Tra i libri più validi e curati per la conoscenza reale e non retorica –
dolosamente retorica da parte dei conquistatori del nostro Sud –
segnaliamo il classico studio di Roberto M. Selvaggi: “NOMI E VOLTI DI UN
ESERCITO DIMENTICATO“ – GLI UFFICIALI DELL’ESERCITO NAPOLETANO DEL 1860 – 61 –
Napoli, Grimaldi & C. Editori 1990.
La prefazione dell’autore che riportiamo, è un distillato del lavoro meticoloso
e certosino che ha contribuito alla restituzione della dignità militare
duosiciliana che la vulgata forzatamente indotta dalla educazione della Nazione
Italia ha con basso profilo e grande cialtroneria definito
“l’esercito di Franceschiello”.
Accanto a questo segnaliamo il libro di Giuseppe Ferrarelli “Memorie
Militari del Mezzogiorno d’Italia”, pubblicato da Laterza nel 1911 con
una prefazione di Benedetto Croce .
Ferrarelli fu un giovane ufficiale borbonico educato alla Nunziatella di
Napoli, la prestigiosa accademia militare officina di soldati di gran valore;
egli rappresenta emblematicamente quei militari duosiciliani che tradendo il
giuramento borbonico, aderirono all’esercito italiano.
Il Ferrarelli ebbe però il raro merito rispetto alla ufficialità camaleontica
meridionale di ricredersi e di rifiutare le umiliazioni e derisioni a cui i
vincitori graduati piemontesi li sottoposero: si ritirò ancor giovane, denunciò
“l’unificazione d’Italia che fu, negli anni seguiti al sessanta, compiuta
brutalmente, non fu italiana ma francese e giacobina, senza tener conto delle
diversità regionali che sono forze da non dispregiare, distruggendo a furia
formazioni storiche che potevano sopravvivere e cooperare efficacemente nella
nuova storia italiana…mentre prevalsero il piemontesismo e la livellazione…”.
Lo stesso Ferrarelli quantunque affiancato al criminale generale Pinelli nella
campagna di guerra – invero di conquista – del brigantaggio “costretto ad
assistere a fucilazioni talvolta precipitose di borghesi, chiese ed ottenne di
essere trasferito a Bologna, perché disse francamente al Pinelli ch’egli si era
preparato a far la guerra, ma non le fucilazioni.” (1); infine il Ferrarelli
trascorse la sua vita nella scrittura e commemorazione dell’esercito borbonico
e degli ufficiali educati dalla Nunziatella, seppure una sua mitezza di
carattere gli impedì di denunciare in modo netto talune responsabilità degli
stessi nella umiliazione di una tradizione militare meridionale, sarebbe stato
d’altro canto chiedergli troppo, egli stesso faceva parte della cordata…
(1) Cit. la
prefazione di Benedetto Croce al libro “Memorie Militari…” e “PAGINE
SPARSE” DI Benedetto Croce “Giuseppe Ferrarelli” pp.193-195, Ricciardi Editore
Napoli, MCMXLIII. Croce era nipote di Ferrarelli.
Dal
testo di Roberto M. Selvaggi
…Il 20 maggio
1860, Giuseppe Garibaldi, con un migliaio di volontari, sbarcava a Marsala e
iniziava la trionfale marcia verso Napoli, dove sarebbe entrato, il 7 settembre
1860, meno di cento giorni più tardi. Per fronteggiare l’aggressione, il
governo napoletano poteva contare sulla prima flotta italiana e su di un
esercito di più di cinquantamila uomini.
La truppa, ben
addestrata, fedele alla dinastia, era desiderosa di combattere e soprattutto di
vincere. L’ufficialità, a cominciare dalla classe dei generali, veri
responsabili dello sgretolamento dell’esercito, sia in Sicilia che in
Calabria, era profondamente divisa fra coloro i quali ritennero di dover
contribuire alla disfatta, per agevolare la conquista garibaldina, e fra quelli
che ritennero di dover difendere onorevolmente l’indipendenza del regno
meridionale e la dinastia regnante.
Nel mezzo di
queste due posizioni si collocò una nutrita parte di loro, che non fece nulla,
se non attendere passivamente gli eventi per poi decidere, nel momento più opportuno,
di passare con il cavallo vincente. in Sicilia, a cominciare dal primo impatto
con Garibaldi a Calatafimi, dove il decrepito generale Landi, non impegnò che
una piccola parte delle sue forze, rinunciando alla vittoria sin dal
primo momento, pur di garantirsi la ritirata verso Palermo, i soldati si
batterono bene quando furono guidati da ufficiali coraggiosi, come a
Catania ed a Milazzo.
I generali non
furono all’altezza del compito e, con i primi insuccessi, iniziò a serpeggiare
il disfattismo strisciante che ebbe il suo culmine nello sfacelo delle
truppe napoletane in Calabria.
Nel giugno del
1860, Francesco II concedeva la costituzione perdendo il controllo
dell’armata che passava al ministero della guerra affidato al generale
Giuseppe Salvatore Pianell. A lui spettò il compito di organizzare la difesa
delle province continentali.
La sua condotta
ambigua e oscillante, la scelta dei comandanti di brigata, la
dislocazione dei reparti, i meno affidabili dell’esercito, fece sì che la
resistenza non ci fosse affatto e
Garibaldi, in
sole diciassette giorni, poté giungere indisturbato a Napoli.
Francesco II
decise, riprendendo le sue prerogative, di abbandonare la capitale e la difesa
sulla linea di Salerno. Lo fece per un motivo preciso ignorato dagli
storici. Volle poter tentare un’ultima resistenza, potendo contare su una
ufficialità fedele e decisa a giocare le ultime carte con coraggio e con
valore.
Non a caso
affidò il comando dell’esercito, forte ancora di trentamila uomini bene
equipaggiati, a un generale, forse non dotato di particolari qualità
strategiche, ma sicuramente devoto alla dinastia ed al paese.
Il 7 settembre
fu l’ora della verità per l’ufficialità napoletana e molti preferirono
dare le dimissioni dal servizio, molti passarono con Garibaldi e la maggior
parte si riunì sulle rive del Volturno dove, con spirito di sacrificio,
affrontò valorosamente l’ultima campagna che si concluse con l’eroica
difesa di Gaeta, chiudendo con onore l’ultima pagina della sua storia.
La storia
militare di quegli ufficiali ebbe termine con la res di Gaeta, Messina e
Civitella del Tronto, mentre iniziava la diaspora voluta dai piemontesi
che si comportarono da conquistatori e non da italiani.
Soltanto i due
generali Pianell e Nunziante vennero immediatamente ammessi nell’esercito
italiano col grado corrispondente a quello che avevano nell’esercito
napoletano.
Tutti gli altri
vennero affidati a uno scrutinio selettivo, a seconda del loro grado di
italianità o, per meglio dire, di lealtà verso la deposta dinastia. Ad
essi vennero riconosciuti i gradi avuti fino al 7 settembre del 1860,
quasi che i successivi atti di valore e la fedeltà ad un giuramento,
fossero motivo di biasimo e di punizione.
Fu così
che uomini valorosi giunti ad aver meritato fino a due promozioni, al termine
dell’assedio di Gaeta, dovettero scegliere tra il congedo e l’umiliante
ammissione nell’esercito italiano con il vecchio grado.
Ufficiali di
giovane età vennero messi a riposo, non senza averli prima costretti a giurare
fedeltà al nuovo governo, in maniera che, se avessero preso le armi o la
semplice parola contro il nuovo ordine di cose, sarebbero stati giudicati da un
tribunale militare. Molti varcarono così le porte delle carceri militari del
Piemonte per il solo motivo di essersi rifiutati di prestare giuramento.
Molti subalterni
si dettero alla macchia e parteciparono alla resistenza armata,
comunemente battezzata “brigantaggio”, rischiando la vita
davanti ad un plotone di esecuzione. Molti dovettero condurre una vita di
stenti e di miseria.
Quelli poi che
furono ammessi come effettivi nell’esercito italiano furono sottoposti allo
scherno ed al sarcasmo dei colleghi piemontesi e furono inviati in lontane
guarnigioni dell’alta Italia o, peggio, furono destinati alla lotta al
“brigantaggio”, trovandosi costretti a combattere contro i propri
concittadini per poter sopravvivere.
A questo amaro
destino non si poterono sottrarre nemmeno quelli che avevano contribuito
fattivamente alla conquista garibaldina. Non pochi furono i casi di suicidio
e di espulsione dall’esercito per “viltà” nella lotta al
“brigantaggio”. Le istituzioni militari dell’antico regno, come
quelle civili, vennero spazzate via dal governo unitario e con la distruzione
sistematica e spesso violenta della memoria, sull’esercito napoletano
cadde un velo d’oblio.
E’ stato
difficile persino poter ricostruire i nomi dei caduti nelle campagne del
1860, perché ai napoletani non fu consentito di onorarne la memoria.
Senza l’acquisizione da parte dello stato italiano, in tempi ancora
recenti, dell’archivio di Francesco II, questo libro non avrebbe potuto
essere scritto perché, il lavoro di distruzione fu meticoloso e completo
nel periodo successivo all’unità.
E’ utile
ricordare che negli anni che vanno dal 1861 al 1870, nelle province
meridionali, era sufficiente avere in casa un ritratto dei sovrani spodestati o
semplicemente una medaglia o una uniforme, per non parlare di una sciabola, per
essere processati e incarcerati.
Con un paziente
lavoro anagrafico e di ricerca ho cercato di riscrivere quella storia le
biografie di quei militari dimenticati, sia di quelli che dettero il loro
contributo alla formazione dello stato unitario che di quelli che ritennero di
dover difendere l’autonomia meridionale combattendo fino all’ultimo.
La ricerca non ha pretese letterarie e scientifiche ma potrà essere di valido aiuto a chi vorrà approfondire la storia della fine del Regno di Napoli….
In questa ottava parte del volume “…
e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò Colonia”, Giuseppe
Scianò
elenca le prese di posizione di alcuni storici e commentatori. Dalle
dichiarazioni sincere – ma anche dalle bugie – emerge con chiarezza il ruolo
degli Inglesi, che avevano preparato lo ‘sbarco dei mille’ con meticolosità. Ed
viene fuori, soprattutto, il ruolo dei ‘picciotti’ di mafia
di Giuseppe Scianò
Commenti e
testimonianze sullo Sbarco dei garibaldini avvenuto a Marsala l’11 maggio 1860 – Sulle vicende di Marsala si
è scritto parecchio e si è detto tutto ed il contrario di tutto. La verità che
si sia trattato di un colpo di mano inglese, non occasionale, ma inserito in un
piano ben preciso, tuttavia, emerge a poco a poco e in modo inoppugnabile dalle
tante dichiarazioni sincere e, paradossalmente, anche dalle tante bugie. Si
tratta di testimonianze tirate in ballo, le une e le altre, da coloro che, da
diversi punti di vista e talvolta con interessi contrapposti, si sono occupati,
volontariamente o involontariamente, delle vicende risorgimentali siciliane.
Non
potendole citare tutte, abbiamo riportato le testimonianze più significative,
citandone di volta in volta le fonti.
Indro Montanelli – Un unitario e risorgimentalista
impenitente, Indro Montanelli, il quale già in altre occasioni aveva fatto
qualche battuta a proposito dell’accoglienza che i Siciliani avevano riservato
a Garibaldi ed ai suoi Mille a proposito dello sbarco così ebbe modo di
esprimersi:
«Gli
inizi non furono promettenti. L’unico che diede un caldo benvenuto ai volontari
fu il Console inglese. La popolazione si chiude in casa. E lo stesso vuoto
incontrò la colonna l’indomani, quando si mise in marcia. Solo a Salemi,
Garibaldi fu accolto con entusiasmo, perché a lui si unì una banda di
“picciuotti” comandata dal Barone Sant’Anna. Se un “pezzo di novanta” come lui
si schierava con Garibaldi, voleva dire che su costui c’era da fare
affidamento». (13)
Ci
sentiamo in dovere di precisare che le virgolette sono nostre. Non ne potevamo
fare a meno, soprattutto nel momento in cui appaiono i picciotti di mafia ed il
loro pezzo da novanta, Barone Sant’Anna.
Non
ci pare nemmeno corretto che il Console di S.M. Britannica sia lì, in piazza, a
farsi in quattro per festeggiare l’inizio dell’invasione di quel Regno delle
Due Sicilie, presso il quale egli stesso ha svolto e continua a svolgere compiti
di rappresentanza diplomatica (si fa per dire, perché è fin troppo evidente il
suo ruolo di agente del Governo di Londra incaricato di agevolare azioni
destabilizzanti di ogni tipo). Analoga considerazione vale per il Console
Sabaudo. Ma Montanelli non si preoccupa di evidenziare questo particolare.
Va
tutto bene lo stesso? No, certamente. Ma è sufficiente constatare che il famoso
Indro abbia ammesso che a Marsala la gente si chiuse in casa e vi restò chiusa
anche durante la partenza di Garibaldi alla volta di Salemi. Ed
il Montanelli parla chiaramente anche dell’apporto della mafia.
E non è poco… per un unitario di ferro.
Giuseppe
Cesare Abba
– Persino l’Abba è costretto a parlare delle bandiere Inglesi. Si vede che
erano veramente molte. Anzi: troppe! A sbarco già avvenuto, scrive nelle sue
noterelle, proprio con la data dell’11 maggio 1860:
«Siedo
sopra un sasso, dinanzi al fascio di armi della mia compagnia, in questa
piazzetta squallida, solitaria, paurosa».
Dopo
qualche osservazione sul Capitano Alessandro Ciaccio, che piange di gioia e
dopo aver fatto qualche altro piccolo riferimento di cronaca, il nostro Autore
aggiunge:
«Su
molte case sventolano bandiere di altre nazioni. Le più sono Inglesi. Che vuol
dire questo?». (14)
Si
è detto che l’Abba pone un quesito al quale crediamo di avere risposto
abbondantemente. Ma riteniamo che gli avessero già risposto esaurientemente
quasi subito altri autori. E riteniamo altresì che l’Abba si sia risposto da
sé, nel momento in cui è costretto ad ammettere che sventola una grande
quantità di bandiere Inglesi.
Un
fatto strano, comunque. Per un cantore, per un apologeta dell’impresa
garibaldina, per un operatore di disinformazione storica e politica del
Risorgimento, è senza dubbio un sacrificio dare spazio a questo scorcio di
verità. Ma non può farne a meno: il fenomeno è dilagante e si ripeterà a
Palermo, a Catania, a Messina. Ovunque in Sicilia.
Va
da sé un’altra considerazione. L’Abba non afferma di aver visto
bandiere italiane. Ci fa quindi dedurre che non ve ne siano. Neppure una.
Non si tratta di un fatto secondario. Se infatti un agiografo come l’Abba
avesse visto a Marsala un solo fazzoletto tricolore, lo avrebbe moltiplicato
per cento… Saranno poi i pittori, i pennaioli ed i poeti (incaricati dal
Governo di Vittorio Emanuele o mossi dalla voglia di far carriera o dalla
necessità di sopravvivere) che faranno miracoli, descrivendo folle osannanti,
talvolta in ginocchio, che accolgono il Duce dei Mille fin dal molo del porto,
in un tripudio di gigantesche bandiere tricolori.
Dobbiamo
tuttavia ricordare che uno dei più famosi commentatori del libro di Abba, in
una nota, cerca di mettere una pezza alla testimonianza in questione. Ed
infatti scrive:
«(La
bandiera inglese significa) che molti Inglesi vi si trovavano per l’industria
vinicola. La bandiera metteva al riparo dal bombardamento». (15)
È
appena il caso di fare rilevare che il bombardamento vero e proprio, per la
verità, non vi era mai stato. E che si trattava di pochissime cannonate a vuoto
e puramente simboliche che peraltro erano già terminate. Mentre – come abbiamo
già puntualizzato – le bandiere Inglesi e le tabelle con la scritta domicilio
inglese si sarebbero viste (e mantenute a lungo) anche in altre città della
Sicilia, dove non vi erano industrie vinicole degli Inglesi… e neppure gli
Inglesi stessi.
Bandiere
e tabelle sarebbero servite in verità a moltissime famiglie siciliane per
mettersi al sicuro (o meglio, per tentare di mettersi al sicuro) dai saccheggi,
dalle violenze e dagli stupri, che non sarebbero certamente mancati. E che,
anzi, in non poche occasioni, avrebbero caratterizzato il comportamento dei
liberatori, nonché dei banditi e dei malfattori locali loro alleati.
Abbiamo
già ricordato che l’11 maggio 1860, a Piazza della Loggia, a Marsala, durante
la parata garibaldina si era rimediata a stento la sola bandiera italiana che
Giorgio Manin aveva tirato fuori da un apposito astuccio. Questo fatto la dice
lunga, troppo lunga… E conferma che le bandiere italiane non esistevano
nel maggio 1860. Né a Marsala, né in tante città della Sicilia. Fatte salve
ovviamente quelle poche eccezioni che confermano la regola.
Faremmo un torto a
G. C. Abba se non dicessimo che egli stesso si incarica di fare qualche
affermazione atta a compensare, probabilmente, gli
effetti negativi di alcune considerazioni, in apparenza ingenue, o di qualche
lapsus freudiano. Come quando, ad esempio, ha fatto cenno alla «piazzetta,
squallida, solitaria, paurosa». La compensazione avviene allorché, per
restare in tema, fa appunto una poco credibile descrizione dei festeggiamenti
(probabilmente inventati ed idealizzati nel lungo periodo di tempo trascorso
fra la sua partecipazione all’impresa ed il momento in cui avrebbe curato
l’ultima stesura della sua opera) dei quali nemmeno Garibaldi in persona ed il
suo fedele ufficiale Bandi fanno cenno, come vedremo.
Così
scrive Cesare Abba:
«Ora la
città è nostra. Dal porto alle mura corremmo bersagliati di fianco. Nessun male.
Il popolo applaudiva per le vie; frati di ogni colore (sic!) si squarciavano la
gola gridando; donne e fanciulli dai balconi ammiravano. “Beddi! Beddi!” si
sentiva da tutte le parti».
Eppure
poco prima aveva scritto:
«La
città non aveva ancora capito nulla; ma la ragazzaglia era già lì, venuta giù a
turba».(16)
Ci
insospettisce, altresì, ma non più di tanto, il fatto che l’Abba non abbia
detto «alcuni ragazzi» bensì abbia usato il termine, piuttosto dispregiativo,
di «ragazzaglia». Ci dovrebbe far riflettere anche la precedente frase:
«La
città non aveva ancora capito nulla…». (17)
Come
mai la città avrebbe festeggiato se non aveva «capito nulla»? E come mai pur
non avendo capito nulla aveva atteso l’evento liberatore? E come mai, senza
avere ancora capito nulla, secondo quanto attestano le fonti ufficiali,
sarebbero stati proprio i cittadini di Marsala quelli che volevano ad ogni
costo Garibaldi alla testa della loro rivoluzione?
L’agiografia
risorgimentale dell’Abba diventa, insomma, un boomerang per l’eccessivo
entusiasmo patriottico dell’Autore del testo «sacro» Da
Quarto al Volturno.
Non
sottilizziamo ed andiamo ad uno di quegli episodi secondari che però, a tempo e
luogo opportuni, possono assumere ruolo e funzione di testimonianza. L’Abba ci
aveva, sempre nella noterella del giorno undici, parlato di un incontro
interessante:
«Alcuni
frati bianchi ci salutavano coi loro grandi cappelli: ci spalancavano le loro
enormi tabacchiere: e stringendoci le mani, ci domandavano:
“Siete
reduci, emigrati, svizzeri?”».
Francamente
ci sembra strano che i frati, i quali dovevano necessariamente possedere un
bagaglio di cultura e di informazioni politiche (…oltre che di tabacco)
superiore alla media, facessero una domanda del genere e dimostrassero quindi
di non essere coinvolti nell’entusiasmo popolare, del quale lo stesso Abba
parlerà di lì a poco (di cui abbiamo fatto riferimento).
Una cosa, seppur
inquietante, i frati l’avevano comunque confessata. Per loro i Garibaldini
potevano anche essere stranieri. Meglio se svizzeri…
Non li avrebbero comunque conosciuti, né riconosciuti.
Bolton
King. Inglesi a Marsala? Bolton non lo sa… – Nel 1903, Benedetto Croce,
mostro sacro della filosofia e della storiografia italiana, unitario di ferro
(ancorquando meridionale), nel corso della presentazione di una nuova opera di
Bolton King, volle fare cenno a quella che era l’opera più conosciuta in Italia
e sulla quale avrebbero studiato diverse generazioni di docenti, di allievi e
di studiosi: La storia dell’unità
d’Italia, in quattro volumi. La prima edizione della quale era
stata pubblicata in lingua inglese nel 1899.
Ebbene,
il Croce in proposito affermò:
«La
“Storia dell’Unità d’Italia” benché elaborata con conoscenza completa del vasto
materiale erudito di quel periodo, pur non tanto mi era parsa notevole per
l’erudizione quanto per la finezza ed equilibrio del giudizio, che mette sotto
giusta luce uomini ed avvenimenti controversi, e desta quasi di continuo quella
persuasione, quell’intimo assenso, che si esprime con un “così è”». (18)
Ipse
dixit, insomma… L’opera dell’illustre inglese è senza dubbio ponderosa ed
interessante. Parte, però, da alcuni dati che ritiene scontati e certi, ma che
invece a nostro giudizio sono discutibili. Talvolta mai avvenuti.
Il
buon Bolton King, del resto, se in buona fede, non avrebbe mai potuto
immaginare che il materiale erudito da cui avrebbe attinto la conoscenza della
storia d’Italia, in realtà gli avesse fornito una serie di notizie rielaborate
e/o falsificate ab origine. Non sappiamo se, venendo in Italia, visitando i
luoghi del delitto, interrogando i testimoni oculari, lo scrittore inglese
avrebbe smentito se stesso.
Fatto
sta che il King non aveva mai messo piede in Sicilia fino al mese di maggio del
1860 (né lo avrebbe fatto dopo), né in Sicilia, né tantomeno in Italia. A
questo punto abbiamo il sospetto che Bolton King non fosse stato in buona fede
e che anche lui facesse parte della grande congiura della disinformazione per
giustificare e legittimare la grande operazione di conquista del Regno delle Due
Sicilie.
Ecco,
ad esempio, come ci descrive lo Sbarco dei Mille:
«Intanto
con i suoi piroscafi Garibaldi giunse a Marsala l’11 maggio. Era riuscito a
sfuggire ai vascelli Napoletani in alto mare, ma mentre si stava avvicinando a
terra fu avvistato da due incrociatori, che lo inseguirono accanitamente fino
nel porto. Una delle sue navi si incagliò e, se il fuoco aperto dai Napoletani
non fosse stato troppo largo e sparso, una metà dei suoi uomini non sarebbe
certo riuscita a giungere sana e salva sulla terraferma. A Marsala non esisteva
la guarnigione, ma la spedizione corse egualmente il rischio di rimanere
inchiodata in quel lembo dell’isola, per cui Garibaldi decise di marciare
immediatamente su Palermo: salutato con indicibile entusiasmo dalla
popolazione, si proclamò Dittatore dell’isola in nome di Vittorio Emanuele e si
affrettò quindi ad avanzare su Palermo, mentre La Masa incitava gli abitanti
dei villaggi a prendere le armi e mentre le squadre sopravvissute all’impresa
della Gancia si univano alle sue forze».(19)
Così
fu? Non ci pare. Manca peraltro ogni riferimento proprio all’intervento
inglese. Ed invece spunta un entusiasmo che, soprattutto a Marsala, nella
realtà, non era mai esistito. E questa descrizione dei fatti non ci pare
ammissibile per un Autore così importante. Eppure egli aveva scritto:
«La
politica del Governo Palmerston verso l’Italia si proponeva tre obiettivi
fondamentali: soddisfare le aspirazioni italiane cacciando dal Paese gli
austriaci; far cessare l’influenza francese in Italia; indebolire o distruggere
il potere temporale (del Papa)». (20)
Ammetteva
quindi che l’Inghilterra aveva scelto fra i due sovrani (peraltro imparentati
fra loro, Vittorio Emanuele II e Francesco II, legati da vincoli di sangue e di
parentela agli Asburgo), quale dei due buttare giù dalla torre e quale invece
salvare adottandolo ed aiutandolo a crescere. Se non addirittura
costruendolo a suo uso e consumo.
Come
poteva l’Inghilterra rischiare, ormai, che a Marsala il proprio progetto
colasse a picco? Qualcosa doveva fare e doveva già aver pur fatto!… O no? Ma
Bolton King finge di non vedere, di non sapere. Anzi si inventa una sua verità a
totale supporto della propaganda filo-unitaria.
Garibaldi: una
frase che rafforza i sospetti
– Scrive il Rosada:
«Dodici
anni dopo, il Duce dei Mille riconosce lealmente il suo debito scrivendo nelle
sue memorie:
“La
presenza dei due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione
dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò
diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì,
anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed, io,
beniamino di cotesti signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro
Protetto”».
Questa
frase di Garibaldi, anziché dissipare insinuazioni e sospetti, li avrebbe rafforzati.
Ne condividiamo il contenuto, perché l’influenza e gli interventi
dell’Inghilterra furono veramente decisivi nei fatti del 1860 e degli anni
immediatamente successivi. Ma la macchina dell’agiografia risorgimentale non
sarebbe stata neppure sfiorata da questo momento di sincerità dell’Eroe dei
Mille.
Se
quest’ultimo avesse capito, fin dall’inizio, dove sarebbe arrivato il suo mito,
probabilmente non si sarebbe lasciato andare ad una confessione così
significativa e compromettente.
(20)
Bolton King, op. cit., vol. III,
pag. 140.
Denis
Mack Smith e Ippolito Nievo
– Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo,
Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia
che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un
vero best-seller, è La storia della
Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo
stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i
Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane
però immutata.
Ci
confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il
caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur
senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito
Nievo:
«La rivoluzione era
sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche
banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano
ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e
qualche paura dei proprietari».
(21)
Un giudizio,
questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto al
guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in
guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da
settentrionale». Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in
particolare per il Nievo. Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere
dalla considerazione che la diversità etnica non ha niente a che vedere con i
fatti) ciò non significa che il grande scrittore non avesse capito meglio di
tanti Meridionali e di tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri
Settentrionali e di tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza
degli eroi Garibaldini e dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)
Cosa,
questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi
alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono
il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in
piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel
rispetto della… ragion di Stato.
Ma
per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato
spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo
Bianchi:
«Ippolito
Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un
ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei
Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla
‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario)
come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza
Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per
fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno
politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel
marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che
fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque. Perì in lui il poeta che avrebbe
cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne
poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».
Il
Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero,
attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato
molto la verità.
Ancora
oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si
ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far
fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua
qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione
«unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.
Infatti,
dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili
(riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel
periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia
diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.
Si
può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che,
del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere
cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non
sopravvisse nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena
trent’anni.
Sulla
tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé
un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso
aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a
man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo;
l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono
stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la
certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un
naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…
(13)
Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento,
Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli,
scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo.
In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente
«picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante»,
apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…
Fine ottava
puntata/ continua
Foto
tratta da questionegiustizia.it
(14)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50.
(15)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.
(16)
G. C. Abba, op. cit., pag. 51.
(17)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50.
(18)
Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag.
11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.
Denis Mack Smith e
Ippolito Nievo
– Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo,
Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia
che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un
vero best-seller, è La storia della
Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo
stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i
Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane
però immutata.
Ci
confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il
caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur
senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito
Nievo:
«La rivoluzione era
sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche
banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano
ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e
qualche paura dei proprietari».
(21)
Un
giudizio, questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto
al guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in
guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da settentrionale».
Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in particolare per il Nievo.
Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere dalla considerazione che
la diversità etnica non ha niente a che vedere con i fatti) ciò non significa
che il grande scrittore non avesse capito
meglio di tanti Meridionali e di
tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri Settentrionali e di
tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza degli eroi Garibaldini e
dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)
Cosa,
questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi
alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono
il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in
piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel
rispetto della… ragion di Stato.
Ma
per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato
spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo
Bianchi:
«Ippolito
Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un
ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei
Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla
‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario)
come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza
Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per
fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno
politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel
marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che
fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque.
Perì in
lui il poeta che avrebbe cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere
che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».
Il
Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero,
attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato
molto la verità.
Ancora
oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si
ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far
fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua
qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione
«unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.
Infatti,
dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili
(riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel
periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia
diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.
Si
può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che,
del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere
cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non sopravvisse
nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena trent’anni.
Sulla
tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé
un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso
aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a
man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo;
l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono
stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la
certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un
naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…
(13)
Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento,
Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli,
scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo.
In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente
«picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante»,
apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…
Fine ottava
puntata/ continua
(14) G.
C. Abba, op. cit., pag. 50.
(15)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.
(16)
G. C. Abba, op. cit., pag. 51.
(17)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50.
(18)
Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag.
11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.
Oggi cominciamo a
entrare nel cuore di quel grande imbroglio passato alla storia come ‘impresa
dei Mille’. Quando i Mille sbarcano a Marsala non c’era alcuna rivolta contro
il regno del Borbone. Ma i giornali internazionali – guidati dai disinformatori
inglesi (quelli del ‘giornalismo anglosassone’…) – raccontavano un sacco di
frottole. Un po’ come oggi certi giornali scrivono le panzane per denigrare il
Movimento 5 Stelle. O come la disinformazione sulle stragi di Stato
di Giuseppe
Scianò
Va
avanti la realizzazione del progetto Inglese di unificare l’Italia dalle Alpi al
Mediterraneo – Il Rosada pone un quesito a proposito dello sbarco dei
Mille a Marsala dell’11 maggio 1860:
“Il dilemma in cui lo sbarco di Marsala aveva
posto il Gabinetto britannico non era invero di facile soluzione. Era più
conveniente agli interessi europei e mediterranei dell’Inghilterra favorire con
l’unificazione dell’intera penisola, la formazione di un forte Stato nazionale,
in grado di emanciparsi gradualmente dall’influenza francese, o difendere
l’autonomia del Mezzogiorno con le consuete armi di un’aggressiva ‘Gunboat
diplomacy’, sperimentata ancora una volta all’inizio dell’anno nella guerra
Ispano-Marocchina, per ottenere a suo tempo da un indebolito e più docile
Governo di Napoli l’assenso al distacco più o meno larvato della Sicilia dal
Regno e al suo passaggio nella sfera d’influenza inglese?”.
Il Rosada stesso risponde:
“L’Inghilterra, com’è noto, scelse la prima
strada, timorosa che sul trono di Napoli potesse salire il candidato ‘in
pectore’ di Napoleone III, Luciano Murat; ciò che avrebbe riportato i rapporti
di forza in Mediterraneo al punto in cui si trovavano nel 1808, all’apogeo
dell’Impero napoleonico” (7).
Insomma il Rosada conferma in toto – e ne dimostra
la fondatezza e l’attualità – l’esistenza di un pericolo francese che tende a
minacciare la supremazia britannica nel Mediterraneo. Conferma così anche le
previsioni del Ministro di Francesco II, Carlo Filangieri di Satriano, che però
nutriva soprattutto la preoccupazione che l’Inghilterra brigasse molto per
restituire alla Sicilia la propria indipendenza, attraverso il distacco dal
Regno delle Due Sicilie.
Il Filangieri, infatti, aveva scritto a Francesco
II, qualche tempo prima, riferendogli del suo colloquio con il Cien Roguet,
inviato personale dell’Imperatore dei francesi Napoleone III, la lettera datata
1 ottobre 1859, della quale il Rosada ha riportato il passo essenziale.
“…Mi chiese poi notizie della Sicilia, ed io senza
misteri gli accennai gli scandalosi intrighi degli Inglesi, che fomentavano in
tutta l’isola i disordini ed il malcontento contro il provvido Governo di V.M.
per promuovervi una esplosione, come quella del 1848, tendente alla separazione
dell’isola dal Reame di Napoli nel che riuscendo manovrerebbero in modo da
farla cadere sotto il protettorato o almeno sotto l’esclusiva loro influenza, ed
allora scoppiando una guerra fra i due colossi occidentali il Mediterraneo,
invece di essere un lago francese, come lo vollero Luigi XIV ed i suoi
successori, diventerebbe un lago inglese, protetto da Gibilterra, Malta, Corfù,
Messina, Augusta, Siracusa, che sono i più belli porti d’Europa…» (8).
Il Rosada, dopo aver riportato la lettera e fatto
una panoramica dei tentativi di «Napoleone il piccolo» (la definizione non è
nostra, ma di Victor Hugo) di inserirsi nella Penisola italiana, in
contemporanea con la sottrazione di quest’area all’influenza austriaca,
aggiunge:
“Nel
marzo del ’60, la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, necessario
compenso per l’acquiescenza di Napoleone III alle annessioni nell’Italia
centrale, ridestava in Palmerston la vecchia diffidenza per i nebulosi sogni di Renovatio
Imperi del nipote del grande Napoleone, appena sopita dalla stipula
del trattato di commercio franco-inglese del 23 gennaio precedente”.
E dopo qualche altra osservazione, altrettanto
acuta, il Rosada afferma:
“Di qui la seconda missione siciliana del Mundy,
il cui tipico carattere politico-militare l’Ammiraglio cerca invano di velare
con lo stesso ripetuto pretesto della protezione a proprietà britanniche, che
nessuno minacciava. […] Nelle acque siciliane tra il Mundy e il suo collega
francese, Barbier De Tinan, come dodici anni prima tra i loro predecessori,
Parker e Baudin, si riaccendeva il vecchio contrasto franco-inglese per la
supremazia nel Mediterraneo, di cui l’isola costituiva una posizione chiave”
(9).
In verità – ci permettiamo di dire – la flotta
francese fece poco e niente: creò false illusioni e lasciò tutta l’iniziativa
agli Inglesi. Cosa, questa, che vedremo assieme fra non molto.
Il
Governo di Londra non improvvisa: ha già deciso e calcolato tutto.
Un momento di approfondimento…
Apprezziamo le osservazioni del Rosada, ma
crediamo che egli abbia collocato nel maggio 1860 la decisione inglese di
sciogliere ogni riserva e di passare decisamente alla costituzione di un grande
Stato Italiano esteso dalle Alpi al Mediterraneo, nel quale fossero fagocitati
ed inglobati, al più presto (anche a costo di intervenire con la forza), tutto il
territorio del Regno delle Due Sicilie e le popolazioni che lo costituivano.
Insomma, ci è sembrato che il Rosada sostenga che la spedizione dei Mille e lo
sbarco di Marsala abbia fatto precipitare in senso unitario ed italo-sabaudo le
scelte politiche della Gran Bretagna.
Il dubbio ci obbliga a esporre, con chiarezza,
quella che invece è la nostra opinione. Per sostenere la quale non mancheremo
di avvalerci anche della rappresentazione contestuale, puntuale e fornisce lo
stesso Rosada.
Riteniamo, infatti, che il Gabinetto Inglese
avesse già preso, da tempo, ogni decisione in proposito. Ancora prima cioè che
l’idea della Spedizione avesse preso corpo. Un’idea alla quale l’Inghilterra
dava sin dall’inizio il proprio contributo. Si pensi alla «patente per Malta»
della quale ci ha parlato il Cantù (10).
I sintomi sono moltissimi. Ne citiamo alcuni
relativi proprio alla Spedizione dei Mille. Intanto la Spedizione fu
etichettata, fin dall’inizio, con il motto Italia e Vittorio Emanuele. E non
certo per lasciare contento il Re Sabaudo, beneficiario del tutto, ma per
dichiarare esplicitamente l’obbedienza al disegno inglese, senza lasciare
spazio ad equivoci o ad imprevisti. Va considerato, infatti, che Garibaldi,
nello stesso momento in cui partiva la Spedizione, aveva già inviato il
seguente messaggio, probabilmente costruito dalla diplomazia anglo-piemontese,
al Re di Sardegna (Piemonte), futuro Re d’Italia, Vittorio Emanuele II.
“Sire! Il grido di aiuto che parte dalla Sicilia
ha toccato il mio cuore e quello di parecchie centinaia di miei antichi
soldati. Io non ho consigliata l’insurrezione dei miei fratelli di Sicilia, ma
dacché essi si son levati in nome dell’unità d’Italia rappresentata in nome di
V. M., contro la più vergognosa tirannia dei nostri tempi, io non ho esitato a
farmi capo della spedizione. So che l’impresa in cui mi metto è pericolosa; ma
io confido in Dio e nel coraggio e nella devozione dei compagni. Il nostro grido
di guerra sarà sempre: ‘Viva l’Italia, Viva Vittorio Emanuele suo primo e più prode
soldato!’ Ove noi avessimo a soccombere, io spero che l’Italia e l’Europa
libera non dimenticheranno che quest’impresa è stata ispirata dal più generoso
sentimento di patriottismo. Se vinceremo io avrò il vanto di adornare la Corona
di V. M. d’un nuovo e forse più splendido gioiello, a sola condizione però che
Ella non permetterà che i suoi consiglieri lo trasmettano agli stranieri, come
hanno fatto della mia città natale. Non ho comunicato il mio progetto a V. M.
perché temevo che la grande devozione che io sento per Lei, mi avesse persuaso
ad abbandonarlo. G. Garibaldi”.
Certamente fu messa in moto la consueta manfrina
con la quale, offendendo l’intelligenza dei contemporanei e dei posteri, si
volle far credere che Vittorio Emanuele II ed il Governo Cavour fossero,
poveretti, all’oscuro di tutto. Se fosse stato vero, sarebbero stati gli unici
di quel regno.
E anche questa fu una finezza britannica, recitata
male in italiano. Ma di fatto millantata ed opportunamente strumentalizzata.
Rimane
comunque evidente la caratterizzazione in senso unitario e monarchico della
spedizione, così come pretendeva il Gabinetto Palmerston.
Anche la notizia (che venne ripetuta ad ogni piè sospinto e che avrebbe fatto
indignare, per la sua falsità, financo due Garibaldini come il Bandi ed il
Nievo) secondo la quale i Siciliani sarebbero stati in piena rivolta (perché
impazienti di ottenere l’Unità d’Italia con il suo Re Vittorio Emanuele),
rientrava nella particolare attenzione che l’Inghilterra, come sempre, dedicava
agli umori dell’opinione pubblica, non solo di casa propria.
Non
mancò, infine – e questa, sì, tipicamente italiana – quella dichiarazione,
apparentemente ruffianesca, già sopra riportata, con la quale l’Eroe Nizzardo
dichiarava di volere adornare di un nuovo e splendido
gioiello la corona del Re Galantuomo…
Di
fatto Garibaldi riproponeva la centralità del suo ruolo personale
nell’operazione Conquista del Sud. Non si contentava infatti della parte di
mosca cocchiera tra mosche cocchiere. Era infatti lui, Peppino Garibaldi, che
avrebbe donato al Re Sabaudo l’ex Regno delle Due Sicilie e che voleva essere
il protagonista principale dell’impresa in corso.
Il
Governo Britannico e l’opinione pubblica internazionale – Ribadiamo che gli
Inglesi avevano preparato lungamente il terreno. Senza questa preparazione la
Spedizione non avrebbe avuto la benché minima speranza di successo.
Si pensi alla corruzione degli alti gradi
dell’Esercito e della Marina del Regno delle Due Sicilie. Si pensi ai contatti
con la mafia, la ’ndrangheta, la camorra. Si pensi al lavorìo, più raffinato,
della Massoneria. Si pensi alle truppe mercenarie che alla data del 5 maggio
1860 (ed anche da prima) erano state nella stragrande maggioranza finanziate,
addestrate e mobilitate in varie località dell’Europa e probabilmente
dell’Africa.
Tutte
cose che non si possono preparare dall’oggi al domani. E non parliamo della
messa in riga dei repubblicani, i quali non sono certamente quella decina di
sprovveduti della bassa forza, che avrebbero protestato nel momento iniziale
della spedizione. Ci riferiamo ai repubblicani illustri, che erano stati già
ospitati – e forse foraggiati – per anni ed anni, in Inghilterra.
E che ora non potevano dire di no.
Non
parliamo neppure dei giornali, dei finanziamenti, delle congiure, delle sommosse
e delle rivolte, incoraggiate tramite servizi segreti e persone di fiducia.
Rivolte spesso inconsistenti, ma sempre utili per la propaganda.
Non solo: proprio in questo momento delicato davano preziosi frutti le campagne
di stampa e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica contro quelle belve dei
Borbone, spergiuri, tiranni, vampiri ed assassini.
Campagne propagandistiche preparate nel tempo
dagli Inglesi. Il Governo di Londra peraltro continuava a fare pubblicare
giornali e libri che esaltavano i regnanti di Casa Savoia come angioletti
benefattori. Gli Inglesi mentivano nell’uno e nell’altro caso. Dobbiamo
peraltro dire che, se qualche grossa accusa di spergiuro (nei confronti della
Sicilia, soprattutto, e della sua Costituzione) si poteva rivolgere ai Borbone,
senza dubbio maggiori erano le accuse che si sarebbero dovute rivolgere ai
Savoia, già dal primo momento dell’operazione Conquista della Sicilia.
Ma queste cose l’opinione pubblica internazionale
non aveva modo di conoscerle, se non approssimativamente. Vinceva la
disinformazione accuratamente pilotata dal Governo di Londra per coinvolgere
l’opinione pubblica internazionale a favore di una conquista militare che
mirava ad occupare, a conquistare, a distruggere, a colonizzare, a depredare e
a denazionalizzare il Regno delle Due Sicilie ed i Popoli del Sud. Quello
Siciliano soprattutto anche per la centralità geografica nel Mediterraneo della
stessa Sicilia.
Il
‘padre della Patria siciliana’, Ruggero Settimo, dov’era? – Ben pochi pensano o
sanno – a proposito di disinformazione – che Ruggero Settimo, il leader
carismatico dell’Indipendentismo Siciliano, era formalmente un rifugiato
politico nell’isola di Malta, sotto tutela della Gran Bretagna. In verità era
stato letteralmente congelato per non disturbare i lavori in corso.
Eppure, il 26 settembre 1849, poco dopo la
conclusione della tragica, sfortunata, ma gloriosa rivoluzione
indipendentistica e della breve ma significativa vita dello Stato Siciliano (11
gennaio 1848 – 15 maggio 1849), Ruggero Settimo era stato accolto, a La
Valletta, con gli onori dovuti ad un Capo di Stato. E come tale fu trattato.
Fatto, questo, che è ben conosciuto da coloro che hanno studiato le vicende
siciliane del biennio 1848-1849.
Ma nel 1860 Ruggero Settimo era diventato a poco a
poco un prigioniero – seppure in gabbia dorata – del Governo Inglese. Il quale
ormai non voleva sentire più parlare di indipendenza siciliana ed era amico
soltanto di coloro che erano disposti a lavorare per l’annessione della Sicilia
al futuro Regno d’Italia.
Kermesse britannica? Sì, ma per scoraggiare gli
altri Stati – Certamente, dopo lo Sbarco dei Mille – uno sbarco impasticciato
dal piroscafo garibaldino ‘Lombardo’, che si sarebbe addirittura incagliato da
solo nel basso fondale – gli Inglesi capirono che dovevano stare con gli occhi
bene aperti. Dovevano infatti condurre manu
manuzza, come si dice in Sicilia, tutta l’operazione conquista del
Sud. Non bastava avere preparato le condizioni necessarie, bisognava intervenire
più direttamente. Non solo nello Sbarco e nel dopo Sbarco, ma in tutta
l’operazione Unità d’Italia.
Sarebbe stato, quindi, dominante il sistema delle
interferenze britanniche, che erano una garanzia di costante ed autorevole
protezione. Ad ogni costo e a tempo pieno. Il tutto mentre le ‘mosche
cocchiere’ si accingevano a diventare Padri della Patria italiana.
Ciò, senza nulla togliere ai veri idealisti
unitari, che pure vi furono (ma non nella misura e nella qualità dei colleghi
dell’Italia centro-settentrionale). Pensiamo ad esempio ai fratelli Cairoli,
dei quali, nelle vicende risorgimentali, ne morirono quattro su cinque. Tutti
eroi (11). E senza pericolo di confonderli con le ‘mosche cocchiere’ che,
spesso, non ebbero neppure l’onestà di svolgere con la dovuta professionalità e
con correttezza il loro ruolo. Queste, peraltro, avrebbero ricevuto molto di
più, di quello che avrebbero meritato, in termini morali e materiali.
Come distruggere le aspettative indipendentiste
dei Siciliani – I fatti successivi dimostreranno ulteriormente la esattezza
della tesi, secondo la quale, dall’inizio alla fine, l’operazione Unità d’Italia
del 1860 era il risultato di un lavoro avviato da diversi decenni dagli
Inglesi. E l’operazione, proprio per la esigenza di creare un unico grande
Stato Italiano, escludeva a priori qualsiasi altro progetto che rispettasse le
esigenze della Nazione Siciliana, del Popolo Siciliano. Nessuna speranza di
sopravvivenza o di rinascita del Regno di Sicilia (o del Regno di Napoli e,
neppure, del Regno delle Due Sicilie). Insomma: Regnum
utriusque Siciliae delendum est.
L’Inghilterra impone le proprie scelte in campo
internazionale –
Poniamo un altro interrogativo:
“A parte il Papa Pio IX, chi realmente si opponeva
al disegno Inglese?”.
Di fatto nessuno, soprattutto dal punto di vista
militare. Neppure i Paesi che avevano interessi contrastanti con quelli
dell’Impero della Regina Vittoria. Questi Stati non avevano in quel momento le
forze, i mezzi ed il coraggio sufficienti a neutralizzare le azioni del Leone
Britannico.
L’opposizione del Papa, inoltre, sul piano
militare era inconsistente. Pio IX, infatti, senza l’appoggio di guarnigioni
straniere, non poteva neppure salvaguardare i confini del proprio Stato, che
infatti erano stati già nel 1860, ed anche prima, pesantemente violati ed anche
spostati, ad ogni piè sospinto, soprattutto per opera del Governo Sabaudo di
Torino.
Sostanzialmente contrari all’egemonia ed
all’espansionismo britannico erano soprattutto, oltre alla Francia (della quale
il Rosada ha parlato ampiamente), Prussia, Austria e Russia. Paesi verso i
quali il Regno delle Due Sicilie, a prescindere dalle simpatie politiche e
dalle affinità ideologico-culturali dei rispettivi governanti, aveva in corso
una serie di trattati commerciali e di scambi destinati a svilupparsi
ulteriormente. Ovviamente se lasciati indisturbati. Fossero rimasti o no i
Borbone sul trono di Napoli.
All’Inghilterra tutto ciò dava fastidio, perché
vedeva minacciati i propri monopoli e sapeva bene che, dietro i commerci,
sarebbe potuta crescere l’influenza politica. Si pensi al fatto che in Sicilia
erano presenti alcuni Consolati Russi, tanti erano i rapporti commerciali e gli
scambi di ogni tipo.
Purtroppo i Paesi – contro i quali pure si muoveva
pesantemente la strategia dell’Inghilterra – avevano preferito la linea
morbida, pensando a torto di imbuonire la Potenza Britannica non contrariandola
troppo apertamente. Ed avevano anche agito ciascuno per conto proprio, senza
neppure tentare una strategia comune. Il terrore di subire ritorsioni da parte
del Leone Britannico aveva bloccato e continuava a ‘bloccare’ tutti.
Ammettiamo, quindi, senza timore di smentita, che
nell’Europa e nel mondo, nel 1860, solo l’Inghilterra era nelle condizioni di
dettare legge e di ridisegnare confini ed equilibri internazionali. E per il
Regno d’Italia aveva già disegnato, appunto, uno Stato monolitico ed
accentratore ed un territorio che andasse dalle Alpi al cuore del Mediterraneo,
isole comprese. Povera Sicilia!
Torino. Numerosi «esuli Siciliani» vengono
strumentalizzati e coinvolti nella strategia dell’occupazione della Sicilia,
abbandonando spesso gli ideali che avevano animato la lotta per l’indipendenza
della Sicilia nel biennio 1848-1849.
Una
volta che tutto il Regno delle Due Sicilie fosse stato sacrificato a favore del
costituendo Regno d’Italia ed una volta che quest’ultimo fosse rimasto legato
all’Inghilterra da vincoli di gratitudine, di amicizia e, soprattutto, di
interessi (e ne fosse diventato quasi uno stato vassallo), che motivazioni
sarebbero più esistite per il Governo Britannico per agevolare
– o solamente per non ostacolare – l’indipendenza della Sicilia?
Risposta: ‘Nessuna!’.
Piuttosto esisteva tutto l’interesse per fare
l’esatto contrario. E cioè: impedirne l’indipendenza. Ed accorpare la Sicilia
allo Stivale. Da questa situazione sarebbe partita anche l’operazione di
travasare nelle manovre per realizzare l’Unità d’Italia gli esuli Siciliani,
che, a seguito della restaurazione borbonica del 1849, si erano trasferiti nel
Regno Sabaudo. Qui, tutti o quasi, quegli esuli avevano ricevuto onori,
incarichi prestigiosi e prebende di vario tipo. Era avvenuto così, che buona
parte degli esuli Siciliani fosse diventata unitaria e filo-sabauda. Una pagina
nera per l’Indipendentismo Siciliano, che però non coinvolse proprio tutti gli
esuli. Alcuni di questi rifiutarono, infatti, incarichi e prebende e, seppure
con prudenza, continuarono a difendere le ragioni e i diritti della Nazione
Siciliana. Senza fortuna.
L’Imperatore Napoleone III, da parte sua, capì
troppo tardi quanto stava accadendo in Italia e che il progetto inglese mirava,
sì, a distruggere la dinastia borbonica e le sue ramificazioni, ma mirava, nel
tempo, a distruggere anche la dinastia dei Bonaparte ed il rinato nazionalismo
francese.
Dice Giorgio Dell’Arti: “I francesi temevano nuovi
ingrandimenti territoriali del Piemonte e la formazione di un Regno d’Italia
talmente forte che sarebbe stato impossibile influenzarlo. Tentarono di
convincere gli Inglesi a fare causa comune per evitare annessioni. Ma
Palmerston voleva un Regno d’Italia forte a quel modo» (12) che danneggiasse
con la sua esistenza anche la Francia… (n.d.A.).
Napoleone III, come abbiamo visto, era un grande
ammiratore dell’operato del Governo di Londra, ma non aveva ancora ben capito
che l’Inghilterra lo detestava. Né aveva mai nutrito il sospetto che quando e
se (dopo meno di dieci anni da quei fatti) il suo Impero fosse stato mandato a
gambe all’aria dalla Prussia, gli Inglesi avrebbero provveduto a fare
altrettanto, se non peggio, proprio con il discendente di Bonaparte. Ed in modo
molto più scientifico.
L’ingenuità di Napoleone III fu tale e tanta che
la collaborazione con la Gran Bretagna, seppure con qualche riserva mentale,
sarebbe continuata a lungo e si sarebbe estesa anche al Medio e lontano
Oriente. A tutto vantaggio della furba Albione, ovviamente.
E le navi straniere nel porto di Palermo… stanno a
guardare! –
Subito dopo lo sbarco di Marsala, Turchia, Francia, Austria, Piemonte,
Portogallo, Spagna, Stati Uniti d’America, ed altri Stati avrebbero mandato
navi militari in Sicilia, soprattutto nei porti di Palermo e di Messina. Il
pretesto ufficiale era che queste dovevano vigilare sulla sicurezza personale e
sui beni dei rispettivi cittadini, che nessuno minacciava. Lasciavano, cioè,
libera l’Inghilterra di fare ciò che voleva.
E
a Palermo si sarebbe recato anche il Contrammiraglio britannico
George Rodney Mundy a bordo dell’Ammiraglia Hannibal,
scortato da
altre navi da guerra. Il Mundy era in assoluto l’Ammiraglio più importante e
più rispettato fra i tanti comandanti di navi presenti. E, fra l’altro,
continuava a giocare in casa, considerato che la Mediterranean
Fleet di S.M. Britannica – fra le flotte che stazionavano in quel
momento nel Mediterraneo – era la più potente. E la più presente nelle
acque siciliane.
Fine della settima puntata/continua
(7) In G. R. Mundy, op. cit., introd. a cura di A.
Rosada, pagg. 14 e 15.
(8) In G. R. Mundy,
op. cit., pag. 13.
(9) In G. R. Mundy,
op. cit., pagg. 14-15.
(10) C. Cantù, in Vittorio Casentino di Rondè, op.
cit., pag. 183.
(11)
I fratelli Cairoli erano cinque: Benedetto, Ernesto, Luigi, Enrico e Giovanni.
Tutti parte- ciparono alle lotte per l’unità d’Italia. Il più grande, Benedetto
(nato a Pavia nel 1825), sarebbe diventato Presidente del Consiglio dei
Ministri nel 1878. Fu un ottimo combattente. Partecipò all’impresa dei Mille e
fu ferito a Palermo. Come politico fu mediocre. Sopravvisse ai quattro fratelli
morti, molto giovani, o in combattimento o a seguito di ferite o di malattie
provocate dalla guerra. Benedetto, nel 1889, morì di morte naturale, a
Capodimonte. Ernesto (nato nel 1832) si arruolò nei Cacciatori delle Alpi. Morì
in combattimento nel corso della seconda guerra d’indipendenza a Biumo
Inferiore nel 1859, a soli ventisette anni. Luigi, nato nel 1838, era
topografo, matematico ed ufficiale dell’esercito piemontese. Partecipò
all’impresa garibaldina con il Generale Coseni (seconda spedizione). Morì di
tifo a Cosenza, stremato dalle fatiche del- la guerra di occupazione del Sud,
nel 1860. Aveva ventotto anni. Enrico, nato nel 1840, studen- te in medicina,
seguì i fratelli fra i Cacciatori delle Alpi e fra i Mille. Anch’egli fu ferito
a Pa- lermo nel 1860. Partecipò a tutte le campagne di Garibaldi. Morì nel
fallito tentativo di conqui- stare Roma, nel 1867, nello scontro di Villa
Glori. Aveva appena ventisette anni. Giovanni fu il più giovane dei fratelli
Cairoli, essendo nato
Abbiamo, volutamente dato un taglio politico,
in quanto crediamo che (specialmente nelle amministrative) i programmi possano
come minimo somigliarsi, ma è proprio il modo come si immagina una
“società”, i valori che essa deve interpretare e perseguire, che
danno poi un senso compiuto di quello che una proponente amministrazione ha in
mente di realizzare.
ELEZIONI
AMMINISTRATIVE A CASSINO 26 MAGGIO 2019
RENATO
DE SANCTIS sindaco -Programma Amministrativo-
Il
progetto politico da realizzare é quello di migliorare la qualità della vita
dei cittadini e ricostruire tutti insieme un paese nuovo, dove ognuno si senta
partecipe di una stessa comunità.
Non
crediamo che tale programma possa essere esaustivo, siamo infatti pronti a
raccogliere suggerimenti che possano integrare e migliorare quanto
rappresentato.
“Programma
1° step”
La
prima parola-chiave é “EQUITÀ”
ed é proprio con una frase di Don Milani che
vogliamo iniziare un ragionamento per poter significare il valore che ha per
noi la parola “Equità”.
“Non c’é peggior ingiustizia che fare parti uguali tra disuguali”.
Innanzitutto, per sviluppare il tema della “Equità” rapportandolo in un
contesto amministrativo, dobbiamo preoccuparci del reperimento delle “risorse”,
dove si acquisiscono, come ed a chi si destinano.
Le risposte sono articolate ed impegnative, considerando disponibilità
economiche diverse e decrescenti da parte di famiglie e di imprese.
Gli interventi quindi dovranno essere modulati, ispirandosi al principio della
progressività (art. 53 della costituzione).
Dovremo in tal senso, adottare politiche tributarie più mirate, che permettano
di modulare la pressione fiscale, rendendo percettibile il principio di
progressività che dovrà tener conto, in modo minimale di rendite immobiliari ed
in modo più sostanziale delle rendite finanziarie.
Parlando di “Equità”, altro tema centrale è quello della casa.
Visto lo stallo demografico in cui il nostro territorio, da anni è rimasto
ancorato, si dovrà guardare, per ragioni fattuali, e non certo per ragioni
ideologiche, nel breve e nel medio termine, a costruire secondo le esigenze che
lo stesso mercato richieda.
Non procrastinabile invece é la domanda di qualità urbana, la domanda di
servizi e la domanda di residenza.
Le risposte a queste domande si possono dare da subito, assumendo e facendo
propria la “Legge Regionale sulla Rigenerazione Urbana e il Recupero Edilizio,
L. 7/2017” ,una occasione da “sfruttare” immediatamente.
La legge infatti si propone di promuovere, incentivare e realizzare la
rigenerazione urbana, intesa in senso ampio ed integrato, incentivare la
razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, favorire il recupero delle
periferie, delle aree urbane degradate, delle aree produttive e degli edifici
dismessi o inutilizzati.
E ancora, di qualificare la città esistente, limitare il consumo di suolo,
aumentare la sicurezza sismica dei manufatti esistenti, migliorare la qualità
ambientale e architettonica dello spazio insediato, promuovere e tutelare
l’attività agricola, il paesaggio e l’ambiente e promuovere lo sviluppo del
verde urbano.
Il processo virtuoso che tale Legge potrà innescare, andrà oltre le stesse
peculiarità sopra riportate, ma potrebbe innescare quel processo che da troppo
tempo la città aspetta, una ripresa economica del territorio.
Con l’adozione di tale Legge Regionale, non si parlerà di governare una
espansione immobiliare, ma bensì di innescare un processo di recupero, riuso,
riqualificazione della città che potrà comprendere, la viabilità,
l’efficientamento energetico e più in generale l’intero decoro urbano. Va poi
considerato il nodo centrale, che in una prospettiva di politiche sociali, ha
la necessità di individuare le priorità ed i conseguenti interventi di aiuto.
In una situazione di risorse decrescenti, e comunque limitate, vanno trovate
soluzioni per esaudire domande che non sono immediatamente conciliabili.
Nel bilancio previsionale, a parità di saldi, saranno senz’altro previste
maggiori somme per il welfare, dare risposte certe a tutti, e risolvere
tensioni sociali che si potrebbero innescare.
Anche se il bilancio comunale è un dispositivo relativamente rigido, comunque
potrà essere gradualmente modificato nel tempo.
Crediamo inoltre, che le decisioni sui servizi da attivare o da dismettere, e
sulle scelte di investimento, possano scaturire, quale risultante di una giusta
condivisione fra amministrazione e cittadini, concordando anche a cosa si
potrebbe rinunciare, in cambio, o di una minore pressione tariffaria e tributaria,
o di cosa potrebbe essere invece urgente realizzare.
Infine, il tema della “Equità” richiede un’analisi seria sulla valutazione
dell’utilità pubblica davvero prodotta dai versamenti di tutti i
cittadini-contribuenti.
Sicuramente ogni spesa avrà le sue giustificate ragioni, ma vista una
situazione finanziaria non certo fiorente che si andrà ad amministrare, è bene
sin da ora ricordare a tutti, che ci sono ragioni di spesa migliori di altre.
Così come preannunciato, abbiamo iniziato a raccontarvi la nostra visione di
“società” con alcuni interventi per la nostra città, realizzabili da subito ed
a costo infinitesimale.
Mercoledì introdurremo la parola chiave-inclusione.

ELEZIONI AMMINISTRATIVE A CASSINO 26 MAGGIO 2019
“Programma
2° step”
La
seconda parola-chiave è “INCLUSIONE”
Sicuramente parlare di “inclusione” significa
poter superare i tanti motivi di ineguaglianze, significa avere la volontà di
trovare soluzioni economiche, sociali per riportare in un alveo di “legalità”
chi da solo non riesce ad uscire da uno stato di discriminazione.
O anche mettere le persone, le famiglie, al centro di un’attenzione, dove si
possono spiegare in maniera compiuta, i diritti, i doveri, le responsabilità.
Su questo argomento, ci sarebbe da aprire un lungo discorso su quelle che sono
state le politiche sociali, sino ad oggi messe in campo dalle passate
amministrazioni, rispetto soprattutto ad una richiesta di aiuto, che non
esprime più, solo povertà e marginalità, ma anche e soprattutto precarietà.
Facciamoci tutti, due semplici domande, e dalle nostre stesse risposte capiremo
in quale grave situazione di degrado sociale siamo precipitati.
La prima domanda è, siamo soddisfatti della qualità della vita che ogni giorno
affrontiamo nella nostra città ?, la seconda domanda è, siamo soddisfatti della
nostra vita sociale e relazionale ?
Moltissimi di noi avranno dato sicuramente risposte negative, ed allora la
prossima amministrazione dovrà imprimere una inversione di tendenza lavorando
sui fattori che determineranno il miglioramento generale del nostro quotidiano.
Si dovrà partire da una città solidale, dove le differenziazioni sociali non
siano motivo di discriminazione, dove i quartieri (rioni), tra di loro, non
creino fratture sociali e tutti si sentano cittadini della stessa polis.
Ed allora dobbiamo essere ben consci, che c’è necessità di elaborare un
cambiamento che coinvolga tutti, che guardi al futuro della nostra città,
iniziando da un percorso rieducativo, che rielabori alcuni concetti
fondamentali del vivere civile, che per motivi diversi si sono persi di vista.
Il “DOVERE”, che ognuno di noi ha nei confronti di…………, ha la stessa
valenza di un “DIRITTO” che ognuno di noi rivendica, alcuni comportamenti
ineducati si devono evitare non perché potremmo essere sanzionati, ma perché la
città é nostra e dei nostri figli, noi ci viviamo e se viviamo in una
città sporca, inquinata e dal traffico caotico, chi ne soffre per primo é
proprio il cittadino comune, quindi noi…….
La nuova amministrazione, dovrà quindi, si essere pronta a lavorare di più e
meglio, per ridare dignità alla nostra Cassino, mettendo in campo una cura
quotidiana, per una città più pulita, più ordinata, più civile, più rispettosa
delle regole e delle esigenze dei cittadini, ma nel contempo, tutti dobbiamo
riacquistare la consapevolezza che Cassino è di tutti i cassinati e quindi cura
ed amore a Cassino città, vanno dispensati da parte di tutti.
Dobbiamo tornare ad essere una comunità dove le famiglie non devono sentirsi
abbandonate alle loro problematiche, ma integrate in contesti più larghi, dove
si respira un senso di affettività e reciprocità, da mettere concretamente in
atto tutti i giorni, per affrontare esigenze quotidiane di tipo materiale,
economico, educativo, relazionale ed anche affettivo.
Parlare di inclusione, significa anche parlare di sicurezza, ed anche qui, il
primo lavoro da mettere in campo è quell’azione educativa che dobbiamo
rivolgere a noi stessi.
Il presupposto di partenza per una convivenza civile è proprio il rispetto
reciproco delle regole, altrimenti dette “leggi”, che hanno appunto lo scopo di
tutelare tutti i cittadini, ma ancor di più, le persone più fragili.
Verrà quindi adottato un piano di sicurezza che prevede una più intensa
concertazione con le forze di polizia, ed un piano amministrativo per il
rafforzamento delle capacità numeriche e tecnologiche della Polizia Locale.
La realizzazione poi di una centrale di controllo, rientrante in un programma
più vasto di installazione sul territorio di linee di registro-video-sorveglianza,
attiva 24 ore su 24 ed in dotazione alla Locale Polizia Urbana.
Dobbiamo tornare ad essere una comunità rispettosa dei diritti di tutti, ed
allora dobbiamo intercettare (questo è rivolto ai più giovani), il limite della
nostra libertà, e quando questo limite travalica alcuni confini e va a ledere
la libertà degli altri, bisogna avere la capacità di fare un passo indietro,
proprio per quel rispetto che si deve, al vivere civile di tutti.
L’azione amministrativa, in tal senso dovrà coinvolgere la scuola, con percorsi
educativi verso il rispetto delle regole e della legalità.
D’altro canto, la nuova amministrazione dovrà sempre avere aperta una finestra
verso uno spirito critico, che è condizione necessaria per “governare” il
cambiamento, che dovrà essere tangibile ed orientato verso obiettivi
sostenibili.
Abbiamo con questo nostro, ulteriore scritto, continuato a raccontarvi la
nostra visione di “comunità”, con alcune illustrazione di interventi che
riguardano naturalmente la nostra città, e da realizzare in un breve periodo
dall’insediamento.
ELEZIONI
AMMINISTRATIVE A CASSINO 26 MAGGIO 2019
“Programma,
3° step”
La
terza parola-chiave è “PARTECIPAZIONE”
Abbiamo appena parlato di “inclusione”, e come
portare a termine un progetto sociale se l’ “inclusione” non viene coniugata
con la “partecipazione”.
Partecipare vuol anche dire co-amministrare, e sempre in un percorso, dove
tutti devono essere coinvolti in un progetto che ci deve condurre ad essere una
comunità solidale, non possiamo prescindere dalla partecipazione di tutti i
cittadini alle scelte della stessa amministrazione comunale.
Il coinvolgimento, sarà tangibile, infatti, attraverso l’istituzione dei
consigli di quartiere, tutti potranno essere partecipi, attraverso le proprie
rappresentanze a quelle che sono le scelte, e quindi alla vita amministrativa
della propria città.
I rappresentanti dei consigli di quartiere, infatti potranno proporre,
dibattere o presentare anche istanze diverse, ogni qual volta verrà indetto il
consiglio comunale.
Un senso compiuto di “partecipazione”, non potrà sottrarre poi,
l’amministrazione comunale a relazionarsi ed aprire sinergie costanti e
continuative con quello che è il mondo “dell’Università”.
Questa relazione non potrà limitarsi alla gestione interpersonale delle proprie
componenti più “alte e rappresentative”, ma dovrà nutrirsi di servizi, di
ricerca di compatibilità, e di incontri, incontri di docenti e studenti con il
tessuto connettivo di tutta la città.
È chiaro, che in modo parallelo, l’amministrazione dovrà mettere in campo un
progetto di fattibilità che unisca (oltre che territorialmente con percorsi
pedonali e ciclabili), anche idealmente, le finalità e le aspettative degli
studenti della cittadella universitaria con quelle di una Cassino che dovrà essere
pronta all’accoglienza.
In parole povere, “l’Università”, dovrà sentire e vivere di più un senso di
appartenenza, e Cassino dovrà “approfittare” di un tale catalizzatore di
cultura e di scienza.
La “partecipazione” è anche presupposto di una ripresa economica.
E come poter trascurare un tesoro mai “sfruttato” dalle precedenti
amministrazioni (la nostra memoria), poter riscoprire percorsi di una antica
Cassino, intercettando contributi regionali ed europei finalizzati ad un lavoro
per poter riportare alla conoscenza di tanti, bellezze e memorie di altri
tempi, oggi nascoste da cumuli di terra e vegetazione (fatti di conservazione,
tutela e valorizzazione di un vasto ed irripetibile patrimonio di beni storici
e documentali).
Riscoprire il presente assurgendo ad un ruolo di capofila turistico di tutto un
territorio che dovrà divenire centro ricettivo di importanza internazionale,
grazie proprio alla riscoperta di un proprio passato storico.
La “partecipazione” ha anche una valenza culturale, e come prescindere allora
dagli strumenti, l’indispensabile recupero del “Teatro Manzoni”, al centro,
sino ad oggi, di svariate diatribe, tutte derivanti da una palese e penosa
incapacità amministrativa.
E poi, abbiamo la fortuna di possedere siti archeologici che ci invidia mezza
europa (Teatro, ed Anfiteatro Romano, la tomba di Ummidia Quadratilla, tutto il
sito Archeologico che parte dal Teatro Romano ed arriva sin sopra Montecassino,
lo stesso Museo Archeologico, e l’Historiale), e noi che facciamo, li
trascuriamo…………
Solo la cecità e la grettezza di animo, di chi era deputato all’amministrazione
degli stessi ha potuto far si che tali risorse fossero del tutto ignorate e non
piuttosto valorizzate, in un percorso turistico attrattivo, che potrebbe
sicuramente interessare i tanti Tour Operator che organizzano
visite in quel faro di cultura dove San Benedetto attorno al 529 stabilì di
costruire l’Abbazia, che poi prese il nome di Montecassino.
Altro gapp che la nuova amministrazione dovrà superare è quello della mancanza
di un multisala cinematografica.
Ebbene, nel programma degli interventi, da subito ci sarà l’impegno di
individuare un’area idonea alla costruzione dell’opera, e successivamente nel
“breve termine” ci sarà l’impegno amministrativo di preparare un project-financing.
Vi sembrerà strano, e forse a qualcuno, anche falso, ma della “partecipazione”,
quella che ti fa crescere, quella che crea confronti, quella che è condivisa, i
giovani di Cassino non ne fanno parte.
Non possiamo trascurare una risorsa così importante e dirompente come quella
che i giovani esprimono, continuando a dettare politiche che non attraggono, ed
in molti casi escludono, l’interesse di migliaia di giovani della nostra città.
Ed allora, alcune piazze centrali, ideate solamente per gonfiare i capitolati
di spesa, dovranno essere completamente ripensate, riprogettare secondo una
visione “green”, dove, tutto sia a servizio dei giovani e non soltanto, con
giardini, panche e wi-fi, con aree coperte, di ritrovo dove ci si può
incontrare e discutere, leggere tranquillamente un libro o ascoltare musica.
Piccole location, che possano ospitare iniziative culturali, dibattiti sociali
che in qualche modo intercettino l’interesse di tanti giovani, che in mancanza
di proposte del genere, si rifugiano avanti ai bar, non accorgendosi di vivere
una vita per lo più asociale ed individuale.
Per finire, ci appare menomata una “partecipazione”, se non contemplata nello
sport, ed allora crediamo che vada affrontato in maniera conclusiva il nodo
della costruzione o ricostruzione di taluni impianti (vedi ex piscina
comunale), anche cogliendo l’opportunità di riconversione di alcune strutture
che dovranno comunque trovare l’interesse di un qualche privato, con il quale
si potrà sicuramente stipulare un accordo di project-financing.
In questa ottica va sicuramente effettuato un intervento di restyling totale al
“vecchio” complesso di via Appia, studiando le migliori soluzioni per
riattivare l’impianto di illuminazione al campo 1, indispensabile per poter
ospitare manifestazioni di atletica e partite di calcio.
La riqualificazione dovrà riguardare anche i campi da tennis ed il glorioso
palazzetto dello sport.
D’altra parte, noi che siamo cresciuti con la cultura dello sport, non potevamo
certo trascurare i valori che lo sport trasmette, la “partecipazione” che si
trasforma in socializzazione e quindi veicolo di formazione e crescita umana.
Continuando quindi questo nostro percorso di narrazione, abbiamo illustrato,
anche se in modo sintetico, il nostro pensiero di “partecipazione”,
ELEZIONI
AMMINISTRATIVE A CASSINO 26 MAGGIO 2019
“Programma
4° step”
La
quarta parola-chiave é “SOSTENIBILITÀ”
Se continueremo a trascurare la “sostenibilità”
le parole equità, inclusione, partecipazione, diverranno dei contenitori vuoti.
In generale, i passaggi più delicati riguarderanno interventi sul territorio
con l’adozione di nuovi strumenti e l’attivazione di precisi partenariati.
Le politiche per la casa, la riconversione di tanti comparti urbani e
l’intervento sulle periferie che dovranno costituire luoghi di riscatto
urbanistico e sociale.
Parlando di “sostenibilità”, non possiamo esimerci di parlare di ambiente, e
quindi, una priorità è sicuramente predisporre interventi urgenti (grazie anche
a contributi che proprio ultimamente la Regione ha messo a disposizione per la
bonifica del sito “Nocione”) per la bonifica dei vari siti che i cittadini di
Cassino, oltre che a conoscere bene, subiscono ogni giorno con effetti negativi
di avvelenamento.
Parliamo quindi del Nocione, dello Spineto, dell’ex Marini, dell’ex
stabilimento CRCM, Pantanelle, Panaccioni ed altri di minore estensione.
Certamente il lavoro di bonifica è indispensabile ed urgente, ma il lavoro da
mettere in cantiere è per il futuro, un lavoro grosso, di educazione civica, di
interventi e di sorveglianza.
Il recupero del territorio e l’aspetto paesaggistico sono pedine basilari per
la riqualificazione di un ambiente cittadino e della qualità della vita dei
suoi abitanti.
I pericoli legati alle emissioni di CO2 devono essere affrontati partendo dal
problema e non dal sintomo, e per risolvere il problema ci sono due elementi
che risultano determinanti, la diminuzione del traffico locale e l’aumento
della quantità di superficie dedicata agli spazi verdi urbani.
Il primo dei problemi si risolve creando circuiti ciclabili nel centro
cittadino, per arrivare in un arco di medio termine alla creazione di una vasta
area pedonalizzata e ciclabile, con una parallela e sensibile diminuzione di
traffico privato di auto.
Il secondo dei problemi si risolve cambiando il nostro modo di pensare la
“città”.
Intervenire innanzitutto sul recupero e potenziamento di ciò che è il verde in
città, dove gli alberi, i parchi e la villa comunale, non devono essere solo
arredo urbano, ma siano parte integrante di un programma che dovrà avere come
finalità il potenziamento, ed il completamento di una forte operazione
rafforzativa di verde.
Puntare sul ruolo degli alberi in città è determinante non soltanto per
migliorare la qualità dell’aria a livello locale, ma anche per lottare contro i
cambiamenti climatici.
In questi anni, nelle passate amministrazioni, poco o nulla si è discusso di
questi temi, che forse per altri potevano essere minori, ma che per noi, fanno
parte e sono la nostra stessa vita.
Se parliamo di ambiente, come non parlare di “acqua”.
Non tutti sanno che la “Casinum” di epoca romana nasce come città termale, e
non credo occorrano particolari competenze topografiche per osservare come la
nostra città sia letteralmente circondata ed abbracciata da un percorso di
acque che sarebbe bene utilizzare non per far fare profitti ad “Acea”, ma per
creare non solo aree di verde e svago, ma anche un percorso culturale-economico
di cui possa fruire e giovare la cittadinanza, ma anche il turismo eco-sostenibile.
Non occorrono molto probabilmente neanche eccessive doti visionarie per
immaginare la creazione di un “parco storico delle acque”, che vada a sfruttare
elementi del passato più remoto, “terme varroniane”, anche se qui ci sarà da
leggersi un bel po’ di carte, “villa comunale” e “sorgenti del gari”.
Ci sarà da lavorare attorno ad un progetto che unisca questi siti di
straordinario impatto paesaggistico, per poter creare un anello fruibile con
percorsi pedonali e ciclabili.
Quindi la prima cosa da fare, è riappropriarsi del controllo delle acque, e per
far ciò bisogna rescindere il contratto di Convenzione con Acea-Ato5 spa.
Nella malaugurata ipotesi che la legge “DAGA” in discussione in parlamento, per
motivi diversi venga proiettata nel tempo, o peggio non venga votata, abbiamo
l’obbligo come amministrazione di concertare una maggioranza di sindaci in
assemblea dell’Ato 5, che sia favorevole alla rescissione della Convenzione in
essere.
Solo in tale modo, Cassino potrà ottimizzare il possesso di tante fonti
idriche, sia per fini turistici, e sia per la gestione dello stesso Servizio
Idrico Integrato che potrà sicuramente essere un sicuro ritorno finanziario per
la città di Cassino e quindi per tutti i cittadini.
Ultimi (solo in senso cronologico) interventi indispensabili e non solo per la
sostenibilità, ma anche e soprattutto per una autonoma accessibilità (ai
diversamente abili), che è poi un principio di libertà, ci vedranno impegnati
ad effettuare controlli su varchi, pedane e spazi minimi per lasciare il libero
transito a tutti, ma anche controlli alle barriere architettoniche e parcheggi
riservati ai diversamente abili, per un senso stesso di dignità di ogni essere
umano ed anche per una “inclusione” di cui abbiamo abbondantemente parlato.
Abbiamo quindi con questo 4° step conclusa la narrazione di quella che è la
nostra visione di società, che completeremo comunque mercoledì con un 5° step
dove parleremo di qualche progetto da realizzare in tempi medi lunghi, che
sicuramente la nostra amministrazione farà partire ma che non vedrà realizzare
se non in un secondo mandato, parleremo quindi del “FUTURO”
ELEZIONI
AMMINISTRATIVE A CASSINO 26 MAGGIO 2019
“Programma
5° step”
La
quinta parola-chiave é “FUTURO”
Se si potesse definire il “futuro” con una
semplice parola, direi sicuramente che essa appartiene alle parole
“palindrome”, si perché il “futuro”, da qualsiasi parte lo inizi a costruire,
va sempre bene.
Da un punto di vista programmatico, se è vero, come è vero che la politica deve
dare risposte concrete a problemi reali, secondo noi, deve anche seguire una
traccia, creare uno spazio di speranza, guardare al domani, ed oltre, e per
quanto poi possibile, preparare un percorso sul quale incamminarsi.
Per poter pensare al futuro, bisogna cambiare quell’atteggiamento che in alcuni
momenti la politica ti impone, e che è soprattutto “contemplativo”.
Bisogna prefigurare le alternative, negoziando scelte fra diversi scenari
alternativi e favorire l’implementazione verso l’esito di programmi
realizzabili.
Una politica seria ed efficace non può fare a meno di interrogarsi sul senso, e
sull’appropriatezza delle proprie scelte, senza pensare ad investire per il
“futuro”.
Amministrare una città importante come quella che è Cassino, significa saper
tracciare un percorso, che guardi oltre al breve respiro ed alle strette
convenienze di un solo lustro.
Preparare un futuro e recuperare parte dello scempio che le precedenti
amministrazioni hanno lasciato ai nostri figli e nipoti, significa avere
capacità, strumenti e voglia di guardare avanti, di guardare lontano.
La nuova amministrazione dovrà essere conscia di navigare in mare aperto e
quando salperà deve essere sicura di essere in possesso di mappe e bussole, per
poter navigare le profondità del mare.
Nel caso contrario, sarà costretta e condannata ad una navigazione a vista,
lungo la costa, e seppur non finirà sugli scogli, non potrà mai raccontare di
aver visto il punto dove cielo e mare s’incontrano e dove non c’è più
orizzonte.
Preparare un “futuro” significa anche aprire una strada verso la speranza, con
l’impegno paziente di un lavoro che non riguarderà sicuramente il breve volgere
di qualche mandato amministrativo.
Più di qualcuno contesterà, che alcuni obiettivi vorrebbe vederli oltre che
realizzabili, realizzati.
Bisogna invece, in alcuni casi, avere la consapevolezza che un progetto
iniziato da questa nuova amministrazione, si potrà realizzare anche tra venti o
più anni.
È questa la giusta visione che oggi nessuno coltiva, per cui se nessuno oggi
pianta un seme, la pianta, fra venti o trenta anni, non ci sarà sicuramente.
Una strategia che si limitasse nel possibile, e che avesse come orizzonte solo
quello del giorno dopo, non ci porterebbe da nessuna parte, ma soprattutto non
preparerebbe un futuro migliore a chi verrà dopo di noi.
Questi cinque step, fin ora narrati, che contengono ognuno una parola chiave
(Equità-Inclusione- Partecipazione-Sostenibilità-Futuro), che in qualche modo
hanno delineato la nostra visione, i valori, e gli orientamenti essenziali su
cui lavorare per un miglioramento socio-economico della nostra “Cassino”, di
oggi e degli anni a venire, dovranno, con la collaborazione fattiva di tutti i
cittadini, essere trasformati in programmi condivisi e percorribili.
Il
compito della politica è anche e soprattutto mantenere vivo, e se del caso
ripristinare, quel sottile ma indispensabile legame fiduciario, che costituisce
la base etica e civile di ogni relazione comunitaria e permette alle persone,
in qualunque momento, di sapere che hanno sempre qualcuno accanto.
Secondo la «logica della scacchiera», un’Italia unita faceva comodo a Londra come contraltare a Parigi. Ma prima occorreva demolire il Regno delle Due Sicilie, non disposto a fare «l’ascaro» di Sua Maestà Britannica. Protesa nel Mediterraneo, con migliaia di chilometri di coste da difendere, l’Italia unita voluta e sostenuta da Londra sarebbe stata sempre sotto ricatto della potente flotta inglese. Un progetto che non andò però sempre per il verso giusto (per gli inglesi). Questa è l’immagine che emerge dal colloquio di Eugenio Di Rienzo, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma «La Sapienza» e direttore della «Nuova Rivista Storica». Di Rienzo si è occupato dei problemi relativi ai rapporti fra le potenze europee e lo Stato italiano pre-unitario dalla posizione più strategica: il Regno delle Due Sicilie. Per questo con lui verranno esaminati in questa intervista argomenti che sono più ampiamente trattati nel suo volume Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee, 1830-1861, d’imminente pubblicazione per i tipi di Rubbettino.
Durante il
XVI e il XVII secolo l’Italia esercita un grande fascino sull’Inghilterra.
Questa fascinazione continua nei secoli successivi e si estende anche al
Mezzogiorno. Per tutti i viaggiatori inglesi, l’Italia del Sud appare come un
museo a cielo aperto abitato, però, da popolazioni incivili. Nasce allora un
pregiudizio anti-italiano e in particolare anti-meridionale? Un pregiudizio
fondato?
«Anche se l’espressione un “paradiso
abitato da diavoli” riferita a Napoli e alla Campania fu coniata, come
ricordava Benedetto Croce, da Daniele Omeis, professore di morale presso
l’Università di Altdorf in Germania che, nel 1707, pronunciò una prolusione
accademica, intitolata appunto “Regnun Neapolitaum Paradisus est, sed a
Diabolis habitatus”, questo giudizio ritorna come un motivo ricorrente nei
diari e nelle corrispondenze dei gentlemen inglesi. Lo spettacolo delle
meraviglie artistiche e naturali del Mezzogiorno era, infatti, oscurato
dall’arretratezza, dalla povertà, dal degrado morale delle popolazioni e
dall’inadeguatezza delle classi dirigenti. Se nel passato quelle regioni erano
state la culla della civiltà classica, ora, esse apparivano il terreno di
coltura di una plebe indocile, ignorante, superstiziosa, tendenzialmente
delinquente: i lazzaroni di Napoli e i briganti della Calabria. Ricordiamo,
però, che questo giudizio, pur basato su dati di fatto, era potentemente
rafforzato da un pregiudizio religioso e anti-cattolico. Il culto di San
Gennaro a Napoli e la fastosa e paganeggiante processione in onore di Santa
Rosalia a Palermo apparivano, infatti, la testimonianza vivente di come il
Papato e il clero avessero mantenuto volutamente le masse del Sud in una
situazione di soggezione e di subalternità, utilizzando nel modo più
spregiudicato, il precetto di Machiavelli, soprannominato dagli inglesi Old Nick (Vecchio
Diavolo), secondo il quale la religione doveva essere instrumentum regni.
Aggiungiamo, però, che i rapporti tra Regno di Napoli e Gran Bretagna non si
limitarono a questi aspetti. Nel 1842, come illustrava un denso articolo,
pubblicato sull’autorevolissimo “Journal of the Statistical Society of London”,
una quota rilevante della bilancia commerciale britannica era rappresentata
dall’importazione di materie prime provenienti dalla Sicilia. L’ingente
traffico era costituito da vino, olio d’oliva, agrumi, mandorle, nocciole,
sommacco, barilla e soprattutto dallo zolfo (utilizzato per la preparazione
della soda artificiale, dell’acido solforico e della polvere da sparo), che
copriva il 90% della richiesta mondiale e di cui venti ditte inglesi avevano
ottenuto, di fatto, la prerogativa esclusiva, per l’estrazione e lo
sfruttamento, grazie al pagamento di un modico compenso».
Quando i Borbone furono ridotti al
possesso della sola Sicilia dall’invasione napoleonica (1805) si trovarono
sotto una pesante tutela inglese. Quanto durò l’influenza britannica su Napoli
dopo il Congresso di Vienna, e come si manifestò?
«Dopo il 1815, Londra non prese in
considerazione la possibilità di un intervento indirizzato a guadagnarle una
presenza politico-militare nella Penisola. Il principio della non ingerenza
negli affari italiani registrò, tuttavia, una clamorosa eccezione per quello che
riguardava il crescente interesse inglese a rafforzare la sua egemonia nel
Mediterraneo e quindi a riguadagnare quella posizione di vantaggio, acquisita
nel 1806 e ulteriormente incrementatasi poi, tra 1811 e 1815, grazie al
protettorato politico-militare instaurato da William Bentick in Sicilia.
Protettorato che aveva portato ad ampliare la colonizzazione economica
dell’isola già avviata dalla fine del XVIII secolo, poi destinata a
irrobustirsi nei decenni seguenti grazie all’attività delle grandi dinastie
commerciali dei Woodhouse, degli Ingham, dei Whitaker e di altri
mercanti-imprenditori angloamericani. Molto indicativa, a questo riguardo era
la presa di posizione del primo ministro, Visconte Castlereagh che, il 21
giugno 1821, aveva ricordato che il dominio diretto o indiretto della Sicilia
costituiva, ora come nel passato, un “indispensabile punto d’appoggio” per
rendere possibile il controllo dell’Inghilterra sull’Europa meridionale e
l’Africa settentrionale. Come, infatti, avrebbe sostenuto Giovanni Aceto, nel
volume del 1827, “De la Sicile et de ses rapports avec l’Angleterre”,
“quest’isola non rappresenta per l’Inghilterra soltanto un importante avamposto
strategico, da preservare, ad ogni costo, da una possibile occupazione della
Francia che la minaccia dalle sue coste, ma costituisce anche il centro di
tutte le operazioni militari e politiche che il Regno Unito intende
intraprendere nell’Italia e nel Mediterraneo”».
Il controllo del Mediterraneo
centrale fu tra i principali motivi di conflitto tra Napoli e Londra: prima
l’occupazione britannica di Malta, strappata a Napoleone (che a sua volta
l’aveva tolta ai Cavalieri di San Giovanni, che riconoscevano la sovranità
siciliana sull’isola) ma mai restituita ai Borbone, poi l’incidente dell’Isola Ferdinandea,
infine la questione degli «Zolfi». Furono solo questioni geopolitiche o
contarono anche altre considerazioni?
«Sicuramente interessi strategici e
geopolitici dominarono la politica della Corte di San Giacomo verso le Due
Sicilie dalla metà dell’Ottocento al 1860. Nel 1840, Palmerston usò tutta la
forza della gunboat
diplomacy per mantenere il monopolio inglese sugli zolfi siciliani,
ordinando alla Mediterranean
Fleet di catturare il naviglio napoletano e di condurlo nelle basi
di Malta e di Corfù con un vero e proprio atto di pirateria. Nel 1849, sempre
Palmerston, sostenne la rivoluzione separatista siciliana con l’obiettivo di
fare dell’isola uno Stato autonomo retto da un principe di Casa Savoia. Nel
corso della Guerra di Crimea, ancora Palmerston, propose più volte agli Alleati
di effettuare azioni intimidatorie contro il Regno di Ferdinando II, il quale
aveva mantenuto una neutralità indulgente e più che benevola verso la Russia.
Soltanto l’opposizione della Regina Vittoria impedì nel settembre del 1855 una
“naval demonstration” nel golfo di Napoli che, nelle intenzioni del primo
ministro, avrebbe dovuto favorire un’insurrezione destinata a rovesciare i
Borbone. Il ricorso alla politica delle cannoniere, per ridurre o azzerare la
sovranità delle Due Sicilie, trovò, invece, il pieno consenso dell’opinione
pubblica del Regno Unito. Un editoriale del “Times” sostenne, infatti, che la
visita della flotta britannica doveva ottenere gli stessi risultati delle
missioni in Giappone guidate dal Commodoro Matthew Calbraith Perry, nella baia
di Edo, tra 1853 e 1854, per ridurre a ragione la resistenza dello shogun,
Ieyoshi Tokugawa, che si era opposto alla penetrazione commerciale
statunitense. Così come gli Stati Uniti in Estremo Oriente, terminava l’articolo,
anche la Gran Bretagna non poteva tollerare l’esistenza di “un Giappone
mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da
Marsiglia”. Naturalmente l’ingerenza inglese si ammantava di pretesti
umanitari: la volontà di smantellare il regime dispotico di Ferdinando II e di
sostituirlo con un sistema costituzionale e liberale nel quale fossero
garantiti i diritti politici e civili. Prendendo a pretesto la denuncia di
Gladstone che, nelle “Two Lettersto the Earl of Lord Aberdeen” del 1851, aveva
definito il regime di Ferdinando II “la negazione di Dio”, Palmerston si servì
di fondi riservati del Tesoro britannico, per finanziare una spedizione
destinata a liberare Luigi Settembrini (autore, nel 1847, della virulenta
“Protesta del popolo delle due Sicilie”), Silvio Spaventa e Filippo Agresti
condannati a morte nel 1849, la cui pena era stata commutata nel carcere a vita
da scontare nell’ergastolo dell’isolotto di Santo Stefano. L’operazione,
progettata per la tarda estate del 1855, non arrivò a compimento ma il Secret Service Fund
sarebbe stato utilizzato negli anni successivi e fino al 1860 per
destabilizzare il Regno delle Due Sicilie».
Quale ruolo ebbe l’Inghilterra nella
caduta del Regno di Napoli?
«Rosario Romeo nella sua biografia
di Cavour definì l’azione inglese di sostegno allo sbarco dei Mille e alla
campagna di Garibaldi come una “leggenda risorgimentale”. Si tratta però di
un’interpretazione sbagliata. Il supporto militare, economico, diplomatico del
Regno Unito fu, invece, indispensabile alla cosiddetta “liberazione del
Mezzogiorno”. Come rivelò il dibattito, svoltosi nella Camera dei Comuni, il 17
maggio 1860, la presenza delle fregate inglesi nella rada di Marsala, che
impedì la reazione della squadra borbonica, non fu una semplice coincidenza ma
un atto deliberato deciso con piena cognizione di causa dal gabinetto
britannico. Il sostegno di Londra non si esaurì in questo episodio. In aperta
violazione al Foreign
Enlistment Act del 1819, che proibiva appunto il reclutamento di
sudditi inglesi in eserciti stranieri, Palmerston e il ministro degli Esteri
Russell tollerarono e incoraggiarono “the subscription for the
insurrectionists in Sicily” promossa dal pubblicista italiano Alberto Mario,
alla quale aderirono esponenti del partito whig
e alcuni ministri tutti egualmente disposti a elargire “ingenti somme da
utilizzare nella guerra contro il Regno delle Due Sicilie” e quindi a sostenere
economicamente una campagna di arruolamento destinata a ingrossare le fila dei
ribelli in camicia rossa. Inoltre la flotta inglese collaborò tacitamente con
quella piemontese nella protezione dei convogli che trasportarono rinforzi di
uomini e materiali destinati a raggiungere Garibaldi. E non basta! Dalla
corrispondenza tra Cavour e l’ammiraglio Persano dei primi del luglio 1860,
apprendiamo, infatti, che alla preparazione del “pronunciamento” contro
Francesco II, che sarebbe dovuto scoppiare a Napoli per prevenire
un’insurrezione mazziniana, doveva fornire un apporto fondamentale “il signor
Devicenzi, amico di Lord Russell e di Lord Palmerston, che avrà mezzo
d’influire sull’ambasciatore di Sua Maestà britannica Elliot e l’ammiraglio
comandante della squadra inglese”. Fu solo, poi, grazie al veto posto da Londra
che Napoleone III rinunciò ad attuare un blocco navale nello stretto di Messina
che avrebbe potuto impedire a Garibaldi di raggiungere le coste calabre. Non si
trattava evidentemente di favori disinteressati. Alla fine di settembre del
1860, Palmerston avrebbe ricordato, infatti, all’esule italiano Antonio Panizzi
(divenuto direttore della biblioteca del British
Museum) che “se Garibaldi aveva potuto occupare Napoli ed esser
causa che il Re scappasse a Gaeta, ciò fu dovuto all’Inghilterra che, invitata
dalla Francia a impedire che dalla Sicilia si venisse ad attaccare gli Stati di
terraferma, vi si rifiutò”, aggiungendo che “l’aiuto morale e l’influenza
britannica non furono meno utili all’Italia delle armi francesi e che sarebbe
stata mera ingratitudine per parte dell’Italia lo scordarselo”».
E’ possibile dire, quindi, che con
l’unità il Regno d’Italia eredita sostanzialmente la stessa posizione di
debolezza geopolitica delle Due Sicilie e che Londra acquista, dopo il 1861,
una sorta di protettorato sulla politica mediterranea del nostro Paese?
«Sicuramente sì. Anche se forse il termine “protettorato” rappresenta un’espressione troppo forte, non si può non riconoscere che gli argomenti con i quali Palmerston giustificava l’azione inglese a favore della conquista piemontese delle Due Sicilie miravano proprio a quest’obiettivo. E credo che valga la pena di ricordarli alla fine di questa intervista. Nella lettera inviata alla Regina Vittoria, il 10 gennaio 1861, Palmerston sosteneva che, considerando “la generale bilancia dei poteri in Europa”, uno Stato italiano esteso da Torino a Palermo, posto sotto l’influenza della Gran Bretagna ed esposto al ricatto della sua superiorità navale, risultava “il miglior adattamento possibile” perché “l’Italia non parteggerà mai con la Francia contro di noi, e più forte diventerà questa nazione più sarà in grado di resistere alle imposizioni di qualsiasi Potenza che si dimostrerà ostile al Vostro Regno”. Parole profetiche che, se si esclude l’intervallo della politica estera fascista, la Storia, fino ai nostri giorni, non ha mai completamente smentito. Il Trattato d’alleanza con gli Imperi Centrali, firmato dal governo italiano nel maggio del 1882, non modificò a nostro favore lo status quo mediterraneo che si era venuto creando con l’insediamento francese in Tunisia e di conseguenza rafforzò la nostra situazione di dipendenza dal Regno Unito. Considerato che, nei problemi mediterranei, Germania e Austria non si ritenevano impegnati ad alcuna solidarietà con il suo alleato, l’Italia, per arginare l’espansionismo di Parigi, si trovò obbligata ad orbitare nella sfera d’influenza di Londra, la quale si mostrava desiderosa di stringere un patto di collaborazione con il nostro Paese che le avrebbe consentito, ad un tempo, di mettere in minoranza le forze francesi e di impedire una possibile intesa franco-italiana, il cui effetto avrebbe potuto rendere difficili le comunicazioni tra Gibilterra, Malta e l’Egitto. Il 12 febbraio del 1887 veniva firmato così un accordo con il quale il governo britannico e quello italiano s’impegnavano a “mantenere l’equilibrio mediterraneo e a impedire ogni cambiamento che, sotto forma di annessione, occupazione, protettorato, modifichi la situazione attuale con detrimento delle due Potenze segnatarie”. Con questa convenzione, se l’Italia s’impegnava ad appoggiare la penetrazione inglese in Egitto, la Gran Bretagna si dichiarava disposta “a sostenere, in caso d’ingerenza di una terzo Stato, l’azione italiana su qualunque punto del litorale settentrionale africano e particolarmente in Tripolitania e Cirenaica”. Rinnovato, nel 1902, questo accordo ci avrebbe consentito di portare a termine l’impresa libica nel 1911. Anche dopo questo successo, l’Italia rimase, comunque, per Londra un “volenteroso secondo”, destinato a svolgere un ruolo di sostegno al suo sistema marittimo, ma al quale non poteva essere consentito una più ampia espansione nell’area mediterranea. Che questo fosse il ruolo riservato alla nostra Nazione lo dimostrava, in tutta evidenza, nel 1913, la ferma di presa posizione del Regno Unito che escludeva in linea di principio “la possibilità della conservazione delle isole dell’Egeo, già appartenenti ai domini turchi, da parte del governo di Roma, perché una simile soluzione minaccerebbe di rompere l’equilibrio politico nella parte orientale del Mediterraneo”. Una dichiarazione, questa, che conteneva in nuce le linee maestre della politica inglese successive alla fine della Prima guerra mondiale, quando Londra, d’intesa con Parigi, operò instancabilmente per impedire la realizzazione integrale delle aspirazione italiane sull’Adriatico, appoggiando e fomentando le ambizioni della Iugoslavia, dellAlbania e della Grecia in questo cruciale settore strategico».