Nel lontano 28 luglio 1883 vi fu un disastroso terremoto in quel di Casamicciola sull’isola di Ischia. Un terremoto in cui persero la vita i genitori e la sorella del noto filosofo Benedetto Croce (1866-1952). Lui stesso fu investito dal crollo, ma ne uscì vivo dopo aver perso conoscenza.
Ecco il racconto che ne fece:
“Eravamo a tavola per la cena io la mamma, mia sorella ed il babbo che si accingeva a prendere posto. Ad un tratto come alleggerito, vidi mio padre ondeggiare e subito in un baleno sprofondare nel pavimento stranamente apertosi, mia sorella schizzare in alto verso il tetto. Terrorizzato cercai con lo sguardo mia madre che raggiunsi sul balcone dove insieme precipitammo e così io svenni..”
“Rinvenni a notte alta, e mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle, e vedevo intorno il terriccio giallo, e non riuscivo a raccapezzarmi su ciò ch’era accaduto, e mi pareva di sognare. Compresi dopo un poco, e restai calmo, come accade nelle grandi disgrazie. Chiamai al soccorso per me e per mio padre, di cui ascoltavo la voce poco lontano; malgrado ogni sforzo, non riuscii da me solo a districarmi.”
“Verso la mattina (ma più tardi), fui cavato fuori, se ben ricordo, da due soldati e steso su una barella all’aperto. Lo stordimento della sventura domestica che mi aveva colpito, lo stato morboso del mio organismo che non pativa di alcuna malattia determinata e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere, gl’incerti concetti sui fini e sul significato del vivere, e le altre congiunte ansie giovanili, mi toglievano ogni lietezza di speranza e m’inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane.”
Alla morte di Benedetto Croce, la nota mistica Natuzza Evolo (1924-2009) raccontò di aver ricevuto una visione del filosofo il quale le disse di essere stato condannato all’inferno per aver rifiutato in vita le tante occasioni di conversione e che avrebbe voluto accettare tante penitenze per quanti sono i granelli di sabbia pur di liberarsi da quel luogo di dannazione.
Non sappiamo se questa visione sia attendibile, per tutta una serie di motivi che non stiamo qui ad elencare. E’ però purtroppo verosimile perché il giudizio di Dio è sempre tarato in base ai talenti che si ricevono e che costituiscono una grande responsabilità. Croce, pur riconoscendo il valore culturale del Cattolicesimo, non volle mai essere un cattolico. Dicevamo: non possiamo sapere se effettivamente questa visione sia attendibile (speriamo non lo sia), resta il fatto che se Croce fosse morto nell’occasione del terremoto (aveva solo 17 anni), è altamente probabile che il suo destino eterno sarebbe stato diverso.
Lo ripetiamo: speriamo che ciò che abbia visto la Evolo non sia rispondente alla realtà, ma questo ci permette una riflessione molto importante: nella prospettiva dell’eternità ciò che giudichiamo disgrazie possono essere grazie e ciò che giudichiamo grazie possono essere disgrazie.
Dal 21 al 24 febbraio 2019, su invito di Papa Francesco, si sono riuniti in Vaticano i presidenti di tutte le conferenze episcopali del mondo per riflettere insieme sulla crisi della fede e della Chiesa avvertita in tutto il mondo a seguito della diffusione delle sconvolgenti notizie di abusi commessi da chierici su minori. La mole e la gravità delle informazioni su tali episodi hanno profondamente scosso sacerdoti e laici e in non pochi di loro hanno determinato la messa in discussione della fede della Chiesa come tale. Si doveva dare un segnale forte e si doveva provare a ripartire per rendere di nuovo credibile la Chiesa come luce delle genti e come forza che aiuta nella lotta contro le potenze distruttrici.
Avendo io stesso operato, al momento del deflagrare pubblico della crisi e
durante il suo progressivo sviluppo, in posizione di responsabilità come
pastore nella Chiesa, non potevo non chiedermi – pur non avendo più da Emerito
alcuna diretta responsabilità – come, a partire da uno sguardo retrospettivo,
potessi contribuire a questa ripresa. E così, nel lasso di tempo che va
dall’annuncio dell’incontro dei presidenti delle conferenze episcopali al suo
vero e proprio inizio, ho messo insieme degli appunti con i quali fornire
qualche indicazione che potesse essere di aiuto in questo momento difficile. A
seguito di contatti con il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, e con
lo stesso Santo Padre, ritengo giusto pubblicare su “Klerusblatt” il testo così
concepito.
Il mio lavoro è suddiviso in tre parti. In un primo punto tento molto
brevemente di delineare in generale il contesto sociale della questione, in
mancanza del quale il problema risulta incomprensibile. Cerco di mostrare come
negli anni ’60 si sia verificato un processo inaudito, di un ordine di grandezza
che nella storia è quasi senza precedenti. Si può affermare che nel ventennio
1960-1980 i criteri validi sino a quel momento in tema di sessualità sono
venuti meno completamente e ne è risultata un’assenza di norme alla quale nel
frattempo ci si è sforzati di rimediare.
In un secondo punto provo ad accennare alle conseguenze di questa
situazione nella formazione e nella vita dei sacerdoti.
Infine, in una terza parte, svilupperò alcune prospettive per una giusta
risposta da parte della Chiesa.
I
Il processo iniziato negli anni ’60 e la teologia morale
La situazione ebbe inizio con l’introduzione,
decretata e sostenuta dallo Stato, dei bambini e della gioventù alla
natura della sessualità. In Germania Käte Strobel, la Ministra della
salute di allora, fece produrre un film a scopo informativo nel quale
veniva rappresentato tutto quello che sino a quel momento non poteva
essere mostrato pubblicamente, rapporti sessuali inclusi. Quello che in un
primo tempo era pensato solo per informare i giovani, in seguito, come
fosse ovvio, è stato accettato come possibilità generale.
Sortì effetti simili anche la “Sexkoffer” [valigia del sesso] curata dal
governo austriaco. Film a sfondo sessuale e pornografici divennero una realtà,
sino al punto da essere proiettati anche nei cinema delle stazioni. Ricordo
ancora come un giorno, andando per Ratisbona, vidi che attendeva di fronte a un
grande cinema una massa di persone come sino ad allora si era vista solo in
tempo di guerra quando si sperava in qualche distribuzione straordinaria. Mi è
rimasto anche impresso nella memoria quando il Venerdì Santo del 1970 arrivai
in città e vidi tutte le colonnine della pubblicità tappezzate di manifesti
pubblicitari che presentavano in grande formato due persone completamente nude
abbracciate strettamente.
Tra le libertà che la Rivoluzione del 1968 voleva conquistare c’era anche
la completa libertà sessuale, che non tollerava più alcuna norma. La
propensione alla violenza che caratterizzò quegli anni è strettamente legata a
questo collasso spirituale. In effetti negli aerei non fu più consentita la
proiezione di film a sfondo sessuale, giacché nella piccola comunità di
passeggeri scoppiava la violenza. Poiché anche gli eccessi nel vestire
provocavano aggressività, i presidi cercarono di introdurre un abbigliamento
scolastico che potesse consentire un clima di studio.
Della fisionomia della Rivoluzione del 1968 fa parte anche il fatto che la
pedofilia sia stata diagnosticata come permessa e conveniente. Quantomeno per i
giovani nella Chiesa, ma non solo per loro, questo fu per molti versi un tempo
molto difficile. Mi sono sempre chiesto come in questa situazione i giovani
potessero andare verso il sacerdozio e accettarlo con tutte le sue conseguenze.
Il diffuso collasso delle vocazioni sacerdotali in quegli anni e l’enorme
numero di dimissioni dallo stato clericale furono una conseguenza di tutti
questi processi.
Indipendentemente da questo sviluppo, nello
stesso periodo si è verificato un collasso della teologia morale cattolica
che ha reso inerme la Chiesa di fronte a quei processi nella società.
Cerco di delineare molto brevemente lo svolgimento di questa dinamica.
Sino al Vaticano II la teologia morale cattolica veniva largamente fondata
giusnaturalisticamente, mentre la Sacra Scrittura veniva addotta solo come
sfondo o a supporto. Nella lotta ingaggiata dal Concilio per una nuova
comprensione della Rivelazione, l’opzione giusnaturalistica venne quasi
completamente abbandonata e si esigette una teologia morale completamente
fondata sulla Bibbia. Ricordo ancora come la Facoltà dei gesuiti di
Francoforte preparò un giovane padre molto dotato (Bruno Schüller) per
l’elaborazione di una morale completamente fondata sulla Scrittura. La
bella dissertazione di padre Schüller mostra il primo passo
dell’elaborazione di una morale fondata sulla Scrittura. Padre Schüller
venne poi mandato negli Stati Uniti d’America per proseguire gli studi e
tornò con la consapevolezza che non era possibile elaborare
sistematicamente una morale solo a partire dalla Bibbia. Egli tentò
successivamente di elaborare una teologia morale che procedesse in modo
più pragmatico, senza però con ciò riuscire a fornire una risposta alla
crisi della morale.
Infine si affermò ampiamente la tesi per cui la morale dovesse essere
definita solo in base agli scopi dell’agire umano. Il vecchio adagio “il fine
giustifica i mezzi” non veniva ribadito in questa forma così rozza, e tuttavia
la concezione che esso esprimeva era divenuta decisiva. Perciò non poteva
esserci nemmeno qualcosa di assolutamente buono né tantomeno qualcosa di sempre
malvagio, ma solo valutazioni relative. Non c’era più il bene, ma solo ciò che
sul momento e a seconda delle circostanze è relativamente meglio.
Sul finire degli anni ’80 e negli anni ’90 la crisi dei fondamenti e della
presentazione della morale cattolica raggiunse forme drammatiche. Il 5 gennaio
1989 fu pubblicata la “Dichiarazione di Colonia” firmata da 15 professori di
teologia cattolici che si concentrava su diversi punti critici del rapporto fra
magistero episcopale e compito della teologia. Questo testo, che inizialmente
non andava oltre il livello consueto delle rimostranze, crebbe tuttavia molto
velocemente sino a trasformarsi in grido di protesta contro il magistero della
Chiesa, raccogliendo in modo ben visibile e udibile il potenziale di
opposizione che in tutto il mondo andava montando contro gli attesi testi
magisteriali di Giovanni Paolo II (cfr. D. Mieth, Kölner Erklärung,
LThK, VI3,196).
Papa Giovanni Paolo II, che conosceva molto bene la situazione della
teologia morale e la seguiva con attenzione, dispose che s’iniziasse a lavorare
a un’enciclica che potesse rimettere a posto queste cose. Fu pubblicata con il
titolo Veritatis splendor il 6 agosto 1993 suscitando violente reazioni
contrarie da parte dei teologi morali. In precedenza, già c’era stato il Catechismo
della Chiesa cattolica che aveva sistematicamente esposto in maniera
convincente la morale insegnata dalla Chiesa.
Non posso dimenticare che Franz Böckle – allora fra i principali teologi
morali di lingua tedesca, che dopo essere stato nominato professore emerito si
era ritirato nella sua patria svizzera –, in vista delle possibili decisioni di
Veritatis splendor, dichiarò che se l’Enciclica avesse deciso che ci
sono azioni che sempre e in ogni circostanza vanno considerate malvagie, contro
questo egli avrebbe alzato la sua voce con tutta la forza che aveva. Il buon
Dio gli risparmiò la realizzazione del suo proposito; Böckle morì l’8 luglio
1991. L’Enciclica fu pubblicata il 6 agosto 1993 e in effetti conteneva
l’affermazione che ci sono azioni che non possono mai diventare buone. Il Papa
era pienamente consapevole del peso di quella decisione in quel momento e,
proprio per questa parte del suo scritto, aveva consultato ancora una volta
esperti di assoluto livello che di per sé non avevano partecipato alla
redazione dell’Enciclica. Non ci poteva e non ci doveva essere alcun dubbio che
la morale fondata sul principio del bilanciamento di beni deve rispettare un
ultimo limite. Ci sono beni che sono indisponibili. Ci sono valori che non è
mai lecito sacrificare in nome di un valore ancora più alto e che stanno al di
sopra anche della conservazione della vita fisica. Dio è di più anche della
sopravvivenza fisica. Una vita che fosse acquistata a prezzo del rinnegamento
di Dio, una vita basata su un’ultima menzogna, è una non-vita. Il martirio è
una categoria fondamentale dell’esistenza cristiana. Che esso in fondo, nella
teoria sostenuta da Böckle e da molti altri, non sia più moralmente necessario,
mostra che qui ne va dell’essenza stessa del cristianesimo.
Nella teologia morale, nel frattempo, era peraltro divenuta pressante
un’altra questione: si era ampiamente affermata la tesi che al magistero della
Chiesa spetti la competenza ultima e definitiva (“infallibilità”) solo sulle
questioni di fede, mentre le questioni della morale non potrebbero divenire
oggetto di decisioni infallibili del magistero ecclesiale. In questa tesi c’è
senz’altro qualcosa di giusto che merita di essere ulteriormente discusso e
approfondito. E tuttavia c’è un minimum morale che è inscindibilmente
connesso con la decisione fondamentale di fede e che deve essere difeso, se non
si vuole ridurre la fede a una teoria e si riconosce, al contrario, la pretesa
che essa avanza rispetto alla vita concreta. Da tutto ciò emerge come sia messa
radicalmente in discussione l’autorità della Chiesa in campo morale. Chi in
quest’ambito nega alla Chiesa un’ultima competenza dottrinale, la costringe al
silenzio proprio dove è in gioco il confine fra verità e menzogna.
Indipendentemente da tale questione, in ampi settori della teologia morale
si sviluppò la tesi che la Chiesa non abbia né possa avere una propria morale.
Nell’affermare questo si sottolinea come tutte le affermazioni morali avrebbero
degli equivalenti anche nelle altre religioni e che dunque non potrebbe
esistere un proprium cristiano. Ma alla questione del proprium di
una morale biblica, non si risponde affermando che, per ogni singola frase, si
può trovare da qualche parte un’equivalente in altre religioni. È invece
l’insieme della morale biblica che come tale è nuovo e diverso rispetto alle
singole parti. La peculiarità dell’insegnamento morale della Sacra Scrittura
risiede ultimamente nel suo ancoraggio all’immagine di Dio, nella fede
nell’unico Dio che si è mostrato in Gesù Cristo e che ha vissuto come uomo. Il
Decalogo è un’applicazione alla vita umana della fede biblica in Dio. Immagine
di Dio e morale vanno insieme e producono così quello che è specificamente
nuovo dell’atteggiamento cristiano verso il mondo e la vita umana. Del resto,
sin dall’inizio il cristianesimo è stato descritto con la parola hodòs.
La fede è un cammino, un modo di vivere. Nella Chiesa antica, rispetto a una
cultura sempre più depravata, fu istituito il catecumenato come spazio di
esistenza nel quale quel che era specifico e nuovo del modo di vivere cristiano
veniva insegnato e anche salvaguardato rispetto al modo di vivere comune. Penso
che anche oggi sia necessario qualcosa di simile a comunità catecumenali
affinché la vita cristiana possa affermarsi nella sua peculiarità.
II
Prime reazioni ecclesiali
Il processo di dissoluzione della concezione
cristiana della morale, da lungo tempo preparato e che è in corso, negli
anni ’60, come ho cercato di mostrare, ha conosciuto una radicalità come
mai c’era stata prima di allora. Questa dissoluzione dell’autorità
dottrinale della Chiesa in materia morale doveva necessariamente
ripercuotersi anche nei diversi spazi di vita della Chiesa. Nell’ambito
dell’incontro dei presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il
mondo, interessa soprattutto la questione della vita sacerdotale e inoltre
quella dei seminari. Riguardo al problema della preparazione al ministero
sacerdotale nei seminari, si constata in effetti un ampio collasso della
forma vigente sino a quel momento di questa preparazione.
In diversi seminari si formarono club omosessuali che agivano più o
meno apertamente e che chiaramente trasformarono il clima nei seminari. In un
seminario nella Germania meridionale i candidati al sacerdozio e i candidati
all’ufficio laicale di referente pastorale vivevano insieme. Durante i pasti
comuni, i seminaristi stavano insieme ai referenti pastorali coniugati in parte
accompagnati da moglie e figlio e in qualche caso dalle loro fidanzate. Il
clima nel seminario non poteva aiutare la formazione sacerdotale. La Santa Sede
sapeva di questi problemi, senza esserne informata nel dettaglio. Come primo
passo fu disposta una Visita apostolica nei seminari degli Stati Uniti.
Poiché dopo il Concilio Vaticano II erano stati cambiati pure i criteri per
la scelta e la nomina dei vescovi, anche il rapporto dei vescovi con i loro
seminari era differente. Come criterio per la nomina di nuovi vescovi valeva
ora soprattutto la loro “conciliarità”, potendo intendersi naturalmente con
questo termine le cose più diverse. In molte parti della Chiesa, il sentire
conciliare venne di fatto inteso come un atteggiamento critico o negativo nei
confronti della tradizione vigente fino a quel momento, che ora doveva essere
sostituita da un nuovo rapporto, radicalmente aperto, con il mondo. Un vescovo,
che in precedenza era stato rettore, aveva mostrato ai seminaristi film
pornografici, presumibilmente con l’intento di renderli in tal modo capaci di
resistere contro un comportamento contrario alla fede. Vi furono singoli
vescovi – e non solo negli Stati Uniti d’America – che rifiutarono la
tradizione cattolica nel suo complesso mirando nelle loro diocesi a sviluppare
una specie di nuova, moderna “cattolicità”. Forse vale la pena accennare al
fatto che, in non pochi seminari, studenti sorpresi a leggere i miei libri
venivano considerati non idonei al sacerdozio. I miei libri venivano nascosti
come letteratura dannosa e venivano per così dire letti sottobanco.
La Visita che seguì non portò nuove informazioni, perché evidentemente
diverse forze si erano coalizzate al fine di occultare la situazione reale.
Venne disposta una seconda Visita che portò assai più informazioni, ma nel
complesso non ebbe conseguenze. Ciononostante, a partire dagli anni ’70, la
situazione nei seminari in generale si è consolidata. E tuttavia solo
sporadicamente si è verificato un rafforzamento delle vocazioni, perché nel
complesso la situazione si era sviluppata diversamente.
La questione della pedofilia è, per quanto
ricordi, divenuta scottante solo nella seconda metà degli anni ’80. Negli
Stati Uniti nel frattempo era già cresciuta, divenendo un problema
pubblico. Così i vescovi chiesero aiuto a Roma perché il diritto canonico,
così come fissato nel Nuovo Codice, non appariva sufficiente per adottare
le misure necessarie. In un primo momento Roma e i canonisti romani ebbero
delle difficoltà con questa richiesta; a loro avviso, per ottenere
purificazione e chiarimento, sarebbe dovuta bastare la sospensione
temporanea dal ministero sacerdotale. Questo non poteva essere accettato
dai vescovi americani perché in questo modo i sacerdoti restavano al
servizio del vescovo, venendo così ritenuti come figure direttamente a lui
legate. Un rinnovamento e un approfondimento del diritto penale,
intenzionalmente costruito in modo blando nel Nuovo Codice, poté farsi
strada solo lentamente.
A questo si aggiunse un problema di fondo che riguardava la concezione del
diritto penale. Ormai era considerato “conciliare” solo il così detto
“garantismo”. Significa che dovevano essere garantiti soprattutto i diritti
degli accusati e questo fino al punto da escludere di fatto una condanna. Come
contrappeso alla possibilità spesso insufficiente di difendersi da parte di
teologi accusati, il loro diritto alla difesa venne talmente esteso nel senso
del garantismo che le condanne divennero quasi impossibili.
Mi sia consentito a questo punto un breve excursus. Di fronte
all’estensione delle colpe di pedofilia, viene in mente una parola di Gesù che
dice: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che
gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare» (Mc
9,42). Nel suo significato originario questa parola non parla dell’adescamento
di bambini a scopo sessuale. Il termine «i piccoli» nel linguaggio di
Gesù designa i credenti semplici, che potrebbero essere scossi nella loro fede
dalla superbia intellettuale di quelli che si credono intelligenti. Gesù qui
allora protegge il bene della fede con una perentoria minaccia di pena per
coloro che le recano offesa. Il moderno utilizzo di quelle parole in sé non è
sbagliato, ma non deve occultare il loro senso originario. In esso, contro ogni
garantismo, viene chiaramente in luce che è importante e abbisogna di garanzia
non solo il diritto dell’accusato. Sono altrettanto importanti beni preziosi
come la fede. Un diritto canonico equilibrato, che corrisponda al messaggio di
Gesù nella sua interezza, non deve dunque essere garantista solo a favore
dell’accusato, il cui rispetto è un bene protetto dalla legge. Deve proteggere
anche la fede, che del pari è un bene importante protetto dalla legge. Un
diritto canonico costruito nel modo giusto deve dunque contenere una duplice
garanzia: protezione giuridica dell’accusato e protezione giuridica del bene
che è in gioco. Quando oggi si espone questa concezione in sé chiara, in genere
ci si scontra con sordità e indifferenza sulla questione della protezione
giuridica della fede. Nella coscienza giuridica comune la fede non sembra più
avere il rango di un bene da proteggere. È una situazione preoccupante, sulla
quale i pastori della Chiesa devono riflettere e considerare seriamente.
Ai brevi accenni sulla situazione della formazione sacerdotale al momento
del deflagrare pubblico della crisi, vorrei ora aggiungere alcune indicazioni
sull’evoluzione del diritto canonico in questa questione. In sé, per i delitti
commessi dai sacerdoti è responsabile la Congregazione per il clero. Poiché
tuttavia in essa il garantismo allora dominava ampiamente la situazione,
concordammo con papa Giovanni Paolo II sull’opportunità di attribuire la
competenza su questi delitti alla Congregazione per la Dottrina della Fede, con
la titolatura “Delicta maiora contra fidem”. Con questa attribuzione diveniva
possibile anche la pena massima, vale a dire la riduzione allo stato laicale,
che invece non sarebbe stata comminabile con altre titolature giuridiche. Non
si trattava di un escamotage per poter comminare la pena massima, ma una
conseguenza del peso della fede per la Chiesa. In effetti è importante tener
presente che, in simili colpe di chierici, ultimamente viene danneggiata la
fede: solo dove la fede non determina più l’agire degli uomini sono possibili
tali delitti. La gravità della pena presuppone tuttavia anche una chiara prova
del delitto commesso: è il contenuto del garantismo che rimane in vigore. In
altri termini: per poter legittimamente comminare la pena massima è necessario
un vero processo penale. E tuttavia, in questo modo si chiedeva troppo sia alle
diocesi che alla Santa Sede. E così stabilimmo una forma minima di processo
penale e lasciammo aperta la possibilità che la stessa Santa Sede avocasse a sé
il processo nel caso che la diocesi o la metropolia non fossero in grado di
svolgerlo. In ogni caso il processo doveva essere verificato dalla
Congregazione per la Dottrina della Fede per garantire i diritti dell’accusato.
Alla fine, però, nella Feria IV (vale a dire la riunione di tutti i membri
della Congregazione), creammo un’istanza d’appello, per avere anche la
possibilità di un ricorso contro il processo. Poiché tutto questo in realtà
andava al di là delle forze della Congregazione per la Dottrina della Fede e si
verificavano dei ritardi che invece, a motivo della materia, dovevano essere
evitati, papa Francesco ha intrapreso ulteriori riforme.
III
Alcune prospettive
Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo creare un’altra
Chiesa affinché le cose possano aggiustarsi? Questo esperimento già è
stato fatto ed è già fallito. Solo l’amore e l’obbedienza a nostro Signore
Gesù Cristo possono indicarci la via giusta. Proviamo perciò innanzitutto
a comprendere in modo nuovo e in profondità cosa il Signore abbia voluto e
voglia da noi.
In primo luogo direi che, se volessimo veramente sintetizzare al massimo il
contenuto della fede fondata nella Bibbia, potremmo dire: il Signore ha
iniziato con noi una storia d’amore e vuole riassumere in essa l’intera
creazione. L’antidoto al male che minaccia noi e il mondo intero ultimamente
non può che consistere nel fatto che ci abbandoniamo a questo amore. Questo è
il vero antidoto al male. La forza del male nasce dal nostro rifiuto dell’amore
a Dio. È redento chi si affida all’amore di Dio. Il nostro non essere redenti
poggia sull’incapacità di amare Dio. Imparare ad amare Dio è dunque la strada
per la redenzione degli uomini.
Se ora proviamo a svolgere un po’ più ampiamente questo contenuto
essenziale della Rivelazione di Dio, potremmo dire: il primo fondamentale dono
che la fede ci offre consiste nella certezza che Dio esiste. Un mondo senza Dio
non può essere altro che un mondo senza senso. Infatti, da dove proviene tutto
quello che è? In ogni caso sarebbe privo di un fondamento spirituale. In
qualche modo ci sarebbe e basta, e sarebbe privo di qualsiasi fine e di
qualsiasi senso. Non vi sarebbero più criteri del bene e del male. Dunque
avrebbe valore unicamente ciò che è più forte. Il potere diviene allora l’unico
principio. La verità non conta, anzi in realtà non esiste. Solo se le cose
hanno un fondamento spirituale, solo se sono volute e pensate – solo se c’è un
Dio creatore che è buono e vuole il bene – anche la vita dell’uomo può avere un
senso.
Che Dio ci sia come creatore e misura di tutte le cose, è innanzitutto
un’esigenza originaria. Ma un Dio che non si manifestasse affatto, che non si
facesse riconoscere, resterebbe un’ipotesi e perciò non potrebbe determinare la
forma della nostra vita. Affinché Dio sia realmente Dio nella creazione
consapevole, dobbiamo attenderci che egli si manifesti in una qualche forma.
Egli lo ha fatto in molti modi, e in modo decisivo nella chiamata che fu
rivolta ad Abramo e diede all’uomo quell’orientamento, nella ricerca di Dio,
che supera ogni attesa: Dio diviene creatura egli stesso, parla a noi uomini
come uomo.
Così finalmente la frase “Dio è” diviene davvero una lieta novella, proprio
perché è più che conoscenza, perché genera amore ed è amore. Rendere gli uomini
nuovamente consapevoli di questo, rappresenta il primo e fondamentale compito
che il Signore ci assegna.
Una società nella quale Dio è assente – una società che non lo conosce più
e lo tratta come se non esistesse – è una società che perde il suo criterio.
Nel nostro tempo è stato coniato il motto della “morte di Dio”. Quando in una
società Dio muore, essa diviene libera, ci è stato assicurato. In verità, la
morte di Dio in una società significa anche la fine della sua libertà, perché
muore il senso che offre orientamento. E perché viene meno il criterio che ci
indica la direzione insegnandoci a distinguere il bene dal male. La società
occidentale è una società nella quale Dio nella sfera pubblica è assente e per
la quale non ha più nulla da dire. E per questo è una società nella quale si
perde sempre più il criterio e la misura dell’umano. In alcuni punti, allora, a
volte diviene improvvisamente percepibile che è divenuto addirittura ovvio quel
che è male e che distrugge l’uomo. È il caso della pedofilia. Teorizzata ancora
non troppo tempo fa come del tutto giusta, essa si è diffusa sempre più. E ora,
scossi e scandalizzati, riconosciamo che sui nostri bambini e giovani si
commettono cose che rischiano di distruggerli. Che questo potesse diffondersi
anche nella Chiesa e tra i sacerdoti deve scuoterci e scandalizzarci in misura
particolare.
Come ha potuto la pedofilia raggiungere una dimensione del genere? In
ultima analisi il motivo sta nell’assenza di Dio. Anche noi cristiani e
sacerdoti preferiamo non parlare di Dio, perché è un discorso che non sembra
avere utilità pratica. Dopo gli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale,
in Germania avevamo adottato la nostra Costituzione dichiarandoci
esplicitamente responsabili davanti a Dio come criterio guida. Mezzo secolo
dopo non era più possibile, nella Costituzione europea, assumere la
responsabilità di fronte a Dio come criterio di misura. Dio viene visto come
affare di partito di un piccolo gruppo e non può più essere assunto come
criterio di misura della comunità nel suo complesso. In questa decisione si
rispecchia la situazione dell’Occidente, nel quale Dio è divenuto fatto privato
di una minoranza.
Il primo compito che deve scaturire dagli sconvolgimenti morali del nostro tempo
consiste nell’iniziare di nuovo noi stessi a vivere di Dio, rivolti a lui e in
obbedienza a lui. Soprattutto dobbiamo noi stessi di nuovo imparare a
riconoscere Dio come fondamento della nostra vita e non accantonarlo come fosse
una parola vuota qualsiasi. Mi resta impresso il monito che il grande teologo
Hans Urs von Balthasar vergò una volta su uno dei suoi biglietti: «Il Dio
trino, Padre, Figlio e Spirito Santo: non presupporlo ma anteporlo!». In
effetti, anche nella teologia, spesso Dio viene presupposto come fosse
un’ovvietà, ma concretamente di lui non ci si occupa. Il tema “Dio” appare così
irreale, così lontano dalle cose che ci occupano. E tuttavia cambia tutto se
Dio non lo si presuppone, ma lo si antepone. Se non lo si lascia in qualche modo
sullo sfondo ma lo si riconosce come centro del nostro pensare, parlare e
agire.
Dio è divenuto uomo per noi. La creatura uomo gli
sta talmente a cuore che egli si è unito a essa entrando concretamente
nella storia. Parla con noi, vive con noi, soffre con noi e per noi ha
preso su di sé la morte. Di questo certo parliamo diffusamente nella
teologia con un linguaggio e con concetti dotti. Ma proprio così nasce il
pericolo che ci facciamo signori della fede, invece di lasciarci rinnovare
e dominare dalla fede.
Consideriamo questo riflettendo su un punto centrale, la celebrazione della
Santa Eucaristia. Il nostro rapporto con l’Eucaristia non può che destare
preoccupazione. A ragione il Vaticano II intese mettere di nuovo al centro
della vita cristiana e dell’esistenza della Chiesa questo sacramento della
presenza del corpo e del sangue di Cristo, della presenza della sua persona,
della sua passione, morte e risurrezione. In parte questa cosa è realmente
avvenuta e per questo vogliamo di cuore ringraziare il Signore.
Ma largamente dominante è un altro atteggiamento: non domina un nuovo profondo
rispetto di fronte alla presenza della morte e risurrezione di Cristo, ma un
modo di trattare con lui che distrugge la grandezza del mistero. La calante
partecipazione alla celebrazione domenicale dell’Eucaristia mostra quanto poco
noi cristiani di oggi siamo in grado di valutare la grandezza del dono che
consiste nella Sua presenza reale. L’Eucaristia è declassata a gesto
cerimoniale quando si considera ovvio che le buone maniere esigano che sia
distribuita a tutti gli invitati a ragione della loro appartenenza al
parentado, in occasione di feste familiari o eventi come matrimoni e funerali.
L’ovvietà con la quale in alcuni luoghi i presenti, semplicemente perché tali,
ricevono il Santissimo Sacramento mostra come nella Comunione si veda ormai solo
un gesto cerimoniale. Se riflettiamo sul da farsi, è chiaro che non abbiamo
bisogno di un’altra Chiesa inventata da noi. Quel che è necessario è invece il
rinnovamento della fede nella realtà di Gesù Cristo donata a noi nel
Sacramento.
Nei colloqui con le vittime della pedofilia sono divenuto consapevole con
sempre maggiore forza di questa necessità. Una giovane ragazza che serviva
all’altare come chierichetta mi ha raccontato che il vicario parrocchiale, che
era suo superiore visto che lei era chierichetta, introduceva l’abuso sessuale
che compiva su di lei con queste parole: «Questo è il mio corpo che è dato per
te». È evidente che quella ragazza non può più ascoltare le parole della
consacrazione senza provare terribilmente su di sé tutta la sofferenza dell’abuso
subìto. Sì, dobbiamo urgentemente implorare il perdono del Signore e
soprattutto supplicarlo e pregarlo di insegnare a noi tutti a comprendere
nuovamente la grandezza della sua passione, del suo sacrificio. E dobbiamo fare
di tutto per proteggere dall’abuso il dono della Santa Eucaristia.
Ed ecco infine il mistero della Chiesa. Restano
impresse nella memoria le parole con cui ormai quasi cento anni fa Romano
Guardini esprimeva la gioiosa speranza che allora si affermava in lui e in
molti altri: “Un evento di incalcolabile portata è iniziato: La Chiesa si
risveglia nelle anime”. Con questo intendeva dire che la Chiesa non era
più, come prima, semplicemente un apparato che ci si presenta dal di
fuori, vissuta e percepita come una specie di ufficio, ma che iniziava ad
essere sentita viva nei cuori stessi: non come qualcosa di esteriore ma
che ci toccava dal di dentro. Circa mezzo secolo dopo, riflettendo di
nuovo su quel processo e guardando a cosa era appena accaduto, fui tentato
di capovolgere la frase: “La Chiesa muore nelle anime”. In effetti oggi la
Chiesa viene in gran parte vista solo come una specie di apparato
politico. Di fatto, di essa si parla solo utilizzando categorie politiche
e questo vale persino per dei vescovi che formulano la loro idea sulla
Chiesa di domani in larga misura quasi esclusivamente in termini politici.
La crisi causata da molti casi di abuso ad opera di sacerdoti spinge a
considerare la Chiesa addirittura come qualcosa di malriuscito che
dobbiamo decisamente prendere in mano noi stessi e formare in modo nuovo.
Ma una Chiesa fatta da noi non può rappresentare alcuna speranza.
Gesù stesso ha paragonato la Chiesa a una rete da pesca nella quale stanno
pesci buoni e cattivi, essendo Dio stesso colui che alla fine dovrà separare
gli uni dagli altri. Accanto c’è la parabola della Chiesa come un campo sul
quale cresce il buon grano che Dio stesso ha seminato, ma anche la zizzania che
un “nemico” di nascosto ha seminato in mezzo al grano. In effetti, la zizzania
nel campo di Dio, la Chiesa, salta all’occhio per la sua quantità e anche i
pesci cattivi nella rete mostrano la loro forza. Ma il campo resta comunque
campo di Dio e la rete rimane rete da pesca di Dio. E in tutti i tempi c’è e ci
saranno non solo la zizzania e i pesci cattivi ma anche la semina di Dio e i
pesci buoni. Annunciare in egual misura entrambe con forza non è falsa
apologetica, ma un servizio necessario reso alla verità.
In quest’ambito è necessario rimandare a un importante testo della
Apocalisse di San Giovanni. Qui il diavolo è chiamato accusatore che accusa i
nostri fratelli dinanzi a Dio giorno e notte (Ap 12,10). In questo modo
l’Apocalisse riprende un pensiero che sta al centro del racconto che fa da
cornice al libro di Giobbe (Gb 1 e 2, 10; 42, 7-16). Qui si narra che il
diavolo tenta di screditare la rettitudine e l’integrità di Giobbe come
puramente esteriori e superficiali. Si tratta proprio di quello di cui parla
l’Apocalisse: il diavolo vuole dimostrare che non ci sono uomini giusti; che
tutta la giustizia degli uomini è solo una rappresentazione esteriore. Che se
la si potesse saggiare di più, ben presto l’apparenza della giustizia
svanirebbe. Il racconto inizia con una disputa fra Dio e il diavolo in cui Dio
indicava in Giobbe un vero giusto. Ora sarà dunque lui il banco di prova per
stabilire chi ha ragione. “Togligli quanto possiede – argomenta il diavolo – e
vedrai che nulla resterà della sua devozione”. Dio gli permette questo
tentativo dal quale Giobbe esce in modo positivo. Ma il diavolo continua e
dice: “Pelle per pelle; tutto quanto ha, l’uomo è pronto a darlo per la sua
vita. Ma stendi un poco la mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come
ti benedirà in faccia” (Gb 2, 4s). Così Dio concede al diavolo una
seconda possibilità. Gli è permesso anche di stendere la mano su Giobbe.
Unicamente gli è precluso ucciderlo. Per i cristiani è chiaro che quel Giobbe
che per tutta l’umanità esemplarmente sta di fronte a Dio è Gesù Cristo.
Nell’Apocalisse, il dramma dell’uomo è rappresentato in tutta la sua ampiezza.
Al Dio creatore si contrappone il diavolo che scredita l’intera creazione e
l’intera umanità. Egli si rivolge non solo a Dio ma soprattutto agli uomini
dicendo: “Ma guardate cosa ha fatto questo Dio. Apparentemente una creazione buona.
In realtà nel suo complesso è piena di miseria e di schifo”. Il denigrare la
creazione in realtà è un denigrare Dio. Il diavolo vuole dimostrare che Dio
stesso non è buono e vuole allontanarci da lui.
L’attualità di quel che dice l’Apocalisse è lampante. L’accusa contro Dio
oggi si concentra soprattutto nello screditare la sua Chiesa nel suo complesso
e così nell’allontanarci da essa. L’idea di una Chiesa migliore creata da noi
stessi è in verità una proposta del diavolo con la quale vuole allontanarci dal
Dio vivo, servendosi di una logica menzognera nella quale caschiamo sin troppo
facilmente. No, anche oggi la Chiesa non consiste solo di pesci cattivi e di
zizzania. La Chiesa di Dio c’è anche oggi, e proprio anche oggi essa è lo
strumento con il quale Dio ci salva. È molto importante contrapporre alle
menzogne e alle mezze verità del diavolo tutta la verità: sì, il peccato e il
male nella Chiesa ci sono. Ma anche oggi c’è pure la Chiesa santa che è
indistruttibile. Anche oggi ci sono molti uomini che umilmente credono,
soffrono e amano e nei quali si mostra a noi il vero Dio, il Dio che ama. Anche
oggi Dio ha i suoi testimoni (“martyres”) nel mondo. Dobbiamo solo essere
vigili per vederli e ascoltarli.
Il termine martire è tratto dal diritto processuale. Nel processo contro il
diavolo, Gesù Cristo è il primo e autentico testimone di Dio, il primo martire,
al quale da allora innumerevoli ne sono seguiti. La Chiesa di oggi è come non
mai una Chiesa di martiri e così testimone del Dio vivente. Se con cuore vigile
ci guardiamo intorno e siamo in ascolto, ovunque, fra le persone semplici ma
anche nelle alte gerarchie della Chiesa, possiamo trovare testimoni che con la
loro vita e la loro sofferenza si impegnano per Dio. È pigrizia del cuore non
volere accorgersi di loro. Fra i compiti grandi e fondamentali del nostro
annuncio c’è, nel limite delle nostre possibilità, il creare spazi di vita per
la fede, e soprattutto il trovarli e il riconoscerli.
Vivo in una casa nella quale una piccola comunità di persone scopre di
continuo, nella quotidianità, testimoni così del Dio vivo, indicandoli anche a
me con letizia. Vedere e trovare la Chiesa viva è un compito meraviglioso che
rafforza noi stessi e che sempre di nuovo ci fa essere lieti della fede.
Alla fine delle mie riflessioni vorrei ringraziare Papa Francesco per tutto
quello che fa per mostrarci di continuo la luce di Dio che anche oggi non è
tramontata. Grazie, Santo Padre!
Di Benedetto XVI, Papa emerito
CITTÀ DEL VATICANO , 11 aprile, 2019 /
8:30 AM (ACI Stampa).-
Tempo fa in una conversazione leggera con Benedetto Vecchio scopro che la Rai aveva realizzato una trasmissione su i Briganti dell’alta Terra di Lavoro dove è stato coinvolto l’amico storico laborinoMaurizio Zambardi che s’è fin dall’inizio interfacciato con Lorenzo Di Majo, autore del documentario, per la realizzazione del programma creando la mappatura geografica del viaggio e fornendo i giusti contatti che ha poi permesso l’ottima realizzazione del programma, ma non ci diedi molto peso perché pensavo che la trasmissione era già passata.
Questo pensavo fino a quando venerdi 18 giugno ’21 noto su i social che domenica 20 giugno ’21 alle 22 Rai 5 trasmette il programma di cui mi parlò Benedetto, e, anche se rassegnato a vedere la solita trasmissione salariata che mamma Rai ci regala quando si parla di Storia pre unitaria, la domenica sera mi metto davanti alla tv a vedere la trasmissione.
La presentazione del programma, pensato e costruito da Lorenzo Di Majo, viene fatta da una bella donna immersa in uno dei nostri meravigliosi e inimitabili boschi dell’alta terra di lavoro che inizia dicendo che nell’antica terra di lavoro a seguito “dell’invasione piemontese” la popolazione non accettava questo cambiamento e con armi in pugno reagì ferocemente alla suddetta invasione.
Sorpreso da questo inusuale inizio comincio a vedere il programma con occhi diversi, una narrazione che si basa sulle gesta dell’insorgente Domenico Fuoco, l’ultimo a cadere tra i nostri eroi, ben narrate dal testo dall’amicoMaurizio Zambardi che l’ideatore del programma Lorenzo Di Majo ripropone in un viaggio partendo da Roccasecca ripercorrendo una parte dei luoghi che sono stati teatro di quella terribile guerra nata come lotta all’invasore, trasformatasi in guerra civile e terminata come fenomeno delinquenziale. Lorenzo dopo Roccasecca arriva a San Pietro Infine ad intervistare Maurizio che attraverso il suo libro gli ha dato l’ispirazione per realizzare il programma e dopodichè percorre a tappe i luoghi piu importanti del territorio battuto dai nostri mitici avi intervistando di volta in volta i personaggi che più sono in grado di raccontare la storia dei Briganti che gli hanno tramandato i loro padri, i loro nonni e bisnonni.
L’ingenua ignoranza, non so quanto ingenua, di Lorenzo che è stata la forza propulsiva della trasmissione, lo porta a voler cercare e a cogliere l’aspetto romantico dei Briganti cercando di capire se erano buoni o cattivi ma come fanno in molti rimane deluso perché in quelle vicende di romantico c’è ben poco, la crudeltà e la ferocia di quelle lotte raggiunse livelli altissimi e come si sa la violenza più cruenta e quella che c’è tra caino e abele. Nelle varie interviste emerge quello accadde in quel periodo e di come si spaccarono le famiglie e le comunità con il terremoto “umano” che dopo quasi 8 secoli cambio l’aspetto, la storia e la politica dell’antico Regno di Napoli. C’è chi li ha definiti cattivi e chi buoni a seconda della storia personale e familiare dei vari intervistati ma sviando come sempre dal vero nocciolo della questione che quasi tutti ignorano e che dal 1799 fino al 1860 s’è combattuta una guerra di civiltà tra due mondi, quello antico, che affonda le sue radici nella notte dei tempi dove le virtù, i valori, l’onore sono sempre stati elementi fondanti di un vivere quotidiano, che si stava difendendo dal modernismo generato dal razionalismo illuminista e giacobino dove se il fine è giusto, quel giusto come che è sempre deciso da un pensiero gnostico e d’elites, qualsiasi mezzo è lecito per ottenerlo compreso il tradimento. Non c’è da meravigliarsi, altresì, che Domenico Fuoco, che si faceva chiamare Fra Diavolo perché come tutti gli insorgenti post-unitari voleva emulare le gesta dei suoi avi che nel 1799 furono i primi a combattere contro l’esercito invasore francese giacobino, non avesse pietà e non faceva prigionieri quando beccava i traditori mentre era generoso con chi era un suo sostenitore, in queste differenze emerge chiaramente la lotta tra due mondi ed ognuno doveva scegliere, come oggi, da che parte stare. Come affermo spesso la nostra è la terra dove nasce prima il Mito e poi la storia e se oggi si parla del Brigantaggio Insorgente lo dobbiamo solo grazie alla fiamma sempre accesa che da generazione in generazione viene alimentata, e che ricorda le gesta epiche di quella gente che sono ultimi difensori di un mondo che oggi purtroppo e quasi scomparso ma che sta permettendo, da qualche decennio, di ripristinare verità storiche che la vulgata dominante ha cercato di far sparire e che in tutti i modi cerca di non far emergere.
Da che ero scettico sul programma e quasi costretto dagli amici a vederlo, vi posso dire che in una settimana l’ho visto tre volte perché è ben fatto dal punto di vista artistico grazie alla bellezza della nostra antica terra di lavoro, ricordo che il Volturno faceva da confine tra la Terra di Lavoro che arrivava fino a San Vincenzo a Volturno e il Molise, che è stata magistralmente narrata da Lorenzo e ripresa con maestria dall’operatore che mi ha emozionato anche vedendola con i colori d’orati e ramati del pieno inverno e che mi fa dire “quann ‘e bella la terra mia”. Unico neo del viaggio paesaggistico e che e stata ignorata l’alta parte di terra di lavoro battuta da Domenico Fuoco e gli altri guerriglieri, ed è che quella lato mare dove ci sono altre perle come Sessa, Castelforte, Coreno Ausonio, Formia, Itri, Gaeta e Fondi anche se bisogna ammettere che ci vorrebbero varie puntate per visitare tutto.
Gli intervistati sono stati ottimamente scelti e hanno rappresentato le varie anime presenti nel nostro territorio dove ha spiccato certamente la figura di quel giovane che non vuole andare via, non vuole emigrare e non lo fa cercando di mendicare un posto fisso ma continuando l’attivita di famiglia senza aver paura di sporcarsi le mani. Abbiamo visto nobili, discendenti diretti dei protagonisti di questa storia, naturalisti, gente che ha studiato nei comodi libri ufficiali come il pescatore che volendo passare per dotto ha voluto mettere in evidenza il terrore che diffondevano i Briganti nei paesi dimenticando che i paesi erano più terrorizzati per quello che facevano i Piemontesi, che Isernia ancora nel 1866 accolse a braccia aperte la banda di Domenico Fuocoauspicando il ritorno diRe Francesco II e che la Terra di Lavoro come il Molise e gli Abruzzi sono state le ultime terre che accettarono il nuovo corso e che dopo il 1860 diventammo un popolo di mendicanti che cominciò ad emigrare per la prima volta nella storia e chi rimaneva, era cosi disperato, che si vedeva costretto a mandare i propri bambini nelle vetrerie in Francia con la speranza di vedere un tozzo di pane ma sprofondando invece in un grande dolore perchè si sentivano responsabili della sparizione dei propri figli, parlo della tratta dei bimbi.
Abbiamo visto persone colte come Maurizioma abbiamo visto un uomo di cultura che ha chiuso la trasmissione, come Benedetto, che con la sua arte interpreta l’animo di un popolo, di una terra che è sempre stata di confine ma fortemente legata al Regno di Napoli e che da quando s’è legata a Roma è diventata il suo pozzo nero.
Il programma si chiude da dove era partito, a Roccasecca, con il meraviglioso tramonto che si ammira alla Chiesa di San Tommaso con l’autore che giustamente afferma di aver fatto una narrazione leggera ma che è stata la sua forza, questa è la vera cultura narrare senza inarpicarsi in teorie astruse e astratte lasciando a chi vede e ascolta la libertà di pensare quello che desidera, e a chi è militante come me può solo considerarlo, o almeno ci spera, un punto di partenza perché prima o poi bisognerà capire cosa volesse dire Massimo d’Azzeglio quando affermava che “quaggiù non è che non vogliono noi ma non vogliono l’Italia” per smetterla di iniziare qualsiasi discorso identitario dicendo che il Regno non era il paradiso in terra ma anche che eravamo i piu poveri, una favoletta che piace anche “ai nostri” mentre invece, da come viene fuori dagli scritti di “altri”, le nostre miserie erano inferiori a quelle che si vivevano in altri luoghi, vi invito a leggere gli studi che il famigerato Cesare Lombroso ha fatto sulla pellagra.
Chiudo invitandovi a vedere il programma di seguito dal link della Rai e aggiungo alla citazione fatta da Lorenzo di Oscar Wilde quella di Cretineau “l’unica carità che possiamo concedere alla Storia è la verità”
Chi avrà la pazienza e la bontà di leggermi penserà ma che “ci azzecca” il titolo parlando del Festival della Zampogna di Villa Latina? Ebbene “c’entra eccome se c’entra” infatti come già scritto a Coreno Ausonio con il “FESTIVAL POPOLARE DELLA TERRA DI LAVORO E DELL’ORGANETTO” in alta Terra di Lavoro tira un vento nuovo un vento antico, un vento reale, un vento sacro che viene dalla storia, una storia piena di arte, di cultura e di civiltà dalla dimensione universale, quella laborina napolitana, che qualcuno ha pensato di sotterrare come fa un fiume carsico con lo scopo di applicare la teoria di Milan Kundera ma alla fine è tornato in superfice.
Il Cassinate, le Mainarde, l’alta Terra di Lavoro, palcoscenici di tragedie belliche che risalgono dalla notte dei tempi ma l’ultima, quella della seconda guerra mondiale, è stata la peggiore la più terribile. Sono tante le stragi e i crimini di guerra commessi nel suddetto conflitto e come sempre quelle avvenute nell’italia peninsulare sono le più terribili e sanguinose e, come accade da 160 anni, sono quelle che meno appaiono nei ricordi e nella divulgazione della storiografia ufficiale e nelle commemorazione a tiratura nazionale, una di queste è quella accaduta il 28 dicembre 1943 a Vallerotonda in località Collelungo di Cardito. Il primo che ha messo mano, in maniera scientifica, a quella immane tragedia è stato lo storico Laborino Costantino Jadecola che ci ha consigliato di intervistare la persona più accreditata, dopo di lui ovviamente, per parlare quanto accaduto in quella funesta mattina, Damiano ParravanoPres. Ass. Linea Gustav che sarà accompagnato da Benedetto Vecchio la memoria storica artistica dell’alta Terra di Lavoro. Martedì 28 dicembre alle ore 21 si potrà vedere in diretta la trasmissione, con sigla, locandina e coda finale curata come sempre dal Patriarca dell’alta Terra di Lavoro Raimondo Rotondi, per mettere un altro mattone nella riedificazione della monumentale e universale storia dell’alta Terra di Lavoro