli Armeni. Riconquistai, con Cirene, tutte le provincie, che al di là del mare Adriatico son rivolte ad oriente, possedute per gran parte da re, e prima ancora la Sicilia e la Sardegna, ch’erano state  occupate durante la guerra servile.

      “Le popolazioni dei Pannoni, tra le quali, prima ch’io fossi principe, nessun esercito mai del popolo romano penetrò, sconfitte per mezzo  di Tiberio Nerone, ch’era allora mio figliastro e luogotenente, io sottomisi al dominio del popolo romano ed estesi i confini dell’Illirico fino alla riva del Danubio. Un esercito di Daci, che osò varcare questo fiume, sotto i miei auspici fu vinto e sbaraglato : e poi l’esercito mio, guidato al di là di esso,  costrinse le popolazioni dei Daci a sottostare al dominio del popolo romano.

   “A me furono mandate spesso dall’India ambascerie di re, non mai viste prima presso alcun duce romano. Chiesero la nostra amicizia per mezzo di ambasciatori i Bastarni, gli Sciti, i re dei Sarmati, che abitano al di qua e al di là del Tanai, e i re degli Albani, degli Iberi, dei Medi.

   “Le genti dei Parti e dei Medi,, inviandomi in qualità di ambasciatori i connazionali più nobili, chiesero ed ebbero re da me : i Parti Vonone, figlio del re Fraate, nipote del re Orode, i Medi Ariobarzane, figlio del re Artavasde, nipote del re Ariobarzane.  

   “Durante il sesto e il settimo mio consolato, poi ch’ebbi fatto cessare le guerre civili, avendo assunto il supremo potere per consenso universale, trasferii il governo della cosa pubblica dalla mia persona  nelle mani del senato e del popolo romano. In ricompensa di ciò, per decreto del senato mi fu conferito il titolo di Augusto e la mia porta fu ornata d’alloro a nome dello stato e una corona civica fu appesa ad essa e fu posto nella curia Giulia uno scudo d’oro con una iscrizione  attestante ch’esso mi veniva offerto dal senato e dal popolo romano per il mio valore, la mia clemenza, la mia giustizia e la pietà mia. Da allora io fui superiore a tutti per autorità, ma non ebbi maggior potere di quelli che mi furono colleghi in ciascuna magistratura”.

La corona civica

   Prossimo alla morte, Augusto può con legittima fierezza guardare alle sue sconfinate conquiste. Ha dovunque ampliato e dilatato i confini romani. In Germania,, fino all’Elba.. Nell’Illirico  e nella Macedonia, ove sono state istituite le due nuove province della Pannonia e della Mezia. Nell’Asia Minore, dove si è formata la nuova provincia della Galazia. Nella Siria che si è arricchita con il territorio della Giudea. Nella provincia d’Africa, che si è accresciuta della Numidia tolta al re Giuba, compensato, d’altra parte, con la Mauritania. Augusto ha pacificato le province della Gallia e della Spagna a due riprese, fra il 27 e il 25 a. C. e poi fra il 16 e il 13. La sconfitta di Varo ha lasciato indeterminato il confine della Germania. E’ l’unico punto oscuro e dolente nelle reminiscenze e nelle rievocazionii augustee.

   E’ dal 30 a. C., dopo la morte di Antonio e di Cleopatra, che l’Egitto è stato posto sotto la diretta dipendenza di Augusto, che lo ha ininterrottamente governato per mezzo di un prefetto. E l’Egitto era stato un eccellente punto di partenza per esplorazioni più lontane. Di là  due eserciti romani avevano preso le mosse per avanzare vittoriosi, l’uno fin nel cuore dell’Arabia Felice, l’altro fin nell’Etiopia. Recuperando le province  che, assegnate ad Antonio dal trattato di Brindisi, del 40 a. C., erano state da lui donate a Cleopatra e ai suoi figli, o a sovrani a sè personalmente devoti, Augusto aveva ristabilito in Oriente la dilacerata integrità dello Stato romano. Infine l’ “index” poteva vantare la sottomissione  delle popolazioni danubiane, Pannoni, Daci e Geti e l’arrivo di ambascerie devote dai più lontani reami.

   Quasi a coronamento finale della evocazione delle “res gestae “, l’ “index” registra il gesto magnanimo con il quale, in un momento saliente della sua prodigiosa carriera. l’ “imperatore” ha restituito al Senato  e al popolo i suoi poteri eccezionali, assumendo una superiore “auctoritas”, che non aveva  altro fulcro  e altro fondamento al di fuori delle qualità personali.

   E’ durante il suo sesto consolato, nel 28 a. C., che Augusto abroga, poco a poco, tutti i provvedimenti eccezionali del periodo triumvirale. Il 16 gennaio del 27 a. C., in una solenne seduta senatoriale, dichiarava di trasmettere di nuovo nelle mani del Senato e del popolo il potere straordinario di cui era stato investito. In seguito a ciò, il Senato gli conferì il titolo sacro di “Augustus”, che vale “il degno di onore e il venerando”. Evocando così le sue gloriose “res gestae”, Augusto poteva serenamente avvicinarsi alla morte. Il “novus ordo” vaticinato da Virgilio Marone era effettivamente nato con lui.

Alfredo Saccoccio

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La ribellione è l’essenza del protestantesimo Torino 1798

Posted by on Ott 26, 2018

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Un autore anonimo, grande amante della forma di governo repubblicana, ha fatto qualche tempo fa un’osservazione molto degna di attenzione. «Chiunque — ha detto — abbia letto la storia moderna umana e osservato i movimenti e le rivoluzioni dell’Europa, rileva chiaramente che, dai tempi della Riforma, c’è una lotta, a volte pubblica, a volte segreta, ma sempre reale, tra le repubbliche e le monarchie» (1).

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