Posted by altaterradilavoro on Apr 4, 2020
tra i novatores napoletani, i filosofi del fare e non delle chiacchiere, ci fu Ferdinando Galiani che capì che la ricchezza di una società, comunità non passava attraverso la patrimonializzazione delle ricchezze o delle rendite ma attraverso la circolazione della moneta, la moneta più circola e più la ricchezza aumenta e si distribuisce. I liberali che auspicavano la modernità ma che ci hanno regalato il modernismo e, come disse il grande Zitara, lo sono ma con le cose degli altri, e i borghesi che alla fine hanno creato il borghesismo e l’unico cosa che hanno a cuore e accumulare ricchezze e protezione, che però devono fare altri, dei propri averi hanno fatto ben altro. Chi attuo le teorie del Galiani e dell’altro grande , Genovesi, attraverso Ludovico Bianchini fu Ferdinando II di Borbone creando uno stato che ancora oggi è preso ad esempio, per gli addetti ai lavori, come il migliore modello possibile. Grazie anche al lavoro del Dr. Ubaldo Sterlicchio, di seguito riportato, possiamo apprezzare la politica illuminata, umana e lungimirante di Ferdinando II. Bastava che fosse vissuto una decina di anni in più e dopo la sconfitta dei francesi a Sepang, con la conseguente crisi del modello economico giacobino, che la grandiosa visione economica di Ferdinando II figlia del Genovesi, del Galiani, del Filangieri e attuata dal Bianchini fosse risultata quella vincente.
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Posted by altaterradilavoro on Lug 29, 2019
Un passato che non passa, in tutti i sensi. Perché ne subiamo le conseguenze ancora oggi, basta guardare le migliaia di persone che ogni anno abbandonano il Sud-Italia e perché non passa nelle teste delle persone, dei meridionali in primo luogo.
Leggendo la lettera del ragazzo di Gioiosa con le sue domande e la risposta che gli dà Zitara sentiamo che sono due mondi incomunicabili, che non riescono a dialogare. Sinceramente ci viene lo sconforto, pensando che forse non vi riusciranno mai.
Eppure sta tutto qui, in questo dialogo tra sordi il nostro dramma: l’incapacità assoluta di creare un soggetto politico autonomo che faccia effettivamente, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, gli interessi del “Mezzogiorno”.
Le parole del ragazzo sono anche le nostre, di tanti anni fa, agli inizi degli anni settanta, quando frequentavamo l’ultimo anno delle scuole superiori in un pesino del Cilento e, nonostante del famoso ’68 sapessimo ben poco, volevamo cambiare il mondo, addirittura farlo diventare “socialista” perché solo così si sarebbero risolti tutti i mali passati e presenti del nostro Sud. Mali che costituivano l’atavico retaggio di una monarchia retriva e corrotta, quella borbonica, se non degli spagnoli o dei latifondisti romani e chi più ne ha più ne metta.
Almeno così ci indottrinavano a scuola.
Col tempo ci siamo resi conto, a fatica diciamolo francamente, che di balle ce ne avevano raccontate tante. Che non venivano da un paese senza storia, che quel paese una storia ce l’aveva, non era poi così male e che una guerra civile, in cui eravamo gli sconfitti, l’aveva cancellata.
Ora che non beviamo più alla fonte delle frottole, vorremmo che anche altri lo facessero. Non solo noi lo vorremmo, tanti amici sparsi per i vari continenti e altri residenti al Sud, come l’amico Zitara che ha speso tutta la sua vita per chiudere quel rubinetto di fandonie, lo vorrebbero.
Con l’acqua di quel rubinetto siamo cresciuti, sono state forgiate le coordinate interpretative della nostra storia, liberarcene è impresa ardua.
Quando noi che abbiamo saltato il fosso delle menzogne sentiamo o scriviamo certi nomi patrii, tipo Cavour o Garibaldi o Savoia, pensiamo alle migliaia di contadini morti oppure alle officine di Pietrarsa chiuse dopo l’unità, ma quando li sentono gli altri (ricordiamocelo, questi altri rappresentano il 99,9%) pensano ai padri della patria e nel migliore dei casi a roba vecchia, ottocentesca.
Che c’azzecca Garibaldi con la mafia e la criminalità organizzata, per esempio?
Che c’azzeccano i Savoia col malcostume meridionale?
Che c’azzecca Cavour con la mancanza di iniziativa imprenditoriale?
Se passiamo al termine “borbone” a noi viene in mente che Ferdinando II tramutò tutte le condanne capitali, che si inimicò gli Inglesi con la questione degli zolfi, agli altri viene in mente la bufala delle bufale ovvero quel falso storico della “negazione di Dio” del Gladstone, ‘gentiluomo’ inglese che non aveva mai visto una galera borbonica e lo ammise egli stesso, ma questa precisazione sui libri si storia non è mai passata.
Potremmo continuare all’infinito con i soliti luoghi comuni. Vallo a spiegare al ragazzo di Gioiosa che in Sicilia la mafia fece il primo salto di qualità appoggiando l’avanzata dell’eroe dei due mondi e che l’ordine pubblico nella Napoli garibaldina fu appaltato ai camorristi.
Magari ti obietta che bisogna guardare avanti, non al passato. Come possiamo fargli capire che è proprio in quel passato che non passa il nostro dramma maggiore, che se non ne prendiamo coscienza saremo sempre dei lacchè, dei senza patria, senza passato e senza futuro?
Noi che da anni, nel nostro piccolo, con estenuanti e infeconde discussioni con decine di amici e conoscenti, abbiamo provato a farlo, ci siamo resi conto che non è una questione culturale. Non si tratta più di riscrivere libri, di partecipare a convegni, di rendere omaggio ai nostri morti dimenticati.
Si tratta di semplice politica.
Solo un soggetto politico nuovo, unitario, può provocare un diffuso risveglio delle coscienze. Sta in noi che quel salto lo abbiamo fatto, la responsabilità di abbandonare tutte le diatribe, i personalismi, le piccole invidie e il nostro orticello e cercare di volare alto.
Qualche segnale in questi giorni lo abbiamo colto, speriamo che non si riveli effimero. Tanti “ragazzi di Locri” di varie età, sparsi per l’intera penisola e in altre parti del mondo, attendono quel segnale.
Solo così potremo riprenderci quello che – in un editoriale da leggere della rivista “L’Alfiere” – Edoardo Vitale definisce con una felice metafora “le chiavi di casa”.
Questo/a opera è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.
Bibiografia essenziale
L’UNITÀ TRUFFALDINA, Nicola Zitara – e-book (edizione elettronica)
IL SUD E L’UNITÀ D’ITALIA, Giuseppe RESSA – e-book (edizione elettronica)
LA STORIA PROIBITA – AAVV (Introduzione di Nicola Zitara)
L’UNITÀ D’ITALIA: NASCITA DI UNA COLONIA, Nicola Zitara
PER LA CRITICA DEL SOTTOSVILUPPO MERIDIONALE di E. M. Capecelatro e A. Carlo
STORIA DEL BRIGANTAGGIO DOPO L’UNITÀ di Franco Molfese
ITALIANI, BRAVA GENTE? di Angelo Del Boca – Editore Neri Pozza, 2005
L’UNITÀ D’ITALIA: GUERRA CONTADINA E NASCITA… di M. R. Cutrufelli
I SAVOIA E IL MASSACRO DEL SUD, Antonio Ciano, Grandmelò
L’IMBROGLIO NAZIONALE, Aldo Servidio, Guida Editore
LA CONQUISTA DEL SUD, Carlo Alianello, Rusconi Editore
L’eredità della priora, Carlo Alianello, Feltrinelli, 1963
I LAGER DEI SAVOIA, Fulvio Izzo, Controcorrente, Napoli
DUE SICILIE, 1830 – 1880, Antonio Pagano, Capone, Lecce
I NAPOLITANI AL COSPETTO DELLE NAZIONI CIVILI di Giacinto de Sivo
STUDI SUL MEZZOGIORNO REPUBBLICANO di Luca Bussotti
LA RAZZA MALEDETTA di Vito Teti
II RISORGIMENTO VISTO DALL’ALTRA SPONDA di Cesare Bertoletti
IL BRIGANTAGGIO IN IMMAGINI di Carlo Palestina
Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno 1860-1870 (Catalogo Macchiaroli, 1985)
Cattivi esempi – Storie dimenticate dell’Italia “perbene” (Mario Pacelli)
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Posted by altaterradilavoro on Gen 18, 2019
Tutti sanno che esistono
parecchie vie dedicate a Garibaldi, e anche diverse vie che portano il nome di
Nino Bixio. In alcune località è possibile trovare vie o piazze dedicate a
Vittorio Bottego e a Giovanni Miani. Chi erano questi ultimi? Se hanno dedicato
loro piazze o vie si intende che possano essere eroi, o perlomeno persone degne
di onore. Addirittura, al più noto Pietro Badoglio è stato rinominato un paese,
chiamato in suo onore Grazzano Badoglio (AT).
Tuttavia, chi fa ricerca storica si accorge che molti personaggi onorati o
spacciati per eroi nell’attuale sistema, in realtà erano criminali incalliti o
persone pronte a calpestare qualsiasi senso morale pur di avere fama e successo.
Ogni sistema premia o riconosce chi gli è affine.
Nella foto: Giuseppe
Garibaldi e i Mille sbarcano a Milazzo.
Per capire la natura del sistema attuale basterebbe accorgersi dei tanti
personaggi riconosciuti come eroi, ma che di fatto erano feroci criminali, che
ad oggi danno il nome a molte vie o piazze delle città italiane.
Ad esempio, a Parma troviamo un monumento dedicato a Vittorio Bottego, e in
altre città troviamo vie a lui dedicate. Questo personaggio fu uno dei più
crudeli che esplorarono l’Africa nella seconda metà del XIX secolo. Egli era
mosso, più che da intenti scientifici, da motivi politici e strategici: voleva
rendere più deboli le tribù indigene mettendole le une contro le altre, per
preparare il terreno alla conquista.
Bottego partecipò a diverse
spedizioni. Nel 1892 fu incaricato dalla Società Geografica Italiana di
esplorare il medio e basso corso del Giuba. Raggiunse il Ganale Doria e l’anno
dopo si spinse fino al bacino dell’Omo, armato di tutto punto e con 250 ascari
al seguito, come se si trovasse in battaglia e non su un territorio sovrano. A
Jellèm (Etiopia) la sua impresa fu definitivamente stroncata: nel tentativo di
attraversare l’Etiopia fu fermato e invitato a disarmarsi per avere salva la
vita, ma egli preferì combattere e morire.
Privo di scrupoli, Bottego
considerò gli indigeni alla stessa stregua degli animali, non ebbe la pur
minima considerazione della loro vita e della loro dignità e praticò ogni
genere di violenza, di cui parlò nei suoi stessi scritti. Egli, come altri
esploratori europei, raccontò di saccheggi, uccisioni, stupri e incendi. Si
sentì più che autorizzato a compiere crudeltà e massacri, e del resto,
l’atteggiamento di sopraffazione e di violenza prevaleva fra i colonialisti,
aizzato da numerose pubblicazioni come il “Bollettino della Società africana
d’Italia” che, ad esempio, scriveva:
“Siate ricchi, forti e vi rispetteranno. Allora il negro, al quale pel più
lieve gesto d’insofferenza voi avete assestato trenta colpi di frusta sulla
schiena, verrà da voi con una pietra sul collo perché gli schiacciate la testa
e vi bacerà i piedi e vi sarà grato che gli abbiate lasciato la vita”.(1)
Diversi massacri furono commessi anche dall’esploratore Giovanni Miani, che
così raccontò una delle sue scorribande in un villaggio:
“Io circondai l’incinta ponendo vari soldati agli usci, chi cercava di fuggire
era preso per così dire al volo. Il scek fu ucciso con tutta la sua famiglia,
poi mutilate le mani per cavargli i braccialetti d’onore, indi (i soldati) gli
tagliarono il membro portandolo in trionfo sopra una lancia. Dato l’assalto al
villaggio, ordinai di estrarre tutto il grano e gli animali che potevano. Il
saccheggio fu accordato a tutti i soldati e selvaggi nostri (…) Osservando
l’incendio ebbi un gusto superiore a Nerone perché mi feci accendere la pipa
col fuoco del villaggio.”(2)
Interminabili furono i
crimini di Pietro Badoglio. Egli fu nominato Governatore della Tripolitania e
della Cirenaica nel dicembre del 1928, e rimarrà in carica fino al dicembre del
1933. Sarà mandato in Etiopia da Mussolini durante la guerra di conquista.
In Libia darà inizio ad una lotta senza limiti di crudeltà, per realizzare la
riconquista definitiva e porre fine al controllo incerto che l’Italia aveva
avuto nel periodo di conquista precedente al fascismo. Badoglio, insieme a
Graziani, sarà il maggiore artefice delle crudeltà e dei massacri che saranno
perpetrati nelle colonie africane. Senza pietà egli commise i crimini più
efferati contro la popolazione inerme, utilizzando anche i gas tossici, oltre
alle deportazioni, ai lager e alle impiccagioni dopo processi sommari.
Nel 1930 Badoglio approvò
una grande offensiva per piegare definitivamente la resistenza libica. Le
operazioni di Graziani però daranno scarsi risultati. Gli insuccessi
sollevarono le critiche di Badoglio, che voleva inasprire ulteriormente le
misure e consigliava le deportazioni. Egli scrisse:
“Bisogna anzitutto creare
un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e
popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo
provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta
sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla
sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.(…)
urge far rifluire in uno spazio ristretto tutta la popolazione sottomessa, in
modo da poterla adeguatamente sorvegliare ed in modo che vi sia uno spazio di
assoluto rispetto tra essa e i ribelli. Fatto questo, allora si passa
all’azione diretta contro i ribelli”.(3)
La soluzione proposta da
Badoglio piacque anche a Mussolini, e si dette inizio alla deportazione dal
Gebel di 100.000 persone, che furono costrette ad abbandonare i propri villaggi
e a fare un viaggio senza ritorno.
Durante il viaggio almeno 15.000 persone persero la vita, alcune per fame o
sete, altre uccise dagli italiani o abbandonate nel deserto. Badoglio,
soddisfatto scriveva: “Bisogna assolutamente bandire il sistema arabo della
sparatoria da lontano (…) (occorre) essere feroce, inesorabile. Deve essere una
vera caccia al ribelle nella quale sarà redditizio ogni atto della più sfrenata
audacia.”(4)
Badoglio e Graziani, con il
pieno appoggio di Mussolini, avevano deciso di ricorrere ai metodi più spietati
per distruggere la resistenza libica, e anche il massacro dei civili risultava
utile. Dal novembre del 1929 al maggio del 1930, furono lanciate 43.500 bombe
in 1605 ore di volo, ma non sappiamo esattamente quante bombe furono caricate
di iprite.
Un telegramma di Badoglio a Siciliani e a De Bono consigliava di essere
spietati: “Si ricordi che per Omar al-Mukhtàr occorrono due cose: primo ottimo
servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa con aviazione e bombe a
iprite”.
Il 20 gennaio del 1931
Cufra, città santa per gli islamici, verrà occupata dopo un combattimento molto
aspro, in cui la resistenza sarà costretta a fuggire verso il confine con
l’Egitto e sarà inseguita e uccisa. Si verificheranno per tre giorni violenze
sfrenate e continui saccheggi da parte degli italiani sulla popolazione:
fucilazioni indiscriminate, torture anche su bambini e vecchi (ad alcuni
estirpati unghie e occhi), indigeni evirati e lasciati morire dissanguati,
donne incinte squartate e feti infilzati, testicoli e teste portati in giro
come trofei (molte foto terribili di questo e di altri eventi si trovano oggi
negli Archivi Storici di Addis Abeba).
L’11 settembre del 1931 Omar al-Mukhtàr fu catturato e impiccato dopo un
processo farsa che non considerò nemmeno l’età avanzata del prigioniero (oltre
70 anni). Nel processo fu accusato di tradimento ma in realtà egli non aveva
mai riconosciuto l’autorità degli italiani e non si era mai sottomesso al loro
potere.
Omar al-Mukhtàr era soltanto un vecchio che aveva lottato per venti anni contro
l’oppressione dello straniero e si era dovuto trasformare, da insegnante del
Corano, in partigiano combattente.
La condanna a morte di Omar al-Mukhtàr sarà eseguita davanti ai prigionieri
senussiti del campo di concentramento di Soluch, che furono costretti ad
assistere all’impiccagione del loro eroe, su cui per tanti anni avevano riposto
le loro speranze di libertà. Dopo la morte di Omar al-Mukhtàr la resistenza
senussita sarà sconfitta, e i pochi combattenti rimasti si arrenderanno oppure
si rifugeranno in Egitto, in attesa del riscatto che arriverà con la Seconda
guerra mondiale.
In Etiopia Badoglio utilizzò i gas anche per terrorizzare la popolazione e
sganciò bombe ad iprite senza sosta su villaggi, fiumi e laghi, uccidendo
persone inermi, anche vecchi, donne e bambini.
Con la guerra d’Etiopia, i funzionari della colonia ottennero notevoli
vantaggi, come anche la classe ricca, le banche, le grandi industrie e i
generali, che furono insigniti di titoli e di ricchi trattamenti economici. Ad
esempio, Badoglio ottenne una villa a Roma, un ricco vitalizio e il titolo di
duca di Addis Abeba.
Il 6 maggio 1946 un decreto
del governo De Gasperi istituì, presso il Ministero della Guerra (poi della
Difesa), una Commissione d’inchiesta per i presunti criminali di guerra
italiani, che fu attiva fino al 1948 (5); l’impegno principale della
Commissione fu di giustificare il rifiuto di consegnare i criminali alla
giustizia, accogliendo senza eccezioni le argomentazioni difensive. Il numero
stesso degli inquisiti andò assottigliandosi col passare del tempo.
Inizialmente, le richieste internazionali al governo italiano di estradizione
dei criminali di guerra ammontavano a 295. Nel 1946 il presidente del Consiglio
Alcide De Gasperi aveva reso pubblico un elenco di 40 persone tra militari e civili,
accusati di aver violato le leggi del diritto internazionale di guerra
compiendo crimini contro l’umanità; nel 1947 la Commissione governativa li
aveva ulteriormente e definitivamente ridotti a 29, ma nemmeno questi ultimi
verranno mai sottoposti a processo.
Il primo caso vagliato fu quello del generale Badoglio, accusato di aver usato
gas tossici e di aver bombardato ospedali della Croce Rossa durante la guerra
d’Etiopia. Malgrado le resistenze inglesi, gli etiopici (sostenuti anche da
Norvegia e Cecoslovacchia) riuscirono a persuadere la Commissione
internazionale a inserire Badoglio nella lista dei criminali di guerra col
“grado A” (il massimo), insieme ad altri gerarchi e generali.
Badoglio, insieme a Graziani, Pirzio Biroli, Gallina, Lessona e altri, aveva
fatto uccidere soltanto in Etiopia oltre 700.000 persone, eppure non sarà mai
processato per questi delitti.
Gli etiopici organizzarono una loro commissione nazionale sui crimini di
guerra. Nel 1949 l’Italia respinse la richiesta etiope per l’estradizione di
Graziani e Badoglio. Il 17 settembre l’ambasciatore etiope a Londra sottopose
la questione al Foreign Office, che consigliò di desistere. Così nessun
criminale fu mai estradato. Pietro Badoglio alla sua morte ebbe un funerale di
Stato.
A scuola ci hanno
raccontato una Storia d’Italia assai mistificata, in cui alcuni personaggi che
in realtà erano criminali o mercenari di bassa lega appaiono come eroi di
primario splendore. Questo risulta logico se si pensa che la stessa Unità
d’Italia fu un evento pilotato da chi deteneva il potere imperiale. Dire la
verità significa far comprendere il vero sistema di potere.
Garibaldi, spacciato per “eroe dei due mondi”, in realtà era un criminale al
soldo degli inglesi, per i quali aveva praticato il traffico di schiavi e il
saccheggio mediante la “guerra di corsa”. Nell’America del sud era stato
arrestato e condannato per aver rubato cavalli. Gli stessi Savoia si
lamentavano del suo comportamento a dir poco disonesto. In una lettera inviata
a Cavour, Vittorio Emanuele II, dopo lo storico “incontro di Teano”, scriveva
di Garibaldi: “Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima
faccenda Garibaldi, sebbene – siatene certo – questo personaggio non è affatto
così docile né così onesto come lo si dipinge, e come voi stesso ritenete. Il
suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male
immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il denaro
dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui, che s’è circondato di
canaglie, ne ha seguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese
in una situazione spaventosa”.(6)
L’11 maggio del 1860 i
Mille sbarcarono a Marsala, favoriti dalle navi della flotta inglese “Intrepid”
e “H.M.S. Argus”, ormeggiate al porto di Marsala (la flotta borbonica non
avrebbe mai attaccato gli inglesi). Fra i Mille c’erano diversi delinquenti
comuni. Garibaldi stesso aveva scritto: “Francesco Crispi arruola chiunque:
ladri, assassini e criminali di ogni sorta”.(7)
L’impresa dei Mille non fu altro che un modo per soggiogare la popolazione al
nuovo potere, e infatti, dopo l’unificazione d’Italia le repressioni saranno
ferocissime e riguarderanno molte regioni d’Italia, specie quelle meridionali e
il Veneto. Ovviamente, dopo l’impresa militare, nel 1864, Garibaldi sarà
accolto a braccia aperte dalla regina d’Inghilterra e dal ministro Henry John
Palmerston. Ufficialmente, in quell’incontro Garibaldi ringraziò le autorità
inglesi per l’appoggio dato alla spedizione dei Mille, ma non raccontò che da
molti anni era al soldo di Londra per commettere nel Sud America ogni sorta di
crimine.
Anche Nino Bixio, altro
personaggio spacciato per eroe, non risparmiò repressioni nel sangue. Ad
esempio, nell’agosto del 1860, egli represse nel sangue le proteste a
Biancavilla, Cesarò, Randazzo, Maletto e Bronte.
A Bronte i contadini avevano fatto ricorso alla giustizia, sostenuti
dall’avvocato Nicola Lombardo, ma tutte le cause intentate contro gli
usurpatori delle loro terre erano fallite. L’unica strada rimasta era quella
della sollevazione.
La repressione a Bronte fu feroce, gli insorti furono massacrati durante i
tumulti o arrestati e fucilati in seguito. Furono fucilate almeno cento
persone, che in nome dei principi propugnati dallo stesso Garibaldi si erano
riappropriate di alcune terre usurpate dai parenti di Nelson.
La responsabilità del massacro di Bronte sarà attribuita a Bixio, che in una
serie di lettere documentò gli eventi che portarono al fatto criminale. Ad
esempio, in una di queste, scritta il 7 agosto 1860 e inviata al maggiore
Giuseppe Dezza, dice di aver messo le “unghie addosso a uno dei capi”. Si
raccontò anche l’episodio del garzone che chiese il permesso di portare due
uova all’avvocato Lombardo, che si trovava in carcere, a cui Bixio disse
cinicamente: “altro che uova, domani avrà due palle in fronte!”. Lombardo sarà
fucilato insieme ad altre quattro persone, accusate di aver organizzato la
rivolta a Bronte.
I fatti di Bronte furono
considerati di poco conto e posti sotto silenzio dalla storiografia ufficiale,
per proteggere il mito di Garibaldi e dei Mille. Gli eventi furono in parte
chiariti soltanto da uno studioso di Bronte, il professor Benedetto Radice, che
pubblicò nell’Archivio Storico per la Sicilia Orientale, nel 1910, una
monografia dedicata a Nino Bixio a Bronte (1910, Archivio Storico
Siciliano).(8) Dopo questo scritto, molti sapevano dell’eccidio, ma nessuno
storico considerò questo e altri fatti per modificare l’interpretazione del
Risorgimento Italiano.
Nell’ottobre del 1985, il Comune di Bronte pose un monumento alla memoria delle
vittime delle repressioni. Sulla targa del monumento si legge: “Ad perpetuam
rei memoriam che nell’agosto 1860 di cittadini brontesi donò la vita in
olocausto – Amministrazione Comunale – 10 ottobre 1985”. Ciò nonostante, a
pochi metri è rimasta una strada dedicata a Nino Bixio, segno che i presunti
eroi, anche quando i fatti vengono a galla, tardano ad essere considerati per
quello che erano veramente, ovvero criminali al soldo del potere dominante.
Questi personaggi sono
diventati “eroi” proprio per aver sottomesso le popolazioni attuando crimini di
vario genere e promettendo cose che sapevano di non poter mantenere. Con
l’avvento di Garibaldi, i contadini siciliani si erano illusi di poter avere
quella libertà che chiedevano da tempo. Con un decreto, Garibaldi abolì la
tassa sul macinato e ogni altra tassa imposta dal potere precedente. Il 2
giugno 1860 emanò norme per la divisione delle terre dei demani comunali,
assegnandone una quota ai combattenti garibaldini o ai loro eredi, se caduti.
Con queste riforme Garibaldi accrebbe la sua popolarità, e accese le speranze
dei siciliani, che però ben presto dovettero accorgersi che le riforme erano
state soltanto un atto propagandistico, poiché la quantità di tasse da pagare
era quella di prima e la redistribuzione delle terre non era avvenuta. I
contadini sarebbero diventati ancora più poveri, e quelli che si sarebbero
sollevati sarebbero diventati “fuorilegge” e uccisi senza alcuna pietà.
Bixio, Garibaldi e altri
“eroi” obbedivano al diktat “Italia e Vittorio Emanuele”, che veniva indicato
in tutti i decreti come formula che conferiva poteri pressoché assoluti al fine
di imporre l’occupazione in vista dell’unificazione dell’Italia. Nell’art. 1 del
decreto del 17 maggio 1860 si legge: “Durante la guerra, il giudizio dei
reati…”, tale decreto avrà efficacia anche dopo la “sconfitta” dell’esercito
borbonico. Da ciò si inferisce che l’occupazione delle terre veniva considerata
uno stato di guerra, e le popolazioni “ribelli” dovevano essere trattate come
combattenti in guerra. Tutti coloro che si ribellarono al potere sabaudo furono
trucidati, repressi, oppure fucilati dopo un processo sommario nei Tribunali di
guerra. In altre parole, il popolo italiano fu considerato come un nemico in
guerra, e non come compartecipe ai fatti unitari. Nelle sollevazioni, il popolo
faceva richieste economiche precise, e la repressione scattava affinché queste
richieste venissero ritirate, in quanto non c’era alcuna intenzione da parte
dei Savoia di rispettare la sovranità popolare o di rendere più equa la
situazione economica dell’Italia.
I massacri della popolazione e le condanne a morte venivano attuati in nome del
re (che soltanto con la legge 17 marzo 1861 n. 4671 diventerà ufficialmente re
d’Italia), sulla base del decreto 17 maggio 1860 n. 84, da cui si legge “Le
sentenze, le decisioni e gli atti pubblici saranno intestati: In nome di
Vittorio Emanuele Re d’Italia”.
A sua volta, Vittorio
Emanuele obbediva alle autorità inglesi che lo avevano messo sul trono. Le
autorità inglesi difendevano gli interessi dei Lord e degli altri personaggi
dell’establishment. Ad esempio, a Bronte, il Console inglese, John Goodwin,
faceva continue pressioni affinché Garibaldi e l’allora Ministro dell’Interno
Francesco Crispi tutelassero a tutti i costi gli interessi
agricolo-patrimoniali dei Nelson. Nelle lettere, Goodwin invita a punire
l’avvocato Nicola Lombardo: “arrestare l’autore di tale assassinio onde essere
giudicato dall’autorità competente e condannato. (9)
In conclusione, ieri come oggi molti sono i falsi eroi nazionali, che in realtà
sono veri criminali, e molti veri eroi delle terre depredate dalle autorità
occidentali risultano essere considerati “terroristi” e per questo perseguitati
e uccisi.
Oggi, se volete essere consacrati ad eroi, andate a massacrare innocenti nelle
missioni estere, e se morirete ammazzati magari vi dedicheranno una via o una
piazza. Di sicuro diranno che siete “caduti per la libertà” e vi offriranno una
corona di fiori e una medaglia. La vostra vita sarà valsa una medaglia e molti
onori, mentre le vite innocenti che avrete distrutto non avranno nemmeno il
valore di un minuto di silenzio.
Antonella Randazzo
Fonte: http://lanuovaenergia.blogspot.com
Link:
http://lanuovaenergia.blogspot.com/2009/04/falsi-eroi-ma-veri-criminali.html
10.04.2009
NOTE
1) “Bollettino della
Società africana d’Italia”, 1882, cit. in Aruffo Alessandro, “Storia del
colonialismo italiano da Crispi a Mussolini”, Editrice Datanews, Roma 2003,
p.29.
2) Miani Giovanni, “Diari”, cit. in Aruffo Alessandro, “Storia del colonialismo
italiano da Crispi a Mussolini”, Editrice Datanews, Roma 2003, p. 28.
3) ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sottof. 2, in Del Boca Angelo, “Gli
italiani in Libia, dal fascismo a Gheddafi”, Laterza, Roma-Bari 1991.
4) ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98, cit. in Del Boca Angelo, “Gli italiani in
Libia, dal fascismo a Gheddafi”, Laterza, Roma-Bari 1991.
5) Sulle vicende della Commissione, cfr. in particolare F. Focardi e L.
Klinkhamer [a cura di], “La questione dei criminali di guerra italiani e una
Commissione d’inchiesta dimenticata”, in “Contemporanea”, a. IV, n. 3, luglio
2001, pagg. 497-528.
6) Smith Denis Mack, “Garibaldi, una grande vita in breve”, Arnoldo Mondadori
Editore, Milano 1993, p. 285.
7)www.brigantaggio.net/brigantaggio/Storia/Meridionale/Q37_Mafia.PDF+inglesi+terre+sicilia+contadini&hl=it&ct=clnk&cd=5&gl=it&ie=UTF-8
8) Sciascia Leonardo, “Nino Bixio a Bronte”, Edizioni Salvatore Sciascia,
Caltanissetta, 1963.
9) Radice Antonio, “Risorgimento perduto”, De Martinis & C., Catania 1995.
BIBLIOGRAFIA
Alianello Carlo, “La conquista del Sud – Il Risorgimento nell’Italia meridionale”, Rusconi, Milano 1982.
Ciano Antonio, “I Savoia e il massacro del Sud”, Grandmelò, Roma 1996.
De Matteo Giovanni, “Brigantaggio e Risorgimento – legittimisti e briganti tra i Borbone ed i Savoia”, Guida Editore, Napoli 2000.
Di Fiore Gigi, “1861. Pontelandolfo e Casalduni: un massacro dimenticato”, Grimaldi & C. Editori, Napoli 1998.
Di Fiore Gigi, “I vinti del Risorgimento”, UTET, Torino 2004.
Izzo Fulvio, “I Lager dei Savoia”, Controcorrente, Napoli 1999.
Pellicciari Angela, “Risorgimento da riscrivere”, Ares, Milano 2007.
Radice Antonio, “Risorgimento perduto”, De Martinis & C., Catania 1995.
Servidio Aldo,”L’imbroglo Nazionale”, Alfredo Guida Editore, Napoli 2000.
Smith Mack Denis, “I Savoia Re d’Italia”, Rizzoli, Milano 1990.
Smith Denis Mack, “Garibaldi, una grande vita in breve”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993.
Zitara Nicola, “Il proletariato esterno. Mezzogiorno d’Italia e le sue classi”, Jaca Book, Milano 1977.
Zitara Nicola, “Negare la negazione”, La Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria 2001.
fonte https://comedonchisciotte.org/falsi-eroi-ma-veri-criminali/?fbclid=IwAR0PDDcobZ7P-t7yBPVj-u4KGwUaVokcUMj7bqwEeQTaunU9iJuHqyxeqng
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Posted by altaterradilavoro on Gen 11, 2019
Un viaggio nella memoria. Smentito ad ogni passo, vuoi per un
asfalto recente vuoi per un tetto o una facciata rifatti. Solo le candele di
una centa
sembravano sempre le stesse, quelle di oltre sei lustri fa, quando seguimmo una
delle tante vie aperte da chi se ne era andato prima di noi, verso l’isola
felice del socialismo italiano, regione modello per eccellenza.
Altre volte eravamo riandati a Sud, nei decenni passati, spinti
dalla nostalgia o da impegni familiari. Stavolta però il viaggio nella memoria
era denso di presunzioni e di illusioni “duosicilianiste”.
Come prima tappa l’omaggio ad un maestro, Nicola Zitara, uno
storico che ha fatto della dignità meridionale una ragione di vita ed un
progetto politico: la indipendenza
del paese meridionale quale soluzione unica e improcrastinabile al problema
dei problemi, l’assenza di lavoro.
L’incontro si snoda tra appassionate ed estenuanti discussioni
notturne e viaggi in luoghi simbolo della cultura e della storia meridionale,
Gerace, Stilo, la ferriera di Ferdinandea, le fabbriche di armi e gli altiforni
di Mongiana.
Appassionate discussioni notturne
Sullo sfondo sia delle parole che dei passi sempre lei, l’isola
felice. Per noi, immagine-ricordo ingombrante, dove ormai sostano tanti
affetti. Per gli altri, immagine-modello di un nord ordinato, opulento,
invidiato e invidiabile.
Da imitare.
Modena, ah Modena, Reggio Emilia… gli asili all’avanguardia. Lo
avremmo sentito dire tante volte nel corso di questo viaggio nel Sud, tra
Campania, Calabria e Lucania.
A sud, invece, tutto da rifare, non funziona nulla. Solo mafia,
corruzione, insipienza politica. Iniziative zero.
“Questo sud ha bisogno di uno scossone morale. I destini dei
meridionali della diaspora e di quelli che oggi vivono al sud si divaricheranno
sempre di più, per interessi contrapposti.”
La necessità di una scossa morale la condividiamo, le
modalità per generarla un po’ meno. Forse da lontano si vede male,
distorto, non si percepiscono appieno la profondità e la vastità delle
contraddizioni di una società devastata dalla emigrazione prima e dal mito dei
soldi facili poi. Un mito che ha coinvolto tanti: a testimoniarlo una
militarizzazione veramente impressionante del territorio [la Locride].
Le scorribande tra passato, presente e futuro si inseguono e si
intersecano nei pochi giorni – o, meglio, soprattutto nelle notti! quando
Zitara dava il meglio di sé nelle discussioni – di permanenza a
Siderno.
Uno dei filoni d’indagine che meriterebbe di essere esplorato –
secondo il nostro ospite – è il “trattamento riservato alle
opposizioni” nei primi anni di vita unitaria. Sicuramente si
usarono maniere forti ed era pressoché impossibile opporsi.
Noi suggeriamo che fu il “brigantaggio” la vera
rovina del Sud: la paura dei briganti impedì alle classi dirigenti
meridionali di far valere le proprie ragioni nei confronti del nuovo stato.
Giocarono di rimessa, consegnando l’ex regno nelle mani dei piemontesi, senza
contropartite.
Tra una discussione e l’altra riusciamo a convincere Zitara a
postare un messaggio – intanto un amico napoletano dà un preavviso per
informare gli iscritti che eventualmente vogliano replicare o porre delle
domande – nel forum di Terra e Libertà.
Zitara percepisce la potenza del mezzo e le possibilità di dialogo
fra persone lontane che esso offre ma non ha un accesso personale diretto
a internet e dopo la nostra partenza non ci risulta abbia proseguito il
dialogo.
Per chi è interessato a leggere le repliche che non riportiamo in
quanto dovremmo chiedere le autorizzazioni agli iscritti al forum, basta
collegarsi a https://www.ngsoft.it/forum/
e leggersi – finché non verranno archiviati – i messaggi della discussione
intitolata: Sondaggio: autonomia o indipendenza?
Gerace
La Firenze del Sud, deve il suo nome a Jerax, sparviero, secondo
altri all’antico nome Bizantino “aghia kiriaki’” (S. Ciriaca). Il borgo poggia
su un rilievo arenario da cui si domina la quasi totalità del territorio della
Locride.
Il centro urbano conserva l’originaria struttura medioevale, è
ricco di chiese, palazzi, e strutture architettoniche particolari (Gotiche,
Bizantine, Normanne e Romaniche), i portali, le stradine, i monumenti, la
bellissima cattedrale Normanna, il castello, le chiese del X, XII sec.
Di Gerace oltre alla straordinaria vista panoramica, ci ricordiamo
di uno “strano” particolare, l’essere rimasti al sole per diverso tempo senza
aver avuto alcun problema – quando a Siderno si trovava difficoltà a fare una
passeggiata sotto il sole anche alle sei del pomeriggio.
Stilo
Situata alle pendici del Monte Consolino, dette i natali a Tommaso
Campanella. Centro di storia e cultura tra i più rappresentativi di tutta la
Calabria, tra le varie chiese e monumenti, di notevole interesse la cattedrale
detta “Cattolica“, esempio unico di arte bizantina.
Ci siamo immersi nel respiro del silenzio che invita alla
meditazione all’Eremo di Monte Stella, risalente all’epoca dei primi
insediamenti di eremiti.
Nella chiesa bizantina di San Giovanni Theristis, risalente al X sec., officiata dai
monaci greci, oltre a Padre Kosmas Aghiorita abbiamo incontrato Francesco,
giovane e altero calabrese, reduce dalla partecipazione alla Fiera di Rimini,
giugno 2005, al “Premio per il miglior sito comunale” per il sito https://www.bivongi.com.
Ferdinandea
Chi ama la storia di questo sfortunato paese e passa per le
Calabrie non deve sottrarsi a questa sorta di pellegrinaggio che noi –
assolutamente ignari di cosa avremmo trovato – abbiamo intrapreso tra fitti e
verdi boschi di faggi, guidati dall’instancabile Franco Z. e dalla vulcanica
Antonia C., insostituibili compagni di viaggio.
“Ma questa è Atlantide!” ha esclamato mia moglie di fronte
all’imponenza del complesso che prorompe dalla vegetazione che l’ha sommersa e
nascosta alla vista in più parti.
Ferdinandea, emblema
di un glorioso passato sconosciuto alla stragrande maggioranza degli stessi
meridionali – lo avremmo verificato nel prosieguo di questo viaggio a sud.
Un nome che non è finito sui libri di storia, almeno quella insegnata nelle
scuole e nelle accademie, rimanendo perciò ignota. Venne destinata, nella prima
metà del 1800 a sede della direzione delle Regie Ferriere e della Fonderia,
stabilimenti già in funzione da tanto tempo, e costituenti fonte di reddito per
tutta la zona.
Il complesso residenziale comprende una Cappella o Oratorio, che
esiste tuttora ma a cui è vietato accedere.
All’interno della tenuta, dimora estiva di Ferdinando II, accanto al
laghetto artificiale, abbiamo incontrato due giovani con un gruppo di scout.
Siamo rimasti piacevolmente sorpresi nello scoprire che essi avevano un
opuscoletto contenente alcuni appunti su Ferdinandea [ringraziamo Maria Federica di Bovalino per averci dato copia
delle due pagine che riproduciamo per intero]. Una prova tangibile che a Sud la vulgata risorgimentale si sta
incrinando, che iniziano a circolare documentazioni storiche che negli scorsi
anni erano appannaggio di pochi isolati cultori di storia meridionale.
Mongiana
Per evitare di tornare indietro, vista la distanza da Siderno,
lasciamo la visita a Mongiana per il giorno della partenza, del ritorno in
Campania, destinazione Vallo di Diano.
A Mongiana sono ancora visibili i resti di un vero e proprio complesso
siderurgico sulle rive del fiume Allaro, di un altoforno sopravvissuto alle
intemperie e alla incuria degli uomini e di una fabbrica d’armi, destinata alla
produzione di cannoni, doppiette, sciabole, ma anche di utensili (bracieri,
mortai) e balconi – mia moglie faceva notare, passeggiando per il paese, le
personalizzazioni delle ringhiere visibili nei balconi meno recenti di quasi
tutte le case.
Dopo la visita alla fonderia [vedi
foto] , in Via Carbonile incontriamo un
gentilissimo signore del luogo che ci chiede se abbiamo bisogno di passare
dietro casa sua. Noi non resistiamo alla tentazione di domandargli cosa avesse
sentito dire da piccolo dagli anziani del paese. Ne nasce una intervista non
programmata, dove la storia con la esse maiuscola si incrocia con quella
personale di emigrante prima e di forestale dopo, con tanti rimpianti per una
vita che sarebbe stata diversa se non avessero smantellato la fabbrica
di Mongiana e portato tutto a Brescia [forse
la storia non andò proprio così ma ci è andato molto vicino].
Tra le altre cose che il signor Angelletta dice – durante
la conversazione che riportiamo per intero – è che “a quei tempi
quando suonava la campana si passava a prender la paga, non come adesso che ti
fanno aspettare anche sei mesi“.
La fabbrica d’armi, edificio essenziale, la cui entrata è
sormontata da due enormi colonne doriche di ghisa massiccia, è in restauro e
non abbiamo potuto visitarla. In questa fabbrica furono fusi i binari della
prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici.
L’altra tappa è stata la fabbrica dei cannoni, di cui si è persa
finanche la memoria negli stessi abitanti di Mongiana. Dopo alcune domande
senza risposta, un anziano signore ci ha indirizzati per un sentiero che porta
a valle, lungo il fiume Allaro. Ci siamo incamminati in cinque ma un giovane
abitante incontrato lungo la strada ci ha vivamente sconsigliato di proseguire.
E così siamo andati avanti solo in due, chi vi scrive e l’infaticabile Franco.
Solo una buona dose di follia o una grande passione può spingerti sotto lo schioppo del sole del primo pomeriggio, per
giungere qualche chilometro più in basso, oltre il ponte di cui aveva parlato
l’anziano signore delle prime indicazioni, ad un muracene che solamente una pietra rossastra tipico scarto da fusione testimoniava
l’antica esistenza di una fabbrica di cannoni. Vana la ricerca di qualche segno
più evidente tra le siepi che ricoprivano tutto.
Poco prima del ponte l’insegna del famoso “Sentiero naturalistico
Frassati” un sentiero che per i luoghi che tocca costituisce una sorta di
crocevia in cui s’intrecciano le vie del monachesimo, del naturalismo e della
civiltà industriale.
Sul tardo pomeriggio giunge quell’ora – triste per ogni
viaggiatore – in cui dobbiamo salutare i nostri ospiti che se ne tornano verso
la costa jonica, a casa propria. Noi decidiamo di pernottare. Una decisione
davvero, saggia, in quell’albergo di Mongiana abbiamo riassaporato il piacere
del silenzio dopo aver sofferto la chiassosa Siderno notturna.
All’indomani di nuovo sull’A3 – stavolta oltre i cantieri
esistenti tra Lamezia e Rosarno – verso il Vallo di Diano. Il solito mistero
dell’obbligo di procedere a 60 km all’ora nella zona di Sibari lungo un
pezzo di autostrada in cui i lavori parevano terminati. Ovviamente nessuno
rispettava quell’assurdo e incomprensibile limite – avremmo scoperto di lì ad
una settimana che era dovuto – parola di giovane camionista conoscitore del
tratto che percorre spesso – alla cedevolezza del fondo stradale appena
realizzato [verità o leggenda metropolitana?].
La capitale
Napoli, bella e maledetta.
Vi capitiamo in uno dei giorni più torridi di luglio. Lasciata la stazione,
dalle parti di via Torino finiamo in un dedalo di vie, una delle quali
completamente colonizzata da extracomunitari, dai marciapiedi ai negozi, al via
vai di camion che scaricavano e caricavano merci.
Abbandoniamo l’idea di proseguire a piedi. Ad una fermata dei bus
incontriamo il “solito napoletano” che ti spiega con dovizia di particolari
cosa prendere per andare dove vuoi andare. Si tratta probabilmente di una
questione fortuna, ma tutte le volte che passiamo per Napoli incontriamo sempre
non i soliti scippatori ma i soliti napoletani gentili che se potessero ti
accompagnerebbero direttamente alla tua destinazione. Con questo non vogliamo
dire che Napoli sia la città più sicura del mondo, ma quando si gira in una
qualsiasi metropoli del mondo bisognerebbe muoversi con un po’ di circospezione
invece che con i paraocchi del pregiudizio.
Il nostro primo appuntamento è col direttore de “ilbrigante” col
quale riusciamo finalmente a incrociarci in Piazza Municipio per poi
andare a rifugiarci via Partenope a due passi dal mare, al ristorante
“Anema e Cozze” dove resteremo per qualche ora a parlare del Nord e del Sud,
ovviamente. E anche qui, un nostro interlocutore occasionale col cuore che
batte a destra – politicamente parlando – si spertica in lodi del modello
emiliano-romagnolo. Praticamente una rivisitazione riveduta e corretta del
“FUJETEVENNE” di eduardiana memoria. E noi venuti dal nord ordinato e opulento,
finiamo per dover erigere barricate contro i soliti luoghi comuni sul
malcostume e il malgoverno meridionali, cercando di sostenere le ragioni di un
sud da cui siamo lontani da decenni e di cui forse conserviamo una visione
mitologica e intellettualistica.
Il nostro secondo appuntamento – sempre a Piazza Municipio, dove
ci conduce il direttore de “ilbrigante”, a cui ormai abbiamo bruciato, pur
senza volerlo, tutto il pomeriggio – è con un giovane amico dell’agro
nocerino-sarnese strappato al ristoro delle acque del Tirreno e catapultato a
Napoli in pieno solleone. Un altro gesto di sincera amicizia difficile da
dimenticare. Andiamo in un bar a Mergellina, dove nonostante la calura
insopportabile, trascorriamo due ore piacevoli, finalmente con un paio di
meridionali – G. ed E. – che non fanno professione di autorazzismo e non hanno
timori reverenziali verso alcun nord.
Era il sud che cercavamo, anche se si tratta di un sud
minoritario. Per ora.
Quando su Mergellina cala la sera, dobbiamo abbandonare i nostri
amici e riprendere il treno verso Battipaglia. E finire sull’inferno della A3,
un vero incubo tra Contursi e Atena lucana, un corridoio strettissimo con le
macchine che ti abbagliavano contro ed un disgraziato (sudico o nordico che
fosse, si trattava di un vero delinquente) che ci tampinava ad una paio di
metri col suo camion – e non è che noi potessimo andare più veloci visto
che a un centinaio di metri ci precedeva un gruppo di auto ad andatura
regolare. Ad Atena Lucana termina l’incubo e ci salutiamo con un reciproco e
sonoro “vaffan….”.
Il Cilento
Per noi il Cilento è il luogo dell’anima, perché è il luogo
dell’adolescenza: vi abbiamo frequentato elementari, medie, secondaria superiore.
Partendo da Teggiano,
la cittadina della “Congiura dei Baroni”, ci siamo mossi tra Sacco,
Piaggine, Roscigno vecchia, passando il più delle volte per la Sella
di Corticato. Una volta per il passo della Sentinella, partendo da San
Rufo, il paese di Nicola
Marmo, poeta e scrittore, autore dell’amara satira postunitaria “Roma
liberata”.
Prima di partire per il Sud, mi diceva per telefono un amico
napoletano che ora risiede in Lombardia “dove son nato io, ora c’è un
gommista”, ebbene dove son nato io, nel Vallo di Diano, ora c’è un posto
macchina! Ma la nostalgia non è per quel posto macchina, è tutta per il Cilento,
terra dei tristi al tempo dei borbone, terra d’emigrazione dai piemontesi ai
giorni nostri.
Il terremoto ha stravolto il paesaggio urbano facendo fare un
salto di decenni negli standard abitativi, ma ora diversi angoli del paese si
riconoscono a fatica e tante case rimesse a nuovo sono completamente
disabitate!
Una classe politica incapace e soggiogata al centro politico
padano-romano ha dilapidato una occasione sprecando un fiume di miliardi in
assurde e inutili ricostruzioni di case oggi rifugio di qualche barbagianni.
Scrive Alessandro Cavalli in “COME REAGISCE LA COMUNITA’”,
1998:
“E qui la variabile cruciale è la cultura delle élites locali –
politiche, economiche e culturali – che sono in fondo le depositarie della
memoria e dell’identità collettiva, e che guidano, magari attraverso processi
dialettici e conflittuali, il processo della ricostruzione. Perché un disastro
è sempre un’occasione, peraltro non cercata, per riflettere su se stessi, per
riflettere su cosa si è e su cosa si vuole essere nei confronti del proprio
passato e del proprio futuro.”
E ci siamo chiesti e continuiamo a farlo perché il modello Friuli
che pur si è cercato di adottare – secondo noi sbagliando perché si trattava di
un modello importato, estraneo alla nostra cultura e alla nostra storia – da
noi non ha avuto successo: si ricostruiscono o si creano ex-novo le attività
produttive, poi con i redditi da lavoro si ricostruiscono anche le case.
Una ricetta semplice, per un’area contigua alle aree
economicamente forti, forse meno praticabile in un sud bloccato tanti anni fa
da una guerra civile nel suo percorso verso la modernità.
“Non è stato poco e non è vero che non è cambiato niente, è
cambiato eccome” ci scriverà poi, in questi giorni, il giovane amico
dell’agro nocerino-sarnese, a proposito del tracollo del Regno delle Due
Sicilie e della sua annessione al Piemonte. Ma per molti è roba vecchia
passata. Non ne vogliono sentir parlare, secondo tanti meridionali col Sud di
oggi non c’entra granché. Oggi i problemi del Sud sono altri, non certo come si
è formato questo paese.
A questo ci hanno ridotto.
Peccato che si tratti di un passato che non passa. Da cui tutto
discende, sottosviluppo ed emigrazione. Una guerra civile che ha visto migliaia
di uomini in armi combattersi con ferocia e crudeltà e che ha lasciato un astio
profondo tra il nord e il Sud del paese, che ha alimentato le diffidenze
reciproche e non ha mai aiutato a far decollare uno sviluppo armonico
dell’intera Italia.
Anche la terminologia testimonia lo scontro decennale tra esercito
e guardia nazionale da una parte e guerriglieri meridionali dall’altra, “quelli
del Nord” e “quelli del Sud” sono le espressioni migliori del
vocabolario nazionale postunitario. Anche oggi, o no? Pensate alla vostra
esperienza personale e datevi una risposta.
Noi, in questo ennesimo viaggio dei luoghi della memoria, nel
salutare amici che non vedevamo da otto-dieci anni ci siamo sentiti rivolgere
battute tipo: “sei ancora neoborbonico”, “fai ancora parte del
movimento di liberazione del Sud” e altre amenità del genere.
Ovviamente non siamo né iscritti al Movimento Neoborbonico [nel caso, non ce ne vergogneremmo e comunque abbiamo amici
carissimi che ne fanno parte] e né siamo
separatisti, anzi non lo siamo mai stati. Anche di questo non ci vergogneremmo,
ovviamente, nel caso lo fossimo.
Abbiamo solo fatto qualche
lettura che non accetta la vulgata risorgimentale, tutto qui. Riteniamo che
questo paese sia nato sopra un
imbroglio e che sarebbe da rifondare sottoponendo ad una operazione di
verità la sua storia fondante. Solo così i meridionali avrebbero qualche
ragione per non vergognarsi di se stessi e i settentrionali qualche ragione per
non sentirsi superiori ad essi.
Cosa non da poco.
Anche stavolta, estate 2005, siamo finiti impantanati nelle solite
discussioni, nelle solite visioni palingenetiche e messianiche in cui non crede
più nessuno, ma qualche amico meridionale invece sì. Stiamo parlando della
sinistra, nel caso non lo si fosse capito. L’emigrazione sarebbe ripresa solo
ora, con questo governo [di cui a noi importa
meno di nulla, ma i fatti sono fatti] e non negli
anni 1997-98 quando le statistiche già parlavano di 60-70mila persone che
abbandonavano il Sud ogni anno, ma sui giornali non se ne parlava, ora invece
si fanno i paginoni sul “fenomeno in ripresa”.
Del decreto
fiscale 56/2000, approvato dal governo di centrosinistra e applicato da
quello di centrodestra, non sa niente nessuno. Se parli di Vera Lutz [che tanto piace al nostro presidente del consiglio] e delle sue teorie sulla
necessità di concentrare
al nord lo sviluppo, ti guardano come un
marziano.
Il destino dei popoli è simile a quello degli individui: esistono
persone fortunate, a cui va tutto per il verso giusto e altre, invece, a cui la
sorte matrigna riserva bocconi amari in quantità.
Il popolo meridionale prima della unificazione nazionale viveva in
uno stato indipendente, che marciava con un suo particolare ritmo verso la
modernità, possedeva una delle migliori marinerie del tempo, alcuni
insediamenti industriali, delle buone leggi, un’agricoltura in trasformazione.
Una serie di sfortunate coincidenze storiche e geopolitiche [da tempo l’Inghilterra voleva dare una sistemata al
Mediterraneo, a testimoniarlo un articolo apparso su “The Globe” del
12 maggio 1849, dove si tracciava una nuova configurazione dell’Europa che
prevedeva, tra l’altro, in Italia un regno dipendente da casa Savoia] ne decretarono il tracollo militare, politico ed economico e
resero questo paese una delle zone più arretrate dell’Europa occidentale.
Se il problema – su questo possiamo essere d’accordo – è quello
della formazione di una nuova classe dirigente, come si fa a generarla o a
farla emergere senza uno scatto di orgoglio che parta dalla propria storia?
Lo si potrà fare non certo rimestando i soliti luoghi comuni, ma
chiarendo quelli che sono stati i punti cardine della formazione
dello stato unitario prima e della ricostruzione del secondo dopoguerra poi.
* * *
Altre due tappe di un’estate in bilico tra memorie d’infanzia e ricerca storica avrebbero dovuto essere una seconda visita a Rionero in Vulture, patria di Crocco (di cui quest’anno ricorreva l’anniversario della morte), e una visita all’Archivio di Stato di Salerno nel quale si troverebbero notizie sul processo seguito ai fatti di Pontelandolfo e Casalduni, ma dei banali problemi tecnici alla nostra vettura lo hanno impedito.
fonte https://www.eleaml.org/sud/atlantide/atlantide.html
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Posted by altaterradilavoro on Ott 21, 2018
Basta che si manifesti il desiderio di votare per il mantenimento dei Borbone, perché si venga arrestati e rinviati a giudizio per rispondere di attentato a distruggere la forma di Governo; basta un semplice sospetto, perché si proceda al fermo preventivo che impedisce a numerosi cittadini di partecipare alle operazioni di voto.
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