Alta Terra di Lavoro

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SELVAGGI E FERRARELLI PER LA DIGNITA’ MILITARE DUOSICILIANA

Posted by on Mag 14, 2019

SELVAGGI E FERRARELLI PER LA DIGNITA’ MILITARE DUOSICILIANA

Tra i libri più validi e curati per la conoscenza reale e non retorica – dolosamente retorica da parte dei conquistatori del nostro Sud – segnaliamo  il classico studio di Roberto M. Selvaggi: “NOMI E VOLTI DI UN ESERCITO DIMENTICATO“ – GLI UFFICIALI DELL’ESERCITO NAPOLETANO DEL 1860 – 61 – Napoli, Grimaldi & C. Editori 1990.


La prefazione dell’autore che riportiamo, è un distillato del lavoro meticoloso e certosino che ha contribuito alla restituzione della dignità militare duosiciliana che la vulgata forzatamente indotta dalla educazione della Nazione Italia ha con basso profilo e grande cialtroneria definito  “l’esercito di Franceschiello”.


Accanto a questo segnaliamo il libro di Giuseppe Ferrarelli “Memorie Militari  del Mezzogiorno d’Italia”, pubblicato da Laterza nel 1911 con una prefazione di Benedetto Croce .


Ferrarelli fu un giovane ufficiale borbonico educato alla Nunziatella di Napoli, la prestigiosa accademia militare officina di soldati di gran valore; egli rappresenta emblematicamente quei militari duosiciliani che tradendo il giuramento borbonico, aderirono all’esercito italiano.


Il Ferrarelli ebbe però il raro merito rispetto alla ufficialità camaleontica meridionale di ricredersi e di rifiutare le umiliazioni e derisioni a cui i vincitori graduati piemontesi li sottoposero: si ritirò ancor giovane, denunciò “l’unificazione d’Italia che fu, negli anni seguiti al sessanta, compiuta brutalmente, non fu italiana ma francese e giacobina, senza tener conto delle diversità regionali che sono forze da non dispregiare, distruggendo a furia formazioni storiche che potevano sopravvivere e cooperare efficacemente nella nuova storia italiana…mentre prevalsero il piemontesismo e la livellazione…”.


Lo stesso Ferrarelli quantunque affiancato al criminale generale Pinelli nella campagna di guerra – invero di conquista – del brigantaggio “costretto ad assistere a fucilazioni talvolta precipitose di borghesi, chiese ed ottenne di essere trasferito a Bologna, perché disse francamente al Pinelli ch’egli si era preparato a far la guerra, ma non le fucilazioni.” (1); infine il Ferrarelli trascorse la sua vita nella scrittura e commemorazione dell’esercito borbonico e degli ufficiali educati dalla Nunziatella, seppure una sua mitezza di carattere gli impedì di denunciare in modo netto talune responsabilità degli stessi nella umiliazione di una tradizione militare meridionale, sarebbe stato d’altro canto chiedergli troppo,  egli stesso faceva parte della cordata…

(1) Cit. la prefazione di Benedetto Croce al libro “Memorie Militari…”  e “PAGINE SPARSE” DI Benedetto Croce “Giuseppe Ferrarelli” pp.193-195, Ricciardi Editore Napoli, MCMXLIII.  Croce era nipote di Ferrarelli.




Dal testo di Roberto M. Selvaggi


…Il 20 maggio 1860, Giuseppe Garibaldi, con un migliaio di volontari, sbarcava a Marsala e iniziava la trionfale marcia verso Napoli, dove sarebbe entrato, il 7 settembre 1860, meno di cento giorni più tardi.  Per fronteggiare l’aggressione, il governo napoletano poteva contare sulla prima flotta italiana e su di un esercito di più di cinquantamila uomini.

La truppa, ben addestrata, fedele alla dinastia, era desiderosa di combattere e soprattutto di vincere. L’ufficialità,  a cominciare dalla classe dei generali, veri responsabili dello sgretolamento dell’esercito,  sia in Sicilia che in Calabria, era profondamente divisa fra coloro i quali ritennero di dover contribuire alla disfatta, per agevolare la conquista garibaldina, e fra quelli che ritennero di dover difendere onorevolmente l’indipendenza del regno meridionale e la dinastia regnante.

Nel mezzo di queste due posizioni si collocò una nutrita parte di loro, che non fece nulla, se non attendere passivamente gli eventi per poi decidere, nel momento più opportuno, di passare con il cavallo vincente. in Sicilia, a cominciare dal primo impatto con Garibaldi a Calatafimi, dove il decrepito generale Landi, non impegnò che una  piccola parte delle sue forze, rinunciando alla vittoria sin dal primo momento, pur di garantirsi la ritirata verso Palermo, i soldati si batterono bene quando furono guidati  da ufficiali coraggiosi, come a Catania ed a Milazzo.

I generali non furono all’altezza del compito e, con i primi insuccessi, iniziò a serpeggiare il disfattismo strisciante che  ebbe il suo culmine nello sfacelo delle truppe napoletane in Calabria.

Nel giugno del 1860,  Francesco II concedeva la costituzione perdendo il controllo dell’armata che passava al  ministero della guerra affidato al generale Giuseppe Salvatore Pianell. A lui spettò il compito di organizzare la difesa delle province continentali.

La sua condotta ambigua e  oscillante, la scelta dei comandanti di brigata, la dislocazione dei reparti, i meno affidabili dell’esercito, fece sì che la resistenza non ci fosse affatto e

Garibaldi, in sole diciassette giorni, poté giungere indisturbato a Napoli.

Francesco II decise, riprendendo le sue prerogative, di abbandonare la capitale e la difesa sulla linea  di Salerno. Lo fece per un motivo preciso ignorato dagli storici. Volle poter tentare  un’ultima resistenza, potendo contare su una ufficialità fedele e decisa a giocare le ultime  carte con coraggio e con valore.

Non a caso affidò il comando dell’esercito, forte ancora di  trentamila uomini bene equipaggiati, a un generale, forse non dotato di particolari qualità strategiche, ma sicuramente devoto alla dinastia ed al paese.

Il 7 settembre fu l’ora della  verità per l’ufficialità napoletana e molti preferirono dare le dimissioni dal servizio, molti passarono con Garibaldi e la maggior parte si riunì sulle rive del Volturno dove, con  spirito di sacrificio, affrontò valorosamente l’ultima campagna che si concluse con l’eroica  difesa di Gaeta, chiudendo con onore l’ultima pagina della sua storia.

La storia militare di  quegli ufficiali ebbe termine con la res di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, mentre  iniziava la diaspora voluta dai piemontesi che si comportarono da conquistatori e non da  italiani.

Soltanto i due generali Pianell e Nunziante vennero immediatamente ammessi nell’esercito italiano col grado corrispondente a quello che avevano nell’esercito napoletano.

Tutti gli altri vennero affidati a uno scrutinio selettivo, a seconda del loro grado di italianità o, per meglio dire, di lealtà verso la deposta dinastia. Ad essi  vennero riconosciuti i gradi avuti fino al 7 settembre del 1860, quasi che i successivi atti  di valore e la fedeltà ad un giuramento, fossero motivo di biasimo e di punizione.

Fu così  che uomini valorosi giunti ad aver meritato fino a due promozioni, al termine dell’assedio di  Gaeta, dovettero scegliere tra il congedo e l’umiliante ammissione nell’esercito italiano con il vecchio grado.

Ufficiali di giovane età vennero messi a riposo, non senza averli prima costretti a giurare fedeltà al nuovo governo, in maniera che, se avessero  preso le armi o la semplice parola contro il nuovo ordine di cose, sarebbero stati giudicati da un tribunale militare. Molti varcarono così le porte delle carceri militari del Piemonte  per il solo motivo di essersi rifiutati di prestare giuramento.

Molti subalterni si dettero  alla macchia e parteciparono alla resistenza armata, comunemente battezzata “brigantaggio”,  rischiando la vita davanti ad un plotone di esecuzione. Molti dovettero condurre una vita di  stenti e di miseria.

Quelli poi che furono ammessi come effettivi nell’esercito italiano furono sottoposti allo scherno ed al sarcasmo dei colleghi piemontesi e furono inviati in lontane guarnigioni dell’alta Italia o, peggio, furono destinati alla lotta al “brigantaggio”, trovandosi costretti a combattere contro i propri concittadini per poter  sopravvivere.

A questo amaro destino non si poterono sottrarre nemmeno quelli che avevano  contribuito fattivamente alla conquista garibaldina. Non pochi furono i casi di suicidio e  di espulsione dall’esercito per “viltà” nella lotta al “brigantaggio”. Le istituzioni militari dell’antico regno, come quelle civili, vennero spazzate via dal governo unitario e  con la distruzione sistematica e spesso violenta della memoria, sull’esercito napoletano  cadde un velo d’oblio. 

E’ stato difficile persino poter ricostruire i nomi dei caduti nelle campagne del 1860,  perché ai napoletani non fu consentito di onorarne la memoria. Senza l’acquisizione da parte  dello stato italiano, in tempi ancora recenti, dell’archivio di Francesco II, questo libro  non avrebbe potuto essere scritto perché, il lavoro di distruzione fu meticoloso e completo  nel periodo successivo all’unità.

E’ utile ricordare che negli anni che vanno dal 1861 al 1870, nelle province meridionali, era sufficiente avere in casa un ritratto dei sovrani spodestati o semplicemente una medaglia o una uniforme, per non parlare di una sciabola, per essere processati e incarcerati.

Con un paziente lavoro anagrafico e di ricerca ho cercato di riscrivere quella storia le biografie di quei militari dimenticati, sia di quelli che dettero il loro contributo alla formazione dello stato unitario che di quelli che ritennero di dover difendere l’autonomia meridionale combattendo fino all’ultimo.

La ricerca non ha pretese letterarie e scientifiche ma potrà essere di valido aiuto a chi vorrà approfondire la storia della fine del Regno di Napoli….

Sebastiano Gernone

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La vera storia dell’impresa dei mille 8/ Anche Indro Montanelli ammette il ruolo della mafia. La misteriosa morte di Ippolito Nievo

Posted by on Mag 5, 2019

La vera storia dell’impresa dei mille 8/ Anche Indro Montanelli ammette il ruolo della mafia. La misteriosa morte di Ippolito Nievo

In questa ottava parte del volume “… e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò Colonia”, Giuseppe Scianò elenca le prese di posizione di alcuni storici e commentatori. Dalle dichiarazioni sincere – ma anche dalle bugie – emerge con chiarezza il ruolo degli Inglesi, che avevano preparato lo ‘sbarco dei mille’ con meticolosità. Ed viene fuori, soprattutto, il ruolo dei ‘picciotti’ di mafia  

di Giuseppe Scianò

Commenti e testimonianze sullo Sbarco dei garibaldini avvenuto a Marsala l’11 maggio 1860 – Sulle vicende di Marsala si è scritto parecchio e si è detto tutto ed il contrario di tutto. La verità che si sia trattato di un colpo di mano inglese, non occasionale, ma inserito in un piano ben preciso, tuttavia, emerge a poco a poco e in modo inoppugnabile dalle tante dichiarazioni sincere e, paradossalmente, anche dalle tante bugie. Si tratta di testimonianze tirate in ballo, le une e le altre, da coloro che, da diversi punti di vista e talvolta con interessi contrapposti, si sono occupati, volontariamente o involontariamente, delle vicende risorgimentali siciliane.

Non potendole citare tutte, abbiamo riportato le testimonianze più significative, citandone di volta in volta le fonti.

Indro Montanelli – Un unitario e risorgimentalista impenitente, Indro Montanelli, il quale già in altre occasioni aveva fatto qualche battuta a proposito dell’accoglienza che i Siciliani avevano riservato a Garibaldi ed ai suoi Mille a proposito dello sbarco così ebbe modo di esprimersi:

«Gli inizi non furono promettenti. L’unico che diede un caldo benvenuto ai volontari fu il Console inglese. La popolazione si chiude in casa. E lo stesso vuoto incontrò la colonna l’indomani, quando si mise in marcia. Solo a Salemi, Garibaldi fu accolto con entusiasmo, perché a lui si unì una banda di “picciuotti” comandata dal Barone Sant’Anna. Se un “pezzo di novanta” come lui si schierava con Garibaldi, voleva dire che su costui c’era da fare affidamento». (13)

Ci sentiamo in dovere di precisare che le virgolette sono nostre. Non ne potevamo fare a meno, soprattutto nel momento in cui appaiono i picciotti di mafia ed il loro pezzo da novanta, Barone Sant’Anna.

Non ci pare nemmeno corretto che il Console di S.M. Britannica sia lì, in piazza, a farsi in quattro per festeggiare l’inizio dell’invasione di quel Regno delle Due Sicilie, presso il quale egli stesso ha svolto e continua a svolgere compiti di rappresentanza diplomatica (si fa per dire, perché è fin troppo evidente il suo ruolo di agente del Governo di Londra incaricato di agevolare azioni destabilizzanti di ogni tipo). Analoga considerazione vale per il Console Sabaudo. Ma Montanelli non si preoccupa di evidenziare questo particolare.

Va tutto bene lo stesso? No, certamente. Ma è sufficiente constatare che il famoso Indro abbia ammesso che a Marsala la gente si chiuse in casa e vi restò chiusa anche durante la partenza di Garibaldi alla volta di Salemi. Ed il Montanelli parla chiaramente anche dell’apporto della mafia. E non è poco… per un unitario di ferro.

Giuseppe Cesare Abba – Persino l’Abba è costretto a parlare delle bandiere Inglesi. Si vede che erano veramente molte. Anzi: troppe! A sbarco già avvenuto, scrive nelle sue noterelle, proprio con la data dell’11 maggio 1860:

«Siedo sopra un sasso, dinanzi al fascio di armi della mia compagnia, in questa piazzetta squallida, solitaria, paurosa».

Dopo qualche osservazione sul Capitano Alessandro Ciaccio, che piange di gioia e dopo aver fatto qualche altro piccolo riferimento di cronaca, il nostro Autore aggiunge:

«Su molte case sventolano bandiere di altre nazioni. Le più sono Inglesi. Che vuol dire questo?». (14)

Si è detto che l’Abba pone un quesito al quale crediamo di avere risposto abbondantemente. Ma riteniamo che gli avessero già risposto esaurientemente quasi subito altri autori. E riteniamo altresì che l’Abba si sia risposto da sé, nel momento in cui è costretto ad ammettere che sventola una grande quantità di bandiere Inglesi.

Un fatto strano, comunque. Per un cantore, per un apologeta dell’impresa garibaldina, per un operatore di disinformazione storica e politica del Risorgimento, è senza dubbio un sacrificio dare spazio a questo scorcio di verità. Ma non può farne a meno: il fenomeno è dilagante e si ripeterà a Palermo, a Catania, a Messina. Ovunque in Sicilia.

Va da sé un’altra considerazione. L’Abba non afferma di aver visto bandiere italiane. Ci fa quindi dedurre che non ve ne siano. Neppure una. Non si tratta di un fatto secondario. Se infatti un agiografo come l’Abba avesse visto a Marsala un solo fazzoletto tricolore, lo avrebbe moltiplicato per cento… Saranno poi i pittori, i pennaioli ed i poeti (incaricati dal Governo di Vittorio Emanuele o mossi dalla voglia di far carriera o dalla necessità di sopravvivere) che faranno miracoli, descrivendo folle osannanti, talvolta in ginocchio, che accolgono il Duce dei Mille fin dal molo del porto, in un tripudio di gigantesche bandiere tricolori.

Dobbiamo tuttavia ricordare che uno dei più famosi commentatori del libro di Abba, in una nota, cerca di mettere una pezza alla testimonianza in questione. Ed infatti scrive:

«(La bandiera inglese significa) che molti Inglesi vi si trovavano per l’industria vinicola. La bandiera metteva al riparo dal bombardamento». (15)

È appena il caso di fare rilevare che il bombardamento vero e proprio, per la verità, non vi era mai stato. E che si trattava di pochissime cannonate a vuoto e puramente simboliche che peraltro erano già terminate. Mentre – come abbiamo già puntualizzato – le bandiere Inglesi e le tabelle con la scritta domicilio inglese si sarebbero viste (e mantenute a lungo) anche in altre città della Sicilia, dove non vi erano industrie vinicole degli Inglesi… e neppure gli Inglesi stessi.

Bandiere e tabelle sarebbero servite in verità a moltissime famiglie siciliane per mettersi al sicuro (o meglio, per tentare di mettersi al sicuro) dai saccheggi, dalle violenze e dagli stupri, che non sarebbero certamente mancati. E che, anzi, in non poche occasioni, avrebbero caratterizzato il comportamento dei liberatori, nonché dei banditi e dei malfattori locali loro alleati.

Abbiamo già ricordato che l’11 maggio 1860, a Piazza della Loggia, a Marsala, durante la parata garibaldina si era rimediata a stento la sola bandiera italiana che Giorgio Manin aveva tirato fuori da un apposito astuccio. Questo fatto la dice lunga, troppo lunga… E conferma che le bandiere italiane non esistevano nel maggio 1860. Né a Marsala, né in tante città della Sicilia. Fatte salve ovviamente quelle poche eccezioni che confermano la regola.

Faremmo un torto a G. C. Abba se non dicessimo che egli stesso si incarica di fare qualche affermazione atta a compensare, probabilmente, gli
effetti negativi di alcune considerazioni, in apparenza ingenue, o di qualche
lapsus freudiano. Come quando, ad esempio, ha fatto cenno alla «piazzetta,
squallida, solitaria, paurosa». La compensazione avviene allorché, per
restare in tema, fa appunto una poco credibile descrizione dei festeggiamenti (probabilmente inventati ed idealizzati nel lungo periodo di tempo trascorso fra la sua partecipazione all’impresa ed il momento in cui avrebbe curato l’ultima stesura della sua opera) dei quali nemmeno Garibaldi in persona ed il suo fedele ufficiale Bandi fanno cenno, come vedremo.

Così scrive Cesare Abba:

«Ora la città è nostra. Dal porto alle mura corremmo bersagliati di fianco. Nessun male. Il popolo applaudiva per le vie; frati di ogni colore (sic!) si squarciavano la gola gridando; donne e fanciulli dai balconi ammiravano. “Beddi! Beddi!” si sentiva da tutte le parti».

Eppure poco prima aveva scritto:

«La città non aveva ancora capito nulla; ma la ragazzaglia era già lì, venuta giù a turba».(16)

Ci insospettisce, altresì, ma non più di tanto, il fatto che l’Abba non abbia detto «alcuni ragazzi» bensì abbia usato il termine, piuttosto dispregiativo, di «ragazzaglia». Ci dovrebbe far riflettere anche la precedente frase:

«La città non aveva ancora capito nulla…». (17)

Come mai la città avrebbe festeggiato se non aveva «capito nulla»? E come mai pur non avendo capito nulla aveva atteso l’evento liberatore? E come mai, senza avere ancora capito nulla, secondo quanto attestano le fonti ufficiali, sarebbero stati proprio i cittadini di Marsala quelli che volevano ad ogni costo Garibaldi alla testa della loro rivoluzione?

L’agiografia risorgimentale dell’Abba diventa, insomma, un boomerang per l’eccessivo entusiasmo patriottico dell’Autore del testo «sacro» Da Quarto al Volturno.

Non sottilizziamo ed andiamo ad uno di quegli episodi secondari che però, a tempo e luogo opportuni, possono assumere ruolo e funzione di testimonianza. L’Abba ci aveva, sempre nella noterella del giorno undici, parlato di un incontro interessante:

«Alcuni frati bianchi ci salutavano coi loro grandi cappelli: ci spalancavano le loro enormi tabacchiere: e stringendoci le mani, ci domandavano:

“Siete reduci, emigrati, svizzeri?”».

Francamente ci sembra strano che i frati, i quali dovevano necessariamente possedere un bagaglio di cultura e di informazioni politiche (…oltre che di tabacco) superiore alla media, facessero una domanda del genere e dimostrassero quindi di non essere coinvolti nell’entusiasmo popolare, del quale lo stesso Abba parlerà di lì a poco (di cui abbiamo fatto riferimento).

Una cosa, seppur inquietante, i frati l’avevano comunque confessata. Per loro i Garibaldini potevano anche essere stranieri. Meglio se svizzeri…
Non li avrebbero comunque conosciuti, né riconosciuti.

Bolton King. Inglesi a Marsala? Bolton non lo sa… – Nel 1903, Benedetto Croce, mostro sacro della filosofia e della storiografia italiana, unitario di ferro (ancorquando meridionale), nel corso della presentazione di una nuova opera di Bolton King, volle fare cenno a quella che era l’opera più conosciuta in Italia e sulla quale avrebbero studiato diverse generazioni di docenti, di allievi e di studiosi: La storia dell’unità d’Italia, in quattro volumi. La prima edizione della quale era stata pubblicata in lingua inglese nel 1899.

Ebbene, il Croce in proposito affermò:

«La “Storia dell’Unità d’Italia” benché elaborata con conoscenza completa del vasto materiale erudito di quel periodo, pur non tanto mi era parsa notevole per l’erudizione quanto per la finezza ed equilibrio del giudizio, che mette sotto giusta luce uomini ed avvenimenti controversi, e desta quasi di continuo quella persuasione, quell’intimo assenso, che si esprime con un “così è”». (18)

Ipse dixit, insomma… L’opera dell’illustre inglese è senza dubbio ponderosa ed interessante. Parte, però, da alcuni dati che ritiene scontati e certi, ma che invece a nostro giudizio sono discutibili. Talvolta mai avvenuti.

Il buon Bolton King, del resto, se in buona fede, non avrebbe mai potuto immaginare che il materiale erudito da cui avrebbe attinto la conoscenza della storia d’Italia, in realtà gli avesse fornito una serie di notizie rielaborate e/o falsificate ab origine. Non sappiamo se, venendo in Italia, visitando i luoghi del delitto, interrogando i testimoni oculari, lo scrittore inglese avrebbe smentito se stesso.

Fatto sta che il King non aveva mai messo piede in Sicilia fino al mese di maggio del 1860 (né lo avrebbe fatto dopo), né in Sicilia, né tantomeno in Italia. A questo punto abbiamo il sospetto che Bolton King non fosse stato in buona fede e che anche lui facesse parte della grande congiura della disinformazione per giustificare e legittimare la grande operazione di conquista del Regno delle Due Sicilie.

Ecco, ad esempio, come ci descrive lo Sbarco dei Mille:

«Intanto con i suoi piroscafi Garibaldi giunse a Marsala l’11 maggio. Era riuscito a sfuggire ai vascelli Napoletani in alto mare, ma mentre si stava avvicinando a terra fu avvistato da due incrociatori, che lo inseguirono accanitamente fino nel porto. Una delle sue navi si incagliò e, se il fuoco aperto dai Napoletani non fosse stato troppo largo e sparso, una metà dei suoi uomini non sarebbe certo riuscita a giungere sana e salva sulla terraferma. A Marsala non esisteva la guarnigione, ma la spedizione corse egualmente il rischio di rimanere inchiodata in quel lembo dell’isola, per cui Garibaldi decise di marciare immediatamente su Palermo: salutato con indicibile entusiasmo dalla popolazione, si proclamò Dittatore dell’isola in nome di Vittorio Emanuele e si affrettò quindi ad avanzare su Palermo, mentre La Masa incitava gli abitanti dei villaggi a prendere le armi e mentre le squadre sopravvissute all’impresa della Gancia si univano alle sue forze».(19)

Così fu? Non ci pare. Manca peraltro ogni riferimento proprio all’intervento inglese. Ed invece spunta un entusiasmo che, soprattutto a Marsala, nella realtà, non era mai esistito. E questa descrizione dei fatti non ci pare ammissibile per un Autore così importante. Eppure egli aveva scritto:

«La politica del Governo Palmerston verso l’Italia si proponeva tre obiettivi fondamentali: soddisfare le aspirazioni italiane cacciando dal Paese gli austriaci; far cessare l’influenza francese in Italia; indebolire o distruggere il potere temporale (del Papa)». (20)

Ammetteva quindi che l’Inghilterra aveva scelto fra i due sovrani (peraltro imparentati fra loro, Vittorio Emanuele II e Francesco II, legati da vincoli di sangue e di parentela agli Asburgo), quale dei due buttare giù dalla torre e quale invece salvare adottandolo ed aiutandolo a crescere. Se non addirittura costruendolo a suo uso e consumo.

Come poteva l’Inghilterra rischiare, ormai, che a Marsala il proprio progetto colasse a picco? Qualcosa doveva fare e doveva già aver pur fatto!… O no? Ma Bolton King finge di non vedere, di non sapere. Anzi si inventa una sua verità a totale supporto della propaganda filo-unitaria.

Garibaldi: una frase che rafforza i sospetti – Scrive il Rosada:

«Dodici anni dopo, il Duce dei Mille riconosce lealmente il suo debito scrivendo nelle sue memorie:

“La presenza dei due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed, io, beniamino di cotesti signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro Protetto”».

Questa frase di Garibaldi, anziché dissipare insinuazioni e sospetti, li avrebbe rafforzati. Ne condividiamo il contenuto, perché l’influenza e gli interventi dell’Inghilterra furono veramente decisivi nei fatti del 1860 e degli anni immediatamente successivi. Ma la macchina dell’agiografia risorgimentale non sarebbe stata neppure sfiorata da questo momento di sincerità dell’Eroe dei Mille.

Se quest’ultimo avesse capito, fin dall’inizio, dove sarebbe arrivato il suo mito, probabilmente non si sarebbe lasciato andare ad una confessione così significativa e compromettente.

(20) Bolton King, op. cit., vol. III, pag. 140.

Denis Mack Smith e Ippolito Nievo – Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo, Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un vero best-seller, è La storia della Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane però immutata.

Ci confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito Nievo:

«La rivoluzione era sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e qualche paura dei proprietari». (21)

Un giudizio, questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto al guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da settentrionale». Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in particolare per il Nievo. Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere dalla considerazione che la diversità etnica non ha niente a che vedere con i fatti) ciò non significa che il grande scrittore non avesse capito meglio di tanti Meridionali e di tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri Settentrionali e di tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza degli eroi Garibaldini e dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)

Cosa, questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel rispetto della… ragion di Stato.

Ma per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo Bianchi:

«Ippolito Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla ‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario) come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque. Perì in lui il poeta che avrebbe cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».

Il Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero, attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato molto la verità.

Ancora oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione «unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.

Infatti, dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili (riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.

Si può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che, del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non sopravvisse nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena trent’anni.

Sulla tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo; l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…

(13) Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento, Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli, scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo. In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente «picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante», apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…

Fine ottava puntata/ continua

Foto tratta da questionegiustizia.it

(14) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(15) G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.

(16) G. C. Abba, op. cit., pag. 51.

(17) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(18) Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag. 11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.

Denis Mack Smith e Ippolito Nievo – Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo, Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un vero best-seller, è La storia della Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane però immutata.

Ci confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito Nievo:

«La rivoluzione era sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e qualche paura dei proprietari». (21)

Un giudizio, questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto al guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da settentrionale». Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in particolare per il Nievo. Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere dalla considerazione che la diversità etnica non ha niente a che vedere con i fatti) ciò non significa che il grande scrittore non avesse capito

meglio di tanti Meridionali e di tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri Settentrionali e di tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza degli eroi Garibaldini e dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)

Cosa, questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel rispetto della… ragion di Stato.

Ma per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo Bianchi:

«Ippolito Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla ‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario) come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque.

Perì in lui il poeta che avrebbe cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».

Il Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero, attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato molto la verità.

Ancora oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione «unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.

Infatti, dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili (riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.

Si può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che, del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non sopravvisse nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena trent’anni.

Sulla tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo; l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…

(13) Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento, Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli, scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo. In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente «picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante», apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…

Fine ottava puntata/ continua

(14) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(15) G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.

(16) G. C. Abba, op. cit., pag. 51.

(17) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(18) Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag. 11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.

(19) Bolton King, op. cit., vol. III, pag. 179.

Fonte

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La vera storia dell’impresa dei mille 7/ La disinformazione: gli inglesi inventano le ‘rivolte’ contro i Borbone

Posted by on Mag 3, 2019

La vera storia dell’impresa dei mille 7/ La disinformazione: gli inglesi inventano le ‘rivolte’ contro i Borbone

Oggi cominciamo a entrare nel cuore di quel grande imbroglio passato alla storia come ‘impresa dei Mille’. Quando i Mille sbarcano a Marsala non c’era alcuna rivolta contro il regno del Borbone. Ma i giornali internazionali – guidati dai disinformatori inglesi (quelli del ‘giornalismo anglosassone’…) – raccontavano un sacco di frottole. Un po’ come oggi certi giornali scrivono le panzane per denigrare il Movimento 5 Stelle. O come la disinformazione sulle stragi di Stato

di Giuseppe Scianò

Va avanti la realizzazione del progetto Inglese di unificare l’Italia dalle Alpi al Mediterraneo – Il Rosada pone un quesito a proposito dello sbarco dei Mille a Marsala dell’11 maggio 1860:

“Il dilemma in cui lo sbarco di Marsala aveva posto il Gabinetto britannico non era invero di facile soluzione. Era più conveniente agli interessi europei e mediterranei dell’Inghilterra favorire con l’unificazione dell’intera penisola, la formazione di un forte Stato nazionale, in grado di emanciparsi gradualmente dall’influenza francese, o difendere l’autonomia del Mezzogiorno con le consuete armi di un’aggressiva ‘Gunboat diplomacy’, sperimentata ancora una volta all’inizio dell’anno nella guerra Ispano-Marocchina, per ottenere a suo tempo da un indebolito e più docile Governo di Napoli l’assenso al distacco più o meno larvato della Sicilia dal Regno e al suo passaggio nella sfera d’influenza inglese?”.

Il Rosada stesso risponde:

“L’Inghilterra, com’è noto, scelse la prima strada, timorosa che sul trono di Napoli potesse salire il candidato ‘in pectore’ di Napoleone III, Luciano Murat; ciò che avrebbe riportato i rapporti di forza in Mediterraneo al punto in cui si trovavano nel 1808, all’apogeo dell’Impero napoleonico” (7).

Insomma il Rosada conferma in toto – e ne dimostra la fondatezza e l’attualità – l’esistenza di un pericolo francese che tende a minacciare la supremazia britannica nel Mediterraneo. Conferma così anche le previsioni del Ministro di Francesco II, Carlo Filangieri di Satriano, che però nutriva soprattutto la preoccupazione che l’Inghilterra brigasse molto per restituire alla Sicilia la propria indipendenza, attraverso il distacco dal Regno delle Due Sicilie.

Il Filangieri, infatti, aveva scritto a Francesco II, qualche tempo prima, riferendogli del suo colloquio con il Cien Roguet, inviato personale dell’Imperatore dei francesi Napoleone III, la lettera datata 1 ottobre 1859, della quale il Rosada ha riportato il passo essenziale.

“…Mi chiese poi notizie della Sicilia, ed io senza misteri gli accennai gli scandalosi intrighi degli Inglesi, che fomentavano in tutta l’isola i disordini ed il malcontento contro il provvido Governo di V.M. per promuovervi una esplosione, come quella del 1848, tendente alla separazione dell’isola dal Reame di Napoli nel che riuscendo manovrerebbero in modo da farla cadere sotto il protettorato o almeno sotto l’esclusiva loro influenza, ed allora scoppiando una guerra fra i due colossi occidentali il Mediterraneo, invece di essere un lago francese, come lo vollero Luigi XIV ed i suoi successori, diventerebbe un lago inglese, protetto da Gibilterra, Malta, Corfù, Messina, Augusta, Siracusa, che sono i più belli porti d’Europa…» (8).

Il Rosada, dopo aver riportato la lettera e fatto una panoramica dei tentativi di «Napoleone il piccolo» (la definizione non è nostra, ma di Victor Hugo) di inserirsi nella Penisola italiana, in contemporanea con la sottrazione di quest’area all’influenza austriaca, aggiunge:

“Nel marzo del ’60, la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, necessario compenso per l’acquiescenza di Napoleone III alle annessioni nell’Italia centrale, ridestava in Palmerston la vecchia diffidenza per i nebulosi sogni di Renovatio Imperi del nipote del grande Napoleone, appena sopita dalla stipula del trattato di commercio franco-inglese del 23 gennaio precedente”.

E dopo qualche altra osservazione, altrettanto acuta, il Rosada afferma:

“Di qui la seconda missione siciliana del Mundy, il cui tipico carattere politico-militare l’Ammiraglio cerca invano di velare con lo stesso ripetuto pretesto della protezione a proprietà britanniche, che nessuno minacciava. […] Nelle acque siciliane tra il Mundy e il suo collega francese, Barbier De Tinan, come dodici anni prima tra i loro predecessori, Parker e Baudin, si riaccendeva il vecchio contrasto franco-inglese per la supremazia nel Mediterraneo, di cui l’isola costituiva una posizione chiave” (9).

In verità – ci permettiamo di dire – la flotta francese fece poco e niente: creò false illusioni e lasciò tutta l’iniziativa agli Inglesi. Cosa, questa, che vedremo assieme fra non molto.

Il Governo di Londra non improvvisa: ha già deciso e calcolato tutto.
Un momento di approfondimento…

Apprezziamo le osservazioni del Rosada, ma crediamo che egli abbia collocato nel maggio 1860 la decisione inglese di sciogliere ogni riserva e di passare decisamente alla costituzione di un grande Stato Italiano esteso dalle Alpi al Mediterraneo, nel quale fossero fagocitati ed inglobati, al più presto (anche a costo di intervenire con la forza), tutto il territorio del Regno delle Due Sicilie e le popolazioni che lo costituivano. Insomma, ci è sembrato che il Rosada sostenga che la spedizione dei Mille e lo sbarco di Marsala abbia fatto precipitare in senso unitario ed italo-sabaudo le scelte politiche della Gran Bretagna.

Il dubbio ci obbliga a esporre, con chiarezza, quella che invece è la nostra opinione. Per sostenere la quale non mancheremo di avvalerci anche della rappresentazione contestuale, puntuale e fornisce lo stesso Rosada.

Riteniamo, infatti, che il Gabinetto Inglese avesse già preso, da tempo, ogni decisione in proposito. Ancora prima cioè che l’idea della Spedizione avesse preso corpo. Un’idea alla quale l’Inghilterra dava sin dall’inizio il proprio contributo. Si pensi alla «patente per Malta» della quale ci ha parlato il Cantù (10).

I sintomi sono moltissimi. Ne citiamo alcuni relativi proprio alla Spedizione dei Mille. Intanto la Spedizione fu etichettata, fin dall’inizio, con il motto Italia e Vittorio Emanuele. E non certo per lasciare contento il Re Sabaudo, beneficiario del tutto, ma per dichiarare esplicitamente l’obbedienza al disegno inglese, senza lasciare spazio ad equivoci o ad imprevisti. Va considerato, infatti, che Garibaldi, nello stesso momento in cui partiva la Spedizione, aveva già inviato il seguente messaggio, probabilmente costruito dalla diplomazia anglo-piemontese, al Re di Sardegna (Piemonte), futuro Re d’Italia, Vittorio Emanuele II.

“Sire! Il grido di aiuto che parte dalla Sicilia ha toccato il mio cuore e quello di parecchie centinaia di miei antichi soldati. Io non ho consigliata l’insurrezione dei miei fratelli di Sicilia, ma dacché essi si son levati in nome dell’unità d’Italia rappresentata in nome di V. M., contro la più vergognosa tirannia dei nostri tempi, io non ho esitato a farmi capo della spedizione. So che l’impresa in cui mi metto è pericolosa; ma io confido in Dio e nel coraggio e nella devozione dei compagni. Il nostro grido di guerra sarà sempre: ‘Viva l’Italia, Viva Vittorio Emanuele suo primo e più prode soldato!’ Ove noi avessimo a soccombere, io spero che l’Italia e l’Europa libera non dimenticheranno che quest’impresa è stata ispirata dal più generoso sentimento di patriottismo. Se vinceremo io avrò il vanto di adornare la Corona di V. M. d’un nuovo e forse più splendido gioiello, a sola condizione però che Ella non permetterà che i suoi consiglieri lo trasmettano agli stranieri, come hanno fatto della mia città natale. Non ho comunicato il mio progetto a V. M. perché temevo che la grande devozione che io sento per Lei, mi avesse persuaso ad abbandonarlo. G. Garibaldi”.

Certamente fu messa in moto la consueta manfrina con la quale, offendendo l’intelligenza dei contemporanei e dei posteri, si volle far credere che Vittorio Emanuele II ed il Governo Cavour fossero, poveretti, all’oscuro di tutto. Se fosse stato vero, sarebbero stati gli unici di quel regno.

E anche questa fu una finezza britannica, recitata male in italiano. Ma di fatto millantata ed opportunamente strumentalizzata.

Rimane comunque evidente la caratterizzazione in senso unitario e monarchico della spedizione, così come pretendeva il Gabinetto Palmerston.
Anche la notizia (che venne ripetuta ad ogni piè sospinto e che avrebbe fatto indignare, per la sua falsità, financo due Garibaldini come il Bandi ed il Nievo) secondo la quale i Siciliani sarebbero stati in piena rivolta (perché impazienti di ottenere l’Unità d’Italia con il suo Re Vittorio Emanuele), rientrava nella particolare attenzione che l’Inghilterra, come sempre, dedicava agli umori dell’opinione pubblica, non solo di casa propria.

Non mancò, infine – e questa, sì, tipicamente italiana – quella dichiarazione, apparentemente ruffianesca, già sopra riportata, con la quale l’Eroe Nizzardo dichiarava di volere adornare di un nuovo e splendido
gioiello la corona del Re Galantuomo…

Di fatto Garibaldi riproponeva la centralità del suo ruolo personale
nell’operazione Conquista del Sud. Non si contentava infatti della parte di mosca cocchiera tra mosche cocchiere. Era infatti lui, Peppino Garibaldi, che avrebbe donato al Re Sabaudo l’ex Regno delle Due Sicilie e che voleva essere il protagonista principale dell’impresa in corso.

Il Governo Britannico e l’opinione pubblica internazionale – Ribadiamo che gli Inglesi avevano preparato lungamente il terreno. Senza questa preparazione la Spedizione non avrebbe avuto la benché minima speranza di successo.

Si pensi alla corruzione degli alti gradi dell’Esercito e della Marina del Regno delle Due Sicilie. Si pensi ai contatti con la mafia, la ’ndrangheta, la camorra. Si pensi al lavorìo, più raffinato, della Massoneria. Si pensi alle truppe mercenarie che alla data del 5 maggio 1860 (ed anche da prima) erano state nella stragrande maggioranza finanziate, addestrate e mobilitate in varie località dell’Europa e probabilmente dell’Africa.

Tutte cose che non si possono preparare dall’oggi al domani. E non parliamo della messa in riga dei repubblicani, i quali non sono certamente quella decina di sprovveduti della bassa forza, che avrebbero protestato nel momento iniziale della spedizione. Ci riferiamo ai repubblicani illustri, che erano stati già ospitati – e forse foraggiati – per anni ed anni, in Inghilterra.
E che ora non potevano dire di no.

Non parliamo neppure dei giornali, dei finanziamenti, delle congiure, delle sommosse e delle rivolte, incoraggiate tramite servizi segreti e persone di fiducia. Rivolte spesso inconsistenti, ma sempre utili per la propaganda.
Non solo: proprio in questo momento delicato davano preziosi frutti le campagne di stampa e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica contro quelle belve dei Borbone, spergiuri, tiranni, vampiri ed assassini.

Campagne propagandistiche preparate nel tempo dagli Inglesi. Il Governo di Londra peraltro continuava a fare pubblicare giornali e libri che esaltavano i regnanti di Casa Savoia come angioletti benefattori. Gli Inglesi mentivano nell’uno e nell’altro caso. Dobbiamo peraltro dire che, se qualche grossa accusa di spergiuro (nei confronti della Sicilia, soprattutto, e della sua Costituzione) si poteva rivolgere ai Borbone, senza dubbio maggiori erano le accuse che si sarebbero dovute rivolgere ai Savoia, già dal primo momento dell’operazione Conquista della Sicilia.

Ma queste cose l’opinione pubblica internazionale non aveva modo di conoscerle, se non approssimativamente. Vinceva la disinformazione accuratamente pilotata dal Governo di Londra per coinvolgere l’opinione pubblica internazionale a favore di una conquista militare che mirava ad occupare, a conquistare, a distruggere, a colonizzare, a depredare e a denazionalizzare il Regno delle Due Sicilie ed i Popoli del Sud. Quello Siciliano soprattutto anche per la centralità geografica nel Mediterraneo della stessa Sicilia.

Il ‘padre della Patria siciliana’, Ruggero Settimo, dov’era? – Ben pochi pensano o sanno – a proposito di disinformazione – che Ruggero Settimo, il leader carismatico dell’Indipendentismo Siciliano, era formalmente un rifugiato politico nell’isola di Malta, sotto tutela della Gran Bretagna. In verità era stato letteralmente congelato per non disturbare i lavori in corso.

Eppure, il 26 settembre 1849, poco dopo la conclusione della tragica, sfortunata, ma gloriosa rivoluzione indipendentistica e della breve ma significativa vita dello Stato Siciliano (11 gennaio 1848 – 15 maggio 1849), Ruggero Settimo era stato accolto, a La Valletta, con gli onori dovuti ad un Capo di Stato. E come tale fu trattato. Fatto, questo, che è ben conosciuto da coloro che hanno studiato le vicende siciliane del biennio 1848-1849.

Ma nel 1860 Ruggero Settimo era diventato a poco a poco un prigioniero – seppure in gabbia dorata – del Governo Inglese. Il quale ormai non voleva sentire più parlare di indipendenza siciliana ed era amico soltanto di coloro che erano disposti a lavorare per l’annessione della Sicilia al futuro Regno d’Italia.

Kermesse britannica? Sì, ma per scoraggiare gli altri Stati – Certamente, dopo lo Sbarco dei Mille – uno sbarco impasticciato dal piroscafo garibaldino ‘Lombardo’, che si sarebbe addirittura incagliato da solo nel basso fondale – gli Inglesi capirono che dovevano stare con gli occhi bene aperti. Dovevano infatti condurre manu manuzza, come si dice in Sicilia, tutta l’operazione conquista del Sud. Non bastava avere preparato le condizioni necessarie, bisognava intervenire più direttamente. Non solo nello Sbarco e nel dopo Sbarco, ma in tutta l’operazione Unità d’Italia.

Sarebbe stato, quindi, dominante il sistema delle interferenze britanniche, che erano una garanzia di costante ed autorevole protezione. Ad ogni costo e a tempo pieno. Il tutto mentre le ‘mosche cocchiere’ si accingevano a diventare Padri della Patria italiana.

Ciò, senza nulla togliere ai veri idealisti unitari, che pure vi furono (ma non nella misura e nella qualità dei colleghi dell’Italia centro-settentrionale). Pensiamo ad esempio ai fratelli Cairoli, dei quali, nelle vicende risorgimentali, ne morirono quattro su cinque. Tutti eroi (11). E senza pericolo di confonderli con le ‘mosche cocchiere’ che, spesso, non ebbero neppure l’onestà di svolgere con la dovuta professionalità e con correttezza il loro ruolo. Queste, peraltro, avrebbero ricevuto molto di più, di quello che avrebbero meritato, in termini morali e materiali.

Come distruggere le aspettative indipendentiste dei Siciliani – I fatti successivi dimostreranno ulteriormente la esattezza della tesi, secondo la quale, dall’inizio alla fine, l’operazione Unità d’Italia del 1860 era il risultato di un lavoro avviato da diversi decenni dagli Inglesi. E l’operazione, proprio per la esigenza di creare un unico grande Stato Italiano, escludeva a priori qualsiasi altro progetto che rispettasse le esigenze della Nazione Siciliana, del Popolo Siciliano. Nessuna speranza di sopravvivenza o di rinascita del Regno di Sicilia (o del Regno di Napoli e, neppure, del Regno delle Due Sicilie). Insomma: Regnum utriusque Siciliae delendum est.

L’Inghilterra impone le proprie scelte in campo internazionale –
Poniamo un altro interrogativo:

“A parte il Papa Pio IX, chi realmente si opponeva al disegno Inglese?”.

Di fatto nessuno, soprattutto dal punto di vista militare. Neppure i Paesi che avevano interessi contrastanti con quelli dell’Impero della Regina Vittoria. Questi Stati non avevano in quel momento le forze, i mezzi ed il coraggio sufficienti a neutralizzare le azioni del Leone Britannico.

L’opposizione del Papa, inoltre, sul piano militare era inconsistente. Pio IX, infatti, senza l’appoggio di guarnigioni straniere, non poteva neppure salvaguardare i confini del proprio Stato, che infatti erano stati già nel 1860, ed anche prima, pesantemente violati ed anche spostati, ad ogni piè sospinto, soprattutto per opera del Governo Sabaudo di Torino.

Sostanzialmente contrari all’egemonia ed all’espansionismo britannico erano soprattutto, oltre alla Francia (della quale il Rosada ha parlato ampiamente), Prussia, Austria e Russia. Paesi verso i quali il Regno delle Due Sicilie, a prescindere dalle simpatie politiche e dalle affinità ideologico-culturali dei rispettivi governanti, aveva in corso una serie di trattati commerciali e di scambi destinati a svilupparsi ulteriormente. Ovviamente se lasciati indisturbati. Fossero rimasti o no i Borbone sul trono di Napoli.

All’Inghilterra tutto ciò dava fastidio, perché vedeva minacciati i propri monopoli e sapeva bene che, dietro i commerci, sarebbe potuta crescere l’influenza politica. Si pensi al fatto che in Sicilia erano presenti alcuni Consolati Russi, tanti erano i rapporti commerciali e gli scambi di ogni tipo.

Purtroppo i Paesi – contro i quali pure si muoveva pesantemente la strategia dell’Inghilterra – avevano preferito la linea morbida, pensando a torto di imbuonire la Potenza Britannica non contrariandola troppo apertamente. Ed avevano anche agito ciascuno per conto proprio, senza neppure tentare una strategia comune. Il terrore di subire ritorsioni da parte del Leone Britannico aveva bloccato e continuava a ‘bloccare’ tutti.

Ammettiamo, quindi, senza timore di smentita, che nell’Europa e nel mondo, nel 1860, solo l’Inghilterra era nelle condizioni di dettare legge e di ridisegnare confini ed equilibri internazionali. E per il Regno d’Italia aveva già disegnato, appunto, uno Stato monolitico ed accentratore ed un territorio che andasse dalle Alpi al cuore del Mediterraneo, isole comprese. Povera Sicilia!

Torino. Numerosi «esuli Siciliani» vengono strumentalizzati e coinvolti nella strategia dell’occupazione della Sicilia, abbandonando spesso gli ideali che avevano animato la lotta per l’indipendenza della Sicilia nel biennio 1848-1849.

Una volta che tutto il Regno delle Due Sicilie fosse stato sacrificato a favore del costituendo Regno d’Italia ed una volta che quest’ultimo fosse rimasto legato all’Inghilterra da vincoli di gratitudine, di amicizia e, soprattutto, di interessi (e ne fosse diventato quasi uno stato vassallo), che motivazioni sarebbero più esistite per il Governo Britannico per agevolare
– o solamente per non ostacolare – l’indipendenza della Sicilia?

Risposta: ‘Nessuna!’.

Piuttosto esisteva tutto l’interesse per fare l’esatto contrario. E cioè: impedirne l’indipendenza. Ed accorpare la Sicilia allo Stivale. Da questa situazione sarebbe partita anche l’operazione di travasare nelle manovre per realizzare l’Unità d’Italia gli esuli Siciliani, che, a seguito della restaurazione borbonica del 1849, si erano trasferiti nel Regno Sabaudo. Qui, tutti o quasi, quegli esuli avevano ricevuto onori, incarichi prestigiosi e prebende di vario tipo. Era avvenuto così, che buona parte degli esuli Siciliani fosse diventata unitaria e filo-sabauda. Una pagina nera per l’Indipendentismo Siciliano, che però non coinvolse proprio tutti gli esuli. Alcuni di questi rifiutarono, infatti, incarichi e prebende e, seppure con prudenza, continuarono a difendere le ragioni e i diritti della Nazione Siciliana. Senza fortuna.

L’Imperatore Napoleone III, da parte sua, capì troppo tardi quanto stava accadendo in Italia e che il progetto inglese mirava, sì, a distruggere la dinastia borbonica e le sue ramificazioni, ma mirava, nel tempo, a distruggere anche la dinastia dei Bonaparte ed il rinato nazionalismo francese.

Dice Giorgio Dell’Arti: “I francesi temevano nuovi ingrandimenti territoriali del Piemonte e la formazione di un Regno d’Italia talmente forte che sarebbe stato impossibile influenzarlo. Tentarono di convincere gli Inglesi a fare causa comune per evitare annessioni. Ma Palmerston voleva un Regno d’Italia forte a quel modo» (12) che danneggiasse con la sua esistenza anche la Francia… (n.d.A.).

Napoleone III, come abbiamo visto, era un grande ammiratore dell’operato del Governo di Londra, ma non aveva ancora ben capito che l’Inghilterra lo detestava. Né aveva mai nutrito il sospetto che quando e se (dopo meno di dieci anni da quei fatti) il suo Impero fosse stato mandato a gambe all’aria dalla Prussia, gli Inglesi avrebbero provveduto a fare altrettanto, se non peggio, proprio con il discendente di Bonaparte. Ed in modo molto più scientifico.

L’ingenuità di Napoleone III fu tale e tanta che la collaborazione con la Gran Bretagna, seppure con qualche riserva mentale, sarebbe continuata a lungo e si sarebbe estesa anche al Medio e lontano Oriente. A tutto vantaggio della furba Albione, ovviamente.

E le navi straniere nel porto di Palermo… stanno a guardare! – 
Subito dopo lo sbarco di Marsala, Turchia, Francia, Austria, Piemonte, Portogallo, Spagna, Stati Uniti d’America, ed altri Stati avrebbero mandato navi militari in Sicilia, soprattutto nei porti di Palermo e di Messina. Il pretesto ufficiale era che queste dovevano vigilare sulla sicurezza personale e sui beni dei rispettivi cittadini, che nessuno minacciava. Lasciavano, cioè, libera l’Inghilterra di fare ciò che voleva.

E a Palermo si sarebbe recato anche il Contrammiraglio britannico
George Rodney Mundy a bordo dell’Ammiraglia Hannibal, scortato da
altre navi da guerra. Il Mundy era in assoluto l’Ammiraglio più importante e più rispettato fra i tanti comandanti di navi presenti. E, fra l’altro, continuava a giocare in casa, considerato che la Mediterranean Fleet di S.M. Britannica – fra le flotte che stazionavano in quel momento nel Mediterraneo – era la più potente. E la più presente nelle acque siciliane.

Fine della settima puntata/continua

(7) In G. R. Mundy, op. cit., introd. a cura di A. Rosada, pagg. 14 e 15.

(8) In G. R. Mundy, op. cit., pag. 13.

(9) In G. R. Mundy, op. cit., pagg. 14-15.

(10) C. Cantù, in Vittorio Casentino di Rondè, op. cit., pag. 183.

(11) I fratelli Cairoli erano cinque: Benedetto, Ernesto, Luigi, Enrico e Giovanni. Tutti parte- ciparono alle lotte per l’unità d’Italia. Il più grande, Benedetto (nato a Pavia nel 1825), sarebbe diventato Presidente del Consiglio dei Ministri nel 1878. Fu un ottimo combattente. Partecipò all’impresa dei Mille e fu ferito a Palermo. Come politico fu mediocre. Sopravvisse ai quattro fratelli morti, molto giovani, o in combattimento o a seguito di ferite o di malattie provocate dalla guerra. Benedetto, nel 1889, morì di morte naturale, a Capodimonte. Ernesto (nato nel 1832) si arruolò nei Cacciatori delle Alpi. Morì in combattimento nel corso della seconda guerra d’indipendenza a Biumo Inferiore nel 1859, a soli ventisette anni. Luigi, nato nel 1838, era topografo, matematico ed ufficiale dell’esercito piemontese. Partecipò all’impresa garibaldina con il Generale Coseni (seconda spedizione). Morì di tifo a Cosenza, stremato dalle fatiche del- la guerra di occupazione del Sud, nel 1860. Aveva ventotto anni. Enrico, nato nel 1840, studen- te in medicina, seguì i fratelli fra i Cacciatori delle Alpi e fra i Mille. Anch’egli fu ferito a Pa- lermo nel 1860. Partecipò a tutte le campagne di Garibaldi. Morì nel fallito tentativo di conqui- stare Roma, nel 1867, nello scontro di Villa Glori. Aveva appena ventisette anni. Giovanni fu il più giovane dei fratelli Cairoli, essendo nato

Fonte

https://www.inuovivespri.it/2019/01/19/la-vera-storia-dellimpresa-dei-mille-7-la-disinformazione-gli-inglesi-inventano-le-rivolte-contro-i-borbone/

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RENATO DE SANCTIS COMITATO NO ACEA CANDITATO A SINDACO DI CASSINO

Posted by on Apr 8, 2019

RENATO DE SANCTIS COMITATO NO ACEA CANDITATO A SINDACO DI CASSINO

Abbiamo, volutamente dato un taglio politico, in quanto crediamo che (specialmente nelle amministrative) i programmi possano come minimo somigliarsi, ma è proprio il modo come si immagina una “società”, i valori che essa deve interpretare e perseguire, che danno poi un senso compiuto di quello che una proponente amministrazione ha in mente di realizzare.

ELEZIONI AMMINISTRATIVE A CASSINO 26 MAGGIO 2019

RENATO DE SANCTIS sindaco -Programma Amministrativo-

Il progetto politico da realizzare é quello di migliorare la qualità della vita dei cittadini e ricostruire tutti insieme un paese nuovo, dove ognuno si senta partecipe di una stessa comunità.

Non crediamo che tale programma possa essere esaustivo, siamo infatti pronti a raccogliere suggerimenti che possano integrare e migliorare quanto rappresentato.

“Programma 1° step”

La prima parola-chiave é “EQUITÀ”

ed é proprio con una frase di Don Milani che vogliamo iniziare un ragionamento per poter significare il valore che ha per noi la parola “Equità”.
“Non c’é peggior ingiustizia che fare parti uguali tra disuguali”.
Innanzitutto, per sviluppare il tema della “Equità” rapportandolo in un contesto amministrativo, dobbiamo preoccuparci del reperimento delle “risorse”, dove si acquisiscono, come ed a chi si destinano.
Le risposte sono articolate ed impegnative, considerando disponibilità economiche diverse e decrescenti da parte di famiglie e di imprese.
Gli interventi quindi dovranno essere modulati, ispirandosi al principio della progressività (art. 53 della costituzione).
Dovremo in tal senso, adottare politiche tributarie più mirate, che permettano di modulare la pressione fiscale, rendendo percettibile il principio di progressività che dovrà tener conto, in modo minimale di rendite immobiliari ed in modo più sostanziale delle rendite finanziarie.
Parlando di “Equità”, altro tema centrale è quello della casa.
Visto lo stallo demografico in cui il nostro territorio, da anni è rimasto ancorato, si dovrà guardare, per ragioni fattuali, e non certo per ragioni ideologiche, nel breve e nel medio termine, a costruire secondo le esigenze che lo stesso mercato richieda.
Non procrastinabile invece é la domanda di qualità urbana, la domanda di servizi e la domanda di residenza.
Le risposte a queste domande si possono dare da subito, assumendo e facendo propria la “Legge Regionale sulla Rigenerazione Urbana e il Recupero Edilizio, L. 7/2017” ,una occasione da “sfruttare” immediatamente.
La legge infatti si propone di promuovere, incentivare e realizzare la rigenerazione urbana, intesa in senso ampio ed integrato, incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, favorire il recupero delle periferie, delle aree urbane degradate, delle aree produttive e degli edifici dismessi o inutilizzati.
E ancora, di qualificare la città esistente, limitare il consumo di suolo, aumentare la sicurezza sismica dei manufatti esistenti, migliorare la qualità ambientale e architettonica dello spazio insediato, promuovere e tutelare l’attività agricola, il paesaggio e l’ambiente e promuovere lo sviluppo del verde urbano.
Il processo virtuoso che tale Legge potrà innescare, andrà oltre le stesse peculiarità sopra riportate, ma potrebbe innescare quel processo che da troppo tempo la città aspetta, una ripresa economica del territorio.
Con l’adozione di tale Legge Regionale, non si parlerà di governare una espansione immobiliare, ma bensì di innescare un processo di recupero, riuso, riqualificazione della città che potrà comprendere, la viabilità, l’efficientamento energetico e più in generale l’intero decoro urbano. Va poi considerato il nodo centrale, che in una prospettiva di politiche sociali, ha la necessità di individuare le priorità ed i conseguenti interventi di aiuto.
In una situazione di risorse decrescenti, e comunque limitate, vanno trovate soluzioni per esaudire domande che non sono immediatamente conciliabili.
Nel bilancio previsionale, a parità di saldi, saranno senz’altro previste maggiori somme per il welfare, dare risposte certe a tutti, e risolvere tensioni sociali che si potrebbero innescare.
Anche se il bilancio comunale è un dispositivo relativamente rigido, comunque potrà essere gradualmente modificato nel tempo.
Crediamo inoltre, che le decisioni sui servizi da attivare o da dismettere, e sulle scelte di investimento, possano scaturire, quale risultante di una giusta condivisione fra amministrazione e cittadini, concordando anche a cosa si potrebbe rinunciare, in cambio, o di una minore pressione tariffaria e tributaria, o di cosa potrebbe essere invece urgente realizzare.
Infine, il tema della “Equità” richiede un’analisi seria sulla valutazione dell’utilità pubblica davvero prodotta dai versamenti di tutti i cittadini-contribuenti.
Sicuramente ogni spesa avrà le sue giustificate ragioni, ma vista una situazione finanziaria non certo fiorente che si andrà ad amministrare, è bene sin da ora ricordare a tutti, che ci sono ragioni di spesa migliori di altre.
Così come preannunciato, abbiamo iniziato a raccontarvi la nostra visione di “società” con alcuni interventi per la nostra città, realizzabili da subito ed a costo infinitesimale.
Mercoledì introdurremo la parola chiave-inclusione.

ELEZIONI AMMINISTRATIVE A CASSINO 26 MAGGIO 2019

“Programma 2° step”

La seconda parola-chiave è “INCLUSIONE”

Sicuramente parlare di “inclusione” significa poter superare i tanti motivi di ineguaglianze, significa avere la volontà di trovare soluzioni economiche, sociali per riportare in un alveo di “legalità” chi da solo non riesce ad uscire da uno stato di discriminazione.
O anche mettere le persone, le famiglie, al centro di un’attenzione, dove si possono spiegare in maniera compiuta, i diritti, i doveri, le responsabilità.
Su questo argomento, ci sarebbe da aprire un lungo discorso su quelle che sono state le politiche sociali, sino ad oggi messe in campo dalle passate amministrazioni, rispetto soprattutto ad una richiesta di aiuto, che non esprime più, solo povertà e marginalità, ma anche e soprattutto precarietà.
Facciamoci tutti, due semplici domande, e dalle nostre stesse risposte capiremo in quale grave situazione di degrado sociale siamo precipitati.
La prima domanda è, siamo soddisfatti della qualità della vita che ogni giorno affrontiamo nella nostra città ?, la seconda domanda è, siamo soddisfatti della nostra vita sociale e relazionale ?
Moltissimi di noi avranno dato sicuramente risposte negative, ed allora la prossima amministrazione dovrà imprimere una inversione di tendenza lavorando sui fattori che determineranno il miglioramento generale del nostro quotidiano.
Si dovrà partire da una città solidale, dove le differenziazioni sociali non siano motivo di discriminazione, dove i quartieri (rioni), tra di loro, non creino fratture sociali e tutti si sentano cittadini della stessa polis.
Ed allora dobbiamo essere ben consci, che c’è necessità di elaborare un cambiamento che coinvolga tutti, che guardi al futuro della nostra città, iniziando da un percorso rieducativo, che rielabori alcuni concetti fondamentali del vivere civile, che per motivi diversi si sono persi di vista.
Il “DOVERE”, che ognuno di noi ha nei confronti di…………, ha la stessa valenza di un “DIRITTO” che ognuno di noi rivendica, alcuni comportamenti ineducati si devono evitare non perché potremmo essere sanzionati, ma perché la città é nostra e dei nostri figli, noi ci viviamo e se viviamo in una
città sporca, inquinata e dal traffico caotico, chi ne soffre per primo é proprio il cittadino comune, quindi noi…….
La nuova amministrazione, dovrà quindi, si essere pronta a lavorare di più e meglio, per ridare dignità alla nostra Cassino, mettendo in campo una cura quotidiana, per una città più pulita, più ordinata, più civile, più rispettosa delle regole e delle esigenze dei cittadini, ma nel contempo, tutti dobbiamo riacquistare la consapevolezza che Cassino è di tutti i cassinati e quindi cura ed amore a Cassino città, vanno dispensati da parte di tutti.
Dobbiamo tornare ad essere una comunità dove le famiglie non devono sentirsi abbandonate alle loro problematiche, ma integrate in contesti più larghi, dove si respira un senso di affettività e reciprocità, da mettere concretamente in atto tutti i giorni, per affrontare esigenze quotidiane di tipo materiale, economico, educativo, relazionale ed anche affettivo.
Parlare di inclusione, significa anche parlare di sicurezza, ed anche qui, il primo lavoro da mettere in campo è quell’azione educativa che dobbiamo rivolgere a noi stessi.
Il presupposto di partenza per una convivenza civile è proprio il rispetto reciproco delle regole, altrimenti dette “leggi”, che hanno appunto lo scopo di tutelare tutti i cittadini, ma ancor di più, le persone più fragili.
Verrà quindi adottato un piano di sicurezza che prevede una più intensa concertazione con le forze di polizia, ed un piano amministrativo per il rafforzamento delle capacità numeriche e tecnologiche della Polizia Locale.
La realizzazione poi di una centrale di controllo, rientrante in un programma più vasto di installazione sul territorio di linee di registro-video-sorveglianza, attiva 24 ore su 24 ed in dotazione alla Locale Polizia Urbana.
Dobbiamo tornare ad essere una comunità rispettosa dei diritti di tutti, ed allora dobbiamo intercettare (questo è rivolto ai più giovani), il limite della nostra libertà, e quando questo limite travalica alcuni confini e va a ledere la libertà degli altri, bisogna avere la capacità di fare un passo indietro, proprio per quel rispetto che si deve, al vivere civile di tutti.
L’azione amministrativa, in tal senso dovrà coinvolgere la scuola, con percorsi educativi verso il rispetto delle regole e della legalità.
D’altro canto, la nuova amministrazione dovrà sempre avere aperta una finestra verso uno spirito critico, che è condizione necessaria per “governare” il cambiamento, che dovrà essere tangibile ed orientato verso obiettivi sostenibili.
Abbiamo con questo nostro, ulteriore scritto, continuato a raccontarvi la nostra visione di “comunità”, con alcune illustrazione di interventi che riguardano naturalmente la nostra città, e da realizzare in un breve periodo dall’insediamento.

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“Programma, 3° step”

La terza parola-chiave è “PARTECIPAZIONE”

Abbiamo appena parlato di “inclusione”, e come portare a termine un progetto sociale se l’ “inclusione” non viene coniugata con la “partecipazione”.
Partecipare vuol anche dire co-amministrare, e sempre in un percorso, dove tutti devono essere coinvolti in un progetto che ci deve condurre ad essere una comunità solidale, non possiamo prescindere dalla partecipazione di tutti i cittadini alle scelte della stessa amministrazione comunale.
Il coinvolgimento, sarà tangibile, infatti, attraverso l’istituzione dei consigli di quartiere, tutti potranno essere partecipi, attraverso le proprie rappresentanze a quelle che sono le scelte, e quindi alla vita amministrativa della propria città.
I rappresentanti dei consigli di quartiere, infatti potranno proporre, dibattere o presentare anche istanze diverse, ogni qual volta verrà indetto il consiglio comunale.
Un senso compiuto di “partecipazione”, non potrà sottrarre poi, l’amministrazione comunale a relazionarsi ed aprire sinergie costanti e continuative con quello che è il mondo “dell’Università”.
Questa relazione non potrà limitarsi alla gestione interpersonale delle proprie componenti più “alte e rappresentative”, ma dovrà nutrirsi di servizi, di ricerca di compatibilità, e di incontri, incontri di docenti e studenti con il tessuto connettivo di tutta la città.
È chiaro, che in modo parallelo, l’amministrazione dovrà mettere in campo un progetto di fattibilità che unisca (oltre che territorialmente con percorsi pedonali e ciclabili), anche idealmente, le finalità e le aspettative degli studenti della cittadella universitaria con quelle di una Cassino che dovrà essere pronta all’accoglienza.
In parole povere, “l’Università”, dovrà sentire e vivere di più un senso di appartenenza, e Cassino dovrà “approfittare” di un tale catalizzatore di cultura e di scienza.
La “partecipazione” è anche presupposto di una ripresa economica.
E come poter trascurare un tesoro mai “sfruttato” dalle precedenti amministrazioni (la nostra memoria), poter riscoprire percorsi di una antica Cassino, intercettando contributi regionali ed europei finalizzati ad un lavoro per poter riportare alla conoscenza di tanti, bellezze e memorie di altri tempi, oggi nascoste da cumuli di terra e vegetazione (fatti di conservazione, tutela e valorizzazione di un vasto ed irripetibile patrimonio di beni storici e documentali).
Riscoprire il presente assurgendo ad un ruolo di capofila turistico di tutto un territorio che dovrà divenire centro ricettivo di importanza internazionale, grazie proprio alla riscoperta di un proprio passato storico.
La “partecipazione” ha anche una valenza culturale, e come prescindere allora dagli strumenti, l’indispensabile recupero del “Teatro Manzoni”, al centro, sino ad oggi, di svariate diatribe, tutte derivanti da una palese e penosa incapacità amministrativa.
E poi, abbiamo la fortuna di possedere siti archeologici che ci invidia mezza europa (Teatro, ed Anfiteatro Romano, la tomba di Ummidia Quadratilla, tutto il sito Archeologico che parte dal Teatro Romano ed arriva sin sopra Montecassino, lo stesso Museo Archeologico, e l’Historiale), e noi che facciamo, li trascuriamo…………
Solo la cecità e la grettezza di animo, di chi era deputato all’amministrazione degli stessi ha potuto far si che tali risorse fossero del tutto ignorate e non piuttosto valorizzate, in un percorso turistico attrattivo, che potrebbe sicuramente interessare i tanti Tour Operator che organizzano
visite in quel faro di cultura dove San Benedetto attorno al 529 stabilì di costruire l’Abbazia, che poi prese il nome di Montecassino.
Altro gapp che la nuova amministrazione dovrà superare è quello della mancanza di un multisala cinematografica.
Ebbene, nel programma degli interventi, da subito ci sarà l’impegno di individuare un’area idonea alla costruzione dell’opera, e successivamente nel “breve termine” ci sarà l’impegno amministrativo di preparare un project-financing.
Vi sembrerà strano, e forse a qualcuno, anche falso, ma della “partecipazione”, quella che ti fa crescere, quella che crea confronti, quella che è condivisa, i giovani di Cassino non ne fanno parte.
Non possiamo trascurare una risorsa così importante e dirompente come quella che i giovani esprimono, continuando a dettare politiche che non attraggono, ed in molti casi escludono, l’interesse di migliaia di giovani della nostra città.
Ed allora, alcune piazze centrali, ideate solamente per gonfiare i capitolati di spesa, dovranno essere completamente ripensate, riprogettare secondo una visione “green”, dove, tutto sia a servizio dei giovani e non soltanto, con
giardini, panche e wi-fi, con aree coperte, di ritrovo dove ci si può incontrare e discutere, leggere tranquillamente un libro o ascoltare musica.
Piccole location, che possano ospitare iniziative culturali, dibattiti sociali che in qualche modo intercettino l’interesse di tanti giovani, che in mancanza di proposte del genere, si rifugiano avanti ai bar, non accorgendosi di vivere una vita per lo più asociale ed individuale.
Per finire, ci appare menomata una “partecipazione”, se non contemplata nello sport, ed allora crediamo che vada affrontato in maniera conclusiva il nodo della costruzione o ricostruzione di taluni impianti (vedi ex piscina comunale), anche cogliendo l’opportunità di riconversione di alcune strutture che dovranno comunque trovare l’interesse di un qualche privato, con il quale si potrà sicuramente stipulare un accordo di project-financing.
In questa ottica va sicuramente effettuato un intervento di restyling totale al “vecchio” complesso di via Appia, studiando le migliori soluzioni per riattivare l’impianto di illuminazione al campo 1, indispensabile per poter ospitare manifestazioni di atletica e partite di calcio.
La riqualificazione dovrà riguardare anche i campi da tennis ed il glorioso palazzetto dello sport.
D’altra parte, noi che siamo cresciuti con la cultura dello sport, non potevamo certo trascurare i valori che lo sport trasmette, la “partecipazione” che si trasforma in socializzazione e quindi veicolo di formazione e crescita umana.
Continuando quindi questo nostro percorso di narrazione, abbiamo illustrato, anche se in modo sintetico, il nostro pensiero di “partecipazione”,

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“Programma 4° step”

La quarta parola-chiave é “SOSTENIBILITÀ”

Se continueremo a trascurare la “sostenibilità” le parole equità, inclusione, partecipazione, diverranno dei contenitori vuoti.
In generale, i passaggi più delicati riguarderanno interventi sul territorio con l’adozione di nuovi strumenti e l’attivazione di precisi partenariati.
Le politiche per la casa, la riconversione di tanti comparti urbani e l’intervento sulle periferie che dovranno costituire luoghi di riscatto urbanistico e sociale.
Parlando di “sostenibilità”, non possiamo esimerci di parlare di ambiente, e quindi, una priorità è sicuramente predisporre interventi urgenti (grazie anche a contributi che proprio ultimamente la Regione ha messo a disposizione per la bonifica del sito “Nocione”) per la bonifica dei vari siti che i cittadini di Cassino, oltre che a conoscere bene, subiscono ogni giorno con effetti negativi di avvelenamento.
Parliamo quindi del Nocione, dello Spineto, dell’ex Marini, dell’ex stabilimento CRCM, Pantanelle, Panaccioni ed altri di minore estensione.
Certamente il lavoro di bonifica è indispensabile ed urgente, ma il lavoro da mettere in cantiere è per il futuro, un lavoro grosso, di educazione civica, di interventi e di sorveglianza.
Il recupero del territorio e l’aspetto paesaggistico sono pedine basilari per la riqualificazione di un ambiente cittadino e della qualità della vita dei suoi abitanti.
I pericoli legati alle emissioni di CO2 devono essere affrontati partendo dal problema e non dal sintomo, e per risolvere il problema ci sono due elementi che risultano determinanti, la diminuzione del traffico locale e l’aumento della quantità di superficie dedicata agli spazi verdi urbani.
Il primo dei problemi si risolve creando circuiti ciclabili nel centro cittadino, per arrivare in un arco di medio termine alla creazione di una vasta area pedonalizzata e ciclabile, con una parallela e sensibile diminuzione di traffico privato di auto.
Il secondo dei problemi si risolve cambiando il nostro modo di pensare la “città”.
Intervenire innanzitutto sul recupero e potenziamento di ciò che è il verde in città, dove gli alberi, i parchi e la villa comunale, non devono essere solo arredo urbano, ma siano parte integrante di un programma che dovrà avere come finalità il potenziamento, ed il completamento di una forte operazione rafforzativa di verde.
Puntare sul ruolo degli alberi in città è determinante non soltanto per migliorare la qualità dell’aria a livello locale, ma anche per lottare contro i cambiamenti climatici.
In questi anni, nelle passate amministrazioni, poco o nulla si è discusso di questi temi, che forse per altri potevano essere minori, ma che per noi, fanno parte e sono la nostra stessa vita.
Se parliamo di ambiente, come non parlare di “acqua”.
Non tutti sanno che la “Casinum” di epoca romana nasce come città termale, e non credo occorrano particolari competenze topografiche per osservare come la nostra città sia letteralmente circondata ed abbracciata da un percorso di acque che sarebbe bene utilizzare non per far fare profitti ad “Acea”, ma per creare non solo aree di verde e svago, ma anche un percorso culturale-economico di cui possa fruire e giovare la cittadinanza, ma anche il turismo eco-sostenibile.
Non occorrono molto probabilmente neanche eccessive doti visionarie per immaginare la creazione di un “parco storico delle acque”, che vada a sfruttare elementi del passato più remoto, “terme varroniane”, anche se qui ci sarà da leggersi un bel po’ di carte, “villa comunale” e “sorgenti del gari”.
Ci sarà da lavorare attorno ad un progetto che unisca questi siti di straordinario impatto paesaggistico, per poter creare un anello fruibile con percorsi pedonali e ciclabili.
Quindi la prima cosa da fare, è riappropriarsi del controllo delle acque, e per far ciò bisogna rescindere il contratto di Convenzione con Acea-Ato5 spa.
Nella malaugurata ipotesi che la legge “DAGA” in discussione in parlamento, per motivi diversi venga proiettata nel tempo, o peggio non venga votata, abbiamo l’obbligo come amministrazione di concertare una maggioranza di sindaci in assemblea dell’Ato 5, che sia favorevole alla rescissione della Convenzione in essere.
Solo in tale modo, Cassino potrà ottimizzare il possesso di tante fonti idriche, sia per fini turistici, e sia per la gestione dello stesso Servizio Idrico Integrato che potrà sicuramente essere un sicuro ritorno finanziario per la città di Cassino e quindi per tutti i cittadini.
Ultimi (solo in senso cronologico) interventi indispensabili e non solo per la sostenibilità, ma anche e soprattutto per una autonoma accessibilità (ai diversamente abili), che è poi un principio di libertà, ci vedranno impegnati ad effettuare controlli su varchi, pedane e spazi minimi per lasciare il libero transito a tutti, ma anche controlli alle barriere architettoniche e parcheggi riservati ai diversamente abili, per un senso stesso di dignità di ogni essere umano ed anche per una “inclusione” di cui abbiamo abbondantemente parlato.
Abbiamo quindi con questo 4° step conclusa la narrazione di quella che è la nostra visione di società, che completeremo comunque mercoledì con un 5° step dove parleremo di qualche progetto da realizzare in tempi medi lunghi, che sicuramente la nostra amministrazione farà partire ma che non vedrà realizzare se non in un secondo mandato, parleremo quindi del “FUTURO”

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“Programma 5° step”

La quinta parola-chiave é “FUTURO”

Se si potesse definire il “futuro” con una semplice parola, direi sicuramente che essa appartiene alle parole “palindrome”, si perché il “futuro”, da qualsiasi parte lo inizi a costruire, va sempre bene.
Da un punto di vista programmatico, se è vero, come è vero che la politica deve dare risposte concrete a problemi reali, secondo noi, deve anche seguire una traccia, creare uno spazio di speranza, guardare al domani, ed oltre, e per quanto poi possibile, preparare un percorso sul quale incamminarsi.
Per poter pensare al futuro, bisogna cambiare quell’atteggiamento che in alcuni momenti la politica ti impone, e che è soprattutto “contemplativo”.
Bisogna prefigurare le alternative, negoziando scelte fra diversi scenari alternativi e favorire l’implementazione verso l’esito di programmi realizzabili.
Una politica seria ed efficace non può fare a meno di interrogarsi sul senso, e sull’appropriatezza delle proprie scelte, senza pensare ad investire per il “futuro”.
Amministrare una città importante come quella che è Cassino, significa saper tracciare un percorso, che guardi oltre al breve respiro ed alle strette convenienze di un solo lustro.
Preparare un futuro e recuperare parte dello scempio che le precedenti amministrazioni hanno lasciato ai nostri figli e nipoti, significa avere capacità, strumenti e voglia di guardare avanti, di guardare lontano.
La nuova amministrazione dovrà essere conscia di navigare in mare aperto e quando salperà deve essere sicura di essere in possesso di mappe e bussole, per poter navigare le profondità del mare.
Nel caso contrario, sarà costretta e condannata ad una navigazione a vista, lungo la costa, e seppur non finirà sugli scogli, non potrà mai raccontare di aver visto il punto dove cielo e mare s’incontrano e dove non c’è più orizzonte.
Preparare un “futuro” significa anche aprire una strada verso la speranza, con l’impegno paziente di un lavoro che non riguarderà sicuramente il breve volgere di qualche mandato amministrativo.
Più di qualcuno contesterà, che alcuni obiettivi vorrebbe vederli oltre che realizzabili, realizzati.
Bisogna invece, in alcuni casi, avere la consapevolezza che un progetto iniziato da questa nuova amministrazione, si potrà realizzare anche tra venti o più anni.
È questa la giusta visione che oggi nessuno coltiva, per cui se nessuno oggi pianta un seme, la pianta, fra venti o trenta anni, non ci sarà sicuramente.
Una strategia che si limitasse nel possibile, e che avesse come orizzonte solo quello del giorno dopo, non ci porterebbe da nessuna parte, ma soprattutto non preparerebbe un futuro migliore a chi verrà dopo di noi.
Questi cinque step, fin ora narrati, che contengono ognuno una parola chiave (Equità-Inclusione- Partecipazione-Sostenibilità-Futuro), che in qualche modo hanno delineato la nostra visione, i valori, e gli orientamenti essenziali su cui lavorare per un miglioramento socio-economico della nostra “Cassino”, di oggi e degli anni a venire, dovranno, con la collaborazione fattiva di tutti i cittadini, essere trasformati in programmi condivisi e percorribili.

Il compito della politica è anche e soprattutto mantenere vivo, e se del caso ripristinare, quel sottile ma indispensabile legame fiduciario, che costituisce la base etica e civile di ogni relazione comunitaria e permette alle persone, in qualunque momento, di sapere che hanno sempre qualcuno accanto.

 Renato De Sanctis

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L’Inghilterra, il Regno delle due Sicilie e l’unità d’Italia: come provare a creare uno stato satellite

Posted by on Mar 4, 2019

L’Inghilterra, il Regno delle due Sicilie e l’unità d’Italia: come provare a creare uno stato satellite

Secondo la «logica della scacchiera», un’Italia unita faceva comodo a Londra come contraltare a Parigi. Ma prima occorreva demolire il Regno delle Due Sicilie, non disposto a fare «l’ascaro» di Sua Maestà Britannica. Protesa nel Mediterraneo, con migliaia di chilometri di coste da difendere, l’Italia unita voluta e sostenuta da Londra sarebbe stata sempre sotto ricatto della potente flotta inglese. Un progetto che non andò però sempre per il verso giusto (per gli inglesi). Questa è l’immagine che emerge dal colloquio di Eugenio Di Rienzo, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma «La Sapienza» e direttore della «Nuova Rivista Storica». Di Rienzo si è occupato dei problemi relativi ai rapporti fra le potenze europee e lo Stato italiano pre-unitario dalla posizione più strategica: il Regno delle Due Sicilie. Per questo con lui verranno esaminati in questa intervista argomenti che sono più ampiamente trattati nel suo volume Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee, 1830-1861, d’imminente pubblicazione per i tipi di Rubbettino.

Durante il XVI e il XVII secolo l’Italia esercita un grande fascino sull’Inghilterra. Questa fascinazione continua nei secoli successivi e si estende anche al Mezzogiorno. Per tutti i viaggiatori inglesi, l’Italia del Sud appare come un museo a cielo aperto abitato, però, da popolazioni incivili. Nasce allora un pregiudizio anti-italiano e in particolare anti-meridionale? Un pregiudizio fondato?

«Anche se l’espressione un “paradiso abitato da diavoli” riferita a Napoli e alla Campania fu coniata, come ricordava Benedetto Croce, da Daniele Omeis, professore di morale presso l’Università di Altdorf in Germania che, nel 1707, pronunciò una prolusione accademica, intitolata appunto “Regnun Neapolitaum Paradisus est, sed a Diabolis habitatus”, questo giudizio ritorna come un motivo ricorrente nei diari e nelle corrispondenze dei gentlemen inglesi. Lo spettacolo delle meraviglie artistiche e naturali del Mezzogiorno era, infatti, oscurato dall’arretratezza, dalla povertà, dal degrado morale delle popolazioni e dall’inadeguatezza delle classi dirigenti. Se nel passato quelle regioni erano state la culla della civiltà classica, ora, esse apparivano il terreno di coltura di una plebe indocile, ignorante, superstiziosa, tendenzialmente delinquente: i lazzaroni di Napoli e i briganti della Calabria. Ricordiamo, però, che questo giudizio, pur basato su dati di fatto, era potentemente rafforzato da un pregiudizio religioso e anti-cattolico. Il culto di San Gennaro a Napoli e la fastosa e paganeggiante processione in onore di Santa Rosalia a Palermo apparivano, infatti, la testimonianza vivente di come il Papato e il clero avessero mantenuto volutamente le masse del Sud in una situazione di soggezione e di subalternità, utilizzando nel modo più spregiudicato, il precetto di Machiavelli, soprannominato dagli inglesi Old Nick (Vecchio Diavolo), secondo il quale la religione doveva essere instrumentum regni. Aggiungiamo, però, che i rapporti tra Regno di Napoli e Gran Bretagna non si limitarono a questi aspetti. Nel 1842, come illustrava un denso articolo, pubblicato sull’autorevolissimo “Journal of the Statistical Society of London”, una quota rilevante della bilancia commerciale britannica era rappresentata dall’importazione di materie prime provenienti dalla Sicilia. L’ingente traffico era costituito da vino, olio d’oliva, agrumi, mandorle, nocciole, sommacco, barilla e soprattutto dallo zolfo (utilizzato per la preparazione della soda artificiale, dell’acido solforico e della polvere da sparo), che copriva il 90% della richiesta mondiale e di cui venti ditte inglesi avevano ottenuto, di fatto, la prerogativa esclusiva, per l’estrazione e lo sfruttamento, grazie al pagamento di un modico compenso».

Quando i Borbone furono ridotti al possesso della sola Sicilia dall’invasione napoleonica (1805) si trovarono sotto una pesante tutela inglese. Quanto durò l’influenza britannica su Napoli dopo il Congresso di Vienna, e come si manifestò?

«Dopo il 1815, Londra non prese in considerazione la possibilità di un intervento indirizzato a guadagnarle una presenza politico-militare nella Penisola. Il principio della non ingerenza negli affari italiani registrò, tuttavia, una clamorosa eccezione per quello che riguardava il crescente interesse inglese a rafforzare la sua egemonia nel Mediterraneo e quindi a riguadagnare quella posizione di vantaggio, acquisita nel 1806 e ulteriormente incrementatasi poi, tra 1811 e 1815, grazie al protettorato politico-militare instaurato da William Bentick in Sicilia. Protettorato che aveva portato ad ampliare la colonizzazione economica dell’isola già avviata dalla fine del XVIII secolo, poi destinata a irrobustirsi nei decenni seguenti grazie all’attività delle grandi dinastie commerciali dei Woodhouse, degli Ingham, dei Whitaker e di altri mercanti-imprenditori angloamericani. Molto indicativa, a questo riguardo era la presa di posizione del primo ministro, Visconte Castlereagh che, il 21 giugno 1821, aveva ricordato che il dominio diretto o indiretto della Sicilia costituiva, ora come nel passato, un “indispensabile punto d’appoggio” per rendere possibile il controllo dell’Inghilterra sull’Europa meridionale e l’Africa settentrionale. Come, infatti, avrebbe sostenuto Giovanni Aceto, nel volume del 1827, “De la Sicile et de ses rapports avec l’Angleterre”, “quest’isola non rappresenta per l’Inghilterra soltanto un importante avamposto strategico, da preservare, ad ogni costo, da una possibile occupazione della Francia che la minaccia dalle sue coste, ma costituisce anche il centro di tutte le operazioni militari e politiche che il Regno Unito intende intraprendere nell’Italia e nel Mediterraneo”».

Il controllo del Mediterraneo centrale fu tra i principali motivi di conflitto tra Napoli e Londra: prima l’occupazione britannica di Malta, strappata a Napoleone (che a sua volta l’aveva tolta ai Cavalieri di San Giovanni, che riconoscevano la sovranità siciliana sull’isola) ma mai restituita ai Borbone, poi l’incidente dell’Isola Ferdinandea, infine la questione degli «Zolfi». Furono solo questioni geopolitiche o contarono anche altre considerazioni?

«Sicuramente interessi strategici e geopolitici dominarono la politica della Corte di San Giacomo verso le Due Sicilie dalla metà dell’Ottocento al 1860. Nel 1840, Palmerston usò tutta la forza della gunboat diplomacy per mantenere il monopolio inglese sugli zolfi siciliani, ordinando alla Mediterranean Fleet di catturare il naviglio napoletano e di condurlo nelle basi di Malta e di Corfù con un vero e proprio atto di pirateria. Nel 1849, sempre Palmerston, sostenne la rivoluzione separatista siciliana con l’obiettivo di fare dell’isola uno Stato autonomo retto da un principe di Casa Savoia. Nel corso della Guerra di Crimea, ancora Palmerston, propose più volte agli Alleati di effettuare azioni intimidatorie contro il Regno di Ferdinando II, il quale aveva mantenuto una neutralità indulgente e più che benevola verso la Russia. Soltanto l’opposizione della Regina Vittoria impedì nel settembre del 1855 una “naval demonstration” nel golfo di Napoli che, nelle intenzioni del primo ministro, avrebbe dovuto favorire un’insurrezione destinata a rovesciare i Borbone. Il ricorso alla politica delle cannoniere, per ridurre o azzerare la sovranità delle Due Sicilie, trovò, invece, il pieno consenso dell’opinione pubblica del Regno Unito. Un editoriale del “Times” sostenne, infatti, che la visita della flotta britannica doveva ottenere gli stessi risultati delle missioni in Giappone guidate dal Commodoro Matthew Calbraith Perry, nella baia di Edo, tra 1853 e 1854, per ridurre a ragione la resistenza dello shogun, Ieyoshi Tokugawa, che si era opposto alla penetrazione commerciale statunitense. Così come gli Stati Uniti in Estremo Oriente, terminava l’articolo, anche la Gran Bretagna non poteva tollerare l’esistenza di “un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia”. Naturalmente l’ingerenza inglese si ammantava di pretesti umanitari: la volontà di smantellare il regime dispotico di Ferdinando II e di sostituirlo con un sistema costituzionale e liberale nel quale fossero garantiti i diritti politici e civili. Prendendo a pretesto la denuncia di Gladstone che, nelle “Two Lettersto the Earl of Lord Aberdeen” del 1851, aveva definito il regime di Ferdinando II “la negazione di Dio”, Palmerston si servì di fondi riservati del Tesoro britannico, per finanziare una spedizione destinata a liberare Luigi Settembrini (autore, nel 1847, della virulenta “Protesta del popolo delle due Sicilie”), Silvio Spaventa e Filippo Agresti condannati a morte nel 1849, la cui pena era stata commutata nel carcere a vita da scontare nell’ergastolo dell’isolotto di Santo Stefano. L’operazione, progettata per la tarda estate del 1855, non arrivò a compimento ma il Secret Service Fund sarebbe stato utilizzato negli anni successivi e fino al 1860 per destabilizzare  il Regno delle Due Sicilie».

Quale ruolo ebbe l’Inghilterra nella caduta del Regno di Napoli?

«Rosario Romeo nella sua biografia di Cavour definì l’azione inglese di sostegno allo sbarco dei Mille e alla campagna di Garibaldi come una “leggenda risorgimentale”. Si tratta però di un’interpretazione sbagliata. Il supporto militare, economico, diplomatico del Regno Unito fu, invece, indispensabile alla cosiddetta “liberazione del Mezzogiorno”. Come rivelò il dibattito, svoltosi nella Camera dei Comuni, il 17 maggio 1860, la presenza delle fregate inglesi nella rada di Marsala, che impedì la reazione della squadra borbonica, non fu una semplice coincidenza ma un atto deliberato deciso con piena cognizione di causa dal gabinetto britannico. Il sostegno di Londra non si esaurì in questo episodio. In aperta violazione al Foreign Enlistment Act del 1819, che proibiva appunto il reclutamento di sudditi inglesi in eserciti stranieri, Palmerston e il ministro degli Esteri Russell tollerarono e  incoraggiarono  “the subscription for the insurrectionists in Sicily” promossa dal pubblicista italiano Alberto Mario, alla quale aderirono esponenti del partito whig e alcuni ministri tutti egualmente disposti a elargire “ingenti somme da utilizzare nella guerra contro il Regno delle Due Sicilie” e quindi a sostenere economicamente una campagna di arruolamento destinata a ingrossare le fila dei ribelli in camicia rossa. Inoltre la flotta inglese collaborò tacitamente con quella piemontese nella protezione dei convogli che trasportarono rinforzi di uomini e materiali destinati a raggiungere Garibaldi. E non basta! Dalla corrispondenza tra Cavour e l’ammiraglio Persano dei primi del luglio 1860, apprendiamo, infatti, che alla preparazione del “pronunciamento” contro Francesco II, che sarebbe dovuto scoppiare a Napoli per prevenire un’insurrezione mazziniana, doveva fornire un apporto fondamentale “il signor Devicenzi, amico di Lord Russell e di Lord Palmerston, che avrà mezzo d’influire sull’ambasciatore di Sua Maestà britannica Elliot e l’ammiraglio comandante della squadra inglese”. Fu solo, poi, grazie al veto posto da Londra che Napoleone III rinunciò ad attuare un blocco navale nello stretto di Messina che avrebbe potuto impedire a Garibaldi di raggiungere le coste calabre. Non si trattava evidentemente di favori disinteressati. Alla fine di settembre del 1860, Palmerston avrebbe ricordato, infatti, all’esule italiano Antonio Panizzi (divenuto direttore della biblioteca del British Museum) che “se Garibaldi aveva potuto occupare Napoli ed esser causa che il Re scappasse a Gaeta, ciò fu dovuto all’Inghilterra che, invitata dalla Francia a impedire che dalla Sicilia si venisse ad attaccare gli Stati di terraferma, vi si rifiutò”, aggiungendo che “l’aiuto morale e l’influenza britannica non furono meno utili all’Italia delle armi francesi e che sarebbe stata mera ingratitudine per parte dell’Italia lo scordarselo”».

E’ possibile dire, quindi, che con l’unità il Regno d’Italia eredita sostanzialmente la stessa posizione di debolezza geopolitica delle Due Sicilie e che Londra acquista, dopo il 1861, una sorta di protettorato sulla politica mediterranea del nostro Paese?

«Sicuramente sì. Anche se forse il termine “protettorato” rappresenta un’espressione troppo forte, non si può non riconoscere che gli argomenti con i quali Palmerston giustificava l’azione inglese a favore della conquista piemontese delle Due Sicilie miravano proprio a quest’obiettivo. E credo che valga la pena di ricordarli alla fine di questa intervista. Nella lettera inviata alla Regina Vittoria, il 10 gennaio 1861, Palmerston sosteneva che, considerando “la generale bilancia dei poteri in Europa”, uno Stato italiano esteso da Torino a Palermo, posto sotto l’influenza della Gran Bretagna ed esposto al ricatto della sua superiorità navale, risultava “il miglior adattamento possibile” perché “l’Italia non parteggerà mai con la Francia contro di noi, e più forte diventerà questa nazione più sarà in grado di resistere alle imposizioni di qualsiasi Potenza che si dimostrerà ostile al Vostro Regno”. Parole profetiche che, se si esclude l’intervallo della politica estera fascista, la Storia, fino ai nostri giorni, non ha mai completamente smentito. Il Trattato d’alleanza con gli Imperi Centrali, firmato dal governo italiano nel maggio del 1882, non modificò a nostro favore lo status quo mediterraneo che si era venuto creando con l’insediamento francese in Tunisia e di conseguenza rafforzò la nostra situazione di dipendenza dal Regno Unito. Considerato che, nei problemi mediterranei, Germania e Austria non si ritenevano impegnati ad alcuna solidarietà con il suo alleato, l’Italia, per arginare l’espansionismo di Parigi, si trovò obbligata ad orbitare nella sfera d’influenza di Londra, la quale si mostrava desiderosa di stringere un patto di collaborazione con il nostro Paese che le avrebbe consentito, ad un tempo, di mettere in minoranza le forze francesi e di impedire una possibile intesa franco-italiana, il cui effetto avrebbe potuto rendere difficili le comunicazioni tra Gibilterra, Malta e l’Egitto. Il 12 febbraio del 1887 veniva firmato così un accordo con il quale il governo britannico e quello italiano s’impegnavano a “mantenere l’equilibrio mediterraneo e a impedire ogni cambiamento che, sotto forma di annessione, occupazione, protettorato, modifichi la situazione attuale con detrimento delle due Potenze segnatarie”. Con questa convenzione, se l’Italia s’impegnava ad appoggiare la penetrazione inglese in Egitto, la Gran Bretagna si dichiarava disposta “a sostenere, in caso d’ingerenza di una terzo Stato, l’azione italiana su qualunque punto del litorale settentrionale africano e particolarmente in Tripolitania e Cirenaica”. Rinnovato, nel 1902, questo accordo ci avrebbe consentito di portare a termine l’impresa libica nel 1911. Anche dopo questo successo, l’Italia rimase, comunque, per Londra un “volenteroso secondo”, destinato a svolgere un ruolo di sostegno al suo sistema marittimo, ma al quale non poteva essere consentito una più ampia espansione nell’area mediterranea. Che questo fosse il ruolo riservato alla nostra Nazione lo dimostrava, in tutta evidenza, nel 1913, la ferma di presa posizione del Regno Unito che escludeva in linea di principio “la possibilità della conservazione delle isole dell’Egeo, già appartenenti ai domini turchi, da parte del governo di Roma, perché una simile soluzione minaccerebbe di rompere l’equilibrio politico nella parte orientale del Mediterraneo”. Una dichiarazione, questa, che conteneva in nuce le linee maestre della politica inglese successive alla fine della Prima guerra mondiale, quando Londra, d’intesa con Parigi, operò instancabilmente per impedire la realizzazione integrale delle aspirazione italiane sull’Adriatico, appoggiando e fomentando le ambizioni della Iugoslavia, dellAlbania e della Grecia in questo cruciale settore strategico».

Emanuele Mastrangelo

fonte http://www.nuovarivistastorica.it/?p=3211

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