Posted by altaterradilavoro on Set 24, 2019
A Roberto Saviano piace san Gennaro perché è patrono di tutti gli immigrati, puoi chiederne la protezione anche quando rubi o fai una scappatella. Chissà chi glielo avrà detto? A San Gennaro neanche Saviano gli è risparmiato
«Un uomo per tutte le stagioni» era il titolo che il drammaturgo Robert Bolt applicò alla figura di san Thomas More, decollato da Enrico VIII. «Un santo per tutte le stagioni» può dirsi anche a proposito di san Gennaro, anche lui decollato, e vediamo perché. Come tutti i filoborbonici sanno, quando nel 1799 il generale giacobino Jean-Étienne Championnet espugnò Napoli mettendo in fuga re e regina, la prima cosa che gli «infanciosati» locali (cioè i filogiacobini collaborazionisti degli invasori francesi) gli andarono a dire fu che il popolo napoletano era superstizioso, conveniva perciò fare sciogliere pubblicamente il sangue del patrono san Gennaro. Championnet puntò allora la pistola alla testa dell’arcivescovo e in effetti il sangue del santo «squagliò». Ma a Napoli nisciuno è fesso, specialmente allora, e il popolo gridò al tradimento. Come! San Gennaro aveva osato avallare quei senza-Dio francesi e i loro atei Alberi della Libertà? Si era piegato ai loro manutengoli Caracciolo e Pimentel Fonseca, che ritenevano quella del Sangue del Santo una pagliacciata clericale ordita per tenere soggiogata la plebe? E allora quei napoletani (di allora, ripetiamo) non esitarono a rinnegare il loro santo preferito. Gennaro aveva, tra gli altri titoli, quello di generalissimo dell’esercito e il soldo relativo veniva regolarmente versato al suo Tesoro (l’unica cosa che ai francesi interessava). Fu subito destituito e al suo posto venne nominato come patrono di Napoli sant’Antonio di Padova, che non faceva sciogliere il sangue ma, tra l’altro, ritrovare le cose perdute (lo fa ancora, provare per credere). I sanfedisti e i lazzari lo stamparono sulle bandiere e in suo nome liberarono la città e il regno dagli occupanti e dai giacobini. Uno dei loro epigoni attuali, lo scrittore Roberto Saviano, deve essersi ricordato di questa attitudine di san Gennaro a sorvolare, diciamo così, su certi dettagli in vista di, si suppone, un bene maggiore (nel caso di Championnet, salvare la pelle all’arcivescovo e al suo clero). Così, leggiamo sul «Corriere del Mezzogiorno» che in un video di «Fanpage» sulla festa che gli immigrati napoletani fanno a san Gennaro (una delle tre) a New York, ha detto – e ti pareva – che Gennaro «è diventato il santo di tutti gli immigrati». Tutti? Tutti, anche quelli africani che i cattivi sovranisti italiani (messicani nel caso di Trump) non intendono coccolare a spese proprie. Saviano, si sa, è di sinistra e la sinistra italiana ha sempre avuto un romanziere da sbandierare come «coscienza civile». Fin dal dopoguerra, infatti, la ressa per fare la «coscienza civile» è stata da spintoni, anche se solo a uno (alla volta) toccava la palma. D’altronde, un intellettuale che deve fare? Se si butta a sinistra (come diceva Totò) piovono soldi, premi, difese d’ufficio, inviti e cotillons. Se si azzarda a fare il contrario ci sta che non trovi neanche uno straccio di editore. Ai tempi di Leonardo Sciascia, per esempio, quello scrittore era interpellato su tutto e continuamente, e se, poniamo, in Sicilia veniva pescato un polpo con un solo tentacolo, c’era sempre qualche giornalista che arricchiva il suo articolo con un commento di Sciascia sull’anomalia. Così, Saviano, che è partenopeo e per giunta tiene casa a New York. C’è la festa di san Gennaro a New York? Sentiamo che cosa ne pensa Saviano, dicono i giornalisti (il cui livello di conformismo è ormai pari a quello della scuola statale). E Saviano, che volete che faccia? Esterna. Già si era esibito in un ragionamento pannelliano sulla cocaina (i.e.: poiché non c’è modo di combatterne il traffico ed è così amata, legalizziamo); ora, memore (forse) di Championnet, tira san Gennaro per la giacchetta. Tanto, quello non è uso smentire. «È un santo a cui puoi chiedere ‘proteggimi mentre rubo’, o ancora ‘proteggimi mentre ho la scappatella», dice Saviano. Come fa a saperlo? Boh. Forse tutto quel che sa su Gennaro l’ha letto nella Napoli di Bellavista di De Crescenzo, il quale se ne uscì con la trovata folkloristica delle «parenti» di san Gennaro e i loro insulti quando il sangue tardava a sciogliersi. Infatti, Saviano dice che il santo è così di bocca buona, «per tutte le stagioni», che si può rivolgerglisi anche «con parolacce». Infine, «è l’unico santo in assoluto a cui ti puoi rivolgere come a un amico». Da questa affermazione uno potrebbe ricavare che Saviano è un intenditore di santi, ne conosce tantissimi se non tutti e in modo approfondito. Insomma, è un mistico. Ma noi non ci crediamo. Napoli per Napoli, preferiamo rivolgerci a sant’Antonio (De Curtis).
Rino Camilleri
fonte http://lanuovabq.it/it/san-genna-futtetenne-anche-di-saviano
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Posted by altaterradilavoro on Lug 29, 2019
La famiglia gentilizia Burali
d’Arezzo va divisa in sei rami, che sono Arezzo, Firenze, Pisa, Parma, Napoli e
Sicilia. Essa, che possedette vari castelli, è originaria di Buro, in Francia,
città di cui scrive Giulio Cesare nel “De Bello Gallico”, definendola
“fortissima fra le città tutte della Gallia e della Germania”, onde Burali, che
sono tra le famiglie più antiche d’Europa, come si evince dai documenti degli
archivi pubblici e privati nazionali.
Essi calarono in Italia nel 700 e si stanziarono nella Valle Superiore
del fiume Arno, fondando la città di Ostina, governata da loro per cinque
secoli con ottime istituzioni. Di questo centro restano sparsi ruderi nel
Valdarno di Sopra, in provincia di Arezzo, distrutto per la guerra tra guelfi e
ghibellini. Altri componenti della medesima famiglia, partiti da Buro, si
fermarono in Parma, dove si distinsero, meritando il primato tra i cittadini
parmensi. I Burali di Arezzo e di Parma
sono dello stesso casato, come lo prova lo stesso sigillo adottato da essi e
numerose lettere scritte dal Cavaliere Anfione Burali, Consigliere del
Serenissimo Duca di Parma, al Governatore di Arezzo, Giacomo Burali.
I Burali avevano ricevuto dai re longobardi, per i servigi resi agli
stessi, un diritto illimitato, tra cui la facoltà di fondare delle città. Essi
innalzarono le mura di Ostina, magnifici edifici, sontuosi palazzi e un Foro.
Il dominio dei Burali su Ostina durò circa 570 anni, sino al 1269, quando la città, che si difese ostinatamente, fu
distrutta quasi completamente dagli esuli ghibellini di Firenze e dai Pazzi,
signori della Superiore Valle d’Arno: La famiglia fu costretta all’esilio. Allora i Burali,
principi di Ostina, marchesi e conti della Repubblica Fiorentina, Gran Capitani
della Superiore Valle d’Arno, si insediarono in Arezzo, dove acquistarono
magnifici palazzi.Un ramo , da cui discende il cardinale, passò al servizio di
Ladislao, re di Napoli. Sappiamo che un Donato Burali d’Arezzo , che svolse la
duplice funzione di consigliere del sovrano
e di luogotenente del grande cancelliere; conosciamo anche la figura di
un Checco Burali d’Arezzo,che, anch’egli
sotto Ladislao, fu castellano e governatore nella campagna di Eboli, nel
Salernitano. Siccome Ladislao, assieme alla madre Margherita d’Angiò, risiedeva
a Gaeta, essendo stata occupata Napoli da Luigi d’Angiò, la famiglia Burali
d’Arezzo acquistò proprietà terriere di notevole estensione ad Itri, dove ebbe
i natali il cardinale Paolo.
Numerosi storici hanno documentato la nobiltà e le gesta dei Burali
d’Arezzo. Tra gli altri, l’illustre Francesco Guicciardini nella celeberrima
“Storia d’Italia”, in venti libri scritta tra il 1537 e il 1540, in forma
annalistica, forse sull’esempio di Tacito, opera di potente unità, tanto
esteriore quanto intrinseca.
Il gloriosi casato, a cui hanno reso onori tante Corti europee, ha dato
alle ambascerie di pace, alla Chiesa, alla giurisprudenza, agli studi
umanistici, alle armi, tanti uomini preclari, ai quali sovrani ed autorità
municipali conferirono beni, poteri e titoli.
I Burali d’Arezzo edificarono
chiese e cappelle in molte città, italiane e straniere Ne diamo un breve
accenno : la chiesa di S. Maria e quella di S. Francesco con il vasto convento
nelle adiacenze di Arezzo, a memoria del Beato Giovanni Burali di Parma,
settimo General Ministro dell’Ordine dei
Minori; la grandiosa cappella nella vetusta chiesa di S. Michele; l’altra di
Maria Immacolata in Guascogna; la
cappella di S. Andrea nella chiesa di S. Germiniano; la cappella della SS. Trinità nel monumentale tempio di S. Maria in
Gradi, la cappella della Conversione di
S. Paolo nella chiesa della collegiata
ed altra di S. Onofrio, pure in Arezzo;
la cappella dell’Angelo Custode nel convento dei Padri Francescani in
Gaeta; la cappella, anch’essa dedicata all’Angelo Custode nella chiesa di S.
Francesco in Itri; la chiesetta di S. Maria della Misericordia e l’altra di S.
Erasmo, entrambe in Itri; le cappelle gentilizie nel duomo di Gaeta, nella
chiesa dei SS. Apostoli e in quella di
S. Paolo Maggiore in Napoli, dedicate, queste ultime, al Beato Paolo Burali
d’Arezzo, cardinale Arcivescovo di Piacenza e di Napoli.
Il Beato Paolo (al secolo Scipione)
Burali d’Arezzo fu una figura straordinaria, una delle più espressive
del periodo della riforma cattolica, che affascinò S. Carlo Borromeo e tanti
altri, sempre con la sua profonda umiltà, virtù caratteristica di tutta la sua
vita, con la sua purezza, nella quale si innestavano una vasta dottrina, una
pietà evangelica e il rigore. La
candidatura alla tiara pontificia del Burali, alla morte di Pio V, fu bocciata
dalla cosiddetta corrente mondana del conclave, perché si temeva che egli
avrebbe trasformato il Sacro Collegio in un convento teatino. Dunque Paolo non fu eletto pontefice nel 1572, per la sua
soverchia rigidezza ed austerità, nonostante S. Carlo Borromeo e il cardinale
Michele Bonelli, l’“Alessandrino”, nipote del defunto papa, avessero puntato
decisamente le proprie carte su di lui, che, invece, concorse efficacemente, il
13 maggio 1572, all’elezione di Ugo Boncompagni, suo antico maestro di diritto
canonico all’università di Bologna, elevato al soglio pontificio con il nome di Gregorio XIII.
Il cardinale Burali d’Arezzo, del titolo di S. Pudenziana, intransigente
difensore della fede, nasce all’ombra del castello di Itri, uno dei più
grandiosi d’Europa, che ha svolto un ruolo strategico nelle comunicazioni tra i
vari Stati, essendo in posizione dominante sull’Appia. Alla storica famiglia
altomedioevale, tra le più nobili della Toscana (il padre è il principe Paolo
Burali d’Arezzo, Segretario di Stato dell’Imperatore Carlo V, la madre è
Victoria Oliveres di Barcellona, dell’alta nobiltà spagnola, figlia di Pere
Oliveres, consigliere e poi uditore
reale nel vicereame di Napoli), vennero conferiti feudi, poteri e titoli.
Il principe Paolo Burali d’Arezzo è un protagonista nelle ambascerie,
contribuendo, fra l’altro, in maniera ragguardevole, a sanare i profondi contrasti tra Carlo V di Spagna e Francesco I
di Francia. Egli, in qualità di ambasciatore del pontefice Clemente VII e
del duca di Milano Francesco Sforza, si
muove con grande competenza presso l’imperatore, che nutre per lui grande
ammirazione, come pure il sovrano francese Francesco I di Francia.
Finalmente, nel giugno del 1529, viene firmato il trattato di pace di
Barcellona. Il papa riceveva alcuni compensi territoriali ed investiva Carlo V
re di Napoli, promettendogli anche di incoronarlo imperatore in Italia. Il
principe Paolo,morta, ancora giovane, la moglie, abbracciò la vita religiosa
nel 1557, nominato prelato e cameriere di Clemente VII.
Ricordiamo, sulla base di un’opera dello storico Camerini, il ruolo svolto dal Beato di casa Burali, Giovanni di
Parma, nato nel 1208 e morto ottantunenne. Seguace di S. Francesco d’Assisi, fu
ambasciatore papale, inviato presso il
sovrano di Francia Luigi IX, per chiedere aiuti per la Crociata. Poi, come
scrive Ireneo di Busseto, spedito da Innocenzo IV a Costantinopoli per trattare
l’unione delle Chiese. Egli, nelle credenziali da esibire all’imperatore, è
qualificato come “Angelo della Pace”. L’ambasciata è coronata da successo,
perchè la chiesa greca sii pacifica con quella latina. Anche nel Concilio di
Lione, del 1245, Giovanni Burali di Parma ricopre un ruolo di rilievo. In esso
(XIII ecumenico) si sanzionò la scomunica di Federico II. Lo stesso fu il primo
professore d’italiano alla Sorbona di Parigi. Sappiamo che Enrico III, re
d’Inghilterra, scende sin sulla soglia del suo palazzo per venir incontro al
Beato Giovanni Burali e che Luigi IX, sovrano di Francia, che fu canonizzato da
Bonifacio VIII nel 1297,va a mensa, suo ospite.
Il moto popolare di Masaniello a Napoli, nel 1647, che scomnvolse il
Mezzogiorno d’Italia, ebbe ripercussioni nelle province. La rivolta si diffuse,
come fuoco divampante al soffiar del vento, in molti centri del reame assumendo
caratteri sempre più politici, perché i ribelli proclamaromno la repubblica.
L’insurrezione contro gli Spagnoli si estese con facilità, fino a Fondi,
Sperlonga ed Itri, sotto l’energica spinta di Giuseppe Burali d’Arezzo, che
guidò la ribellione con fortuna, potendo disporre di più di 600 uomini.
L’opera di Giuseppe Burali d’Arezzo fu di così notevole importanza nello
sviluppo della rivolta, da destare inquietudini serie negli Spagnoli. Dopo aver
alluso ai moti delle altre province, così il De Turri in “Dissidentis
desciscentis receptaeque Neapolis”, Napoli, 1770, p. 537, accenna a quelli di
Itri e di Fondi: “His Tristiores, etiam, successibus erant qui aeque ad regni
limites sed ad inferum mare contigere. Fundos et cum eis Sperlingam cum
universis circumiacentibus oppidis Dominicus quidam Aloysii vulgo Peponus, et
Josephus de Aretio tumultuarii Duces, occupavere.” E il Piacente in “Le
Rivoluzioni del Regno di Napoli negli anni 1647-1648”, Napoli, 1861, p. 255,
“Sollevatosi Itri, terra non meno di 40 miglia lontana, per la via di ponente, da Capua, Giuseppe
d’Arezzo gentiluomo di quella terra e forse il oprimo che incominciasse tra i
nobili a lazzarizzarsi, non solo la costrinse a dichiararsi a devozione del
popolo, ma prese patente di Maestro di Campo dall’Ambasciadore di Francia, e
divenutto Capo di 600 persone che raccolse dai vari villaggi di quel contorno,
si spinse, emulando la (sic!) Colessa, sotto le mura di Fondi, città non meno
considerabile.” Il Burali d’Arezzo si impadronì subito del convento di S.
Francesco, da cui lanciava all’assalto i suoi. Vedi il Piacente. Con un assedio
di parecchi giorni, il signor Burali
d’Arezzo costrinse alla resa i soldati regii ben provvisti, che si difendevano
gagliardemente; resa che parve tanto strana allo stesso Comandante Martino De
Berrio, da indurlo al sospetto di un tradimento. Perciò fece imprigionare il
capitano Francesco Inglese. Ma, siccome l’inchiesta risultò favorevole,
l’Inglese fu posto in libertà. Consultare P: Oliva, “Discorso della
Sollevatione”, p. 50.
Il Burali d’Arezzo, instancabile nel presidiare i posti e nell’estendere
la rivolta, avuto in mano sua anche Itri e Sperlonga, tentò di occupare
Castellone e Mola, ma vi fu respinto dai 50 Spagnoli che vi erano di guardia,
prima ancora che vi giungessero i rinforzi del duca di Marzano, del marchese
della Pietra, dei Grimaldi di Genova, e del Mormile, duca di Vairano. Nel
“Diario di Francesco Capecelatro contenente la storia delle cose avvenute nel
Reame di Napoli negli anni 1647-1650”, opera primaria, edita, per la prima
volta, sulla rivoluzione di Masaniello, in data 1850-1854, il Capecelatro
scrive: “Due fratelli della famiglia di Arezzo, nipoti del già Cardinale di tal
nome, naturali della terra d’Itri, avuti alcuni capi Francesi da Terracina,
avevano fatta rubellare la loro patria ed occupato Castiglione (sic!) presso
Gaeta (Castellone e Mola, oggi Formia,
n. d. r.), ove s’erano fortificati e, tentato parimente di occupare Mola,
vicino borgo della detta città, ne erano stati ributtati da cinquanta Spagnuoli
che v’erano di guardia;il perché fu inviato a quella volta il Mormile duca di
Vairano (che poi perfidamente rubellandosi con Giovan Battista del Balzo di
Capua Barone di Presenzano suo cognato, s’unirono ai popolari) ed il laudato
gentiluomo di Gaeta e cavaliere dell’abito di Caltrava Duca di Marzano, che con
il Marchese della Pietra dei Grimaldi di Genova, che ersa in prima gito in
Teano, raunando soldati si fussero opposti a quei rumori.” Ciò, prima del 20
dicembre 1647. Poi con 300 cittadini gaetani e 200 soldati, il maggiore Pedro
Sanchez, introdottosi, per occulte vie, in Itri, saccheggiò il paese e delle
alle fiamme la casa del Comandante. Gli
insorti riconquistarono Itri e fortificarono meglio Sperlonga.Ciò impressionò
tanto il conte di Onatte, che nel viaggio da Roma verso Napoli, dove si recava
come nuovo viceré, si indugiò apposta alcuni giorni a Terracina, per farvi con
il Burali d’Arezzo le trattative della resa delle terre da lui mantenute così
tenacemente; trattative continuate da Napoli, tramite il Principe di
Roccaromana.
Però, in soccorso dell’Onatte,che si insediò a Napoli con la
crudeltà,vennero presto, anziché le pratiche già iniziate, le disgrazie del
capo degli insorti. Venuto in sospetto dei Francesi, fu imprigionato, a
tradimento, nel castello di Fondi, ma, liberato dai suoi partigiani, cadde,
presso Terracina, nelle mani dei soldati pontificii, che lo rinchiusero a
Frosinone. Si ignora che sorte gli toccasse in seguito.Sembra che, essendo poco
sicuro il carcere di Frosinone, la Santa Sede ritenne opportuno trasferire
Giuseppe Burali d’Arezzo a Civitavecchia. Durante il tragitto, però, i Francesi
riuscirono a liberarlo. Per la sollevazione di questi paesi, i fratelli Burali
d’Arezzo furono condannati alla pena capitale, ma la madre di essi, una
Vipereschi di Benevento, si presentò da Masaniello e, ricordando i meriti del
santo arcivescovo di Napoli, Paolo Burali d’Arezzo, poi beato, di cui gli
agitatori erano pronipoti, riuscì ad ottenere il condono del castigo.
Secondo il Capocelatro, forse il più autorevole testimone della
rivoluzione, filospagnolo, le accuse contro di lui sarebbero queste: la
dispersione del danaro gallico, inteso alla propaganda antispagnuola, e
l’odiosità insolente con cui tenne il governo del paese. Si riportano le parole
del Caracciolo. I ricorsi degli stessi concittadini all’ambasciatore francese
di Roma costrinsero questi ad inviare a Fondi una persona di fiducia, il
capitano Troyna, che, appurata la verità delle accuse, procedette all’arresto
dei fratelli Burali d’Arezzo. Egli venne con 130 soldati, cenò lietamente con
loro nel castello e, all’improvviso, li fece arrestare. Ma il brutto
complimento gli costò la vita. I loro aderenti riuscirono, dopo quattro giorni,
ad uccidere, di notte,il Capitano, mentre era a letto, o si recava da una sua
donna, e, in tal modo, a sciogliere dalla prigione i signori Burali d’Arezzo.
Uno di loro fuggì in campagna, a “Valle d’Itri”, dove i Burali d’Arezzo avevano
una casa rurale, senza essere raggiunto. Gli altri due, uno dei quali D.
Giuseppe, passarono nella prigione pontificia, arrestati presso Terracina.
A quanto scrive lo stesso Capocelatro, i soldati papalini li avrebbero
assicurati alla giustizia per i “molti gravi delitti da loro commessi” nello
Stato del papa. Non pare ammissibile, né l’Oliva ha il minimo accenno a tale
corcostanza infamante! Presumibilmente, l’ambasciatore francese a Roma volle
colpire in loro la strage fatta del capitano Troyna, oppure, come scrive
l’Oliva, furono presi come “banditi” dello stato ecclesiastico.In quanto alle
colpe attribuite loro, esse vanno non solo ridotte, ma discusse.
L’appropriazione, da parte dei fratelli Burali d’Arezzo, dei 14.000 scudi
francesi dati loro allo scopo di “assoldare” uomini- ciò che, secondo il
Caracciolo, non avrebbero fatto- non pare si possa sostenere, quando si pensi
alla rapidità ed estensione del tumulto che essi provocarono e mantennero a
lungo, in molti paesi del regno di Napoli. Ed il danaro dovette andar disperso
e profuso nell’istigare alla rivolta e nel fortifoicare i posti. Cosa che fu
eseguita prontamente, senza alcun dubbio. Forse il diarista registrò, senza
ombra di riserva, una diceria pubblica, sorta in ambienti ostili.L’Oliva, che
poteva saperne per i facili contatti fra Gaeta ed Itri, parla solo del “conto”
che l’inviato francese doveva chiedere a Giuseppe Burali d’Arezzo di “alcune
migliaia di ducati” spediti per “soccorrere le genti” ed insiste sugli
“eccessi” e mire interessate, che travolsero nella rovina “quel giovane”, che
“viveva con ogni comodo nella sua terra d’Itri, nella quale teneva il primo
luoco, amato, temuto e servito da tutti”. Egli, invece, fu accecato
dall’ambizione (“Discorso della Sollevatione” di P. Oliva, pp. 59,61). Altrove
accenna anche all’opera di malvagità “degli amici et aderenti” suoi, che,
“vedendosi privi delle loro solite rapine”, lo scarcerarono uccidendo il
Troyna. Giuseppe Burali d’Arezzo fu sempre il capro espiatorio di colpe anche
non sue, ma le gelosie o le vendette private dovettero aver gran parte (è
lecito congetturarlo) nel muovere e nell’accreditare le accuse contro di lui,
che avrebbero bisogno di essere avvalorate da altri documenti, perché si possa
crederle definitive. Malgrado la gravità di un arresto indetto dai Francesi
stessi, che avevano interesse ad evitarlo, le fontoi del Caracciolo e
dell’Oliva, devoti alla Spagna, restano decisamente sospette e appassionate.
Del resto, pur dando all’ipotesi di quell’appropriazione valore storico, è da
riflettere che per la rivoluzione i Burali d’Arezzo ebbero la casa arsa e
saccheggiata, nonché la prigione!
Comunque sia, la sua scomparsa incoraggiò tanto gli Spagnoli, che ne
approfittarono gettandosi subito all’occupazione dei paesi ancora sollevati.
Con uno squadrone di cavalleria, al comando del principe di Minervino, e 1200
soldati, agli ordini del principe di Garaguso, del conte di Loreto e del duca
di Marzano, D: Martino De Berrio, dopo aver sorpreso Itri, che finì di
saccheggiare orrendamente, ed aver accettato la capitolazione di Fondi, che gli
aveva già inviato, per via, le chiavi della città, si diresse a Sperlonga, dove
si erano concentrati i nemici, disponendosi a prenderla d’assalto, a detta di
Francesco Capecelatro e di Paolo Oliva.
Alfredo Saccoccio
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