Nella Fortezza di Civitella del Tronto, sullo spiazzo ove era anticamente installata la batteria detta “Scornata,” vi è ora una campana che rintocca due volte al giorno, spandendo il suo suono in tutta la Val Vibrata.
DAL CAMPO DI PRIGIONIA DI FENESTRELLE I PRIMI NOMI DEI SOLDATI NAPOLETANI MORTI DURANTE LA FORZATA DETENZIONE tratto da OpenOfficeWriter
Il nostro primo studio sui campi di prigionia
per soldati Napolitani, apparso sulla rivista L’Alfiere, diede origine ad un piú
ampio saggio di Fulvio Izzo sull’argomento (I Lager dei Savoia).
Le due ricerche, integrandosi, sono state alla
base di una nuova messa a fuoco dell’ultima storia militare del Sud
indipendente.
Indro Montanelli negò l’esistenza dei campi di
concentramento al Nord per soldati meridionali durante le fasi costitutive
dell’unità d’Italia; ma, la sua, fu una difesa aprioristica e settaria del
principio risorgimentale perché se avesse avuto voglia di documentarsi, ed i
nostri studi offrivano la bibliografia inoppugnabile, avrebbe potuto consultare
i Carteggi di Cavour, base di partenza per conoscere il problema. Bastava
limitarsi al solo volume dedicato all’indice dei precedenti 15 volumi, per
trovare a pag. 188 il titolo “prigionieri di guerra Napoletani” con l’indicazione
di ben 19 dispacci riportati nel terzo volume “La liberazione del
Mezzogiorno” dove si parla diffusamente dei soldati del Sud e del loro
triste destino.
Piú autorevoli studiosi della materia hanno
invece accolte le nostre ricerche con maggior serietà ed il prof. Roberto
Martucci, storico dell’Università di Macerata, ha scritto con coraggio:
“il silenzio della piú consolidata riflessione storiografica
sull’argomento appena evocato, consentirebbe di ipotizzare l’inesistenza o la
non rilevanza del fenomeno dei prigionieri nelle guerre risorgimentali, anche a
causa della stessa brevità degli eventi bellici di quella fase storica,
generalmente limitati a poche settimane di conflitto”.
Impressione che risulta rafforzata dalla
lettura di testi coevi quali quelli del borbonico Giacinto De Sivo, che dedica
poche righe alla questione, o del liberale Nicola Nisco che in proposito tace.
Meraviglia di piú il silenzio conservato dal giornalista e politico liberale
Raffaele De Cesare, che ha scritto a pochi decenni dagli avvenimenti, sulla
base di testimonianze dirette integrate da un’interessante bibliografia, senza
tuttavia prestare la minima attenzione al problema.
Il fatto poi che neppure il compiuto affresco
legittimista di Sir Harold Acton, tracciato in anni a noi piú vicini, si
riferisca al tema crepuscolare della prigionia, sembrerebbe autorizzare una
presa di distanza dalle poche righe con cui padre Buttà tentò a suo tempo di
sfidare l’oblio dei posteri”.
La questione assume però contorni del tutto
differenti se, abbandonato l’alveo della ricostruzione storiografica, proviamo
ad interrogare quell’inesplorato e vasto microcosmo costituito dall’imponente
Carteggio del conte di Cavour.
Occultati tra migliaia di dispacci troviamo,
infatti, una ventina di documenti che evocano a grandi linee una questione non
marginale, suggerendo approfondimenti archivistici tali da riempire una pagina
restata finora bianca nella storia militare dell’unificazione italiana.
Essi aprono anche interessanti prospettive di
ricerca riguardo alle relazioni interpersonali tra settentrionali e meridionali
e all’uso di alcuni stereotipi divenuti di uso frequente nei decenni
postunitari, per qualificare gli appartenenti ai ceti piú umili del cessato
Regno delle Due Sicilie.
Sottoscriviamo le parole dello storico con una
riserva: la conoscenza del problema relativo alla prigionia dei soldati
Napolitani colmerà certamente “una pagina restata finora bianca nella
storia militare dell’unificazione italiana” ma andrà a formare, principalmente,
il capitolo ricostruito a peritura vergogna di una classe politica e di una
dinastia che unificarono in quel modo, “col ferro e col fuoco”, Stati
di tradizione italiana di gran lunga superiore a quella del Piemonte.
Tornando ai nostri studi dobbiamo registrare un
passo in avanti della ricerca, divenuta ormai un tema caro a tanti studiosi che
si sentono eredi, oltre che discendenti, del cessato Regno delle Due Sicilie.
Il passo in avanti riguarda la situazione del campo di concentramento di
Fenestrelle.
Questo luogo, situato a quasi duemila metri di
altezza, sulle montagne piemontesi, divenne la base di raggruppamento dei
soldati borbonici piú ostinati: quelli, per intenderci, che non vollero finire
il servizio militare obbligatorio nell’esercito sabaudo, quelli che si
dichiararono apertamente fedeli al Re Francesco II, quelli che giurarono aperta
resistenza ai piemontesi.
Il luogo non era nuovo a situazioni del genere
perché già Napoleone se ne era servito per detenervi i prigionieri politici ed
un illustre Napoletano, don Vincenzo Baccher, il padre degli eroici fratelli
realisti fucilati dalla repubblica partenopea il 13 giugno del 1799, vi aveva
passato 9 anni, dal 1806 al 1815, tornando a Napoli alla venerabile età di 82
anni.
A Fenestrelle, quindi, giunsero i primi
“terroni” ed in questo luogo molti di essi cessarono di vivere. Il
numero di coloro che trovarono la morte non è certo perché le cronache locali
parlano di migliaia di soldati prigionieri morti ma non registrati. I loro
corpi venivano gettati, “per motivi igienici”, nella calce viva
collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva all’ingresso
del Forte. Il personale addetto alla fortezza conferma ancora oggi l’esistenza
della vasca.
Ma a Fenestrelle funzionava anche un ospedale
da campo dove furono ricoverati alcuni prigionieri. Coloro che morirono
nell’ospedale vennero annotati nel libro dei morti di Fenestrelle e la
Provvidenza ha permesso che alcune annate del libro parrocchiale dei morti si
sia potuto consultare, anche se molto velocemente.
Il dottor Antonio Pagano, accompagnato dal dott
Piergiorgio Tiscar, discendente del maggiore don Raffaele Tiscar de los Rios,
capitolato a Civitella del Tronto, recatosi il 22 maggio scorso a Fenestrelle
in sopralluogo per organizzare la commemorazione dei nostri prigionieri che si
terrà sabato 24 giugno, ha visionato il libro dei morti ed ha stilato
velocemente l’elenco che ora si pubblica.
I registri del 1860 e del 1861 sono scritti in
francese ed i nostri soldati vengono definiti “prigionieri di guerra
napoletani”.
I registri del 1862, del 1863, del 1864 e del
1865 sono scritti in italiano e definiscono i prigionieri morti “soldati
cacciatori franchi”.
Mancano all’appello i registri dal 1866 al 1870
perché prestati ad uno studioso di Torino. Avremmo modo, in futuro, di colmare
la lacuna e correggere eventuali errori di trascrizione
Elenchiamo ora i nomi dei nostri Caduti con
religiosa emozione al fine di restituire alla loro memoria, dopo 140 anni, gli
onori ed il rispetto che meritano per il sacrificio sopportato.
ANNO 1860
1. Garloschini Pietro, m. 1.10, di Montesacco (?)
2. Conte Francesco, m. 11.11, di Isernia, anni 24
3. Leonardo Valente, m. 23.11, di Carpinosa, anni 23
4. Palatucci Salvatore, m. 30.11, di Napoli, anni 26
5. Suchese (?) Francesco, m. 30.11, di Napoli
ANNO 1861
1. Scopettino Matteo, m. 24.8, di Chieti, anni 22
2. Miggo Salvatore, m. 7.10, di Galatina (Lecce) anni 24
ANNO 1862
1. Donofrio Carmine, m. 16.1, di Villamagna (Chieti) , anni
27
2. Caviglioli Marco, m. 29.1, di Cosciano (?)
3. Palmieri Biagio, m. 5.2, di Teano, anni 23
4. Visconti Domenico, m. 16.4, di Cosenza, anni 28
5. Mulinazzi Francesco, m. 20.7, di Benevento, anni 24
6. Gentile Rocco, m. 24.7, di Avellino, anni 25
7. Leo Vincenzo, m. 18.9, di Veroli (Frosinone), anni 26
8. Lombardi Nicola, m. 25.9, di Modigliano (?)
9. Vettori Antonio, m. 7.11, di Amantea, anni 26
ANNO 1863
1. Mazzacane Cristoforo, m. 18.2, di (?)
2. Pripicchio Raffaele, m. 21.3, di Paola, anni 23
3. Giampietro Giovanni, m. 9.5, di Moliterno, anni 28
4. Milotta Giuseppe, m. 23.5, di Sala, anni 24
5. Spadari Ruggero, m. 25.5, di Barletta, anni 24
6. Serbo Tommaso, m. 17.8, di Triolo – Gareffa (?), anni 26
7. Gaeta Giordano, m. 11.10, di Pellizzano (Salerno), anni
32
8. Gorace Domenico, m. 15.12, di Palma, anni 32
9. Grossetti Angelo, m. 23.12, di Mura (Vestone), anni 25
ANNO 1864
1. Masareca Giuseppe, m. 20.1, di Basilicata, anni 22
2. Morino Santo, m. 29.1, di Mussano (Lecce), anni 26
3. Pastorini Andrea, m. 16.2, di Maregno (?), anni 27
4. Montis Salvatore, m. 24.4, di Tramalza (?)
5. Palermo Giovanni, m. 12.5, di Atripalda, anni 32
6. Cirillo Salvatore, m. 17.5, di Boscotrecase (Napoli), anni
32
7. Pellegrini Massimiliano, m. 11.6, di Colorno (?), anni 26
8. Mossetti Antonio, m. 5.7, di Montalbano Jonico, anni 22
9. Di Giacomo Pasquale, m. 8.7, di Sessa Aurunca, anni
23
10. Giannetto Antonio, m. 19.7, di Zarca (?), anni 30
11. Davarone Francesco, m. 25.7, di Avellino, anni 26
12. Carpinone Cosimo, m. 4.11, di Fossaceca, anni 31
13. Bononato Carmelo, m. 17.11, di Belvedere, anni 27
14. Melloni Antonio, m. 20.11, di Sersini (?), anni 24
ANNO 1865
1. Laise Nunziato, m. 25.1, di Cetrara, anni 24
2. Barese Sebastiano, m. 30.1, di Montecuso, anni 26
3. Catania Angelo, m. 11.2, di Ischitella, anni 22
4. Pessina Luigi, m. 21.2, di Gragnano, anni 27
5. Mossuto Giuseppe, m. 1.4, di Moriale, anni 25
6. Guaimaro Mariano, m. 8.4, di Sala Consilina, anni 30
7. Torrese Andrea, m. 11.5, di Avenza, anni 21
8. Colacitti Salvatore, m. 15.5, Montepaone, anni 24
9. Santoro Giuseppe, m. 20.5, di Sattaraco (?), anni 27
10. Tarzia Pietro, m. 31.5, di Valle d’Olmo, anni 24
11. Palmese Tommaso, m. 6.9, di Saviano, anni 24
12. Ferri Marco, m. 11.10, di Venafro, anni 24
Elenco compilato a Fenestrelle
Il giovedí 25 maggio 2000, alle ore 12,30, da:
– Antonio Pagano
– Pier Giorgio Tiscar
Questi soldati del Sud finirono i loro giorni
in terra straniera ed ostile, certamente con il commosso ricordo e la
struggente nostalgia della Patria lontana.
Erano poco piú che ragazzi: il piú giovane
aveva 22 anni, il piú vecchio 32.
Se non fossero stati relegati a Fenestrelle
probabilmente sarebbero divenuti “briganti” e, forse, anche per
questo motivo, furono relegati a Fenestrelle, fortezza del liberale piemonte,
dove, entrando, su un muro è ancora visibile l’iscrizione: “OGNUNO VALE
NON IN QUANTO E’ MA IN QUANTO PRODUCE” . Motto antesignano del piú celebre
e sinistro slogan che si poteva leggere nei lager nazisti: “ARBEIT MACHT
FREI”.
Non deve destare meraviglia l’abbinamento
perché la guerra del risorgimento, come ha giustamente osservato di recente
Ulderico Nisticò, fu una guerra ideologica. E la guerra ideologica non può che
concludersi con lo sterminio del “nemico”.
Non sono andato al Parco della Grangia oggi, all’incontro per la posa della prima pietra di un’azione politica meridionale.
Lì si raccoglievano le idee, si faceva il punto circa il programma da stilare, sulle cose da fare per la salvezza del nostro Sud e, prima ancora, sulle “regole” da seguire.
Nel 1878 moriva a Roma Vittorio Emanuele II, il primo re
d’Italia, protagonista di tutte le guerre che portarono all’unità, ma assente e
lontano una volta raggiunto lo scopo di asservire la nazione al Piemonte. In
questi 18 anni non si poteva certo sperare di dare all’Italia un’impronta
unitaria, né in campo culturale né in quello sociale. Troppe erano le
differenze tra le varie regioni, evidenziate dallo stato guerriglia che aveva devastato per anni le regioni meridionali,
e dalla politica filo-settentrionale dello Stato sabaudo. Tali furono le
premesse che portarono ad uno sviluppo disarmonico che ancora oggi subiamo. Fu
questo il prezzo che l’intero Sud ha pagato all’unificazione. Un prezzo che
divenne ancora più alto a fronte dei provvedimenti depressivi e repressivi che
il governo piemontese adottò nei confronti dell’ex Regno di Sicilia.
Una della
conseguenze più pesanti per la neonata Nazione fu la continuità dinastica: per
la Sicilia fu – come ben descrive Tomasi di Lampedusa – un cambiare tutto per non cambiare nulla.
Se avesse prevalso l’idea repubblicana di Mazzini, egli sarebbe divenuto il
signor Tomasi, invece, con il subentrare della dinastia sabauda a quella
borbonica, egli rimaneva il principe di Lampedusa. Non solo: da infido barone quale era visto dai
Borbone, diveniva paladino della dinastia sabauda. Se la Sicilia da provincia
napoletana diveniva provincia piemontese, poco cambiava per il baronaggio e ciò
che cambiava, cambiava in meglio. Per la Sicilia invece, finiva una storia e ne
cominciava un’altra.
Per comodità di lettura possiamo dividere questa nuova
storia in due fasi, una che va dal 1860 al 1915, alla prima guerra mondiale, e
un’altra che arriva fino ai giorni nostri.
La prima fase a sua volta possiamo dividerla in cinque
periodi [1]
In questi anni la Sicilia partecipò alla guida
politica ed istituzionale del paese con due presidenti del Consiglio (Francesco
Crispi e Antonio Di Rudinì), 13 ministri e 184 deputati. Non era poco eppure la
Sicilia non fu mai tra le regioni egemoni. [2]
Tutto ebbe inizio il 2 dicembre 1860 con il biennio
luogotenenziale che avrebbe dovuto servire a traghettare il Sud dalla fase rivoluzionaria
a quella di ordinaria amministrazione. Fu caratterizzato da una dura
repressione politica e sociale del garibaldinismo[3], del brigantaggio e della renitenza alla leva. Repressione che,
allora come oggi, si servì di una campagna “pubblicitaria” denigratoria nei
confronti del popolo meridionale e siciliano presentando la diversa cultura
come inferiorità. Cavour e Vittorio Emanuele per mantenere la conquista appena
fatta non potevano fare concessioni. Se qualcuno intendeva opporsi al nuovo
ordine costituito, e non si riusciva a persuaderlo a desistere,
intervenivano i granatieri con la forza delle armi [4].
La repressione contro il garibaldinismo fu più profonda e
lacerante in Sicilia, mentre la repressione contro il borbonismo e il
brigantaggio interessò il meridione della penisola. Come scrive Renda “…le violenze poliziesche e militari nell’isola furono una sorta
di appendice della guerra al brigantaggio nella penisola. Il brigantaggio
meridionale ebbe le connotazioni di una vera e propria guerra civile. I Borbone
dall’esilio romano promossero contro il potere unitario regio quella resistenza
di massa che non avevano saputo opporre a Garibaldi.”[5]
In Sicilia
il brigantaggio non era supportato dai Borbone, ma derivava dallo sbando
sociale seguito alla rivoluzione, rinforzato dalla delinquenza che cominciava
ad organizzarsi in quella nuova forma che prenderà, a partire dal 1865, il nome
di mafia e dal rifiuto
della leva militare obbligatoria, tributo incomprensibile per un popolo che non
l’aveva mai subita. Nei confronti dei renitenti alla leva siciliani fu estesa alla Sicilia la famigerata legge
Pica. In virtù a quella legge interi paesi furono cinti d’assedio, incendiati,
privati dell’acqua potabile, intere famiglie arrestate e furono compiuti
inauditi atti di violenza senza tenere in alcun conto i diritti dei cittadini.
(cfr.Le Renitenti di Favarotta).
Sempre in questo primo periodo è da ricordare la
rivolta scoppiata a Palermo nel settembre del 1866, conseguenza della perduta
prospettiva politica. La sollevazione rimase però chiusa tra le mura cittadine
e non ricevette alcun aiuto, nemmeno da Mazzini. Fu violentemente repressa
dall’esercito regio e segnò la fine delle rivolte ottocentesche siciliane. (cfr.
1866 – La rivolta del “Sette e Mezzo”).
Altra importante vicenda di quegli anni fu lo
scioglimento delle corporazioni religiose (legge del 10 agosto 1862). Garibaldi
aveva già espulso la Compagnia di Gesù ma ora, dopo la restaurazione a seguito
della rivolta del Sette e Mezzo, lo Stato italiano interveniva in forza.
L’effetto fu devastante, perché allo scioglimento delle corporazioni religiose
e al confino coatto dei religiosi che avevano appoggiato la rivolta, si
accompagnò l’esproprio in massa di tutte le proprietà fondiarie ed edilizie
comprese le biblioteche e le opere d’arte. Se da un canto l’uso degli edifici
fu congruo in quanto adibiti a scuole, università, uffici o musei, altrettanto
non può dirsi per il patrimonio librario: migliaia di volumi furono ammassati
in sotterranei e depositi vari, causandone la dispersione e la distruzione.
Ovviamente nessuno si scandalizzò per tale “delitto”.
L’esproprio della proprietà fondiaria della Chiesa (Legge 794/1862),
la fine della manomorta
e la cancellazione degli ultimi residui di feudalesimo avrebbe potuto essere
indirizzata a risultati virtuosi, come la ripartizione delle terre tra i
contadini. Invece la soluzione che se ne diede, peggiorò le condizioni degli
agricoltori, togliendo loro ogni possibilità di riscatto. La priorità del
novello Stato era infatti quella di vendere le terre per “far cassa”, e di
fronteggiare i
movimenti di opposizione. Fu conferito al generale
Medici il comando unico dei poteri militari, amministrativi e di polizia in
modo da rassicurare i ceti borghesi e liberali. Lo Stato si interessò pertanto
solo dei problemi di sicurezza e di ordine pubblico, dimenticando le gravi
questioni sociale ed economica, che si inasprirono sempre più, specie dopo la
reintroduzione della tassa sul macinato (giugno 1868) e l’aumento delle imposte
su terreni, fabbricati e ricchezza mobile.
La situazione peggiorò ancora nel 1871 quando, finiti
i lavori di lottizzazione dei terreni ex-ecclesiastici, diretti dal siciliano
Simone Corleo sulla base della legge che prese il suo nome, le assegnazioni
finirono per riconcentrare le terre nelle mani dei pochi notabili che si
imposero nelle aste pubbliche. Contrariamente a quanto propugnato a parole fin
dal decreto del prodittatore Mordini, cioè di dare la terra ai contadini, la
legge Corleo non aveva alcun intento sociale o filo-contadino, ma era diretta a
rafforzare la borghesia agraria, ed a consolidare il consenso al regime
italiano. Ai contadini rimase solo il retaggio della legge Garibaldi [6] del 2 giugno e del citato decreto
Mordini del 18 ottobre 1860, mentre alla borghesia terriera andarono i beni
ecclesiastici. La riforma agraria di Corleo fu pertanto fallimentare dal punto
di vista sociale, ma tuttavia diede una spinta alla modernizzazione e alla conversione
delle colture. Non dimentichiamo che fu proprio in seguito a questa spinta che
si crearono le zone a colture pregiate intorno a Bagheria e nella Conca d’Oro.
Tutto sommato la soppressione del patrimonio ecclesiastico significò
l’affermazione di un regime economico e giuridico moderno. La Chiesa fu
emarginata dal potere politico e infine con la legge delle guarentigie del 15
maggio 1871 ebbe termine anche la secolare “Apostolica legazia” (cfr. Ruggero I e l’Apostolica Legazia)
e la chiesa siciliana ritornò sotto la giurisdizione del pontefice romano.
Altri avvenimenti di una certa importanza si
verificarono nell’ultimo periodo del quindicennio 1861-1876. Nella seduta del
18 marzo 1876 la Camera fu chiamata a discutere un’interpellanza del deputato
siciliano Giovan Battista Morana sulla tassa sul macinato, dove
si mettevano in evidenza gli abusi che l’applicazione di una siffatta tassa
consentiva in Sicilia. L’abolizione della tassa sul macinato, o “tassa sulla
miseria” come era stata definita da Crispi, era nel programma della sinistra ma
De Pretis e gli altri capi dell’opposizione, pur volendo rovesciare il governo
facendo leva sul malcontento popolare, non erano tuttavia disposti a rivoluzionare
di punto in bianco il sistema tributario nazionale. L’interpellanza del Morana
faceva riferimento alla grave situazione siciliana, dove erano in corso
agitazioni e proteste dei mugnai che, chiudendo i mulini, causavano penuria di
pane e malcontento popolare crescente. Il Ministro Minghetti si dichiarò
incapace di dare i chiarimenti necessari e per farla breve si arrivò ad una
mozione di sfiducia con cui il governo fu messo in minoranza e dovette
dimettersi. La destra storica cessò di governare e al suo posto si insediò la
sinistra storica. A presiedere il primo governo, il 25 di aprile, fu Agostino
De Pretis, piemontese, che era stato già prodittatore in Sicilia al tempo del
governo garibaldino.[7]
La decadenza di Napoli dopo l’unificazione d’Italia
del 1860 fu lenta ma continua. La Destra storica governativa attuò una politica
liberista che in breve tempo si rivelò fatale per il sistema economico
meridionale, basato fino ad allora sul modello di sviluppo protezionistico
concepito da Ferdinando II.
Inoltre, il sud fu caricato del Debito Pubblico
proveniente dal Piemonte, e dell’oneroso sistema fiscale
sabaudo.
La grande industria napoletana, per
lo più di capitale straniero, che con il Regno delle Due Sicilie aveva goduto
della protezione statale, entrò rapidamente in crisi. Vennero a mancare gli
ordinativi statali ed inoltre, il “baricentro” degli affari si spostò di
colpo da Napoli a Torino, con evidente vantaggio per le aziende del Nord-Ovest,
che furono preferite anche dagli investitori stranieri. Le fabbriche statali
dell’ex-reame
furono vendute a privati con procedure neppure tanto
cristalline. Emblematica è al riguardo la sorte dell’opificio statale di Pietrarsa, il maggiore stabilimento metalmeccanico italiano
dell’epoca, narrata in altra pagina del sito.
Alla decadenza, bisogna dirlo subito, contribuirono
con buona lena i tanti uomini di stato e delle istituzioni meridionali.
Le grandi banche del Sud (Banco di Napoli e di
Sicilia) effettuarono un vero e proprio rastrellamento del capitale, che venne
in gran parte reinvestito nel nascente “triangolo industriale” del Nord-Ovest
che, con la nuova Italia unita, godeva di un indubbio vantaggio geografico.
Gli strumenti di questo straordinario prelievo furono
principalmente tre:
l’introduzione nel 1861 della carta moneta
[8], inesistente nel Sud preunitario;
la legge del 1866 sul “corso forzoso”
della Lira italiana;
la legge del 1862[9] per vendita di 200 mila ettari di
terreni ecclesiastici e demaniali, di cui si è già scritto nella prima parte
della presente lettura, e che fruttò all’Erario, tra il 1861 ed il 1877, circa
220 milioni di lire di allora [10] (più di due terzi dell’intero provento
nazionale).
Circa mezzo miliardo di allora, costituita
dalle monete in metalli preziosi circolanti nelle due Sicilie, finirono
all’Erario nazionale, che mise in circolazione, grazie alla legge sul “corso
forzoso” un valore almeno tre volte superiore di banconote.
La legge del 1° maggio 1866 sul corso
forzoso [11] fu elaborata da un napoletano, il
ministro delle Finanze Antonio Scialoja [12]. Le disposizioni previste da questa
legge incisero profondamente sia sul processo di concentrazione delle
emissioni, sia sulla circolazione della moneta e sulla creazione del credito,
svantaggiando obiettivamente il Sud.
Tornado
all’accaparramento dei terreni, occorre sottolineare come molti degli agrari
del Sud, specie quelli delle zone interne (Basilicata, Cilento ecc) preferirono
la quantità alla qualità: divennero latifondisti, spossessandosi così del
risparmio e delle risorse necessarie agli investimenti per migliorare le
colture. Ci furono casi di vero accaparramento. La condizione dei contadini
peggiorò, non potendo usufruire più dell’uso gratuito dei terreni
per coltivare e raccogliere legna (i c.d. “usi civici”, che avevano
consentito la sopravvivenza, ma che allo stesso tempo avevano mantenuto a
livello arcaico la società contadina del sud, priva di quella spinta al miglioramento
che deriva dalla piccola proprietà). L’agricoltura meridionale, a parte le zone
d’eccellenza del Napoletano, Terra di Lavoro e del Pugliese, rimase emarginata
dall’economia nazionale, isolata, priva di vie di comunicazioni, e bisognerà
attendere il consolidamento dell’Istituzione repubblicana, quindi circa un
secolo, per riscontrare dei segnali di miglioramento.
I Corleo e gli Scialoja, cioè i politici meridionali
che contribuirono attivamente alla decadenza del sud, non furono dei casi
isolati. Il movimento liberale e la destra in generale, fin d’allora erano
subordinati al potere capitalistico, che aveva centro e radicamento al nord.
Invece di procedere ad una vera unificazione della politica, si agì con la
forza, la prevaricazione e la brutale repressione. Per questioni ideologiche,
anche i nazionalisti e monarchici meridionali si subordinarono di fatto al
potere sabaudo, così come i cattolici per la loro feroce avversione al nascente
socialismo. Anche in politica estera prevalsero gli umori ultra-nazionalistici
con la partecipazione nel 1866 alla guerra contro l’Austria,
in cui si sprecarono vite e risorse.
In definitiva, i politici meridionali di destra, anche
se ebbero incarichi – spesso importanti e decisivi – a livello governativo, non
seppero scrollarsi di dosso i condizionamenti negativi di cui si è detto. Se in
quegli anni fu mancato l’obiettivo di una reale unificazione nazionale, e se
furono le popolazioni del sud a farne principalmente le spese, non si può
pertanto attribuirne tutte le colpe genericamente al “nord” (come si dilettano
a fare alcuni sedicenti meridionalisti di oggi).
«La rigogliosa vita della democrazia napoletana, che ha avuto momenti di rilievo nazionale, intorno al 1878 si è affievolita, è diventata anemica per non aver saputo mettere radici fra i lavoratori…» [13].
[2] F. Renda, Storia della Sicilia, vol III, p. 977
[3] Garibaldi era divenuto nell’isola simbolo di liberazione politica e riscatto sociale. Ebbe tanto seguito in Sicilia da fargli credere di poter intraprendere, nel 1862, una spedizione per la conquista di Roma con circa 2000 volontari questa volta tutti siciliani. Questo ci fa capire quanto fossero mutate le condizioni rispetto al 1860 quando i suoi 1000 erano al 90% settentrionali. L’impresa fu immediatamente bocciata da Vittorio Emanuele . In Aspromonte Garibaldi e i suoi volontari furono fatti prigionieri e denunciati al tribunale militare. Vittorio Emanuele, su consiglio di Napoleone III, evitò di trasformare in martire Garibaldi e approfittando del matrimonio della figlia con il re del Portogallo, concesse l’amnistia. L’operazione non fu tuttavia esente da risvolti sgradevoli, come l’arresto di parlamentari siciliani e la fucilazione, a Fantina, con giudizio sommario di alcuni soldati che avevano abbandonato i reparti per seguire Garibaldi. Senza contare la caccia ai garibaldini che, nonostante l’amnistia, venivano arrestati e incarcerati per futili motivi.
[4] Cavour a Vittorio Emanuele, il 18 dicembre 1860, cit. da Mack Smith, Garibaldi e Cavour, p. 513
[5]F. Renda, Storia della Sicilia, vol III, 983
[6] A sollevare il problema della terra fu proprio Garibaldi che su proposta di Crispi, il 2 giugno 1860 aveva emanato un decreto con cui prometteva una quota di terra del demanio comunale non ancora ripartita a chiunque avesse combattuto a suo fianco per la patria. I beni demaniali dovevano però essere divisi per sorteggio, l’assegnazione di diritto ai combattenti risultava perciò lesiva di questo diritto. Ne nacquero controversie e i parecchie zone dell’isola scoppiarono rivolte. Le più drammatiche furono quelle di Biancavilla e di Bronte. A Bronte soprattutto si assistette alla feroce e agghiacciante rappresaglia di Bixio, che come inviato di Garibaldi in difesa dei possedimenti dei Nelson, si comportò da giudice militare nei confronti di civili, fucilandoli a seguito di un processo sommario. Bixio non avrebbe potuto rendere peggior servizio a Garibaldi e di questo si servì abilmente Cavour per iniziare la demolizione del mito di Garibaldi che cominciava a diventare un pericoloso avversario.
[7] Una bella descrizione di quel 25 aprile si può trovare nel libro di Francesco Ingrao, un siciliano mazziniano, nel libro La bandiera degli elettori italiani, ristampato da Sellerio (2001)
[8] La lira italiana fu introdotta con la legge Pepoli “Legge fondamentale sull’unificazione del sistema monetario” del 24 agosto 1862, n. 788. Gli istituti di credito che potevano emettere biglietti erano di proprietà privata al Centro-Nord (La Banca Nazionale, che veniva dalla fusione fra la Banca di Genova e la Banca di Torino, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito per le Industrie e il Commercio d’Italia), statali al Sud (Banco di Napoli e Banco di Sicilia). Dopo l’annessione di Roma del 1870, la Banca degli Stati pontifici divenne Banca Romana.
[9] Legge 21 agosto 1862, n. 794
[10] Bevilacqua Piero, Breve storia dell’Italia meridionale: dall’Ottocento a oggi, Donzelli 2005, p. 75.
[11] Nel maggio 1866, in seguito alla crisi finanziaria, i titoli del debito pubblico italiano crollarono alla Borsa di Parigi. Il ministro delle Finanze Antonio Scialoja proclamò il corso forzoso, ossia l’inconvertibilità in oro ed argento della moneta circolante. La Banca Nazionale fu obbligata a fornire al Tesoro un mutuo di 250 milioni di lire. Si sarebbe decretato poi l’emissione di un prestito redimibile forzoso (l’antenato dei BOT). La legge dettava, in particolare, le seguenti disposizioni:
1) tutti i biglietti della Banca Nazionale (ex Banca Nazionale degli Stati Sardi), compresi quelli creati nelle operazioni commerciali con i privati, diventano inconvertibili a vista in metallo; i biglietti emessi dagli altri istituti (Banca Nazionale Toscana, Banca Toscana di Credito, Banca Romana, Banco di Napoli e Banco di Sicilia), sono invece obbligatoriamente convertibili su richiesta in banconote della Banca Nazionale nel Regno;
2) le banconote della Banca Nazionale hanno corso legale, ovvero valore liberatorio coatto, su tutto il territorio dello Stato, mentre quelle degli altri istituti nella sola regione di appartenenza;
3) la Banca Nazionale assumeva la funzione di tesoriere dello Stato in virtù del privilegio, ad essa attribuito, dell’emissione di biglietti per conto del Tesoro, i quali, non essendo ricompresi nella circolazione propria dell’istituto, sono tuttavia svincolati dall’obbligo di riserva che investe invece le banconote emesse dalla Banca stessa a fronte del proprio attivo. Il corso forzoso fece sì che la circolazione di moneta cartacea superasse quella metallica. L’abolizione del corso forzoso, decretata nel 1881 e attuata nel 1883, segnò l’inizio di una breve illusione: l’euforia provocò un surriscaldamento dell’economia al quale non si reagì con le politiche giuste. Intorno al 1887 il corso forzoso era restaurato di fatto. Il boom edilizio innescato da Roma capitale, sostenuto in parte da capitali esteri, coinvolse anche gli istituti di emissione. L’espansione eccessiva portò a una bolla speculativa, e poi alla crisi. La crisi bancaria dei primi anni Novanta, accoppiata a una crisi di cambio, assunse anche una dimensione politica e giudiziaria clamorosa nel dicembre del 1892, quando fu rivelata la grave situazione delle banche di emissione e soprattutto i gravi illeciti della Banca Romana, fino a quel momento coperti dal Governo. il Governo è costretto ad emanare un decreto con il quale viene dichiarata la sospensione della convertibilità in oro delle banconote e, dunque, l’inizio del corso forzoso. Questo avvia l’Italia all’introduzione della moneta cartacea, assicurando contemporaneamente allo Stato la possibilità di far fronte alle spese più urgenti con la semplice stampa di banconote, almeno entro determinati limiti. Inoltre, il provvedimento intende effettuare un primo tentativo di regolamentazione dell’attività delle banche di emissione, orientato alla concentrazione delle emissioni in un unico istituto, in coerenza con il programma di accentramento politico-amministrativo perseguito dalla Destra storica.
[12] Il napoletano Antonio Scialoja (1817 – 1877) era all’epoca ministro delle Finanze. Già ministro del Regno delle Due Sicilie nel 1848 (governo liberale di Carlo Troja), era stato condannato all’esilio dopo la restaurazione dell’assolutismo regio a seguito dei tumulti del maggio 1848. Fu quindi Ministro delle Finanze nel governo dittatoriale di Garibaldi (1860).
[13] Scirocco A., Democrazia e socialismo a Napoli dopo l’Unità, Napoli, 1973 p. 312. Bibliografia AAVV Storia della Sicilia, Società Editrice Storica di Napoli e Sicilia Di Matteo, F., Storia della Sicilia, Edizioni Arbor, 2006 Fortunato, G., Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Firenze, Vallecchi, 1973. Fortunato, G., Galantuomini e cafoni prima e dopo l’Unità, Reggio Calabria, Casa del Libro, 1982 Galasso, G., Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”, Piero Lacaita editore 2005 Gleijeses, V., La Storia di Napoli, Società Editrice Napoletana, 1977 Gramsci, A., La questione meridionale, Editori Riuniti 2005 Ingrao, F., La bandiera degli elettori italiani, ristampato da Sellerio, 2001 Mack Smith, D., Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, 1971 Mack Smith, D., Garibaldi e Cavour, Rizzoli 1999 Mack Smith, D., La storia manipolata, Laterza, 2002 Renda, F., Storia della Sicilia, Sellerio, 2003
Giuseppe Garibaldi nacque a Nizza il 4 luglio 1807 e morì a Caprera il 2 giugno del 1882. Il personaggio, esaltato come eroe dalla storiografia dell’attuale regime, era in realtà di ben diversa levatura.