Posted by altaterradilavoro on Mar 13, 2019
Così, anche nella Penisola, nella prima metà dell’800,
a livello di ristrette e colte elites, borghesi ed intellettuali, divenne
sempre più presente e forte la convinzione dell’esistenza di un’unica Nazione
Italiana che si faceva ascendere da alcuni all’impero romano, da altri al
Medioevo; ad essa si facevano risalire i fasti del Rinascimento con il suo
primato culturale indiscusso (che coincideva, con apparente paradosso, col
punto più basso della rilevanza politica dell’Italia nel contesto europeo).
Giovani universitari, avvocati, medici, giornalisti, scrittori, avevano formato
il loro pensiero leggendo le opere di Foscolo, Berchet, Giusti, Giannone,
Manzoni, Poerio, Pellico, Cuoco, D’Azeglio, Balbo, Botta e Gioberti (solo per
citarne alcuni) e credettero fosse arrivato il momento di battersi per dare a
questa Nazione uno Stato unitario; erano una esigua minoranza anche perchè solo
pochissimi italiani sapevano leggere e scrivere (persino al momento dell’unità
il loro numero superava a malapena il 20%).
Questa aspirazione ad un’unione statale della Penisola
divenne il loro ideale da realizzarsi però tramite quattro progetti politici
molto diversi e in palese conflitto tra loro: quello repubblicano-centralistico
di Mazzini: repubblica e stato fortemente centralizzato; quello repubblicano-federale
di Cattaneo il quale affermava che “gli italiani senza federalismo saranno
sempre discordi, invidiosi, infelici”[1];
quello monarchico-federale a guida papale di Gioberti, il quale, in
antitesi al pensiero di Mazzini, faceva notare che “il popolo italiano“ non può
essere soggetto d’azione politica perché non è ancora altro che «un
desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una
cosa», per questo motivo la guida del risorgimento nazionale deve essere «monarchica
ed aristocratica, cioè risedente nei prìncipi e avvalorata dal concorso
degl’ingegni più eccellenti, che sono il patriziato naturale e perpetuo delle
nazioni»; infine, quello monarchico-centralistico, il “tutto mio”
dei Savoia. Alberto Banti, a proposito delle incompatibilità tra i quattro
progetti politici unitari, scrive [2]:“Le
fratture che correvano all’interno del movimento nazionale erano di un tipo
tale per cui chi avesse vinto la partita, avrebbe vinto tutto, e chi avesse
perso sarebbe rimasto con un pugno di mosche in mano, in posizione politica (e
spesso anche personale) del tutto marginale“. Anche per questo i massimi
esponenti delle varie correnti di pensiero, si detestavano a vicenda, ad
esempio Cavour affermava: ”Ciò che manca a Mazzini per essere un sommo
rivoluzionario è il coraggio morale, l’intrepidità a fronte dei pericoli, il
disprezzo della morte”, gli dava, insomma, del codardo, accusa peraltro
ribadita da molti che criticavano “l’agiatissimo esilio” del Genovese e
la sua contemporanea accesa retorica che spingeva altri soggetti a prendere le
armi in pugno e a morire; “infame cospiratore e autentico capo di assassini”
rincarava Cavour; di contro Mazzini gli rispondeva che “Io vi sapevo, da
lungo tempo, tenero alla monarchia piemontese più assai che della patria
comune; adoratore materialista del fatto più che di ogni santo, eterno
principio…perciò se io prima non vi amavo, ora vi sprezzo”. Garibaldi, a
sua volta, chiese a più riprese a Vittorio Emanuele II di liquidare Cavour il
quale affermava che “Garibaldi è il più fiero nemico che io abbia”.
Bisogna, inoltre, rimarcare il fatto che “L’ingombrante
presenza austriaca della penisola … poneva due ordini di problemi.
Innanzi tutto, creava uno squilibrio permanente nei rapporti tra Stati
italiani, dato che nessuno di essi aveva il peso ed il prestigio militare
sufficienti a bilanciare l’influenza asburgica. In secondo luogo, catalizzava
il problema italiano intorno alla parola d’ordine della cacciata dello
straniero, ricca di suggestioni emotive …tali da far passare in secondo piano,
come minimalista e inadeguato, qualunque programma volto a ottenere riforme
costituzionali o amministrative nell’ambito degli ordinamenti esistenti…questa
peculiarità italiana fece sì che la dimensione cospirativa di stampo settario (Mazzini)…avesse
un peso rilevante”[3]
anche perché i programmi federalisti del Gioberti e di Cattaneo,
rispettivamente monarchico e repubblicano, pur se rispettosi delle realtà
secolari degli stati italiani, sostanzialmente fallivano nella soluzione del
“problema Austria”.
Tutti questi progetti unitari “raccoglievano ostilità
e soprattutto indifferenza nel popolo italiano”[4],
nella prima metà dell’Ottocento, infatti, l’idea di un’Italia unita e
indipendente non si era formata, com’era del tutto assente una coscienza
nazionale; né sono da contrapporre a queste asserzioni le “spontanee
insurrezioni popolari unitarie“ che si manifestarono nei vari stati
italiani, esse erano notoriamente organizzate da agenti sabaudi, né tanto meno
i risultati dei “plebisciti“ confermativi le annessioni piemontesi, che
seguirono alla cacciata dei sovrani preunitari, e che nessuna mente intellettualmente
onesta può definire, guardando alle modalità del loro svolgimento, libera
espressione di volontà popolare.
Persino nel fervore delle guerre di indipendenza il
sentimento di appartenenza ad un’unica patria era molto labile: nella prima, del
1848, i soldati piemontesi non mostrarono nessuna aspirazione alla causa
unitaria e nazionale tanto che quando Gioberti e Brofferio (due importanti
esponenti liberali e unitaristi) si presentarono al loro cospetto e tentarono
di istruirli sul significato”risorgimentale” della guerra “le mille
imprecazioni dei nostri Ufficiali il fecero desistere dalla sua impresa.
[Brofferio] si fece accompagnare in vettura da tre Ufficiali per paura che per
strada lo ammazzassero. Gioberti gli toccò la stessa sorte e un soldato finì
per tirargli addosso un torsolo di cavolo”[5].
Nella seconda guerra (del 1859) “i soldati
dell’esercito sardo, quasi esclusivamente contadini e popolani … non erano
ancora ben persuasi che il Piemonte fosse in Italia, tanto è vero che ai
volontari provenienti dalle altre regioni d’Italia rivolgevano la domanda:
“Vieni dall’Italia?”[6].
Furono solo 10mila i volontari accorsi dalle altre regioni d’Italia (la
popolazione complessiva di queste regioni era di 20 milioni di abitanti),
un’ulteriore prova, se mai ce ne fosse bisogno, di quanto poco era sentita
l’istanza di una unione politica dell’Italia, questo fatto riempì
d’indignazione Cavour che si sfogò ripetutamente nella sua corrispondenza
privata, i volontari arruolati a Torino, provenienti dalle Due Sicilie, furono
20 [7].
Il conflitto si svolse tra l’avversione del popolo piemontese, oppresso
fiscalmente a causa della onerosissima politica estera governativa,
l’indifferenza dei lombardi (protagonisti nel marzo del 1848 delle Cinque
giornate di Milano) e l’ostilità dei veneti che si batterono valorosamente
nelle fila dell’esercito austriaco.
Durante la terza (1866) quando a Lissa il comandante
austriaco von Teghethoff annunciò agli equipaggi delle sue navi, composti quasi
integralmente da veneti, che la battaglia contro la marina del regno d’Italia
era stata vinta, essi lanciarono i berretti in aria in segno di giubilo e
gridarono “Viva San Marco” [simbolo di Venezia].
Questo stridente contrasto tra gli ideali di una
minoranza e le aspettative della grande maggioranza della popolazione fece
causticamente commentare che “Il liberalismo, che pretende di essere
l’interprete dei destini nazionali e della volontà popolare, è in realtà una
parte che pretende di stare per il tutto, una minoranza ideologica che si
autoconferisce l’identità di nazione…Italia fittizia che si sovrappone al Paese
reale senza rappresentarlo”[8]
.
Passando dagli idealisti senza secondi fini, alle
persone che invece avevano concreti interessi materiali, non vi è dubbio che
dietro l’ideale unitario si creò una alleanza tra la borghesia settentrionale e
i latifondisti meridionali; la prima, forte dell’appoggio politico del Piemonte,
vedeva nell’unità la possibilità di espandere gli affari a danno di quella
meridionale, la seconda patteggiò il sostegno ai Savoia in cambio della futura
vendita sotto costo delle terre demaniali ed ecclesiastiche, privando in questo
modo i contadini degli usi civici (cioè dell’uso gratuito delle terre dello
Stato per la semina e il pascolo). La classe che fu fortemente penalizzata dal
Risorgimento fu quella popolare la cui condizione economica peggiorò causando
il tragico fenomeno dell’emigrazione “il popolo minuto era per il resto del
tutto irrilevante ai fini del movimento nazionale, e ciò giova a spiegare come
nessun elemento dirigente di quest’ultimo si prendesse la briga di conquistarne
le simpatie”[9].
Solo Garibaldi lo fece, ma solo strumentalmente, all’inizio della spedizione
dei Mille: promise, con degli editti, le terre a chi lo avesse aiutato nella
lotta contro i Borbone, poi, una volta ottenuto l’appoggio dei contadini, egli
stesso ordinò la repressione di focolai di rivolte popolari, l’episodio più
grave fu quello del paese di Bronte, in Sicilia. Qui ci fu la resa dei conti
circa le promesse fatte: il 1° agosto 1860 i contadini, insorti contro i
proprietari terrieri; uccisero una decina di “galantuomini”; il
Nizzardo, sollecitato dal console inglese che gli intimava di far rispettare le
proprietà britanniche lì presenti, e spinto anche dal verificarsi di rivolte
contadine simili a Linguaglossa, Randazzo, Centuripe e Castiglione, inviò il 6
Agosto sei compagnie di soldati piemontesi e due battaglioni di cacciatori al
comando di Nino Bixio, “una forza atta a sopprimere li disordini che vi sono
in Bronte che minacciano le proprietà inglesi”[10].
Bixio, arrivato a Bronte, uccise subito a freddo un rivoltoso ed emise un
decreto con cui intimava la consegna delle armi, l’esautorazione
dell’amministrazione comunale e la condanna a morte dei responsabili più una
tassa di guerra per ogni ora trascorsa fino alla “pacificazione” della
cittadina; nei giorni successivi incriminò cinque persone, tra cui un insano di
mente, le quali dopo un processo farsa furono condannate a morte; gli accusati,
che erano innocenti (i responsabili erano scappati prima dell’arrivo di Bixio),
furono fucilati il 10 agosto e i loro cadaveri esposti al pubblico insepolti[11].
“Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi
lo [Bixio] videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli
gridarono dietro: Belva! Ma niuno osò più muoversi….se no ecco quello che ha
scritto:“Con noi poche parole; o voi restate tranquilli, o noi, in nome della giustizia
e della patria nostra, vi struggiamo [distruggiamo] come nemici
dell’umanità “[12].
I “galantuomini” avevano vinto su
tutti i fronti e Garibaldi si dimostrò, quindi, come dice Denis Mack Smith, “il
più religioso sostegno della proprietà“; lo aveva capito, già all’inizio
della spedizione dei Mille, un frate siciliano, padre Carmelo, che declinò
l’invito del garibaldino Giuseppe Cesare Abba di unirsi alle camicie rosse
dicendogli:”Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero; ma
ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete
unire l’Italia…così è troppo poco.”[13]
Marcello Veneziani[14]
osserva, inoltre, che il Risorgimento provocò, per la sua preminente matrice
liberale ed anticlericale, anche ”la frattura con l’anima religiosa del
popolo italiano, la frattura con il mondo rurale e con i valori tipici di una
civiltà contadina, la frattura con il Meridione”.
Interessanti, a quest’ultimo proposito, le opinioni di
Denis Mack Smith e Paolo Mieli[15],
dice il primo: “Contrariamente alla versione raccontata sui libri della
storia ufficiale il popolo meridionale non partecipò al Risorgimento“ e
aggiunge il secondo: “La stagione risorgimentale e post-risorgimentale è
fatta di migliaia di morti, lotte, spari, massacri. Abbiamo vissuto una lunga
guerra civile, di reietti contro buoni. Il popolo, soprattutto dell’Italia
meridionale, è stato all’opposizione; lo era dai tempi delle invasioni
napoleoniche [le cosiddette “insorgenze” contro i francesi che causarono
decine di migliaia di vittime], c’erano stati moti molto forti, per
diciannove anni, sino al 1815. Il popolo rimase sordamente ostile, perché
legato all’autorità borbonica non percepita come nemica e alla Chiesa
cattolica, che era una delle fonti istituzionali alle quali abbeverarsi. Il
fenomeno ricordato nei nostri manuali come brigantaggio in realtà fu una guerra
civile che sconvolse l’intero Sud, gli sconfitti lasciarono le loro terre e
alimentarono la gigantesca emigrazione verso l’America “.
Nel giudizio storico sul distacco della popolazione
meridionale dagli ideali di lotta allo straniero e di unità nazionale bisogna,
al contrario di una superficiale e accusatoria storiografia ufficiale, mettere
in conto che, a parte la sparuta minoranza che aveva nell’animo l’ideale
unitario senza secondi fini utilitaristici, la massima parte dei meridionali,
dal sovrano al più umile dei sudditi erano consapevoli di essere indipendenti
da circa 800 anni, tanto contava il regno del Sud come età, e di avere, quindi,
già una Patria bella e formata da secoli, lo straniero (l’Austria) era molto
distante e non aveva più nessuna influenza, nè poteva minacciare le Due
Sicilie.
Ci voleva, quindi, un grosso sforzo di immaginazione
per pensare di poter mobilitare e soprattutto motivare uomini in armi
per un ideale assolutamente incomprensibile. Il fatto che poi questo ideale
unitario abbia prevalso nella realtà dei fatti, non vuol dire assolutamente che
fosse l’inevitabile conseguenza del “secolo delle nazionalità”, almeno nel modo
in cui si ottenne, tanto che anche molti accesi unitaristi affermarono che
l’unità d’Italia era stata, per lo svolgimento degli avvenimenti, come un
“terno a lotto” o un cosa che poteva riuscire una volta ogni cento anni…
Giuseppe Ressa
Note
[1] riportato da
Alessandro Vitale nel Supplemento al n.10 di “Liberal”, febbraio 2002
[2] “ La nazione
del Risorgimento”, Einaudi, 2000
[3] Roberto
Martucci, “L’invenzione dell’Italia unita”, Sansoni, 1999
[4] Marcello
Veneziani, Processo all’Occidente, ed. Sugarco, 1990, pag.225
[5] Giacomo
Brachet Contol, “La formazione di Francesco Faà di Bruno”, citato da Francesco
Pappalardo “Il mito di Garibaldi”, Piemme, 2002, pag. 94
[6] Girolamo
Arnaldi, L’Italia e i suoi invasori, Laterza, 2003, pag. 179
[7] Gigi Di Fiore,
I vinti del Risorgimento, UTET 2004, pag. 264
[8] Civiltà
Cattolica serie IV, vol. 7 (30 agosto 1860), p.647 riportata da Giovanni Turco
in “Brigantaggio, legittima difesa del Sud”, Il Giglio editore, 2000, pag. XX
[9] Denis Mack
Smith, citato da Michele Topa, Così finirono i Borbone di Napoli, Fiorentino,
1990, pag.508
[10] Giuseppe
Garibaldi, lettera del 3-8-1860, in Epistolario, vol. V p. 197 citato da
Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi, Piemme 2002, pag. 159
[11] in seguito fu
celebrato un nuovo processo presso la Corte di Assise di Catania che nel 1863
comminò altre 37 condanne, di cui molte a vita.
[12] Abba, Da
Quarto al Volturno, Oscar Mondadori, 1980, pagg.137-8
[13] ibidem,
pag.68-69
[14] citato da
F.M.Agnoli, “L’epoca delle Rivoluzioni”, Il Cerchio Itaca, 1999
[15] Dal quotidiano “La Stampa“ del 19 maggio 2001, pag. 23.
fonte http://www.ilportaledelsud.org/mr27.htm
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Posted by altaterradilavoro on Gen 30, 2019
Pareva che su Talleyrand tutto fosse stato detto, dopo l’opera
monumentale del Lacour-Gayet, di cui uscì , nel 1936, il quarto ed ultimo
volume. Non è così. Gli studi, e con
carattere monografico e documentario, si
susseguono e recano sempre nuova luce su
aspetti inesplorati di quella torbida personalità, in qualcuna delle sue azioni
rimaste ancora oscure. Sotto questo riguardo, di straordinaria
importanza è il volume “Napoléon et Talleyrand” di Emile Dard pubblicato dal
Plon , che colma qualche lacuna del Lacour-Gayet, mentre il “Talleyrand” del Saint-Aulaire edito dal Dounot si può riguardare come una felice
ricostruzione dell’opera diplomatica di
colui che più di ogni altro contribuì ad innalzare sul trono il Primo Console.
Che la figura morale dui Talleyrand sia
bella, nessuno penserà a sostenerlo. Prete senza vocazione, vescovo senza
coscienza spirituale, donnaiuolo, cupidissimo di ricchezze, opportunista fino
al cinismo, mancante di dignità personale : questi suoi connotati non cambiano
per la considerazione del suo spirito, della sua “politesse”, della sua
uimperturbabilità. L’una e l’altra serie di qualità sono condensate nel famoso
detto, ch’egli sarebbe stato capace di ricevere un calcio dietro senza un
movimento dei muscoli del viso.
Politicamente, il ministro del Direttorio e
di Napoleone sembra mancare di personalità. Tanto la costituzione
direttoriale,, quanto quella consolare ed imperiale, erano così congegnate, che
i ministri non erano propriamente uomini di governo, ma, diremmo oggi,
direttori o segretari generali : semplicemente esecutori della politica altrui.
Di Talleyrand in particolare, lo Chateaubriand
ha detto che “sottoscriveva agli avvenimenti, non li faceva”.. E un agente
segreto, nel 1801, affermava, di lui, che se avesse cessato di essere lo strumento di un trionfatore, l’uomo sarebbe
apparso in tutta la sua mediocrità.
Sta il fatto, però, che quest’uomo al
Congresso di Vienna, che pure riuniva sovrani vittoriosi e pieni della propria
missione, come Alessandro, e politici come Metternich, esercitò una parte di
prim’ordine. Rappresentante del Paese sconfitto,, egli non solo acquistò ad
esso la parità di rango, ma addirittura
una funzione direttiva. Prima ancora, era stato l’artefice
principale della restaurazione
borbonica,, in un momento in cui Luigi
XVIII era lontano dal rappresentare,
agli occhi dell’universo, l’unica soluzione. E ancora nel 183°, già prossimo
agli ottanta anni, egli è uno dei pilastri della nuova monarchia tricolore :
ambasciatore a Londra, in comunicazione diretta e costante con Luigi Filippo,
festeggiato ed esaltato dalla società londinesew, realizza l’ “entente
cordiale” con l’Inghilterra e la costituzione del Belgio indipendente. Tutto
ciò non è da uomo di secondo o terz’ordine.
Il ministro delle mance
Diremo, dunque, che Talleyrand si è maturato
alla scuola di Napoleone ? Sarebbe un’assurdità. Le sue qualità maestre, lo
spirito della sua polòitica sono agli antipodi dello spirito napoleonico. Se
l’ex-ministro dell’Imperatore duiviene, nel 1814, uno dei protagonisti della
politica europea, ciò è divuto al fatto che l’Europa, dopo un ventennio di
rivoluzioni, di guerre, di agitazioni illòimitate, sentiva il bisogno di un
ritorno all’ordine, all’equilibrio, alla ragione, alle tradizioni del secolo
XVIII. Queste tradizioni Talleyrand le impersonava superiormente, con in più le
esperienze dell’agitatissimo periodo intermedio.
Talleyrand è, in certa midsura, l’ “ancien régime”
che ritorna, na un “ancien régime” raffinato, addolcito, adattato ai tempi; un
“ancuien régime che ha letto Montesqueu e subìto l’influsso di Voltaire; un
“ancien régime” con la Carta, l’uguaglianza davanti la legge, la libertà dei
culti. Non è un caso che, sotto i
Borboni restaurati, Talleyrand passi ben presto nello sfondo della scena
politica e torni ad emergere solo con la monarchi orleanista, Dell’assunzione
al trono di Luigi Filippo egli fu uno dei fautori.. E ancora una volta era una
parziale rivincita del Settecento
sull’Ottocento . la rivoluzione si piegava all’ordine. Invece della
democrazia trionfava il “giusto mezzo”. L’ideale cui ci si ispirava non era la
Francia repubblicana e rivoluzionaria, msa l?Inghilterra
monarchico-costituzionale, a cui già Montesqueu e Voltaire avevano
guuardato come a maestra.
Come mai uno spirito simile rimase, per
quasi un decennio, a fianco del Bonaparte, che ne rappresentava l’antitesi ? La
risposta comune è sbrigativa : Talleyrand era un opportunista, che pensava
soprattutto alla sua posizione mondana e a far quattrini. Il servizio di Napoleone lo provvedeva benissimo sotto
l’uno e l’altro aspetto e ciò gli bastava. Il Lacour.
-Gayet ci fa, di tanto
in tanto, l’elenco degli onori piovuti sull’ex-vescovo di Autun e il computo
dei milioni da lui guadagnati con la rendita delle sue cariche, con i giuochi
di borsa, con le “mance” sontuose dei sovrani stranieri.
Tutto questo è vero, ma non è tutto il vero.
Intanto, se Napoleone lo tenne a lungo e lo apprezzò altamente (parliamo di
apprezzamento intellettuale), se il suo giudizio sula capacità di lui non variò neppure a Sant’Elena, vuol dire che in
questo spirito così diverso dal suo aveva trovato una sorta di completamento.
La moderazione del ministro serviva,
presso i sovrani e i diplomatici stranieri, a rivestire di formule
plausibili la smoderatezza del Cesare,
le cui pretese assumevano, per l’abilità di Talleyrand, parvenza di ragione. La
diplomazia del Talleyrand era la
forma razionale di una politica
sostanzialmente irrazionale .
Ritiro o congedo
Ma quel che più conta è che , ad un cero
punto, Napoleone e Talleyrand si
divisero. I motivi del distacco non sono raccontati in maniera uguale dall’uno e dall’altro :
quel che per il ministro è ritiro, per l’imperatore è congedo. Un fatto, però,
è fuori di ogni dubbio : fin dal 1808, Talleyrand consuma intimamente il
divorzio dalla politica
napoleonica. Al Congresso di Erfurt (24
settembre – 14 ottobre 1808) egli prende
una posizione nettamente antinapoleonica. Si può parlare di tradimento vero e
proprio ? E’ dubbio. La maggioranza
degli storici francesi, ostinatissimi a
trovare scuse e attenuanti petr Talleyrand, lo esclude. E fose non hanno torto. Ad Erfurt si poteva
ancora scorgere nel dualismo fra Napoleone e il suo ministro un contrasto di
concezioni. Si sa che il dissenso aveva origini remote. Risale alla rottura
della pace di Amiens, cui seguì la ripresa della guerra continentale, giudicata
dal Talleyrand un gravissimo erroire.
“Talleyrand è disperato, si legge
in un rapporto segreto del Lucchesini, del 14 settembre 1805, e se
potesse evitare la guerra riguarderebbe questa circostanza come la maggior
gloria del suo ministero”.
Comunque sia, al Congresso di Erfurt inizia
una vera e propria politica personale…
La dsua formula è questa : la Francia prima di Napoleone.
Ad Erfurt Napoleone cercava soprattutto due
cose : l’assicurazione dello zar Alessandri che l’Austria sarebbe stata tenuta
a bada durante la campagna di Spagna e la mano della sorella maggiore dello zar
stesso,,, la granduchessa Caterina. Questo l’incarico affidato a Talleyrand.
Non se ne fece nulla. Assecondato da Caulaincourt, che sembra essere stato il
suo zimbello più ancora che il suo complice., Talleyrand mandò all’aria
entrambi i disegni. Alessandro non prese
nessun impegno e la granduchessa Caterina
si fidanzò, un mese dopo,, con il principe Oldenburg.
Come sempre, l’azione di Talleyrand fu
abilissima, tanto è vero che Napoleone non sospettò mai del tradimento di
Erfurt. Nel dicembre del 1812, nella slitta di Smorgoni, alla presenza di
Caulancourt, egli attribuiva alle chiacchiere inconsiderate del maresciallo
Lannes le resistenze opposte ad Erfurt dall’imperatore della Russia così alle
sue blandizie come alle sue minacce. Calaincourt dovette esserne ben sorpreso.
Nell’atteggiamento di Talleyrand ad Erfurt
non c’era nulla di improvvisato. Prima di partire per il Congresso, Talleyrand
aveva avuto dei lunghi colloqui con Metternich, ambasciatore d’Austria a
Parigi. Sulla natura di queste relazioni gettano molta luce i dispacci
riservati e cifrati che il Metternich inviava da Parigi all’imperatore
Francesco II e al suo ministro degli Esteroim Stadion,, nei quali dava precisi ragguagli dei suoi colloqui con il
Talleyrand. Questi dispacci furono omessi o pubblicati frammentariamente nelle
“Memorie” di Metternich, edite nel 188°. E’ merito del Dard averli tratti
dall’iblìo degli Archivi di Vienna e largamente utilizzati in questa opera di
rigorosa documentazione. Racconta il Metternich, in uno di questi dispacci,
immediatamente precedente la partenza di Talleyrand per il Congresso di Erfurt,
che fin dal 1805 Talleyrand “aveva concepito il disegno di opporsi con tutta la
sua possibile influenza ai piani distruttori di Napoleone”. E precisa :
“Dobbiamo a lui, unicamente a lui, certe particolarità più o meno favorevoli
del negoziato di Presburgo.. Egli si oppose più a lungo che potè alla campagna
contro la Prussia”. Metternich ricorda parimenti le ripetute insistenze di
Talleyrand perché l’imperatore Francesco
II o lui stesso si recassero a Erfurt per “dare soggezione” a Napoleone.
Legion d’Onore e Toson d’Oro
Su un particolare cospicuo per un austriaco,
Metternich fece resistenza durante quei colloqui. A proposito dello scambio
della Legion d’onorew e del Toson d’oro fra i due imperatori e i ri spettivi
ministri : “Sapete quel che farei al vostro posto? “ gli didsse Talleyrand. “Io
proporrei lo scambio degli ordini. L’Imperatore attribuisce grande importanza a
tutto ciò che viene dalla vostra Corte,
da signori di antica razza”. La trisposta di Metternich fu glaciale. “Gli
statuti del Tosone esigono cinquesento anni di nobiltà. Voi siete il solo che possa
aspirarvi”. E la cosa restò lì. Il 24 settembre Metternich postilla :
“Talleyrand non tradisce ancora. Fa un po’ di fronda e vuol dirigere”.
Appena tornato da Erfurt, alla fine di
ottobre, Talleyrand mette segretamente Metternich al corrente di tutto quanto
si è fatto al Congresso e della parte decisiva ch’egli vi ha dispiegato. “La
Russia, gli dice, non sarà più trascinata contro di voi. Solo la più stretta
unione fra Austria e la Russia può salvare quanto ancora rimane della
indipendenza dell’Europa”.
Ai primi di novembre del 1808 Napoleone
parte per la Spagna, dopo aver raccomandato, in piena buona fede, a Talleyrand
di imbandire, quattro volte la settimana, un pranzo di trentasei coperti, a
ministri, consiglieri di Stato, membri del Senato e del Corpoi legislativo. La
consegna era precisa : “ Dovete metterli a contatto fra di loro, dovere studiarli e assecondare le loro
disposizioni”.
Le periodiche imbandigioni ci furono, ma
servirono a scopi del tutto diversi. Non occorre ricordare che nel
comportamento di Talleyrand la cortigianeria più umile procedeva, di pari
passo, con il tradimento. In occasione della vittoria di Somo-Sierra, egli si
felicita con Napoleone e gli augura di arrivare, s più presto, a Madrid. Questo
era l’atteggiamento ufficiale. Ben diverso quello dell’intimità. A quattr’occhi
con Champagny e con Maret le sue critiche erano spietate. Alla presenza di
Beugnot, nelle sale di Madama Rémusat, dove soleva troneggiare come un oracolo,
Talleyrand si effondeva in recriminazioni su quello che egli chiamava “l’errore
irreparabile “ dell’Imperatore.
Fu proprio in uno di quei banchetti ordinati
da Napoleone perché Talleyrand alimentasse i sentimenti di lealtà degli alti
funzionari, che, una sera, i convitati videro arrivcare, con indicibile
sorpresa, Fouché. Non erano da gran tempo in pessimi rapporti ? Fra lo stupore
crescente dei presenti, il principe di Benevento prese ostentatamente il duca
di Otranto sotto il braccio e i due personaggi passeggiarono a lungo, avanti ed
indietro per le sale, ragionando amichevolmente, perché la loro riconciliazione
apparisse a tutti piena ed assoluta. E la riconciliazione c’era di fatto.
L’aveva favorita e aiutata il D’Hauterive, antico oratoriano come Fouché e
vecchio amico di Talleyrand, in quel momento capodivisione al Ministero degli
Esteri.
Si sarebbe potuto pensare che la consegna
lasciata da Napoleone, al momento della sua partenza per la Spagna, al suo
MInistro, fosse religiosamente rispettata, se Talleyrand passava sopra ai suoi
rancori personali e invitava alla sua tavola l’avversario di così lunga data. Ma sì! Quale era la posta
della riconciliazione ? L’eventuale successione dell’Imperatore! Sotto
l’apparenza dell’adempimento letterale
degli ordini imperiali, Talleyrand faceva, dei convegni settimanali,
l’occasione delle sue trame.
Dai tempi di Marengo,,, in Talleyrand non
c’era che una sola ptreoccupazione: chi avrebbe potuto sostituire Napoleone ?
L’eventualità era ora più prossima, forse, che mai. Non poteva, Napoleone, da un momento all’altro, essere colpito in
battaglia?
A buon conto,, dalle conversazioni di
Tallewyrand e di Fouché, riconciliati
nei simposiiii settimanali,, uscì una lettera che doveva avvertire Murat
perché si tenesse pronto alla prima chiamata. Ma Eugenio di Beauuharnais, messo
sull’avviso da Lavalette,, intercettò la lettera e la fece pervenire
all’Imperatore. Dal canto suo, Madama Letizia, avendo colto al volo alcune
parole d’intesa fra Talleyrand e Fouché, in casa della principessa di Vaudemont, prevenne suo
figlio.
L’orecchio di Metternich
Metternich stava con l’orecchio teso. Egli
era particolarmente stimolato da Carolina Murat. Le circostanze gli parvero
così gravi che decise di partire per Vienna, alla fine di novembre, per
renderne conto a Corte. Gli armamenti ripresero febbrilmente in Austria e la
guerra fu decisa, in linea dii principio, per la primavera seguente, fermo
restando che la parte di aggressore fosse lasciata a Napoleone. Per quanto riguardava Talleyrand,, limperatore
Francesco e Stadion rimasero sbalorditi ed esitanti. “E’ possibile che costui
lavori nel senso del suo padrone? Che lo serva per una via che, per quanto
divergente all’apparenza, può finire col mirare al medesimo scopo, evitare,
cioè, complicazioni alla Francia, cullandoci in speranze chimeriche? Oppuure
segue una sua direttiva personale, condivisa da altri personaggi eminenti dello
stato ? Comunque sia, seguire una linea di massima prudenza : mai sbilanciarsi,
non prestar fede senza solidi pegni”.
Queste le istruzioni impartite a Metternich.
Ritornato a Parigi, Metternich scrive, l’11
gennaio 1809 : “Ho trovato la persona in questione (Talleyrand) nelle medesime
condizioni di spirito nelle quali l’aveva lasciata. Nessun dubbio che tutte le
alternative sono state “eventualmente” calcolate. Non si provocheranno
catastrofi, ma si saprà trarre profitto da quelle che potrebbero verificarsi.
Questa la sostanza delle nostre conversazioni. Si giudica buono l’atteggiamento
dell’Austria. Si consiglia di mantenerlo sempre così energico”.
Una settimana dopo, ilm 17 gennaio, dopo un
colloquio con Talleyrand, Metternich scrive al suo ministro a Vienna : “X
(TAlleyrand) e il suo amico (Fouché9 sono sempre gli stessi, decisissimi
qualora l’occasione si oresenti da sè, mancando un coraggio abbastanza attivo
per provocarla”. L’occasione era la morte di Napoleone! Ma che cosa intendeva
Metternich per “coraggio attivo” ? Si deve ritenere che fosse, non diversamente
dagli agenti inglesi sotto il Consolato, per il “colpo essenziale” ? E’ un
punto oscuro.
Non si perde tempo. Il 20 gennaio Talleyrand
mostra a Metternich una lettera di Fouché, nella quale si dice che sulla strada
di Baiona sono stati ordinati dei cavalli per un generale. “Questo generale è
l’Imperatore”. Talleyrand comunica ancora dei rapporti di Champagny e uina
lettera di Dalberg, il quale informa “che la Germania si riscalda sempre più”.
“Talleyrand”, conclude Metternich, “raccomanda
di non lasciarci prevenire da Napoleone se questi è veramente deciso a
farci la guerra”.
Quel generale era proprio Napoleone.
Bruciando le tappe, Napoleone arriva a Parigi, il 23 gennaio, furibondo. Aveva
saputo delle riserve, delle critiche, del “disfattismo”, si direbbe oggi,, di
Talleyrand durante la sua assenza. Nel pomeriggio del 28 gennaio, chiama nel
suo gabinetto Cambacérès, Lebrun, l’ammiraglio Decrès, Fouché e Talleyrand. Aveva deciso di liquidare il
suo ministro degli esteri.
FRa Napoleone e il suo ministro si svolse
una scena di una violenza inaudita. Secondo Pasquier, durò mezz’ora; secondo
altri, più ore. E’ stata riferita da Pasquier, che ne aveva avuto l’esatto
resoconto da Decrès.
Napoleone incominciò con il lamentarsi seroamente che durante la
sua assenza si fossero svisati i fatti, si fosse parlato di una campagna
disgraziata, mentre la sua era stata una serie di successi, si fosse perfino
osato prospettare la possibilità di una successione. Ricordò i doveri dell’obbedienza e della
discrezione assoluta cui erano tenuti, nei suoi confronti, deputati, ministri,
alti dignitari dello Stato. E finalmente, non riuscendo più a contenersi,
camminando avanti e indietro, a grandi passi, gesticolano, urlando, si scagliò
su Talleyrand, immobile, appoggiato a un caminetto , a causa della sua gamba
inferma.
“Voi siete un ladro, un vigliacco, un uomo senza fede e senza Dio. Per tutta la
vostra vita avete mancato a tutti i
vostri doveri. Siete un traditore, avete ingannato tutti quanti. Non v’è nulla
di sacro per voi. Vendereste
perfino vostro padre. Vi ho colmato di benefici e in cambio sareste capace di qualsiasi cosa contro d i me. Da dieci mesi, immaginando che le mie cose di Spagna vadano
male, avete l’impudenza di andar
dicendo, anche a chi non lo vuol sapere,
che voi avete disapprovato l’impresa, mentre siete stato voi a darmene la prima idea e siete stato voi,
proprio voi, a consigliarmela con tanta
insistenza. E in quanto a quel
“disgraziato” (era così che Napoleone
designava il duca d’Enghien) chi mi
indicò il luogo del suo rigugio?
Chi mi incitò a infierire contro di lui ? Quali sono, dunque, i vostri piani ? Che cosa cercate ? Che cosa
sperate ? Osate dirlo una volta per tutte! Dovrei farvi a pezzi come un
bicchiere! Potrei farlo, ma vi disprezzo troppo!”.
Secondo Mollien, l’Imperatore avrebbe anche
soggiunto : “Ma perché non vi ho fatto appendere ai cancelli del Carrousel ? Ma
sono ancora in tempo ! Andate, non siete altro che dello sterco in una calza di
seta!”:
Secondo Metternich, Napoleone gli avrebbe
rimproverato anche la pace di Presburgo, definita “infame e opera dii
corruzione”.
Passando e ripassando davanti a
Talleyrand, dice Thiers, scagliandogli in viso, ogni volta, le parole più
offensive, accompagnate sempre da gesti minacciosi. Napoleone fece gelare di
spavento tutti i presenti e lasciò coloro che lo amavano pieni di dolore, al
vedere così avvilita la doppia dignità del trono e del genio.
Talleyrandi restò impassibile e muto.
Parecchi anni più tardi, l’ammiraglio Decrès non riusciva ancora a riaversi
dallo stupore che gli aveva ispirato simile padronanza di sè. Romantzoff,
scrivendo alla propria Corte, ammirava la “straordinaria disinvoltura”
dell’uomo.
Fu questa straordinaria padronanza di sè che
valse a Talleyrand una certa superiorità su Napoleone. Il silenzio del colpito
metteva l’Imperatore in una situazione niente affatto brillante e niente
affatto imperiale. Rimproverare al
proprio ministro i consigli dati, non equivaleva a riconoscersi colpevole di
averli seguiti ? Ad ogni modo, nella serie dei rimproveri manca l’accusa
specifica di tradimento. Chi può escludere che nell’immobilità del Talleyrand
non ci fosse il timore di sentirsela rinfacciare da un momento all’altro ?
Sulla soglia
Alla fine della scenata, Talleyrand si
accinse ad uscire lentamente dallo strudio imperiale. Il supremo affronto lo
raggiunse sulla soglia. Napoleone gli gridò alle spalle : “Non mi avete mai
detto che il duca di San Carlo è l’amante di vostra moglie”. Sotto l’ultima, sanguinosa staffilata,
Talleyrand si voltò di colpo e, senza scomporsi, replicò :” Non mi sarei mai
immaginato, Sire, che un simile particolare potesse comunque interessare la
vostra gloria e la mia”. E rivolgendosi
ai presenti, ancora esterrefatti :”Che peccato che unuomo così grande sia stato
così male educato!”:
Mentre usciva, Duroc gli si avvicinò per
chiedergli la sua chiave di ciambellano. Talleyrand evitò sempre di parlare
della terribile scena.. Non se ne confidò nemmeno con Metternich, che ne ebbe
conoscenza da altra parte. Nelle sue “Memorie” accenna vagamente a scene violente
che Napoleone gli avrebbe fatto in pubblico. “Nobn mi dispiacevano, poiché la
paura non è mai entrata nella mia anima. Sarei quasi tentato di dire che l’odio
che ostentava contro di me faceva più danno a lui che a me”.
La sera stessa Talleyrand corre dalle sua
fedeli amiche, Madame de Rémusat e la viscontessa di Laval. “E voi non vi siete gettato su di
lui? , avrebbe esclamato quest’ultima. “Ah, ci ho pensato; ma sono troppo
indolente per simili reazioni”. In realtà, la sua impassibilità era stata solamente
apparente. Tornato a casa, era stato preso da una sorta di collasso. E i medici
trepidarono per la sua vita. In nottata si riprese, riflettè e, a differenza di
Napoleone, operò.
L’indomani, domenica 29, va a trovare
Metternich. Un rapporto inedito dell’ambasciatore d’Austria getta piena luce
sulle decisioni prese da Talleyrand durante la notte. Il rapporto, in data 31
gennaio, era “riservato e cifrato”. Fu collocato fra i pieghi umidi e giunse a
Vienna poco decifrabile. Il ministro Stadion ne chiese un duplicato, che fu
inviato il 23 febbraio successivo.
Ecco
qualche tratto essenziale del rapporto di Metternich. “La tensione
incomincia a toccare il più alto
grado. Fino ad oggi l’Imperatore non ha
osato attaccare Fouché. La maniera stessa
che egli ha scelto per colpire
Talleyrand sta a provare che questi
opersonaggi hanno delle solide
basi. L’Imperatore mette la
corazza. Sarebbe infinitamente più facile mettere gli avversari nell’impossibilità di nuocere.
Se non lo fa, è segno che non osa. Ad ogni modo la sfida fra le due
parti è lanciata. X (Talleyrand) ha
gettato definitivamente la maschera al
mio cospetto. Mi pare decisissimo a non tergiversare. Due giorni fa mi ha detto che a suo giudizio era giunto il momento di agire. E che
riteneva suo dovere entrare in rapporti
diretti con l’Austria. Mi disse anche che altra volta aveva rifiutato le profferte del conte
Cobenzl. Ma che oggi le
accetterebbe. Il rifiuto di allora era
stato determinato dalla particolare posizione che occupava.
!Oramai”, concluse, “sono libero e le nostre cause sono solidali. Ve ne
parlo con tanta maggiore franchezza,
dato che sono persuaso sia vostra intenzione obbligarmi in qualche
modo”. Mi ha fatto capire che ha bisogno di qualche centinaio di migliaia di franchi, dato che l’Imperatore
l’ha scalzato fino alle fondamentacol
mantenimento dei principi spagnuoli e la compera della sua casa. Io gli ho
risposto che l’Imperatore (Francesco
I) non sarebbe stato alieno dal
dimostrargli la sua riconoscenza qualora si fosse messo al servizio della causa
comune. Rispose che questa era la sua e che non gli restava che di
vincere o di perire coin essa. “Siete sorpreso di queste mie dichiarazioni ?
” mi domandò. “Niente affatto!, gli
risposi, le considero, anzi, come un autentico impegno a lavorare per la causa
comune” ”.
Dopo di che Metternich chiede all’Imperatore di mandargli tre o quattrocentomila franchi in lettere di cambio a ordini ipotetici sull’Olanda. “Per quanto cospicua possa apparire tale somma, essa è sempre inferiore ai sacrifici ai quali siamo abituati. Immensi possono essere i risultati di un simile impiego”; E che i risultati fossero veramente di un’efficacia straordinaria, si desume da un altro dispaccio inviato da Metternich a Stadion , il 23 febbraio. “Non posso dilungarmi sull’utilità dei servizi di X da quando le nostre relazioni hanno assunto questo carattere. Prego V. E. di valutarli sulla scala puiù elevata. La persona che si è impegnata a farmi conoscere il dislocamento delle truppe non ha ancora potuto mantenere la parola”: ………..continua
Alfredo Saccoccio
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