Alta Terra di Lavoro

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Hitler non inventò nulla che non fosse stato fatto prima dai Savoia

Posted by on Giu 30, 2019

Hitler non inventò nulla che non fosse stato fatto prima dai Savoia

Hitler non inventò nulla che non fosse stato fatto prima dai Savoia

(dal PeriodicoDueSicilie 11/1998)

Quando il comitato di redazione di Nazione Napoletana – Edizione Nord – decise di fare questo inserto, le indicazioni per RIN, l’autore di questo pezzo, furono quelle di fare una ricerca sulla Fortezza delle Fenestrelle, dove vennero rinchiusi i prigionieri Napolitani nel 1860. In realtà ne è venuto fuori qualcosa di diverso e, piú che delle Fenestrelle, l’inserto parla delle terribili sofferenze che sono state inferte ai nostri soldati dall’aggressore piemontese.

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Giuseppe Massari ovvero storia breve di un velino di razza “a common friend with brains and without tongue”

Posted by on Giu 6, 2019

Giuseppe Massari ovvero storia breve di un velino di razza  “a common friend with brains and without tongue”

Di Giuseppe Massari [*] nell’enciclopedia Garzanti si dice solo che nacque a Taranto nel 1821 e mori a Roma nel 1884, che fu un fervente patriota e che fu relatore della Commissione Parlamentare d’inchiesta[1] – magari in qualche testo di storia si precisa che la sua relazione fu coraggiosa e squarciò un vello sulle tristi condizioni delle plebi meridionali che erano all’origine della rivolta, il cosiddetto “brigantaggio”. Praticamente questo è più o meno quello che sanno tutti gli italiani che hanno frequentato le scuole superiori o anche l’università a meno che non si interessino per mestiere o per diletto di storia patria.

Queste scarne notizie costituiscono il bagaglio culturale sul personaggio che ognuno di noi si porta dietro e che fanno da coordinate per ulteriori acquisizioni.

Massari appartiene alla folta schiera di oppositori politici del regime borbonico che trovarono nel Piemonte una sponda per continuare dall’esterno la loro opera di denigrazione del paese meridionale. Per questa loro opera ‘disinteressata’ ebbero generosi riconoscimenti durante l’esilio a Torino e furono i proconsoli piemontesi a Napoli dopo il crollo del regno borbonico. Il che fu una vera iattura per noi meridionali[2].

Proviamo a ripercorrere le tappe della carriera del Massari…

… nel 1838 il calabrese Benedetto Merolino lo sceglie come corriere della Giovane Italia[3].

… nel 1840 lavora come collaboratore in Parigi della “Gazzetta italiana” della Belgioioso[4].

… nel 1846 viene nominato direttore della rivista “Il mondo illustrato”.

… lavora come collaboratore della “Patria” di Firenze.

… nel 1848 viene eletto deputato di Bari al Parlamento di Napoli.

… lavora come collaboratore de “Il Conciliatore” di Firenze.

… nel 1849 si trasferisce a Torino e lavora come redattore di giornali e riviste sia italiani che stranieri: “Saggiatore”, “Rivìsta contemporanea”, “Gazzetta piemontense”, “La Legge”, “Nazionale”, “Cimento”, “L’Indépendence Belge”.

… nel 1851 lo ritroviamo come traduttore e divulgatore in Italia delle famose Lettere del Gladstone, pubblica infatti: “Il signor Gladstone ed il governo napoletano. Raccolta di scritti intorno alla questione napoletana” Tipografia Subalpina, Torino 1851. Come, non ricordate la famosa frase[5] di Gladstone: “la negazione di Dio eretta a sistema di governo”, “This is the negation of God erected into a system of government.”? Se vi può interessare, vi informiamo che delle lettere vi erano state già due pubblicazioni – in lingua originaria ovviamente – una a Londra e una a New York sempre nel 1851[6], poteva mancare Torino[7]?

… lo vediamo segretario di Cavour negli anni decisivi dell’impresa unitaria[8].

… nel 1856 assume la direzione della Gazzetta Ufficiale piemontese.

… nel  1858 viene nominato, per i servigi resi alla corona sabauda, cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro.

… nel 1859 lo ritroviamo a preparare il famoso discorso della corona (discorso ispirato da Napoloene III e a cui era interessato pure il Rothschild[9], toh chissà perché!), quello della famosa frase “non possiamo rimanere insensibili al grido di dolore, che da tante parti d’Italia si leva verso di noi”.

… nel 1861 viene eletto deputato al Parlamento nazionale di Torino.

… nel 1863 legge la relazione della Commissione Parlamentare d’inchiesta in comitato segreto[10] della Camera. Su questo atto che lo ha consegnato alla storia più conosciuta dalla maggioranza degli italiani, vi sono pareri assai discordi. 

In molti ritengono e scrivono che la relazione si caratterizza per “Profondità di diagnosi, esame delle cause remote e recenti, invocazione di rimedi che non fossero soltanto di polizia. In lui, che pure verso il Mezzogiorno non fu tenero, denunciandone in ogni occasione le manchevolezze e la fredda partecipazione al processo unitario, agiva questa volta la medesimezza con quella terra, la coscienza di un malgoverno remoto nei secoli che aveva provocato guasti irreparabili, l’«inveterata corruzione del governo e della burocrazia», le complicità, l’omertà, sollecitata, le connivenze, alimento incessante di malessere e malcontento. Intelligenza e pietà vibrano in quelle pagine, che sarebbero state poi alla base di molti altri studi ed inchieste sulla questione meridionale. Si può richiamare il passo noto in cui si descrivono le condizioni di vita del cafone tentato dal miraggio di una migliore condizione e per ciò stesso sospinto sulla strada del brigantaggio: e gli altri, sulle indiscriminate repressioni, che portavano a inasprire gli animi, con punizioni eccessive anche per reati minori, provocati chiaramente dall’indigenza delle popolazioni.[11] 

In pochi – tra cui chi vi scrive – sostengono invece che le “tesi insulse e addomesticate della Relazione Massari ebbero come risultato la promulgazione della Legge Pica, che impose lo stato d’assedio e la corte marziale a tutte le regioni del Sud e diede veste ufficiale alla repressione militare del brigantaggio, già di fatto praticata sin dall’inizio.”[12]

… fu biografo ufficiale di Cavour, di Vittorio Emanuele e di La Marmora!

[1] Il presidente era Sirtori e ne faceva parte anche Bixio.

[2] “È stato un errore, si sostiene nel 1862 in una memoria … avere affidato il governo napoletano a quei patrioti che, emigrati al cominciare della reazione del 1849, rimasero fuori dalla province Napoletane sino al 1860. ……Sebbene essi siano per ingegno, dottrina e amor patrio la migliore parte di quella eletta schiera di liberali Napoletani, sono i meno adatti a svolgere le mansioni loro affidate dal governo di Torino sia per la poca conoscenza che hanno degli interessi di queste province, da cui sono stati per molti anni assenti, sia per quella passione…mista di vendetta e di disprezzo, di cui sono sempre dominati quelli che dopo un lungo e doloroso esilio ritornano potenti in patria.

Rientrati a Napoli come proconsoli piemontesi, hanno falsato agli occhi del Governo centrale i fabbisogni del paese e hanno consentito che questo venisse ammisserito e spogliato…da estranei a queste provincie…venuti con lo spirito di conquista che non si addice a chi doveva spargervi la luce e il progresso. A causa della loro incapacità a governare, l’amministrazione cade in mano di persone che non sapevano un’ acca e non avevano altro merito se non di godere delle grazie della consorteria.”. Cfr. Giuseppe Ressa, Il ruolo degli esuli e dei parlamentari meridionali – Il Sud e l’unità d’Italia (potete scaricare l’opera completa dal sito: https://www.ilportaledelsud.org)

[3] Cfr. Paolo Mencacci – Storia della Rivoluzione Italiana – Volume Secondo . Parte Prima – Libro Primo.

[4] “Le lettere di Tommaseo. di Gioberti, di de Sinner. di Mamiani, di Massari, di Ricciardi, di Mazzini, inviate da Parigi nel Trenta e nel Quaranta fanno frequente riferimento a colei che negli anni del suo soggiorno parigino, soprattutto i primi anni, fu molto rappresentata, molto descritta, molto nominata («princesse révolutionnaire», «heroi’ne romantique». «princesse malheureuse». «grande italiana», «belle patriote italienne». «savante Uranie», «nouvelle Bradamante», «foemina sexu. genio vir»)”. Cfr. Novella Bellucci, II salotto parigino di Cristina Belgiojoso, “princesse révolutionnaire” – (https://www.disp.let.uniroma1.it/)

[5] Frase fortunata! E pensare che il Gladstone non aveva mai visitato una galera borbonica, questo lo confessò egli stesso a Napoli nel 1888 durante una rimpatriata. Il sussidiario sui cui avete studiato la storia del Risorgimento voi – e pure io – questo non lo sapevano o facevano finta di non saperlo.

“Gladstone, tornato a Napoli nell’anno 1888-1889, fu ossequiato e festeggiato dai maggiorenti del cosi detto Partito Liberale, i quali non mancarono di glorificarlo per le sue famose lettere con la negazione di Dio, che tanto aiutarono la loro rivoluzione; ma a questo punto il Gladstone versò una vera secchia d’acqua gelata sui suoi glorificatori. Confessò che aveva scritto per incarico di lord Palmerston, che egli non era stato in nessun carcere, in nessun ergastolo, che aveva dato per veduto da lui quello che gli avevano detto i nostri rivoluzionari”. Cfr. Carlo Alianello, La conquista del sud, Rusconi Editore.

[6] Two letters to the Earl of Aberdeen, on the state prosecutions of the Neopolitan government. by W E Gladstone – Type: English : Book Publisher: London, J. Murray, 1851.

Two letters to the Earl of Aberdeen, on the state prosecutions of the Neopolitan government. by W E Gladstone – Type: English : Book Publisher: New York, J.S. Nichols, 1851.

[7] “Massari, per il momento, non ancora inserito nel gioco diplomatico, fu abile per la sua parte a cogliere a volo quella opportunità da cui poteva venir bene alla causa, e tradusse subito in bella prosa italiana quella lettere che pubblicò a Torino (Il sig. Gladstone e il governo napoletano), appena dopo che esse erano state divulgate a Londra.

Fu una lungimiranza già quasi cavourriana? Resta il fatto che questo secondo scritto sul Mezzogiorno e gli altri che seguirono, sulla polemica intercorsa tra il governo napoletano ed il Gladstone, così tempestivi e rivolti ai suoi ospiti torinesi, e di lì a tutti gli italiani e amici dell’Italia, non solo risultarono un contributo notevole alla causa risorgimentale, ampliando l’effetto di denuncia nei confronti degli screditati Borboni, ma conferirono al Massari una più precisa collocazione in quel variegato ambiente dell’emigrazione nei cui confronti opinione pubblica e governo piemontese guardavano con non grande simpatia e molte volte con sospetto.”Cfr.

[8] “Era persuaso, come sarà persuaso Cavour, che in questo seppe ben scegliere l’uomo, che la pubblicità della causa italiana e piemontese nella opinione pubblica europea fosse da curare con estrema saggezza e tempestività, e Massari non trascurò una occasione che potesse procacciar simpatie alla causa: Gladstone, gli ambienti liberali inglesi, la cultura e la diplomazia di Francia, de Mazade, con cui avvia un fitto carteggio, gli ambienti vicini a Napoleone III, il gruppo degli intellettuali fiorentini, gli emiliani, i circoli e le personalità milanesi, gli ambienti ufficiali e quelli ufficiosi, i ministri, le ambasciate, i salotti, le redazioni: quel variegato scenario entro cui si «facevano» le sorti d’Italia non è mai descritto con l’intento del narratore, eppure risalta al vivo negli scorci epistolari, nelle notazioni di diario, nelle relazioni.”. Cfr. Michele Dell’aquila, INTELLETTUALI MERIDIONALI ESULI IN PIEMONTE NEL DECENNIO 1849/59: GIUSEPPE MASSARI – La Capitanata – Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia – BOLLETTINO D’INFORMAZIONE della Biblioteca Provinciale di Foggia, Anno XX Gennaio-Giugno 1983 – Parte I – (https://www.bibliotecaprovinciale.foggia.it/)

[9] Cfr. Carmine De Marco, Cavour – dal libro “Revisione della Storia dell’Unità d’Italia” – (https://www.adsic.it/)

[10]L’inchiesta, nota come Massari – Castagnola, già più volte proposta dalla sinistra, avrebbe dovuto anche sollevare il velo di silenzio steso dal governo sugli errori e sugli abusi compiuti dall’esercito nell’opera di repressione. Nel maggio 1863 la Commissione d’Inchiesta concluse i lavori. I risultati, raccolti in una lunga relazione, vennero letti alla Camera in diverse sedute e furono pubblicati in estate sul giornale “Il Dovere”. La relazione evidenziava numerose ragioni economiche e sociali del fenomeno del brigantaggio, ma evitava di parlare delle responsabilità del governo, chiamando, invece, in causa l’attività degli agenti borbonici e clericali. In sostanza, concludeva la relazione, “Roma è l’officina massima del brigantaggio, in tutti i sensi ed in tutti i modi, moralmente e materialmente: moralmente perché il brigantaggio indigeno alle province meridionali ne trae incoraggiamenti continui e efficaci; materialmente perché ivi è il deposito, il quartier generale del brigantaggio d’importazione”. In essa si insisté sull’interpretazione del fenomeno del brigantaggio come frutto di delinquenza comune, retaggio del vecchio regime, e come l’effetto dei tentativi di riconquista delle Due Sicilie, da parte di Francesco II, con la complicità dei preti meridionali legittimisti. Come conseguenza di questa analisi, venne approvata, ad agosto, con procedura d’urgenza, la famigerata legge Pica (che rimase operativa fino al 1865) la quale aboliva qualsiasi garanzia costituzionale; in virtù di essa furono insediati otto speciali Tribunali militari, i collegi di difesa vennero assegnati agli ufficiali e si abolirono i tre gradi di giudizio che erano operativi nell’altra parte d’Italia. In pratica le condanne, che erano inappellabili, variavano dalla fucilazione ai lavori forzati (spesso a vita); venne stabilito il reato generico di “brigantaggio” in virtù del quale ogni sentenza era legittima; anche persone non partecipi alla rivolta persero la vita perché accusate ingiustamente di brigantaggio da loro nemici personali i quali, in questo modo, saldavano sbrigativamente dei conti in sospeso.“ Cfr. Stefania Maffeo, – L’unità d’Italia fece del Sud una colonia da depredare (https://www.storiain.net/)

[11] Cfr. Michele Dell’aquila, INTELLETTUALI MERIDIONALI ESULI IN PIEMONTE NEL DECENNIO 1849/59: GIUSEPPE MASSARI – La Capitanata – Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia – BOLLETTINO D’INFORMAZIONE della Biblioteca Provinciale di Foggia, Anno XX Gennaio-Giugno 1983 – Parte I – (https://www.bibliotecaprovinciale.foggia.it/)

[12] Cfr. Abstract de “Brigantaggio legittima difesa del Sud – gli articoli della Civiltà Cattolica (1861 – 1870)” – introduzione di Giovanni Turco, prima edizione 2000” –  (https://www.editorialeilgiglio.it/)

[*] Pubblichiamo una nota inviataci oggi, 31 luglio 2006, dall’amico Gernone che ringraziamo: “Sull’ascaro Massari aggiungerei che la relazione scritta a mano e poi modificata per ovvie ragioni al largo pubblico della stampa è introvabile, che la CPIB relazionò a porte chiuse in Parlamento… Massari come altri servitori meridionali della conquista piemontese morì solitario a Roma ed è sepolto a Bari. Ciao Nino”.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/destra_sinistra/ds_massari.html

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BANDITI O GUERRIGLIERI 1860-1865 una lotta senza quartiere.

Posted by on Mag 31, 2019

BANDITI O GUERRIGLIERI 1860-1865 una lotta senza quartiere.

LA STAMPA SABATO 26 AGOSTO 2000
BANDITI O GUERRIGLIERI 1860-1865 una lotta senza quartiere.
Il fascino antico dell’«esercito straccione» Avventurieri e idealisti, ribelli a un’Italia appena nata.
Ho il cappello piumato, la mia tunica ingallonata, un morello puro sangue; sono armato sino ai denti ed esercito il comando su ottocento uomini e trecento cavalli», cosi si descriveva, nel 1861, Carmine Crocco, detto Donatelli, forse il più famoso dei «briganti» lucani. Meno famoso e meno fortunato di lui (Crocco morì di morte naturale, a 75 anni, nel 1905 nel carcere di Portoferraio) fu il suo luogotenente Ninco Nanco, ucciso in uno scontro a fuoco, nel 1864, tra i boschi di Avigliano, vicino Potenza. Crocco e Ninco Nanco furono i capi di quell’esercito «straccione» che tra il 1860 e il 1865 combattè¨ una guerra senza quartiere, chiamata brigantaggio, contro l’esercito regolare del neo-nato stato italiano. Nella sola Lucania, dal 1861 all’agosto del 1863 si contarono 1038 fucilazioni, 2413 briganti uccisi in conflitto e 2768 arresti. Crocco aveva con se cafoni e disertori, idealisti filo-borbonici e piccoli borghesi in cerca d’avventura. Ma oltre al suo diventarono noti i nomi di briganti abruzzesi e campani, lucani o calabresi come Zappatore o Chiavone, Medichetto o Maccherone, Colarulo, Ciucciariello e Caprariello. Crocco, secondo di cinque fratelli, era figlio di un pastore di Rionero in Vulture. Si era arruolato diciottenne nell’esercito Borbonico e aveva disertato dopo aver ucciso un compagno d’armi. Si era avvicinalo ai liberali e aveva anche indossato la camicia rossa dei garibaldini. Come tutti i grandi guerriglieri conosceva bene il territorio in cui si muoveva, ma non era un «politico», anche se riuscì ad aggregare attorno a sè l’insoddisfazione di quei contadini che si sentivano traditi dal nuovo stato unitario, che non solo non aveva diviso lo terre demaniali, ma aveva anche istituito la leva obbligatoria. Su questa insoddisfazione pensavano di far leva i borbonici per riconquistare il regno perduto. Così dallo stato Pontificio cercarono senza successo, di tirar le fila del movimento insurrezionale. Fecero sbarcare in Calabria un «cabecillu». José Borges, che incarnò l’anima filoborbonica dol brigantaggio. Borges, un ufficiale catalano ormai sulla cinquantina, per un breve periodo combattè con Crocco. Insieme i due, nel novembre del 1861, furono a un passo dal conquistare Potenza. Ben presto però si divisero, al ribelle contadino poco importava di restaurare il regno dei Borboni. Borges, in fuga, fu ucciso, come un Bandito, dai bersaglieri italiani a Tagliacozzo, a pochi chilometri dallo stato pontificio che per lui avrebbe significato la salvezza.

Ma il brigantaggio non fu solo un fenomeno maschile, a condividere la vita all’addiaccio, tra ricoveri di fortuna e fughe a cavallo, c’erano anche donne, come Filomena Pennacchio, figlia di un macellaio, compagna del brigante Schiavone, che fu una dello prime «pentite» e con la sua delazione fece catturare un buon numero di uomini di Crocco. O Arcangela Cotugno, moglie del brigante Rocco Chirichigno, alias Coppolone: al suo attivo una lunga serie di crimini, dal furto alla rapina, dall’omicidio alla «grassazione», secondo i verbali di polizia dell’epoca. O ancora Elisabetta Blasucci, alias Pignatara, una contadina che dopo la morte del marito, fucilato dall’esercito italiano, si diede alla macchia. Le «brigantesse» vestivano abiti maschili e spesso erano più feroci degli uomini. E nel vestire abiti maschili non erano in fondo dissimili dalla regina Maria Sofia, moglie di Francesco II, che dall’esilio cercava di aiutarle, tanto che arrivò a scrivere al generale francese Henry de Cathelineau “Preferirei morire in Abruzzo, con i briganti, che vivere a Roma”. Da un lato e dall’altro ci furono efferatezze. Se i briganti bruciavano e saccheggiavano le case dei benestanti che non li aiutavano, tendevano sanguinosi agguati alle truppe dell’esercito italiano (che aveva ereditato uomini e quadri dall’esercito sabaudo) questo dal canto suo non giocò meno duro. Per stroncare la rivolta fu prima dichiarato lo stato di assedio nelle ragioni meridionali e poi nel ’63 approvata la legge Pica, che stabiliva all’articolo 2 «i colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica saranno puniti con la fucilazione». E in molti paesi i corpi dei fucilati venivano esposti, come ammonizione: «spuntano ai pali ancora le teste dei briganti» recita un verso di Rocco Scotellaro, il sindaco poeta di Tricarico.

fonte https://www.pontelandolfonews.com/storia/il-brigantaggio/banditi-o-guerriglieri-1860-1865-una-lotta-senza-quartiere/

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UNA LUNGA STORIA DI ODIO…( E NON È ROMANZATA).

Posted by on Mag 10, 2019

UNA LUNGA STORIA DI ODIO…( E NON È ROMANZATA).

I lager non sono un’invenzione dei nazisti: già 150 anni fa i Savoia, hanno massacrato in Piemonte e Lombardia migliaia di soldati borbonici, rei di non essersi sottomessi al loro dominio. Vi dice qualcosa Fenestrelle? In seguito, i savoiardi pensarono di estendere il trattamento all’intero Mezzogiorno recalcitrante. Comunque “i meridionali dovrebbero essere deportati in un luogo disabitato e lontano migliaia di chilometri dall’Italia. In Patagonia, per esempio”. Non si tratta dell’ultima provocazione leghista delle rozze sanguisughe razziste Bossi e Borghezio. E’ una cosa seria ammantata ancora oggi dall’eterno segreto di Stato. Provate a fare richiesta di atti e documenti in materia al Ministero degli Esteri. Intenzioni e progetto portano la firma di un Presidente del Consiglio italiano: Luigi Federico Menabrea (che era nato nell’estremo Nord Italia, a Chambéry, oggi in territorio francese). Imperversa il 1868: l’Italia “unita” con la violenza, il saccheggio, l’inganno e il denaro dei massoni inglesi – certo non i Mille di Garibaldi – muove i suoi primi passi e deve affrontare il brigantaggio al Sud. Nemmeno la pena di morte senza processo (con la famigerata legge Pica) sembra dissuadere i briganti, vale a dire i partigiani dell’epoca che sempre più numerosi si riuniscono in bande. Così il governo italiano, avendo già sterminato interi paesi, compresi i neonati (ad esempio: a Casalduni e Pontelandolfo) decide di cambiare strategia: deportare i briganti e loro sostenitori dall’altra parte del globo terrestre, in modo da recidere affetti e rapporto con il territorio. Un progetto perseguito per oltre un decennio e che fallì solo per la ritrosia dei Paesi stranieri a cedere aree per impiantare mattatoi per meridionali italiani.
DEPORTAZIONE DI MASSA
– Il piano di deportazione è scritto nero su bianco: il progetto delle «Guantanamo» di casa Savoia si rintraccia nei documenti diplomatici conservati all’Archivio storico della Farnesina. Secondo alcune carte seppellite dall’oblio, il presidente Menabrea provò prima a sondare gli inglesi, chiedendo loro un’area nel Mar Rosso, senza riuscirci. Quindi, il 16 settembre del 1868, il capo del governo italiano contatta il Ministro Della Croce a Buenos Aires, perché domandi al governo argentino la disponibilità di una zona «nelle regioni dell’America del Sud e più particolarmente in quelle bagnate dal Rio Negro, che i geografi indicano come limite fra i territori dell’Argentina e le regioni deserte della Patagonia». Anche questo secondo tentativo, però, annega in un buco nell’acqua, perché tre mesi più tardi, il 10 dicembre, Menabrea è già all’opera per trovare soluzioni alternative. Contatta il console generale a Tunisi, Luigi Pinna, e gli chiede di «studiare la possibilità di stabilire in Tunisia una colonia penitenziaria italiana». Ma anche i tunisini oppongono un no. A questo punto Menabrea ritorna alla carica con gli inglesi. Prima chiede loro di poter costruire un «carcere per meridionali» sull’isola di Socotra (tra la Somalia e lo Yemen), quindi domanda loro di farsi perlomeno da tramite con l’Olanda, perché conceda un’autorizzazione identica per un’area del Borneo. Menabrea e il governo italiano sono assolutamente convinti della necessità di deportare lontano dalla terra madre i criminali del Sud. Il senatore Giovanni Visconti Venosta, più volte ministro degli Esteri, incontrando il ministro d’Inghilterra sir Bartle Frere, si spingerà a dirgli: «Presso le nostre impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte».
È l’idea di abbandonare la famiglia, il Paese natale, il deterrente che il governo considera la carta giusta per sconfiggere la lotta contadina. Tanto più che in quegli anni sta nascendo il mito di alcune figure come Carmine Crocco (detto Donatelli) brigante che riesce a riunire intorno a sé una banda composta di almeno 2500 uomini e che viene visto come un eroe dalla popolazione locale e lo stratega imprendibile Michele Caruso di Torremaggiore.Campi di concentramento – Le istanze del governo italiano, però, cadono nel vuoto. Il 3 gennaio 1872 il governo inglese fa sapere di non vedere di buon occhio la creazione di un enorme centro penitenziario per i meridionali italiani. Il 20 dicembre di quell’anno anche l’Olanda si defila: concentrare criminali italiani in un luogo circoscritto viene visto come un problema per la sicurezza interna. Gli ultimi tentativi risalgono al 1873. Il lombardo Carlo Cadorna, Ministro a Londra, prende contatto con il conte Granville, Ministro degli Esteri inglese, ancora per il Borneo. E ancora una volta, da Londra, arriva un rifiuto. Nel frattempo, le carceri dell’Italia Unita traboccavano di meridionali e i briganti continuavano a combattere. L’11 settembre 1872, il “Times” pubblicò una lettera giunta da Napoli che metteva in luce la recrudescenza del brigantaggio in Italia. Il “Times” ci aggiunse un articolo di fondo in cui non si risparmiavano sferzate ai Piemontesi per l’incapacità di «eradicare completamente una così grave piaga».
Oltre il patibolo – Convinto che la paura della deportazione in terre lontane avrebbe spaventato i meridionali più di qualunque tortura e perfino della morte, il Ministro degli Esteri, Visconti Venosta, decise di mettere alle strette gli inglesi. Il 19 dicembre 1872, a Roma, incontrò il ministro d’Inghilterra Sir Bartle Frere e gli parlò chiaro. Il suo discorso è ancora agli atti, negli Archivi della Farnesina. Disse: «Se ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un’implacabile frequenza, se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l’opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero, i giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere in ogni caso le circostanze attenuanti. Bisogna dunque pensare – disse il Ministro della neonata Italia – ad aggiungere alla pena di morte un’altra pena, quella della deportazione, tanto più che presso le nostre impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti all’idea di andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno col più grande stoicismo incontro al patibolo». Sir Bartle Frere prese tempo ma i piemontesi non si arresero. È del 3 gennaio 1873 un documento confidenziale in cui Cadorna ragguaglia Visconti Venosta sul colloquio avuto col conte Granville relativamente alla «cessione di una parte della Costa Nord Est dell’isola di Borneo». Il rappresentante del Governo italiano disse al Ministro degli Esteri inglese che i briganti «avvezzi a mettere la loro vita in pericolo, resi più feroci dalla stessa lor vita, salgono spesso il patibolo stoicamente, cinicamente (esempio tristissimo per le popolazioni!). Invece la fantasia fervida, immaginosa di quelle popolazioni rende ad essi ed alle loro famiglie terribile la pena della deportazione. In Italia, e massime nel Mezzodì, ove è grande l’attaccamento alla terra, ed al proprio sangue, il pensiero di non vedere più mai il sole natale, la moglie, i figli, di passare, e finire la vita in lontano ignoto paese, lontani da tutto, e da tutti, è pensiero che atterrisce». Granville però fu irremovibile: l’Inghilterra non avrebbe aiutato l’Italia a deportare i Meridionali.
Sepolti vivi – Ma quanti erano i detenuti del Sud che marcivano nelle galere italiane? Secondo la rivista «Due Sicilie» (diretta da Antonio Pagano), un’indicazione si trova in una lettera del savoiardo Menabrea, al Ministro della Marina, il nizzardo Augusto Riboty. Menabrea sostiene che sarebbe stato «utile e urgente» trovare «una località dove stabilire una colonia penitenziaria per le molte migliaia di condannati» che popolavano gli stabilimenti carcerari. A proposito della Marina Militare, la Forza armata si prestò ad esplorare una serie di luoghi adatti alla deportazione dei meridionali. Il Borneo e le isole adiacenti, innanzitutto, ma anche – secondo documenti pubblicati da «Due Sicilie» – «l’est dell’Australia». L’anarchico Giovanni Passannante che la sera del 17 novembre 1878 attenta con un temperino alla vita di Umberto I di Savoia, rimedia decenni di segregazione e torture fino a quando muore nel 1910 all’interno del manicomio di Montelupo Fiorentino. Il suo cranio ed il cervello sono stati esposti fino a qualche anno fa in un museo criminologico, ma ora riposano a Salvia di Lucania. I libri di storia tricolore dopo un secolo e mezzo ancora nascondono la verità. Chissà perché? Altro che “Unità d’Italia”: è in atto ancora la morte civile. Infatti, solo negli ultimi dieci anni, ben 700 mila giovani laureati sono stati costretti ad abbandonare il Sud. E anche se non vige più la pena di morte, va in scena la morte per pena.

Blog. Ninconanco per STOPEURO

segnalato da celestino filomena

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STORIE DI DONNE DIVERSE ……………le brigantesse ottocentesche del meridione d’Italia

Posted by on Mar 30, 2019

STORIE DI DONNE DIVERSE  ……………le brigantesse ottocentesche del meridione d’Italia

Nel febbraio del 1861, con la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, il Regno delle Due Sicilie cessa, di fatto, di esistere. Francesco II, ultimo Re di Napoli, ripara a Roma, ospite dello Stato Pontificio.

La precarietà dell’esilio, la solidarietà di numerose dinastie europee e le notizie – spesso ingigantite – delle difficoltà che il nuovo stato italiano incontra per radicarsi nel territorio, lo spingono a coltivare la speranza di un sollecito ritorno sul trono.

Dovunque, nei territori dell’ex regno – a Napoli come nei centri minori – sorgono comitati segreti filoborbonici, con lo scopo dichiarato di sollevare le popolazioni contro i Piemontesi. In tutto il Mezzogiorno si riaccendono improvvisamente i fuochi della ribellione contadina: fuochi che – a ben dire – hanno sempre infiammato il Meridione d’Italia; fuochi ora alimentati da uno sconquasso politico e sociale insostenibile.

Il possesso e l’uso della terra hanno da sempre costituito un fattore scatenante di rivolte. Ma né le leggi eversive né l’esproprio dei beni ecclesiastici hanno fatto conseguire la più antica aspirazione delle classi rurali, la proprietà della terra. Ed è terra ostile quella che i contadini lavorano per conto di altri, aristocratici e latifondisti. Spesso sottratta – zolla dopo zolla – ai boschi, alle macchie ed alle pietraie montane. In cambio i contadini ricevono un salario che consente appena di sopravvivere..

Il mutamento di governo ha ingenerato speranze che ben presto si rivelano infondate. La terra cambia proprietario ma i contadini ne sono sempre fuori, messi nell’impossibilità pratica di acquistarla o riscattarla con i sofismi di una legge fatta da un parlamento di “galantuomini” per i “galantuomini”. Il destino dei contadini appare segnato: rassegnarsi o ribellarsi.

L’esercito borbonico, che per molti giovani rappresentava l’unico sbocco occupazionale, è stato disciolto. Funzionari ex borbonici senza scrupoli, passati nella burocrazia del Regno d’Italia, hanno scientemente occultato il richiamo alle armi nel nuovo esercito italiano per favorire il disordine, così che una moltitudine di giovani si è ritrovata bollata con il marchio della diserzione, senza nemmeno venirne a conoscenza. Contadini senza terra i e soldati senza esercito null’altro possono fare che darsi alla macchia.

Nascono e proliferano, ingrossate anche da gruppi di evasi dai bagni penali borbonici, le bande dei briganti che sfruttano la conoscenza dei luoghi, l’ardimento e la sete di rivendicazione sociale per dare scacco all’esercito piemontese, un esercito straniero, che parla una lingua straniera, che applica leggi straniere, che obbedisce ad un re straniero e che dunque è un esercito di occupazione. La violenza esplode allora in tutta la sua virulenza: l’occasione è propizia anche per soddisfare la sete di vendetta troppo a lungo repressa nei confronti dei possidenti, dei “galantuomini” e del clero.

Nelle Calabrie, nelle Puglie e, soprattutto, in Basilicata sono messi a fuoco e depredati interi paesi, massacrate le personalità più in vista e più odiate, sbaragliate le truppe piemontesi.

L’esercito è impotente, percorre a casaccio le contrade più impervie, cade in imboscate, vede i suoi uomini falciati da un nemico invisibile, reagisce con violenza alla violenza in una spirale infinita di sangue.

Il fenomeno del brigantaggio approda nel Parlamento che, lungi dal preoccuparsi di tentare – con una saggia politica di riforme sociali – di rimuoverne le cause, sceglie la via della repressione, adottando una legislazione speciale, la legge Pica, che instaura il terrore nei territori occupati, la fucilazione sul campo, lo stupro delle donne dei ribelli.
In questo contesto matura il dramma delle “brigantesse”, che è dramma della rottura dell’equilibrio familiare, dramma di madri senza più figli, di ragazze orfane dei genitori, di vedove: è dramma di donne disperate che, ribaltando un ruolo stereotipo di rassegnazione e sudditanza, si dimostrano capaci di affiancare con coraggio i propri uomini e partecipare attivamente alla rivolta contadina.

E’ difficile attribuire una data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima significativa figura femminile di età moderna può essere individuata in Francesca La Gamba, nata a Palmi (RC) nel 1768 e attiva nel decennio di occupazione francese (1806-1816).

Francesca, filandiera di professione, madre di tre figli, divenne capobanda, spinta da un’incontenibile sete di vendetta contro i francesi che l’avevano colpita negli affetti più cari. Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva avuto due figli, convolò in seconde nozze. Avvenente d’aspetto ed esuberante nel carattere, attirò le mire di un ufficiale francese che, invaghitosene, tentò – forte della sua posizione sociale – di sedurla.

Respinto dalla fiera Francesca il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l’esercito francese di occupazione ed il mattino successivo fece arrestare i figli della donna, accusandoli di essere gli autori della bravata. Alle suppliche di Francesca, l’ufficiale fu irremovibile: i giovani subirono un processo sommario e furono fucilati.
Francesca, pazza di dolore, si unì ad una banda di briganti che operava nella zona, dismise gli abiti femminili ed indossò quelli dei briganti.

In breve fornì prove di ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa, seminando ovunque il terrore. I francesi si accanirono nella caccia della donna, fino a quando un loro drappello cadde in un’imboscata tesa da Francesca. Tra i soldati fatti prigionieri la sorte volle che ci fosse proprio l’ufficiale suo nemico. Con una coltellata Francesca gli strappò il cuore e lo divorò ancora palpitante.

Nell’orrore di questa vicenda, pure caricata di colore dal mito, possono leggersi le ragioni che hanno spesso indotto tranquille popolane meridionali a trasformarsi in Erinni vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro disprezzo per gli affetti feriti, l’irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli conquistati.

Crollato il mondo familiare intorno al quale si è costruita a fatica una pur misera esistenza, la vendetta femminile si dimostra ancor più feroce di quella maschile. Si tratta di fenomeni tuttavia limitati che fanno da contraltare a tanti episodi di rassegnazione e di pianto: costituiscono un’eccezione, insomma, non già la regola.
Appare dunque azzardato il tentativo di attribuire autonomia assoluta al brigantaggio femminile preunitario.
Forse sarebbe più corretto parlare di una “questione dentro la questione”.

E questo non sminuisce il ruolo delle donne nella rivolta contadina. Anzi, lo amplia e agevola la comprensione dell’intera questione delle classi subalterne meridionali.
E’ comprovata invece, nelle vicende rivoluzionarie della seconda metà dell’ottocento la presenza di un considerevole numero di donne nell’organizzazione brigantesca.

Chi può, infatti, legittimamente sostenere che in una banda di briganti, numerosa e perfettamente organizzata (come tante nel periodo che trattiamo), si potesse fare a meno della presenza delle donne per motivi logistici, di collegamento, di approvvigionamento e, perché no, anche per motivi affettivi?
Occorre qui introdurre ed operare – semmai – un’altra distinzione che dall’ottocento ad oggi ha diviso e divide gli studiosi: la distinzione tra “la donna del brigante” e “la brigantessa”.

Numerosi sono gli esempi di ” donne del brigante”, più rari – ma non meno significativi – quelli di “brigantesse”.
Gli uni e gli altri concorrono però in eguale misura a definire il ruolo della donna nelle classi rurali della seconda metà dell’ottocento meridionale italiano e contribuiscono certamente all’affermazione del posto che la donna occupa nella odierna società italiana.

Valentino Romano

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