Posted by altaterradilavoro on Mar 14, 2019
L’antica città di Sinuessa è venuta a trovarsi più volte nel pieno di una discussione storica che ancora non è stata definitivamente chiarita: è effettivamente esistito un episcopato sinuessano o si è trattato solo di una montatura storica? Molti sono stati gli studiosi che hanno accolto la tesi dell’esistenza di una diocesi a Sinuessa, altri studiosi l’hanno caldamente respinta. Ma andiamo per gradi.
Furono forse gli onnipresenti Pelasgi a fondare l’ antica Sinope, più tardi divenuta colonia romana col nome di Sinuessa. Secondo lo storico greco Strabone, la città fu fondata da coloni provenienti dalla Tessaglia, gli Aminei, che la chiamarono Sinope per la molle sinuosità della costa su cui sorse e che per primi iniziarono la coltivazione della vite e che più tardi rese celebre il vino Falerno. Nel 296 a.C. arrivarono i romani e ne fecero una colonia marittima, gemella della vicina Minturnae, e ne cambiarono il nome in Sinuessa, dal nome della nutrice di Nettuno, Sinoessa.
La funzione principale della colonia era quella di controllo del territorio e di difesa dagli attacchi dei Sanniti, ma l’ ubicazione sulla via Appia, il porto e le salutari acque sulfuree fecero sì che essa diventasse ben presto città di supremazia commerciale dell’ area e luogo di villeggiatura del patriziato romano.
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Sinuessa affluivano tutte produzioni della Campania settentrionale per essere
ridistribuite altrove. Vi affluiva soprattutto la produzione vinicola del
Falerno per essere esportata verso la capitale.
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Secondo Nugnes, qui morì l’imperatore Claudio, e non a Roma come comunemente si crede, avvelenato dalla consorte Agrippina che volle così assicurare l’impero a Nerone, suo figlio di primo letto. Nel 69 d.C. vi morì anche il feroce Tigellino, ministro di Nerone.
L’abbandono di Sinuessa non fu un fenomeno rapido, ma un fenomeno che richiese del tempo e a cui contribuirono diverse concause. Una di queste fu senz’altro un aggiramento della via Appia a favore di Suessa Aurunca che fece perdere a Sinuessa la sua posizione di supremazia commerciale e ne favorì l’abbandono. A questa causa economica vanno aggiunti i notevoli fenomeni di bradisismo che interessavano la zona e che dimezzarono di molto l’attività commerciale, ma anche i continui assalti delle feroci bande barbariche che ormai scorrazzavano lungo la penisola. La città fu probabilmente abbandonata definitivamente verso la fine del V sec. a causa delle strutture portuali rese inutilizzabili dall’insabbiamento (Eliodoro Savino).
Tra i ruderi della città, nei secoli passati fu scoperta una lapide marmorea con un epigramma in greco attribuito al poeta Pompeo Teofane Giuniore e tradotto in latino dall’ Abate Ottaviani:
Litoribus finitimam Sinuessanis Venerem
Hospes, rursus pelago cerne egredientem.
Templa mihi collucent per Eonem, quan olim sinu
Drusi, et uxoris enutrivit delicium domus.
Morum vero suadela, et desiderium abstraxit illius
Totus locus hilari aptus laetitiae,
Bacchi enim sedibus me contubernalem coronavit,
Ad me calicum tumorem attrahens.
Fontes vero circa pedem scatent lavacrorum,
Quos meus filius urit cum igne natans.
Ne me frustra, hostites, praetereatis vicinam
Mari, et Nymphis Venerem, et Baccho.
Eone, ancella o liberta di Druso ed Antonia, eresse un tempio a Venere per mettere sotto la sua protezione i commerci che in questa città aveva, tra cui terme ed alberghi, e invita gli ospiti ad onorare, con Ciprigna e Bacco, le Ninfe della salute di queste acque sinuessane. La statua della Venere posta nel tempio rappresentava la dea che emergeva dalle acque e perciò fu detta Anadiomene, o marina.
Come ben sappiamo, la Venere di cui parla l’epigramma, fu rinvenuta nel 1911 duranti dei lavori di sterro. Dopo una breve sosta al Museo Civico Archeologico “Biagio Greco” di Mondragone, ora è conservata al Museo Archeologico di Napoli.
Non si sa molto dell’evoluzione che la
colonia subì dopo il periodo romano. Molti studiosi ci raccontano alcuni
avvenimenti legati ad una supposta diocesi di Sinuessa, basandosi su documenti
che probabilmente sono dei falsi medioevali, come disserta il nostro Ugo Zannini in un suo studio molto interessante.
Lo studioso del XVII secolo Cesare Baronio, nei suoi Annali Ecclesiastici, è molto minuzioso nell’esporre le vicende legate a Marcellino papa, avvenute durante la feroce persecuzione di Diocleziano contro i cristiani.
Il Baronio ci dice che all’anno 303 di Diocleziano
sono datati gli atti di un concilio fatto a Sinuessa contro papa Marcellino I,
accusato da due presbiteri e un diacono di aver incensato agli dei pagani così
come imposto da un editto dell’imperatore. Il concilio si svolse nella Grotta
di Cleopatra, nei pressi di Sinuessa, perchè tutte le chiese cristiane
erano state distrutte e bruciate per ordine imperiale. Nella grotta si
radunarono 300 vescovi, cinquanta per volta al giorno, secondo la capienza del
luogo. In un primo tempo Marcellino negò la sua colpa, ma poi fu costretto ad
ammetterla e chiese ai vescovi di giudicarlo. La risposta definitiva dei
vescovi riportata negli atti fu: prima sedes non iudicabitur a quoquam, la
prima sede non può essere giudicata da alcuno.
Gli atti terminano dicendo che Diocleziano, saputo di questo Concilio in cui si erano radunati 300 vescovi, trenta preti e tre diaconi della chiesa romana, ne fece martirizzare molti di loro.
Se si accoglie la tesi che questi documenti siano dei
falsi storici, allora sorge una domanda molto spontanea. Qual’era lo scopo di
queste falsificazioni documentarie? Cosa volevano provare?
Due sono le posizioni che circolavano tra gli
studiosi. La prima asseriva che furono i donatisti,
zelanti scismatici, il cui ideale era una chiesa che soffre e il totale
distacco del clero dalla politica, a confezionare la storia del
Concilio di Sinuessa al fine di sostenere il loro pensiero. La seconda tesi
riguardava l’affermazione dell’ infallibilità papale che non può e non deve
essere giudicata da alcuno di inferiore posizione.
Anche le notizie riguardanti i martiri della supposta
chiesa sinuessana e quella sessana, S. Casto e Secondino, potrebbero non
essere veritiere, ma studi specifici al riguardo ci chiariranno meglio le idee.
fonte http://carinolastoria.blogspot.com/2011/
Alcuni testi consultati
Joannes
Bollandus – Acta Sanctorum Maii – vol. 18 – Roma. 1866
Acta Sanctorum Martii – vol. 6 – ? -1668
Acta Sanctorum Julii – vol. I, Parigi, 1719
Arthur Paul – Romans in Northern
Campania – Rome, 1991
Baronio Cesare – Annali
ecclesiastici – vol. I, Roma, 1656
Citti Francesco – Orazio, invito a
Torquato – Bari, 1994
Corcia Nicola – Storia delle Due Sicilie dall’antichità più remota al
1789, vol 2 – Napoli, 1845
De Luca Giuseppe – L’Italia
meridionale o l’antico Reame delle Due Sicilie – Napoli, 1860
Giannone Pietro – Istoria civile
del Regno di Napoli – Italia, 1821
Odescalchi Carlo – Difesa della
causa di S. Marcellino I – Roma 1819
Romanelli Domenico – Antica
topografia istorica del Regno di Napoli – Napoli, 1818
Salzano Maestro – Corso di storia
ecclesiastica – Milano,
1856
Savino Eliodoro – La Campania
tardoantica – Bari, 2005
Vacca Salvatore – Prima sedes a
nemine iudicatur – Roma, 1993
Zaccaria Francesco A. – Raccolta
di dissertazioni di storia ecclesiastica – Vol II – Roma, 1840
Zannini Ugo – La scomparsa di
Sinuessa e l’invenzione del suo episcopato – in Rivista Storica del
Sannio 23 – Napoli, 2005
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Posted by altaterradilavoro on Mar 14, 2019
La gradazione prevalente nella cena è quella grottesca che consiste nell’esagerazione di una caratteristica del personaggio. Il grottesco svilisce e degrada la complessità dell’umano. Una particolare forma di grottesco è quello caricaturale, tipico della descrizione letteraria come pure della pittura.
L’episodio centrale del Satyricon, quello che è rimasto nella sua forma integrale e che occupa gran parte del romanzo che ci è pervenuto, è la cena di Trimalchione, schiavo asiatico che fu tesoriere del suo padrone e fu liberato alla morte di questi divenendo anche erede di buona parte delle sue sostanze.
L’arricchimento non permette, però, a Trimalchione di ereditare anche raffinatezza, buon gusto e cultura. Trimalchione rimane comunque un parvenu, un arricchito che rivela il suo aspetto ignorante e rozzo fin da quando entra in scena e ogniqualvolta parli. Encolpio e Ascilto sono stati invitati al banchetto di Trimalchione grazie all’intercessione del retore Agamennone.
Petronio riserva alla narrazione e alla descrizione della cena il registro comico. È noto che il comico presenta diverse manifestazioni e gradazioni, una vasta varietà di forme, come il comico puro, l’umorismo, il grottesco, il caricaturale, l’ironia, il parossismo, il sarcasmo, la satira, la parodia.
La gradazione prevalente nella cena è quella grottesca che consiste nell’esagerazione di una caratteristica del personaggio tanto che la complessità della persona è ridotta ad un solo aspetto che viene presentato come la cifra che contraddistingue e definisce il personaggio stesso. Il grottesco svilisce e degrada la complessità dell’umano. Una particolare forma di grottesco è quello caricaturale, tipico della descrizione letteraria come pure della pittura.
Agli stipiti del triclinio sono affissi fasci con scuri. Ben visibile è un rostro navale in bronzo con l’iscrizione: “A C. Pompeo Trimalchione, seviro augustale, Cinnamo tesoriere” (capitolo 30). Gli oggetti e le iscrizioni hanno la finalità di esaltare la figura del padrone di casa additato come una persona predisposta al culto personale dell’imperatore (seviro augustale). A tavola gli invitati sono serviti da valletti di Alessandria dalla voce stridula, che sottopongono i banchettanti alla pedicure proprio al momento della cena.
Si tratta di comicità pura, che consiste nell’«avvertimento del contrario» (l’espressione è di Pirandello), cioè nella constatazione che una situazione è opposta a quanto noi ci aspetteremmo, constatazione che desta in noi una risata a crepapelle, irrefrenabile e indubbiamente irrispettosa. La scena appare comica e teatrale, più simile a “un coro di pantomima”, piuttosto che a un “triclinio di un padre di famiglia” (capitolo 31).
Vengono serviti finalmente gli antipasti con grande classe. Sono tutti in tavola, tranne il padrone di casa. Sul vassoio campeggia un “asinello in corinzio con bisaccia” con “olive bianche in una tasca, nere nell’altra”. L’asinello è ricoperto da due piatti con l’incisione del nome di Trimalchione e del peso dell’argento. Il padrone di casa vuole ostentare la ricchezza in tutti i modi. Vengono servite prelibatezze, come ghiri cosparsi di miele e papavero, susine di Siria con chicci di melagrana.
A questo punto in modo grottesco e comico entra in scena Trimalchione:
Si era alle prese con tali delizie, quando lui, Trimalchione, giunse lì trasportato a suon di musica, e come lo ebbero deposto tra guanciali minuscoli, chi fu colto alla sprovvista non si tenne dal ridere. Da un mantello scarlatto lasciava infatti sbucare la testa rapata e, intorno al collo, rinfagottato dall’abito, si era messo un tovagliolo con liste di porpora e frange spenzolanti qua e là. Aveva poi nel dito mignolo della mano sinistra un grosso anello placcato d’oro e nell’ultima falange del dito seguente un anello più piccolo, d’oro massiccio […]. E per non far mostra di quei preziosi soltanto mise a nudo il braccio destro, che era adorno di un’armilla d’oro e di un cerchio d’avorio con una lamina luccicante all’intorno (capitolo 32).
Il cattivo gusto di Trimalchione emerge non solo dagli atteggiamenti (si pulisce i denti con “uno stecchino d’argento”), ma anche dalle parole:
Amici […] ancora non mi era a grado venire nel triclinio, ma, per non farvi in mia assenza aspettare troppo, sacrificai tutto quanto mi piace. Permettete comunque che si finisca la partita.
La scacchiera è di terebinto con dadi di cristallo. Al posto delle pedine si utilizzano monete d’oro e d’argento. Tra una mossa e l’altra Trimalchione dà fondo “al vocabolario dei carrettieri” (capitolo 33). Il padrone di casa scherza con gli invitati fingendo di aver servito loro uova di pavone con il pulcino all’interno, mentre, invece, è un piatto prelibato.
La confusione cresce. Un valletto che ha il torto di aver fatto cadere un piatto viene frustrato. Trimalchione apostrofa gli schiavi con l’aggettivo “puzzoni”. Poi fa servire un vino “Falerno Opimiano di cent’anni”. Di prassi sul vino non è mai riportata l’età, ma l’annata. Una volta ancora dalla bocca del padrone di casa fuoriescono parole di cattivo gusto:
Ahi […] dunque il vino vive più a lungo dell’ometto! Ma allora facciamo le spugna. È vita il vino. E questo è Opimiano garantito. Ieri non ne ho servito di così buono, e sì che le persone a cena erano di molto più riguardo.
Trimalchione mostra uno scheletro e lo getta sulla tavola commentando:
Ahi, che miseri siamo, che nulla a pesarlo è l’ometto! Così saremo tutti quel giorno che l’Orco ci involi. Perciò viva la vita, finché si può star bene.
La scena è una parodia del memento mori e degli epicedi, ma anche di quei componimenti in versi che invitano ad amare e a godere la vita. Pensiamo al carme V del Liber catulliano.
I dialoghi che s’intrecciano alla mensa, le scene e i personaggi che appaiono descrivono il mondo volgare dei liberti arricchiti, infarcito di parole volgari e triviali, di discorsi che denotano il vero volto di quel mondo. Petronio non giudica quei personaggi, ma li ritrae. Sono i personaggi stessi che si fanno giudicare con i loro discorsi e i loro atteggiamenti. Si può parlare anche di tono satirico, perché l’autore presenta un aspetto del mondo romano, quello dei liberti arricchiti e che ricoprono talvolta posti di potere, tipico dell’età dell’impero di Claudio, spesso vilipeso per il peso che aveva concesso a questa classe sociale. La satira nasce dallo sdegno per la realtà, per un particolare aspetto della vita, della società, per vizi diffusi in un ambiente o in un personaggio.
La cena si conclude con un baccano assordante che richiama l’attenzione di pompieri in servizio presso il quartiere. Questi, pensando che fosse scoppiato un incendio, “sfondano subito la porta e si mettono a fare il loro solito caos a base di colpi di accetta e secchiate d’acqua”.
Nella cena di Trimalchione manca l’umorismo ovvero il «sentimento del contrario». Quando si vede una situazione che è l’antitesi di quanto ci aspetteremmo e subentra la riflessione che ci porta a capire le ragioni della stranezza di quanto vediamo, allora il nostro riso si tramuta in un sorriso che abbraccia e comprende le ragioni profonde dell’altro. L’umorismo ha il dono di liberare dalla forma o meglio di abbracciarla mostrando come essa non sia cifra definitiva dell’io, non lo imprigioni in maniera irreparabile.
Non sempre, però, l’uomo è capace di guardare gli altri con il rispetto tipico dell’umorismo. Ben più spesso l’io è definito e incastonato da chi osserva in una forma e in un modo di essere come accade, ad esempio, nella cena di Trimalchione con la descrizione caricaturale grottesca.
fonte http://lanuovabq.it/it/cena-di-trimalchione-madre-del-grottesco-e-del-kitsch
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