Hitler non inventò nulla che non fosse stato fatto prima dai Savoia
(dal PeriodicoDueSicilie 11/1998)
Quando il comitato di redazione di Nazione Napoletana – Edizione Nord – decise di fare questo inserto, le indicazioni per RIN, l’autore di questo pezzo, furono quelle di fare una ricerca sulla Fortezza delle Fenestrelle, dove vennero rinchiusi i prigionieri Napolitani nel 1860. In realtà ne è venuto fuori qualcosa di diverso e, piú che delle Fenestrelle, l’inserto parla delle terribili sofferenze che sono state inferte ai nostri soldati dall’aggressore piemontese.
Di Giuseppe Massari [*]
nell’enciclopedia Garzanti si dice solo che nacque a Taranto nel 1821 e mori a
Roma nel 1884, che fu un fervente patriota e che fu relatore della Commissione
Parlamentare d’inchiesta[1] – magari in qualche testo di storia si
precisa che la sua relazione fu coraggiosa e squarciò un vello sulle tristi
condizioni delle plebi meridionali che erano all’origine della rivolta, il
cosiddetto “brigantaggio”. Praticamente questo è più o meno quello che sanno
tutti gli italiani che hanno frequentato le scuole superiori o anche
l’università a meno che non si interessino per mestiere o per diletto di storia
patria.
Queste
scarne notizie costituiscono il bagaglio culturale sul personaggio che ognuno
di noi si porta dietro e che fanno da coordinate per ulteriori acquisizioni.
Massari
appartiene alla folta schiera di oppositori politici del regime borbonico che
trovarono nel Piemonte una sponda per continuare dall’esterno la loro opera di
denigrazione del paese meridionale. Per questa loro opera ‘disinteressata’
ebbero generosi riconoscimenti durante l’esilio a Torino e furono i proconsoli
piemontesi a Napoli dopo il crollo del regno borbonico. Il che fu una vera
iattura per noi meridionali[2].
Proviamo
a ripercorrere le tappe della carriera del Massari…
…
nel 1838 il calabrese Benedetto Merolino lo sceglie come corriere della Giovane
Italia[3].
…
nel 1840 lavora come collaboratore in Parigi della “Gazzetta italiana” della
Belgioioso[4].
…
nel 1846 viene nominato direttore della rivista “Il mondo illustrato”.
…
lavora come collaboratore della “Patria” di Firenze.
…
nel 1848 viene eletto deputato di Bari al Parlamento di Napoli.
…
lavora come collaboratore de “Il Conciliatore” di Firenze.
…
nel 1849 si trasferisce a Torino e lavora come redattore di giornali e riviste
sia italiani che stranieri: “Saggiatore”, “Rivìsta contemporanea”, “Gazzetta
piemontense”, “La Legge”, “Nazionale”, “Cimento”, “L’Indépendence Belge”.
… nel 1851 lo
ritroviamo come traduttore e divulgatore in Italia delle famose Lettere del
Gladstone, pubblica infatti: “Il signor Gladstone ed il governo napoletano.
Raccolta di scritti intorno alla questione napoletana” Tipografia Subalpina,
Torino 1851. Come, non ricordate la famosa frase[5] di Gladstone: “la negazione di Dio
eretta a sistema di governo”, “This is the negation of God erected
into a system of government.”? Se vi può interessare, vi informiamo
che delle lettere vi erano state già due pubblicazioni – in lingua originaria
ovviamente – una a Londra e una a New York sempre nel 1851[6], poteva mancare Torino[7]?
…
lo vediamo segretario di Cavour negli anni decisivi dell’impresa unitaria[8].
…
nel 1856 assume la direzione della Gazzetta Ufficiale piemontese.
… nel 1858 viene
nominato, per i servigi resi alla corona sabauda, cavaliere dei SS. Maurizio e
Lazzaro.
… nel 1859 lo
ritroviamo a preparare il famoso discorso della corona (discorso ispirato da
Napoloene III e a cui era interessato pure il Rothschild[9], toh chissà perché!), quello della famosa
frase “non possiamo rimanere insensibili al grido di dolore, che da tante
parti d’Italia si leva verso di noi”.
…
nel 1861 viene eletto deputato al Parlamento nazionale di Torino.
…
nel 1863 legge la relazione della Commissione Parlamentare d’inchiesta in
comitato segreto[10] della Camera. Su questo atto che lo ha
consegnato alla storia più conosciuta dalla maggioranza degli italiani, vi sono
pareri assai discordi.
In molti ritengono e
scrivono che la relazione si caratterizza per “Profondità di diagnosi, esame
delle cause remote e recenti, invocazione di rimedi che non fossero soltanto di
polizia. In lui, che pure verso il Mezzogiorno non fu tenero, denunciandone in
ogni occasione le manchevolezze e la fredda partecipazione al processo
unitario, agiva questa volta la medesimezza con quella terra, la coscienza di
un malgoverno remoto nei secoli che aveva provocato guasti irreparabili,
l’«inveterata corruzione del governo e della burocrazia», le complicità,
l’omertà, sollecitata, le connivenze, alimento incessante di malessere e
malcontento. Intelligenza e pietà vibrano in quelle pagine, che sarebbero state
poi alla base di molti altri studi ed inchieste sulla questione meridionale. Si
può richiamare il passo noto in cui si descrivono le condizioni di vita del
cafone tentato dal miraggio di una migliore condizione e per ciò stesso
sospinto sulla strada del brigantaggio: e gli altri, sulle indiscriminate
repressioni, che portavano a inasprire gli animi, con punizioni eccessive anche
per reati minori, provocati chiaramente dall’indigenza delle popolazioni.”[11]
In pochi – tra cui chi
vi scrive – sostengono invece che le “tesi insulse e addomesticate della
Relazione Massari ebbero come risultato la promulgazione della Legge Pica, che
impose lo stato d’assedio e la corte marziale a tutte le regioni del Sud e
diede veste ufficiale alla repressione militare del brigantaggio, già di fatto
praticata sin dall’inizio.”[12]
… fu biografo ufficiale di Cavour, di Vittorio Emanuele e di La Marmora!
[1]
Il
presidente era Sirtori e ne faceva parte anche Bixio.
[2]“È stato un errore, si sostiene nel 1862
in una memoria … avere
affidato il governo napoletano a quei patrioti che, emigrati al
cominciare
della reazione del 1849, rimasero fuori dalla province Napoletane sino
al 1860.
……Sebbene essi siano per ingegno, dottrina e amor
patrio la migliore parte di
quella eletta schiera di liberali Napoletani, sono i meno adatti a
svolgere le
mansioni loro affidate dal governo di Torino sia per la poca conoscenza
che
hanno degli interessi di queste province, da cui sono stati per molti
anni
assenti, sia per quella passione…mista di vendetta e di
disprezzo, di cui sono
sempre dominati quelli che dopo un lungo e doloroso esilio ritornano
potenti in
patria.
Rientrati
a Napoli
come proconsoli piemontesi, hanno falsato agli occhi del Governo
centrale i
fabbisogni del paese e hanno consentito che questo venisse ammisserito
e
spogliato…da estranei a queste provincie…venuti
con lo spirito di conquista che
non si addice a chi doveva spargervi la luce e il progresso. A causa
della loro
incapacità a governare, l’amministrazione cade in
mano di persone che non
sapevano un’ acca e non avevano altro merito se non di godere
delle grazie
della consorteria.”. Cfr. Giuseppe Ressa,
Il ruolo degli esuli e dei
parlamentari meridionali – Il Sud e l’unità
d’Italia (potete scaricare l’opera
completa dal sito: https://www.ilportaledelsud.org)
[4]“Le lettere di Tommaseo. di Gioberti, di de
Sinner. di Mamiani, di
Massari, di Ricciardi, di Mazzini, inviate da Parigi nel Trenta e nel
Quaranta
fanno frequente riferimento a colei che negli anni del suo soggiorno
parigino,
soprattutto i primi anni, fu molto rappresentata, molto descritta,
molto nominata
(«princesse révolutionnaire»,
«heroi’ne romantique». «princesse
malheureuse».
«grande italiana», «belle patriote
italienne». «savante Uranie»,
«nouvelle
Bradamante», «foemina sexu. genio
vir»)”. Cfr. Novella Bellucci,
II
salotto parigino di Cristina Belgiojoso, “princesse
révolutionnaire”
– (https://www.disp.let.uniroma1.it/)
[5]
Frase
fortunata! E pensare che il Gladstone non aveva mai visitato una galera
borbonica, questo lo confessò egli stesso a Napoli nel 1888
durante una
rimpatriata. Il sussidiario sui cui avete studiato la storia del
Risorgimento
voi – e pure io – questo non lo sapevano o facevano
finta di non saperlo.
“Gladstone,
tornato a
Napoli nell’anno 1888-1889, fu ossequiato e festeggiato dai
maggiorenti del
cosi detto Partito Liberale, i quali non mancarono di glorificarlo per
le sue
famose lettere con la negazione di Dio, che tanto aiutarono la loro
rivoluzione; ma a questo punto il Gladstone versò una vera
secchia d’acqua
gelata sui suoi glorificatori. Confessò che aveva scritto
per incarico di lord
Palmerston, che egli non era stato in nessun carcere, in nessun
ergastolo, che
aveva dato per veduto da lui quello che gli avevano detto i nostri
rivoluzionari”. Cfr. Carlo Alianello, La
conquista del sud, Rusconi
Editore.
[6] Two letters to the Earl of
Aberdeen, on the state prosecutions of the Neopolitan government. by W
E
Gladstone – Type: English : Book Publisher: London, J. Murray, 1851.
Two
letters to the Earl of Aberdeen, on the state prosecutions of the
Neopolitan
government. by W E Gladstone – Type: English : Book Publisher: New
York, J.S.
Nichols, 1851.
[7]“Massari, per il momento, non ancora
inserito nel gioco diplomatico, fu
abile per la sua parte a cogliere a volo quella opportunità
da cui poteva venir
bene alla causa, e tradusse subito in bella prosa italiana quella
lettere che
pubblicò a Torino (Il sig. Gladstone e il governo
napoletano), appena dopo che
esse erano state divulgate a Londra.
Fu
una lungimiranza
già quasi cavourriana? Resta il fatto che questo secondo
scritto sul
Mezzogiorno e gli altri che seguirono, sulla polemica intercorsa tra il
governo
napoletano ed il Gladstone, così tempestivi e rivolti ai
suoi ospiti torinesi,
e di lì a tutti gli italiani e amici dell’Italia, non solo
risultarono un
contributo notevole alla causa risorgimentale, ampliando l’effetto di
denuncia
nei confronti degli screditati Borboni, ma conferirono al Massari una
più
precisa collocazione in quel variegato ambiente dell’emigrazione nei
cui
confronti opinione pubblica e governo piemontese guardavano con non
grande
simpatia e molte volte con sospetto.”Cfr.
[8]“Era persuaso, come sarà
persuaso Cavour, che in questo seppe ben
scegliere l’uomo, che la pubblicità della causa italiana e
piemontese nella
opinione pubblica europea fosse da curare con estrema saggezza e
tempestività,
e Massari non trascurò una occasione che potesse procacciar
simpatie alla
causa: Gladstone, gli ambienti liberali inglesi, la cultura e la
diplomazia di
Francia, de Mazade, con cui avvia un fitto carteggio, gli ambienti
vicini a
Napoleone III, il gruppo degli intellettuali fiorentini, gli emiliani,
i
circoli e le personalità milanesi, gli ambienti ufficiali e
quelli ufficiosi, i
ministri, le ambasciate, i salotti, le redazioni: quel variegato
scenario entro
cui si «facevano» le sorti d’Italia non
è mai descritto con l’intento del
narratore, eppure risalta al vivo negli scorci epistolari, nelle
notazioni di
diario, nelle relazioni.”. Cfr. Michele
Dell’aquila, INTELLETTUALI
MERIDIONALI ESULI IN PIEMONTE NEL DECENNIO 1849/59: GIUSEPPE MASSARI –
La
Capitanata – Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia –
BOLLETTINO
D’INFORMAZIONE della Biblioteca Provinciale di Foggia, Anno XX
Gennaio-Giugno
1983 – Parte I – (https://www.bibliotecaprovinciale.foggia.it/)
[9]
Cfr. Carmine
De Marco, Cavour – dal libro “Revisione della Storia
dell’Unità
d’Italia” – (https://www.adsic.it/)
[10]
“L’inchiesta, nota come Massari
– Castagnola, già più volte proposta
dalla sinistra, avrebbe dovuto anche sollevare il velo di silenzio
steso dal
governo sugli errori e sugli abusi compiuti dall’esercito
nell’opera di
repressione. Nel maggio 1863 la Commissione d’Inchiesta
concluse i lavori. I
risultati, raccolti in una lunga relazione, vennero letti alla Camera
in
diverse sedute e furono pubblicati in estate sul giornale “Il
Dovere”. La
relazione evidenziava numerose ragioni economiche e sociali del
fenomeno del
brigantaggio, ma evitava di parlare delle responsabilità del
governo,
chiamando, invece, in causa l’attività degli
agenti borbonici e clericali. In
sostanza, concludeva la relazione, “Roma è
l’officina massima del brigantaggio,
in tutti i sensi ed in tutti i modi, moralmente e materialmente:
moralmente
perché il brigantaggio indigeno alle province meridionali ne
trae
incoraggiamenti continui e efficaci; materialmente perché
ivi è il deposito, il
quartier generale del brigantaggio d’importazione”.
In essa si insisté
sull’interpretazione del fenomeno del brigantaggio come
frutto di delinquenza
comune, retaggio del vecchio regime, e come l’effetto dei
tentativi di
riconquista delle Due Sicilie, da parte di Francesco II, con la
complicità dei
preti meridionali legittimisti. Come conseguenza di questa analisi,
venne
approvata, ad agosto, con procedura d’urgenza, la famigerata
legge Pica (che
rimase operativa fino al 1865) la quale aboliva qualsiasi garanzia
costituzionale;
in virtù di essa furono insediati otto speciali Tribunali
militari, i collegi
di difesa vennero assegnati agli ufficiali e si abolirono i tre gradi
di
giudizio che erano operativi nell’altra parte
d’Italia. In pratica le condanne,
che erano inappellabili, variavano dalla fucilazione ai lavori forzati
(spesso
a vita); venne stabilito il reato generico di
“brigantaggio” in virtù del quale
ogni sentenza era legittima; anche persone non partecipi alla rivolta
persero
la vita perché accusate ingiustamente di brigantaggio da
loro nemici personali
i quali, in questo modo, saldavano sbrigativamente dei conti in sospeso.“ Cfr. Stefania Maffeo, – L’unità
d’Italia fece del Sud una colonia da
depredare (https://www.storiain.net/)
[11]
Cfr. Michele Dell’aquila, INTELLETTUALI MERIDIONALI ESULI IN PIEMONTE
NEL
DECENNIO 1849/59: GIUSEPPE MASSARI – La Capitanata – Rassegna di vita e
di
studi della Provincia di Foggia – BOLLETTINO D’INFORMAZIONE della
Biblioteca
Provinciale di Foggia, Anno XX Gennaio-Giugno 1983 – Parte I
– (https://www.bibliotecaprovinciale.foggia.it/)
[12]
Cfr. Abstract de “Brigantaggio legittima difesa del Sud – gli
articoli della
Civiltà Cattolica (1861 – 1870)” –
introduzione di Giovanni Turco, prima
edizione 2000” – (https://www.editorialeilgiglio.it/)
[*] Pubblichiamo una nota inviataci oggi, 31 luglio 2006, dall’amico Gernone che ringraziamo: “Sull’ascaro Massari aggiungerei che la relazione scritta a mano e poi modificata per ovvie ragioni al largo pubblico della stampa è introvabile, che la CPIB relazionò a porte chiuse in Parlamento… Massari come altri servitori meridionali della conquista piemontese morì solitario a Roma ed è sepolto a Bari. Ciao Nino”.
LA STAMPA SABATO 26 AGOSTO 2000 BANDITI O GUERRIGLIERI 1860-1865 una lotta senza quartiere. Il fascino antico dell’«esercito straccione» Avventurieri e idealisti, ribelli a un’Italia appena nata. Ho il cappello piumato, la mia tunica ingallonata, un morello puro sangue; sono armato sino ai denti ed esercito il comando su ottocento uomini e trecento cavalli», cosi si descriveva, nel 1861, Carmine Crocco, detto Donatelli, forse il più famoso dei «briganti» lucani. Meno famoso e meno fortunato di lui (Crocco morì di morte naturale, a 75 anni, nel 1905 nel carcere di Portoferraio) fu il suo luogotenente Ninco Nanco, ucciso in uno scontro a fuoco, nel 1864, tra i boschi di Avigliano, vicino Potenza. Crocco e Ninco Nanco furono i capi di quell’esercito «straccione» che tra il 1860 e il 1865 combattè¨ una guerra senza quartiere, chiamata brigantaggio, contro l’esercito regolare del neo-nato stato italiano. Nella sola Lucania, dal 1861 all’agosto del 1863 si contarono 1038 fucilazioni, 2413 briganti uccisi in conflitto e 2768 arresti. Crocco aveva con se cafoni e disertori, idealisti filo-borbonici e piccoli borghesi in cerca d’avventura. Ma oltre al suo diventarono noti i nomi di briganti abruzzesi e campani, lucani o calabresi come Zappatore o Chiavone, Medichetto o Maccherone, Colarulo, Ciucciariello e Caprariello. Crocco, secondo di cinque fratelli, era figlio di un pastore di Rionero in Vulture. Si era arruolato diciottenne nell’esercito Borbonico e aveva disertato dopo aver ucciso un compagno d’armi. Si era avvicinalo ai liberali e aveva anche indossato la camicia rossa dei garibaldini. Come tutti i grandi guerriglieri conosceva bene il territorio in cui si muoveva, ma non era un «politico», anche se riuscì ad aggregare attorno a sè l’insoddisfazione di quei contadini che si sentivano traditi dal nuovo stato unitario, che non solo non aveva diviso lo terre demaniali, ma aveva anche istituito la leva obbligatoria. Su questa insoddisfazione pensavano di far leva i borbonici per riconquistare il regno perduto. Così dallo stato Pontificio cercarono senza successo, di tirar le fila del movimento insurrezionale. Fecero sbarcare in Calabria un «cabecillu». José Borges, che incarnò l’anima filoborbonica dol brigantaggio. Borges, un ufficiale catalano ormai sulla cinquantina, per un breve periodo combattè con Crocco. Insieme i due, nel novembre del 1861, furono a un passo dal conquistare Potenza. Ben presto però si divisero, al ribelle contadino poco importava di restaurare il regno dei Borboni. Borges, in fuga, fu ucciso, come un Bandito, dai bersaglieri italiani a Tagliacozzo, a pochi chilometri dallo stato pontificio che per lui avrebbe significato la salvezza.
Ma il brigantaggio non fu solo un fenomeno maschile, a condividere la vita all’addiaccio, tra ricoveri di fortuna e fughe a cavallo, c’erano anche donne, come Filomena Pennacchio, figlia di un macellaio, compagna del brigante Schiavone, che fu una dello prime «pentite» e con la sua delazione fece catturare un buon numero di uomini di Crocco. O Arcangela Cotugno, moglie del brigante Rocco Chirichigno, alias Coppolone: al suo attivo una lunga serie di crimini, dal furto alla rapina, dall’omicidio alla «grassazione», secondo i verbali di polizia dell’epoca. O ancora Elisabetta Blasucci, alias Pignatara, una contadina che dopo la morte del marito, fucilato dall’esercito italiano, si diede alla macchia. Le «brigantesse» vestivano abiti maschili e spesso erano più feroci degli uomini. E nel vestire abiti maschili non erano in fondo dissimili dalla regina Maria Sofia, moglie di Francesco II, che dall’esilio cercava di aiutarle, tanto che arrivò a scrivere al generale francese Henry de Cathelineau “Preferirei morire in Abruzzo, con i briganti, che vivere a Roma”. Da un lato e dall’altro ci furono efferatezze. Se i briganti bruciavano e saccheggiavano le case dei benestanti che non li aiutavano, tendevano sanguinosi agguati alle truppe dell’esercito italiano (che aveva ereditato uomini e quadri dall’esercito sabaudo) questo dal canto suo non giocò meno duro. Per stroncare la rivolta fu prima dichiarato lo stato di assedio nelle ragioni meridionali e poi nel ’63 approvata la legge Pica, che stabiliva all’articolo 2 «i colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica saranno puniti con la fucilazione». E in molti paesi i corpi dei fucilati venivano esposti, come ammonizione: «spuntano ai pali ancora le teste dei briganti» recita un verso di Rocco Scotellaro, il sindaco poeta di Tricarico.
I lager non sono un’invenzione dei nazisti: già 150
anni fa i Savoia, hanno massacrato in Piemonte e Lombardia migliaia di soldati
borbonici, rei di non essersi sottomessi al loro dominio. Vi dice qualcosa
Fenestrelle? In seguito, i savoiardi pensarono di estendere il trattamento
all’intero Mezzogiorno recalcitrante. Comunque “i meridionali dovrebbero essere
deportati in un luogo disabitato e lontano migliaia di chilometri dall’Italia.
In Patagonia, per esempio”. Non si tratta dell’ultima provocazione leghista
delle rozze sanguisughe razziste Bossi e Borghezio. E’ una cosa seria ammantata
ancora oggi dall’eterno segreto di Stato. Provate a fare richiesta di atti e
documenti in materia al Ministero degli Esteri. Intenzioni e progetto portano
la firma di un Presidente del Consiglio italiano: Luigi Federico Menabrea (che
era nato nell’estremo Nord Italia, a Chambéry, oggi in territorio francese).
Imperversa il 1868: l’Italia “unita” con la violenza, il saccheggio, l’inganno
e il denaro dei massoni inglesi – certo non i Mille di Garibaldi – muove i suoi
primi passi e deve affrontare il brigantaggio al Sud. Nemmeno la pena di morte
senza processo (con la famigerata legge Pica) sembra dissuadere i briganti,
vale a dire i partigiani dell’epoca che sempre più numerosi si riuniscono in
bande. Così il governo italiano, avendo già sterminato interi paesi, compresi i
neonati (ad esempio: a Casalduni e Pontelandolfo) decide di cambiare strategia:
deportare i briganti e loro sostenitori dall’altra parte del globo terrestre, in
modo da recidere affetti e rapporto con il territorio. Un progetto perseguito
per oltre un decennio e che fallì solo per la ritrosia dei Paesi stranieri a
cedere aree per impiantare mattatoi per meridionali italiani.
DEPORTAZIONE DI MASSA
– Il piano di deportazione è scritto nero su bianco: il progetto delle
«Guantanamo» di casa Savoia si rintraccia nei documenti diplomatici conservati
all’Archivio storico della Farnesina. Secondo alcune carte seppellite
dall’oblio, il presidente Menabrea provò prima a sondare gli inglesi, chiedendo
loro un’area nel Mar Rosso, senza riuscirci. Quindi, il 16 settembre del 1868,
il capo del governo italiano contatta il Ministro Della Croce a Buenos Aires,
perché domandi al governo argentino la disponibilità di una zona «nelle regioni
dell’America del Sud e più particolarmente in quelle bagnate dal Rio Negro, che
i geografi indicano come limite fra i territori dell’Argentina e le regioni
deserte della Patagonia». Anche questo secondo tentativo, però, annega in un
buco nell’acqua, perché tre mesi più tardi, il 10 dicembre, Menabrea è già
all’opera per trovare soluzioni alternative. Contatta il console generale a
Tunisi, Luigi Pinna, e gli chiede di «studiare la possibilità di stabilire in
Tunisia una colonia penitenziaria italiana». Ma anche i tunisini oppongono un
no. A questo punto Menabrea ritorna alla carica con gli inglesi. Prima chiede
loro di poter costruire un «carcere per meridionali» sull’isola di Socotra (tra
la Somalia e lo Yemen), quindi domanda loro di farsi perlomeno da tramite con
l’Olanda, perché conceda un’autorizzazione identica per un’area del Borneo.
Menabrea e il governo italiano sono assolutamente convinti della necessità di
deportare lontano dalla terra madre i criminali del Sud. Il senatore Giovanni
Visconti Venosta, più volte ministro degli Esteri, incontrando il ministro
d’Inghilterra sir Bartle Frere, si spingerà a dirgli: «Presso le nostre
impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce
più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte».
È l’idea di abbandonare la famiglia, il Paese natale, il deterrente che il
governo considera la carta giusta per sconfiggere la lotta contadina. Tanto più
che in quegli anni sta nascendo il mito di alcune figure come Carmine Crocco
(detto Donatelli) brigante che riesce a riunire intorno a sé una banda composta
di almeno 2500 uomini e che viene visto come un eroe dalla popolazione locale e
lo stratega imprendibile Michele Caruso di Torremaggiore.Campi di
concentramento – Le istanze del governo italiano, però, cadono nel vuoto. Il 3
gennaio 1872 il governo inglese fa sapere di non vedere di buon occhio la
creazione di un enorme centro penitenziario per i meridionali italiani. Il 20
dicembre di quell’anno anche l’Olanda si defila: concentrare criminali italiani
in un luogo circoscritto viene visto come un problema per la sicurezza interna.
Gli ultimi tentativi risalgono al 1873. Il lombardo Carlo Cadorna, Ministro a
Londra, prende contatto con il conte Granville, Ministro degli Esteri inglese,
ancora per il Borneo. E ancora una volta, da Londra, arriva un rifiuto. Nel
frattempo, le carceri dell’Italia Unita traboccavano di meridionali e i
briganti continuavano a combattere. L’11 settembre 1872, il “Times” pubblicò
una lettera giunta da Napoli che metteva in luce la recrudescenza del
brigantaggio in Italia. Il “Times” ci aggiunse un articolo di fondo in cui non
si risparmiavano sferzate ai Piemontesi per l’incapacità di «eradicare
completamente una così grave piaga».
Oltre il patibolo – Convinto che la paura della deportazione in terre lontane
avrebbe spaventato i meridionali più di qualunque tortura e perfino della
morte, il Ministro degli Esteri, Visconti Venosta, decise di mettere alle
strette gli inglesi. Il 19 dicembre 1872, a Roma, incontrò il ministro
d’Inghilterra Sir Bartle Frere e gli parlò chiaro. Il suo discorso è ancora
agli atti, negli Archivi della Farnesina. Disse: «Se ci ponessimo in Italia ad
applicare la pena di morte con un’implacabile frequenza, se ad ogni istante si
alzasse il patibolo, l’opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero, i
giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere in ogni caso le
circostanze attenuanti. Bisogna dunque pensare – disse il Ministro della
neonata Italia – ad aggiungere alla pena di morte un’altra pena, quella della
deportazione, tanto più che presso le nostre impressionabili popolazioni del
Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce
più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti
all’idea di andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno col
più grande stoicismo incontro al patibolo». Sir Bartle Frere prese tempo ma i
piemontesi non si arresero. È del 3 gennaio 1873 un documento confidenziale in cui
Cadorna ragguaglia Visconti Venosta sul colloquio avuto col conte Granville
relativamente alla «cessione di una parte della Costa Nord Est dell’isola di
Borneo». Il rappresentante del Governo italiano disse al Ministro degli Esteri
inglese che i briganti «avvezzi a mettere la loro vita in pericolo, resi più
feroci dalla stessa lor vita, salgono spesso il patibolo stoicamente,
cinicamente (esempio tristissimo per le popolazioni!). Invece la fantasia
fervida, immaginosa di quelle popolazioni rende ad essi ed alle loro famiglie
terribile la pena della deportazione. In Italia, e massime nel Mezzodì, ove è
grande l’attaccamento alla terra, ed al proprio sangue, il pensiero di non
vedere più mai il sole natale, la moglie, i figli, di passare, e finire la vita
in lontano ignoto paese, lontani da tutto, e da tutti, è pensiero che
atterrisce». Granville però fu irremovibile: l’Inghilterra non avrebbe aiutato
l’Italia a deportare i Meridionali.
Sepolti vivi – Ma quanti erano i detenuti del Sud che marcivano nelle galere
italiane? Secondo la rivista «Due Sicilie» (diretta da Antonio Pagano),
un’indicazione si trova in una lettera del savoiardo Menabrea, al Ministro
della Marina, il nizzardo Augusto Riboty. Menabrea sostiene che sarebbe stato
«utile e urgente» trovare «una località dove stabilire una colonia
penitenziaria per le molte migliaia di condannati» che popolavano gli
stabilimenti carcerari. A proposito della Marina Militare, la Forza armata si
prestò ad esplorare una serie di luoghi adatti alla deportazione dei
meridionali. Il Borneo e le isole adiacenti, innanzitutto, ma anche – secondo
documenti pubblicati da «Due Sicilie» – «l’est dell’Australia». L’anarchico
Giovanni Passannante che la sera del 17 novembre 1878 attenta con un temperino
alla vita di Umberto I di Savoia, rimedia decenni di segregazione e torture
fino a quando muore nel 1910 all’interno del manicomio di Montelupo Fiorentino.
Il suo cranio ed il cervello sono stati esposti fino a qualche anno fa in un
museo criminologico, ma ora riposano a Salvia di Lucania. I libri di storia
tricolore dopo un secolo e mezzo ancora nascondono la verità. Chissà perché?
Altro che “Unità d’Italia”: è in atto ancora la morte civile. Infatti, solo
negli ultimi dieci anni, ben 700 mila giovani laureati sono stati costretti ad
abbandonare il Sud. E anche se non vige più la pena di morte, va in scena la
morte per pena.
Nel febbraio del 1861, con
la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, il Regno delle Due
Sicilie cessa, di fatto, di esistere. Francesco II, ultimo Re di Napoli, ripara
a Roma, ospite dello Stato Pontificio.
La precarietà dell’esilio,
la solidarietà di numerose dinastie europee e le notizie – spesso ingigantite –
delle difficoltà che il nuovo stato italiano incontra per radicarsi nel
territorio, lo spingono a coltivare la speranza di un sollecito ritorno sul
trono.
Dovunque, nei territori
dell’ex regno – a Napoli come nei centri minori – sorgono comitati segreti
filoborbonici, con lo scopo dichiarato di sollevare le popolazioni contro i
Piemontesi. In tutto il Mezzogiorno si riaccendono improvvisamente i fuochi
della ribellione contadina: fuochi che – a ben dire – hanno sempre infiammato
il Meridione d’Italia; fuochi ora alimentati da uno sconquasso politico e sociale
insostenibile.
Il possesso e l’uso della
terra hanno da sempre costituito un fattore scatenante di rivolte. Ma né le
leggi eversive né l’esproprio dei beni ecclesiastici hanno fatto conseguire la
più antica aspirazione delle classi rurali, la proprietà della terra. Ed è
terra ostile quella che i contadini lavorano per conto di altri, aristocratici
e latifondisti. Spesso sottratta – zolla dopo zolla – ai boschi, alle macchie
ed alle pietraie montane. In cambio i contadini ricevono un salario che consente
appena di sopravvivere..
Il mutamento di governo ha
ingenerato speranze che ben presto si rivelano infondate. La terra cambia
proprietario ma i contadini ne sono sempre fuori, messi nell’impossibilità
pratica di acquistarla o riscattarla con i sofismi di una legge fatta da un
parlamento di “galantuomini” per i “galantuomini”. Il
destino dei contadini appare segnato: rassegnarsi o ribellarsi.
L’esercito borbonico, che
per molti giovani rappresentava l’unico sbocco occupazionale, è stato
disciolto. Funzionari ex borbonici senza scrupoli, passati nella burocrazia del
Regno d’Italia, hanno scientemente occultato il richiamo alle armi nel nuovo
esercito italiano per favorire il disordine, così che una moltitudine di
giovani si è ritrovata bollata con il marchio della diserzione, senza nemmeno
venirne a conoscenza. Contadini senza terra i e soldati senza esercito
null’altro possono fare che darsi alla macchia.
Nascono e proliferano,
ingrossate anche da gruppi di evasi dai bagni penali borbonici, le bande dei
briganti che sfruttano la conoscenza dei luoghi, l’ardimento e la sete di
rivendicazione sociale per dare scacco all’esercito piemontese, un esercito
straniero, che parla una lingua straniera, che applica leggi straniere, che
obbedisce ad un re straniero e che dunque è un esercito di occupazione. La
violenza esplode allora in tutta la sua virulenza: l’occasione è propizia anche
per soddisfare la sete di vendetta troppo a lungo repressa nei confronti dei
possidenti, dei “galantuomini” e del clero.
Nelle Calabrie, nelle Puglie
e, soprattutto, in Basilicata sono messi a fuoco e depredati interi paesi,
massacrate le personalità più in vista e più odiate, sbaragliate le truppe
piemontesi.
L’esercito è impotente,
percorre a casaccio le contrade più impervie, cade in imboscate, vede i suoi
uomini falciati da un nemico invisibile, reagisce con violenza alla violenza in
una spirale infinita di sangue.
Il fenomeno del brigantaggio
approda nel Parlamento che, lungi dal preoccuparsi di tentare – con una saggia
politica di riforme sociali – di rimuoverne le cause, sceglie la via della
repressione, adottando una legislazione speciale, la legge Pica, che instaura
il terrore nei territori occupati, la fucilazione sul campo, lo stupro delle
donne dei ribelli.
In questo contesto matura il dramma delle “brigantesse”, che è dramma
della rottura dell’equilibrio familiare, dramma di madri senza più figli, di
ragazze orfane dei genitori, di vedove: è dramma di donne disperate che,
ribaltando un ruolo stereotipo di rassegnazione e sudditanza, si dimostrano
capaci di affiancare con coraggio i propri uomini e partecipare attivamente
alla rivolta contadina.
E’ difficile attribuire una
data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima significativa figura
femminile di età moderna può essere individuata in Francesca La Gamba, nata a
Palmi (RC) nel 1768 e attiva nel decennio di occupazione francese (1806-1816).
Francesca, filandiera di
professione, madre di tre figli, divenne capobanda, spinta da un’incontenibile
sete di vendetta contro i francesi che l’avevano colpita negli affetti più
cari. Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva avuto due figli, convolò
in seconde nozze. Avvenente d’aspetto ed esuberante nel carattere, attirò le
mire di un ufficiale francese che, invaghitosene, tentò – forte della sua
posizione sociale – di sedurla.
Respinto dalla fiera
Francesca il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece
affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l’esercito
francese di occupazione ed il mattino successivo fece arrestare i figli della
donna, accusandoli di essere gli autori della bravata. Alle suppliche di
Francesca, l’ufficiale fu irremovibile: i giovani subirono un processo sommario
e furono fucilati.
Francesca, pazza di dolore, si unì ad una banda di briganti che operava nella
zona, dismise gli abiti femminili ed indossò quelli dei briganti.
In breve fornì prove di
ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa, seminando
ovunque il terrore. I francesi si accanirono nella caccia della donna, fino a
quando un loro drappello cadde in un’imboscata tesa da Francesca. Tra i soldati
fatti prigionieri la sorte volle che ci fosse proprio l’ufficiale suo nemico.
Con una coltellata Francesca gli strappò il cuore e lo divorò ancora
palpitante.
Nell’orrore di questa
vicenda, pure caricata di colore dal mito, possono leggersi le ragioni che
hanno spesso indotto tranquille popolane meridionali a trasformarsi in Erinni
vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro disprezzo per gli
affetti feriti, l’irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli
conquistati.
Crollato il mondo familiare
intorno al quale si è costruita a fatica una pur misera esistenza, la vendetta
femminile si dimostra ancor più feroce di quella maschile. Si tratta di
fenomeni tuttavia limitati che fanno da contraltare a tanti episodi di
rassegnazione e di pianto: costituiscono un’eccezione, insomma, non già la
regola.
Appare dunque azzardato il tentativo di attribuire autonomia assoluta al
brigantaggio femminile preunitario.
Forse sarebbe più corretto parlare di una “questione dentro la
questione”.
E questo non sminuisce il
ruolo delle donne nella rivolta contadina. Anzi, lo amplia e agevola la
comprensione dell’intera questione delle classi subalterne meridionali.
E’ comprovata invece, nelle vicende rivoluzionarie della seconda metà
dell’ottocento la presenza di un considerevole numero di donne
nell’organizzazione brigantesca.
Chi può, infatti,
legittimamente sostenere che in una banda di briganti, numerosa e perfettamente
organizzata (come tante nel periodo che trattiamo), si potesse fare a meno
della presenza delle donne per motivi logistici, di collegamento, di
approvvigionamento e, perché no, anche per motivi affettivi?
Occorre qui introdurre ed operare – semmai – un’altra distinzione che
dall’ottocento ad oggi ha diviso e divide gli studiosi: la distinzione tra
“la donna del brigante” e “la brigantessa”.
Numerosi sono gli esempi di ” donne del brigante”, più rari – ma non meno significativi – quelli di “brigantesse”. Gli uni e gli altri concorrono però in eguale misura a definire il ruolo della donna nelle classi rurali della seconda metà dell’ottocento meridionale italiano e contribuiscono certamente all’affermazione del posto che la donna occupa nella odierna società italiana.