Suggestioni Musicali in Viaggio Per L’europa Sabato 16 novembre 2019 alle ore 20.30 nell’ambito della Stagione Concertistica dell’Associazione Il Canto di Virgilio Concerti al Centro ci sarà un imperdibile Concerto Suggestioni Musicali in Viaggio Per L’europa……………………………….
Tié! Sylvain Bellenger, il direttore del Museo e del Real Bosco di Capodimonte, sbatte Napoli in faccia al mondo intero. Pure a quelli che la mortificano … Tiè! E Bellenger fa rivivere, nel prossimo autunno, fino alla primavera del 2020, nella sua regale magnificenza, la Napoli che, per più di un secolo (1734 / 1860), fu la bella libera città Capitale del Regno del Sud Italia. “Vengo a Napoli come un missionario” aveva detto in un’intervista (gennaio 2016). La sua missione? Dare a una Napoli denigrata con Capodimonte marginalizzata, il suo dovuto posto nel mondo. “Napoli è stata una grande Capitale, questo lo si vede e lo si sente ancora; ma bisogna farlo capire” ha ripetuto più volte Bellenger. Che ora crea, nel museo di Capodimonte, uno straordinario evento, di cui è il curatore: “Napoli, Napoli di lava, porcellana e musica”, promossa dal Museo e Real Bosco di Capodimonte, in collaborazione con il Teatro San Carlo di Napoli, con la produzione e organizzazione della casa editrice Electa. Nelle diciotto magnifiche sale dell’appartamento reale della Reggia-Museo di Capodimonte, – dice il comunicato stampa – vi saranno 1000 oggetti preziosi, di cui 600 porcellane, 100 costumi che provengono dal teatro San Carlo e hanno la firma di costumisti famosi, animali tassidermizzati, antichi strumenti, raffinati arredi e tanto d’altro. È una mostra stratosferica, che non necessita di oggetti artistici, che pure vi sono, perché essa stessa è un’opera d’arte, giacché realizza, con i suoi mezzi figurativi e la musica della grande tradizione napoletana (Pergolesi, Cimarosa, Pacini, Paisiello, Leo, Iommelli), l’idea (eidos= immagine) che ha di Napoli il curatore. Che ci racconta, a mo’ di favola, una storia vera, la storia di una grande bellezza.
Dicono che Bellenger sia appassionatamente innamorato della città. È una passione un po’ folle ma non è un innamoramento recente. Lo testimonia Riccardo Muti che, a Chicago, volle conoscere il funzionario, che, in quel museo, aveva voluto un enorme presepio napoletano. E fu allora che il maestro Muti e il funzionario Bellenger divennero amici. Il napoletanissimo ingegnere IBM, poi scrittore e regista scomparso di recente, Luciano De Crescenzo, ha scritto: “Napoli, quella che dico io, non esiste come città ma esiste sicuramente come concetto, come aggettivo. E allora penso che Napoli è la città più napoli che conosco e che dovunque sono andato nel mondo ho visto che c’era bisogno di un po’ di napoli”.
Che è un concetto, si, forse una favola, ma non è un’opinione melensa frutto di un relativismo becero, perché ha la sua testimonianza concreta (non nei libri di quella storia che, come si sa, è scritta dai vincitori) nei fatti e nelle cose. E a settembre la Napoli Capitale ci verrà mostrata nella sua concretezza nella Reggia-Museo di Capodimonte, un edificio anch’esso testimone partecipe di quell’epoca. Ma perché questa città è considerata diversa dalle altre? Perché i turisti ancora oggi dicono che anche il popolo qui è diverso? Un libro dal titolo”Lo spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana. La scoperta di una prospettiva spazio-tempo”, scritto negli anni Ottanta del secolo scorso, presentato all’Electa Napoli nei primi mesi del 1989, ma pubblicato dalla Tullio Pironti Editore soltanto nel 2014, che ha avuto undici entusiasti convegni, a cui hanno partecipato eminenti professori universitari ma non ha avuto neanche un rigo sulla carta stampata, ne svela il segreto, che in poche righe qui tentiamo di rivelare.
Il testo fa una puntuale analisi della storia della città, considerandola nell’ambito europeo. E ricorda che Napoli è la città che ha la più antica ininterrotta continuità storica del mondo occidentale. Lo dimostrano anche i recenti studi del professore architetto Italo Ferraro sulla stratigrafia urbana, riuniti in ponderosi tomi. Mentre la persistenza qui del popolo napoletano, con il suo attaccamento alla propria terra (il fenomeno della sua emigrazione iniziò soltanto dopo il 1860) e la sua tendenza ad affollare il centro storico, risulta anche da recenti indagini sociologiche, come quella sui “bassi” napoletani e quella svolta brillantemente dal sociologo Marcello Anselmo, sul fondaco del Cavone. Napoli, afferma il testo, conserva, nelle sue pietre e nei suoi abitanti, il ricordo delle sue origini marinare. Un’origine che a noi mortali appare lontana nel tempo ma è ancora presente per la Storia, quella che vive nei millenni. Persistono, quindi, a Napoli, le antiche doti di un’antica civiltà marinara, il senso dell’ospitalità, della tolleranza, di un’affettuosa umanità non ancora inficiata dal freddo razionalismo, a cui contrappone una logica diversa, basata sulla consapevolezza profonda della precarietà della vita e su un’apertura mentale derivata dalla visione del libero spazio marino.
Una visione che, come un fil rouge, percorre fino a oggi (o fino a ieri?) tutta la storia napoletana e ne contagia la musica, i riti, la religione, l’arte e la filosofia, dal pitagorico Parmenide a Telesio, Bruno, Campanella, Vico. Una prospettiva del mondo che, nata nella Magna Grecia, contraddice la visione astratta ristretta nei binari di una intollerante e arrogante razionalità dell’attuale civiltà occidentale. Alla quale Napoli contrappone una logica duttile, che si adatta alle circostanze, suggerita da quell’ampia visione dello spazio marino, che è sempre in movimento, la quale fece dire ad Albert Einstein “le origini del nostro pensiero sono nella Magna Grecia”. È una visione prospettica che, nell’illuminato Settecento, si esprime configurandosi nella chiarezza logica di una geniale costruzione matematica nell’arte figurativa napoletana. Che ha un’ironica libertà nelle scene di genere di Gaspare Traversi e l’appagata gioia esistenziale nelle calme ampie curve delle vedute di Gabriele Ricciardelli.
Una prospettiva spazio-temporale che esprime nell’infinito concluso di una meravigliosa stella frattalica, (da cui si potrebbe ricavare un’applicazione informatica) una particolare, corale visione del mondo, che costituisce di Napoli la diversità.
Nella Reggia-Museo di
Capodimonte, la Sala Causa, dedicata al compianto sovrintendente Raffaello
Causa, ha ospitato la conferenza-stampa di presentazione della
mostra “Caravaggio-Napoli”
(12 aprile – 14 luglio 2019). Anche stavolta un grande artista è messo in
relazione con Napoli. Come già Pablo Picasso con
la sua “Parade”,
che riprendeva le figure della cultura popolare napoletana. Come pure Jan
Fabre, tuttora presente a Capodimonte (fino al 15 settembre)
con le sue opere di corallo rosso, lavorato negli antichi laboratori della
cittadina vesuviana di Torre del Greco.
Il rapporto tra Napoli
e Caravaggio si svolse in un soggiorno di 18 mesi in tutto,
diviso in due tappe: nel 1606 e nel 1610, anno della sua morte misteriosa sulla
spiaggia di Porto Ercole.
Non fu solo un dare da
parte dell’artista alla città ma fu, forse soprattutto, un avere. Come ci dice
lo stesso critico Roberto Longhi, che
lo “riscoprì” dopo che per secoli era stato dimenticato, e si domanda quanto
grande sia stata l’impressione che Napoli, all’epoca “immensa capitale
meridionale, più classicamente antica di Roma stessa, e insieme spagnolesca e
orientale” aveva potuto suscitare nel pittore lombardo.
Infatti forse la più
bella, importante, rivoluzionaria delle sue opere è quella
che dipinse appena giunto a Napoli: “Sette
opere di misericordia”. Riprende la vita del vicolo napoletano,
dove il pittore abitava. E così crea un nuovo spazio fatto dal movimento e dai
gesti della gente, dalle persone stesse: forse la più grande rivoluzione
iconografica del suo tempo. D’altronde quella era la Napoli vissuta anche dai
pittori napoletani poi detti caravaggeschi. Questi guardarono e vissero la
stessa vita del lombardo ed ebbero ed espressero con lui una consentaneità
profonda di pensieri e sentimenti.
Perciò stupisce che
alla mostra, pur bella e ricca, manchi appunto l’opera delle
“Sette opere di
Misericordia”. Certo la si può guardare andando a visitare la
magnifica chiesa del Pio Monte della Misericordia, al centro storico di Napoli,
così come hanno fatto i giornalisti oggi con una navetta messa a loro
disposizione ad hoc.
Dicono che questa
mancanza sia giustificata dalla preoccupazione che un’opera così bella e
importante possa, con lo spostamento, deteriorarsi e
che d’altronde è facile andare al centro storico per vedere l’opera. Ma chi
conosce un po’ di queste cose sa bene che tante osservazioni possono farsi, e
quindi tante conoscenze d’arte e di storia possono nascere, dal confronto
ravvicinato delle opere.
Ci si è giustificati,
da parte dell’opposizione, anche citando le spese troppo alte dell’assicurazione. Eppure
altre opere caravaggesche sono giunte in questa occasione a Capodimonte, come
il Martirio di Suor
Orsola dalla napoletana via Toledo e altre da
Rouen, da Madrid, da Siviglia e da Londra.
Non molto tempo fa
anche la “Flagellazione”
di Caravaggio, conservata a Capodimonte, è mancata dal museo perché trasferita
per qualche tempo altrove. Molte pagine di giornale sono state
riempite dalla questione. L’opposizione al trasporto delle “Sette
Opere di Misericordia” è stato aspra ma le
ragioni di questa opposizione non sono apparse convincenti e di buon senso.
Tanto che persone di cui è riconosciuto il valore, come lo stesso
soprintendente del Pio Monte Alessandro Pasca di Magliano
e il musicista Riccardo Muti, si sono dichiarati
indignati dalla speciosità di certi argomenti.
Eppure nella
conferenza-stampa non si è parlato di questo. C’è stato solo un accenno
sottinteso nelle parole del soprintendente del Pio Monte, che, ringraziato
dal direttore del Museo Sylvain Bellenger (curatore
della mostra con Maria Cristina Terzaghi)
per la sua collaborazione e la sua lealtà, ha detto che non avrebbe mai
immaginato che la sua collaborazione sarebbe stata così laboriosa.
Anche l’assessore alla
Cultura del Comune di Napoli Nino Daniele dice
che sarebbe stato favorevole a che l’opera fosse stata spostata al museo per la
durata della mostra. Ma di rispettare le opinioni contrarie.
Forse è meglio non
discuterne più, come suggerisce il presidente degli Amici
di Capodimonte, avvocato Di Lorenzo: “Noi teniamo
a che Sylvain resti a Napoli e possa continuare nella sua opera missionaria e
illuminata in favore della cultura e della città. Quindi cerchiamo di non
complicare le cose con polemiche a questo punto inutili”.
In quanto a noi,
consideriamo un incubo il regresso della Reggia-Museo e del Real Bosco di
Capodimonte alle condizioni ante-Bellenger. Il popolo napoletano vuole che
Bellenger rimanga. Speriamo che possa rimanere. Altrimenti non saremmo in
democrazia ma in quella che Aristotele chiamava “oklocrazia”,
ovvero il comando della gente dappoco.
La culture napolitaine a grandi au rythme de la musique.
Le mythe fondateur même de l’ancienne cité grecque est lié à la sirène Parthénope[1] dont les prêtresses prophétisaient en chantant. Le chant est ainsi un vrai moyen d’expression à Naples où l’on prie, on proteste, on se réjouit et on crie sa douleur en chantant.
Sylvain Bellenger, con il suo impegno, la sua passione, il suo ottimismo ha rilanciato, in meno di due anni di direzione, Real Bosco e Museo di Capodimonte di Napoli. Innanzitutto con un nuovo curatore: James Anno, di Oklahoma City, 35 anni. Resterà due anni grazie alla generosità dell’associazione American Friends of Capodimonte, che si è costituita lo scorso anno con l’intento filantropico di contribuire alla divulgazione della cultura del Mezzogiorno d’Italia. E’ presieduta da Vincent Buonanno, presidente onorario è Riccardo Muti.