Posted by altaterradilavoro on Ago 5, 2019
1. Premessa
Fra i numerosi saccheggi effettuati
dalle truppe francesi all’isola d’Elba, uno dei più ingiustificati ed efferati
fu quello perpetrato nella cittadina di Capoliveri, nella parte meridionale
orientale dell’isola (1).
Le radici cristiane dell’isola
d’Elba risalgono all’apostolo della sua “prima evangelizzazione” san
Cerbone, vescovo di Populonia (Grosseto) del VI secolo (2); la
chiesa di San Michele di Capoliveri è citata in scritti dell’inizio del XIII
secolo; che poi il cristianesimo vi avesse attecchito in modo fecondo è
dimostrato, fra gli altri, da questo episodio accaduto nel 1779, anno in cui si
verificò una grande siccità: “Piove pochissimo nell’autunno; passa
tutto l’inverno e comincia la primavera senz’acqua, talché i pozzi, le fonti e
perfino le polle si seccano. Il popolo di Capoliveri implora la Divina
assistenza. Sono ordinate processioni a S. Filippo Neri e a San Sebastiano. È
esposto S. Vincenzo Ferreri. E sebbene nel primo giorno del triduo che fu il 27
marzo cadesse un poco di pioggia, pure non fu sufficiente. Il dì 5 d’aprile si
portò processionalmente detta immagine e il dì 11 il simulacro di Cristo morto
da preti scalzi, ma invano. Il dì 12 il popolo va processionalmente al
Santuario della Vergine di Lacona, in cui entra, dietro alla confraternita, il
clero scalzo, ma invano. Il dì 17, veduta il popolo l’inclemenza del cielo e
accortosi che Dio era sordo alle sue preghiere, porta con grande solennità il
quadro della Vergine delle Grazie in paese. Bandita una processione popolare, i
fanciulli precedono gli uomini senza cappa, questi le donne, la confraternita
del Corpus Domini e questa il clero. Giunti al Santuario, entrano scalzi
sacerdoti e chierici soltanto: l’arciprete col canapo al collo e una corona di
spine in testa, con pianto universale. Tengono esposta per undici giorni la
sacra immagine, guardata notte e giorno dalla milizia […] muovono a
visitare la Vergine le Confraternite della Piazza e della Marina di Longone e
di Rio: un popolo innumerevole, moltissimi vestiti alla foggia di pellegrini
con cappa e bordone e altri non pochi scalzi con corone di spine in capo e una
corda al collo” (3).
D’altro canto, pochi anni prima, nel
1735, si trovava a Capoliveri san Paolo della Croce (1694-1775), fondatore dei
padri passionisti, “[…] a dare le missioni” (4).
Il santo visitò più volte l’Isola d’Elba, dove voleva stabilire la sede
dell’ordine da lui fondato, ma “[…] nel 1730 si vide respinta
una richiesta intesa ad ottenere il santuario della Madonna delle Grazie ed
allo stesso modo, successivamente, gli fu negato di ritirarsi con i suoi
confratelli nel santuario della Madonna di Monserrato di Porto Longone”
(5).
2. Il saccheggio di Capoliveri
L’episodio narrato di seguito
conferma che la storia è sempre scritta dai vincitori, e che, spesso, non è
rispettato nella ricostruzione il criterio di verità circa gli accadimenti. Nel
nostro caso, quanto è stato trasferito dalla “storiografia
ufficiale”, è che il saccheggio di Capoliveri abbia costituito una giusta
rappresaglia, a seguito di gravi provocazioni ed attacchi operati dagli
abitanti contro i francesi (6). A questo proposito, si deve tenere
presente, che, mentre a Portoferraio regnava il Granduca di Toscana Ferdinando
III di Lorena (1769-1824), e Porto Longone, l’attuale Porto Azzurro, era sotto
il dominio della casa di Borbone, l’isola nella sua restante parte — che
comprendeva Capoliveri e le zone limitrofe — apparteneva ai nobili Appiani,
signori di Piombino — sulla costa toscana di fronte all’isola —, che erano
alleati della Francia. La cittadina, quindi, non avrebbe dovuto essere ostile
ai francesi.
Ancora, occorre ricordare che
Giuseppe Ninci, giacobino di Portoferraio, autore di una nota Storia
dell’Elba (7), fu parte attiva nel tentativo di imporre la
Repubblica nell’isola, tanto che, quando la guarnigione granducale di
Portoferraio tentò di opporsi all’incorporazione della piazzaforte, l’ultima
rimasta libera, alla Repubblica Francese, nel marzo 1799, fu lo stesso Ninci a
essere protagonista degli eventi. Nella sua storia egli infatti racconta che “[…]
fortunatamente lo scrittore della presente opera, trovandosi a diporto sul
molo, sentì, con raccapriccio ed orrore le minacce di quegli empi [i
difensori della piazza].Egli volò ad avvertire i capi guardia [degli
assedianti] dei posti indicati, affinché si ponessero a difesa” (8).
Autore di parte, dunque, che l’altro storico dell’Elba, Vincenzo Mellini Ponçe
de Leon (9) conferma abbia partecipato alle trattative fra i
rivoluzionari e la piazzaforte, soprattutto al momento della consegna della
lettera “[…] con cui si ordinava alla municipalità di
Capoliveri di mettersi sotto il governo francese e somministrare alle truppe di
quella Repubblica tutti i soccorsi possibili” (10). Il
cronista elbano riferisce che il 4 aprile 1799 alla consegna della lettera, a
Capoliveri, Ninci fosse presente: “[…] vuolsi che fra detti
emissari vi fosse il nostro Giuseppe Ninci” (11).
Ma la posizione di attesa dei
capoliveresi ha termine proprio in questo momento. Si ignora “[…]
ciò che riposero gli anziani, sappiamo solamente che gli emissari mandati
allo scopo di democratizzare i capoliveresi, trovarono in essi una ripugnanza
invincibile alle nuove idee; e, corse offese da una parte e dall’altra,
andarono debitori alla velocità delle gambe, della salvezza delle loro
spalle” (12).
3. La ricostruzione
“ufficiale” di Giuseppe Ninci
Lo storico filo-giacobino racconta
che, quando scoppiò il conflitto fra Regno di Napoli e Francia repubblicana nel
1799, nel corso dell’assedio stretto dai francesi alla piazza napoletana di
Porto Longone, nell’aprile dello stesso anno, i capoliveresi “[…]
passati ai campi francesi, invitarono gli assedianti di portarsi a
Capoliveri per approvisionarsi, e che, per contrario, massacrarono. Il
tradimento di questi, però, non andiede impunito; imperciocchè il generale
Miolis [sic], passato da Livorno a Portoferraio e che comandava
le forze francesi nell’Elba, spedì il giorno appresso [9 aprile] a
Capoliveri un mezzo battaglione di fanteria, con l’ordine di saccheggiare
quella terra, e passare a fil di spada chi si fosse opposto con le armi in
mano” (13). Nel mese seguente, perdurando l’assedio di
Porto Longone, la situazione ebbe un’evoluzione, nel senso che i francesi
tentarono di pacificare gl’“insurgenti” (14), anche
perché, dalle altre parti dell’isola, si erano manifestati contemporaneamente
altri focolai di contro-rivoluzione, che rischiavano di mettere in difficoltà i
giacobini.
In un primo tempo, i capoliveresi,
rispetto agli altri moti reattivi, si mantennero neutrali, ma, secondo Giuseppe
Ninci, “[…] non fu però, che i capoliveresi mancassero di
maleanimo contro i francesi, ma solo non si mossero per non troppo arrischiare
alla scoperta, imperocché, armatisi i medesimi, e ben postati alle finestre
delle loro abitazioni, riceverono a colpi di fucile un picchetto francese, che
ai loro nuovi inviti si era portato ad approvvisionarsi a Capoliveri. Questo
secondo, non men del primo marcato tradimento per parte dei capoliveresi,
meritossi la giusta vendetta delle truppe francesi. Queste la fecero di fatti,
imperciocché la mattina del dì seguente, portatesi in numero sotto Capoliveri,
e circondatolo in un momento, vi entrarono a baionetta in canna, ponendo a
morte tutti quei che si vollero opporre, e dando un sacco generale a quella
terra non senza attaccare il fuoco” (15).
4. La verità storica ristabilita da
Vincenzo Mellini Ponçe de Leon
Il maggiore storico elbano
ricostruisce la vicenda in altri termini, partendo dal fatto che Capoliveri
nell’aprile del 1799 fu occupata da un presidio di circa 60 francesi, sloggiato
successivamente, nel maggio, dai soldati napoletani di Porto Longone. Questi
uomini, fuggiti da Capoliveri, si unirono alla colonna francese inviata contro
Capoliveri con l’ordine del comandante francese di mettere Capoliveri a ferro e
a fuoco e di ritirarsi successivamente a Portoferraio: “[…] quell’orda
di feroci predoni più che soldati, giunse silenziosa nel cuore della notte a
quel castello; lo investì improvvisamente da tutti i lati, ne sorprese gli
abitanti che dormivano quieti e tranquilli nei loro letti e tutt’altro
pensavano che dar piglio alle loro armi che non avevano, ed a scontare con il
sangue le strette di mano scambiate con loro compatrioti a servizio di Napoli,
e vi cominciò un sacco così tremendo, da far dimenticare l’altro del 6 di
aprile che durò dal giovedì notte a tutto il lunedì veniente […].
Sacerdoti, vecchi, donne, e fanciulli, massacrati, donne violate nelle
pubbliche vie e persino in chiesa, bambine stuprate, chiese profanate, oggetti
consacrati al culto, sacrilegalmente rotti, rubati; immagini sacre guaste e
deturpate; case completamente svaligiate; mobili preziosi a calciate di fucili
infranti; quadri di famiglia sciabolati; botti di vino, a spillarle a colpi di
fucile, forate, lasciandone scorrere il liquido per le cantine, per le vie;
orgia dovunque; e il paese ridotto prima ad un pianto, poscia ad un deserto.
Non mancò che il fuoco a compiere l’opera nefanda ed a distruggerlo” (16).
Fra gli episodi più raccapriccianti
c’è la morte, il 23 maggio 1799, di don Antonio Becci, anziano prete di antica
famiglia capoliverese, da tutti conosciuto per le sue virtù, assassinato a
colpi di arma da fuoco e di baionetta, per aver alzato la voce contro i
violatori delle donne e delle bambine in chiesa e nelle pubbliche vie (17).
Il limite tragico e grottesco di questa come di altre vicende è delineato da un
episodio che ha inciso sulla memoria storica di Capoliveri e dell’Isola d’Elba
in modo irrimediabile: la distruzione dell’archivio dell’antichissimo
municipio. Il cancelliere della cittadina, certo Luigi Bracci, nella notte tra
il 23 e il 24 maggio 1799, mentre i francesi imperversavano, temendo la loro
ferocia, “[…] tolse i libri e le filze di maggior interesse
dagli scaffali, e, favorito dalla vicinanza del Palazzo Pubblico alla Chiesa
Parrocchiale, li portò a nascondere alla sepoltura degli uomini. Vi si calò
dentro e poscia, sui libri e su se stesso calò la lapide che la chiudeva”
(18). Poco dopo, la Chiesa fu invasa da donne, vecchi, e fanciulli
che cercavano scampo pensando che la sacralità di quel luogo avrebbe fermato i
francesi, che invece li inseguirono anche lì per depredarli. A questo punto il
Bracci, non si sa per il fetore della sepoltura o per la paura, o per la
curiosità delle grida udite, sollevò un poco con la schiena la lapide. A questo
punto, i soldati francesi, prima meravigliati e poi incuriositi, la
scoperchiarono e tirarono fuori per il colletto il vecchietto ben vestito,
scambiandolo per un ricco che aveva nascosto i propri tesori nel sepolcreto. E,
non trovando invece niente altro che carte e ossa, furibondi, stracciarono e
bruciarono tutte le carte e i libri ivi giacenti, prendendo a colpi di calcio
di fucile il cancelliere e lasciandolo semivivo sul pavimento della chiesa.
L’archivio di Capoliveri era stato risparmiato da tante guerre e saccheggi nei
secoli passati, perfino dai saraceni e dai turchi.
5. Conclusioni
Amore di verità impone di
stigmatizzare le menzogne che vengano lapidariamente consacrate dai canali
della storiografia ufficiale, anche se si tratta di piccoli episodi della vita
quotidiana, di cui pure la storia si compone. Grazie a Dio, spesso la
grossolanità delle bugie nel racconto storico è tale da trasparire e da fare
scoprire di suo l’imprecisione del relatore. Anche in questo caso, lo storico
filo-giacobino, e giacobino egli stesso, Ninci cade in un insuperabile
imbroglio, quando omette di citare la presenza dei francesi in presidio a
Capoliveri dal 6 aprile, e omette altresì di menzionare la data del saccheggio
del 22 maggio, giorno del Corpus Domini, che lasciò gli abitanti senza alcuna
difesa, prostrati dal dolore e dalla falcidie di anime. Semplicemente afferma
che l’inazione dei capoliveresi fu data dalla loro ignavia, pur sapendo gli
stessi, che i napoletani necessitavano di appoggio dalle popolazioni
territorialmente vicine. Un’altra menzogna del racconto di Ninci sta nella
descrizione del saccheggio e della strage, che secondo lui avvenne in pieno
giorno, così che la popolazione avrebbe potuto respingere l’attacco, mentre in
realtà l’assalto fu proditoriamente effettuato nella notte del 22 maggio,
quando i capoliveresi giacevano nel sonno. Da ultimo, il fantomatico invito
rivolto dai capoliveresi ai francesi — appena scacciati o ancora di presidio! —
di andare ad approvvigionarsi presso gli assediati, per poi aggredirli con
fucili di cui già non disponevano più a causa del saccheggio subito. Non è chi
non veda una profonda ingenuità, assai poco probabile, da parte dei francesi
che sarebbero di certo caduti in un agguato, dal momento che il contrasto
infuriava in quei giorni tra l’una e l’altra fazione. Vero è, purtroppo, che i
contemporanei dei fatti, come in tutti questi frangenti accade, si distinguevano
in due categorie: coloro che, come i capoliveresi, per essersi mantenuti fedeli
ai propri principi, vennero passati a fil di spada fra atroci sevizie, e chi,
come certi storici svelano con il proprio oscuro lavoro di ricostruzione, si fa
corifeo del dominio straniero, volendo la sottomissione o, in caso contrario,
lo sterminio di chi la pensava diversamente, appoggiandosi alle baionette
straniere.
Benedetto Tusa
NOTE
(1) Situata sopra un
monte spianato in vetta ed elevata a m. 167 sul livello del mare, è posta nella
parte sud ovest dell’Isola. Fondata, si dice, da liberti o da adoratori
“libertini” del dio Bacco, “Caput Liberum” era
abitata da una popolazione con marcati caratteri di autonomia, la cui
istituzione più eminente nei secoli è stata il “consiglio degli
anziani”, organismo di governo con forti poteri legislativi e
deliberativi.
(2) L’esistenza storica
di San Cerbone non è del tutto certa; cfr. Piero Bargellini, Mille Santi al
giorno, Vallecchi-Massimo, Milano 1980, p. 567.
(3) Cfr. Vincenzo Mellini
Ponçe de Leon, Delle memorie storiche dell’Isola d’Elba, Tipografia
Raffaele Giusti, Livorno 1890, vol. V, rist. a cura di Gianfranco Vanagolli, Le
Opere e i Giorni, Roma 1996, pp. 92-93.
(4) Cfr. ibid., p.
77.
(5) Cfr. ibidem, ex
archivio Mellini Ponçe de Leon, cit. in Enrico Lombardi, Santuario della
Madonna del Monte di Marciana nell’Isola d’Elba, a cura dell’Opera del
Santuario, Queriniana, Brescia 1964, p. 77, nota 125; cfr. anche Idem, Vita
Eremitica nell’Isola d’Elba, Queriniana, Brescia 1957, pp. 51-52, e A.
Ripabelli, S. Paolo della Croce all’Isola d’Elba, in Corriere Elbano,
10-9-1975 e 20-9-1975.
(6) Per il quadro
generale della situazione elbana nel 1799, cfr. 1799: l’Insurrezione
popolare contro-rivoluzionaria dell’Isola d’Elba, in ISIN, Nota
Informativa, anno II, n. 5, gennaio-aprile 1997, pp. 3-10.
(7) Cfr. Giuseppe Ninci, Storia
dell’Isola d’Elba, Portoferraio (Livorno) 1815, rist. anast., Forni,
Bologna 1968.
(8) Ibid., pp.
215-216.
(9) Maggiore storico
dell’Isola, nacque a Marina di Rio, nel 1819; il padre, Giacomo, era stato un
ufficiale al seguito di Napoleone. Laureato in giurisprudenza e in scienze
naturali, rinunciò alla carriera universitaria per vivere sulla sua isola e
studiarne la storia e le tradizioni. Fu anche sindaco del suo paese natale e
direttore delle miniere di ferro dal 1871 al 1891, senza però smettere di
esplorare archivi e biblioteche. La sua opera maggiore sul periodo del triennio
giacobino (1796-1799) è il quinto libro — intitolato I francesi all’Elba
—, della sua Storia (Giusti, Livorno 1890). Morì a Livorno nel 1897. Per
una più completa notizia bio-bibliografica, cfr. V. Mellini Ponçe de Leon, op.
cit., pp. VIII-IX, da cui sono state tratte anche le seguenti notizie.
Cfr. anche Alessandro Canestrelli, Elba, un’isola nella storia,
Litografia Felici, Ospitaletto di Pisa (Pisa) 1998, pp. 20-23.
(10) V. Mellini Ponçe de
Leon, op. cit., p. 33.
(11) Ibid., p. 38,
nota 32.
(12) Ibid., p. 33.
(13) G. Ninci, op.
cit., p. 217.
(14) Ibid., p.
219.
(15) Ibid., p.
220.
(16) V. Mellini Ponçe de
Leon, op. cit., pp. 171-172.
(17) Ibid., p.
172.
(18) Ibid., p.
173.
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