Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

San Genna’, futtetènne (anche di Saviano)

Posted by on Set 24, 2019

San Genna’, futtetènne (anche di Saviano)

A Roberto Saviano piace san Gennaro perché è patrono di tutti gli immigrati, puoi chiederne la protezione anche quando rubi o fai una scappatella. Chissà chi glielo avrà detto? A San Gennaro neanche Saviano gli è risparmiato

«Un uomo per tutte le stagioni» era il titolo che il drammaturgo Robert Bolt applicò alla figura di san Thomas More, decollato da Enrico VIII. «Un santo per tutte le stagioni» può dirsi anche a proposito di san Gennaro, anche lui decollato, e vediamo perché. Come tutti i filoborbonici sanno, quando nel 1799 il generale giacobino Jean-Étienne Championnet espugnò Napoli mettendo in fuga re e regina, la prima cosa che gli «infanciosati» locali (cioè i filogiacobini collaborazionisti degli invasori francesi) gli andarono a dire fu che il popolo napoletano era superstizioso, conveniva perciò fare sciogliere pubblicamente il sangue del patrono san Gennaro. Championnet puntò allora la pistola alla testa dell’arcivescovo e in effetti il sangue del santo «squagliò». Ma a Napoli nisciuno è fesso, specialmente allora, e il popolo gridò al tradimento. Come! San Gennaro aveva osato avallare quei senza-Dio francesi e i loro atei Alberi della Libertà? Si era piegato ai loro manutengoli Caracciolo e Pimentel Fonseca, che ritenevano quella del Sangue del Santo una pagliacciata clericale ordita per tenere soggiogata la plebe? E allora quei napoletani (di allora, ripetiamo) non esitarono a rinnegare il loro santo preferito. Gennaro aveva, tra gli altri titoli, quello di generalissimo dell’esercito e il soldo relativo veniva regolarmente versato al suo Tesoro (l’unica cosa che ai francesi interessava). Fu subito destituito e al suo posto venne nominato come patrono di Napoli sant’Antonio di Padova, che non faceva sciogliere il sangue ma, tra l’altro, ritrovare le cose perdute (lo fa ancora, provare per credere). I sanfedisti e i lazzari lo stamparono sulle bandiere e in suo nome liberarono la città e il regno dagli occupanti e dai giacobini. Uno dei loro epigoni attuali, lo scrittore Roberto Saviano, deve essersi ricordato di questa attitudine di san Gennaro a sorvolare, diciamo così, su certi dettagli in vista di, si suppone, un bene maggiore (nel caso di Championnet, salvare la pelle all’arcivescovo e al suo clero). Così, leggiamo sul «Corriere del Mezzogiorno» che in un video di «Fanpage» sulla festa che gli immigrati napoletani fanno a san Gennaro (una delle tre) a New York, ha detto – e ti pareva – che Gennaro «è diventato il santo di tutti gli immigrati». Tutti? Tutti, anche quelli africani che i cattivi sovranisti italiani (messicani nel caso di Trump) non intendono coccolare a spese proprie. Saviano, si sa, è di sinistra e la sinistra italiana ha sempre avuto un romanziere da sbandierare come «coscienza civile». Fin dal dopoguerra, infatti, la ressa per fare la «coscienza civile» è stata da spintoni, anche se solo a uno (alla volta) toccava la palma. D’altronde, un intellettuale che deve fare? Se si butta a sinistra (come diceva Totò) piovono soldi, premi, difese d’ufficio, inviti e cotillons. Se si azzarda a fare il contrario ci sta che non trovi neanche uno straccio di editore. Ai tempi di Leonardo Sciascia, per esempio, quello scrittore era interpellato su tutto e continuamente, e se, poniamo, in Sicilia veniva pescato un polpo con un solo tentacolo, c’era sempre qualche giornalista che arricchiva il suo articolo con un commento di Sciascia sull’anomalia. Così, Saviano, che è partenopeo e per giunta tiene casa a New York. C’è la festa di san Gennaro a New York? Sentiamo che cosa ne pensa Saviano, dicono i giornalisti (il cui livello di conformismo è ormai pari a quello della scuola statale). E Saviano, che volete che faccia? Esterna. Già si era esibito in un ragionamento pannelliano sulla cocaina (i.e.: poiché non c’è modo di combatterne il traffico ed è così amata, legalizziamo); ora, memore (forse) di Championnet, tira san Gennaro per la giacchetta. Tanto, quello non è uso smentire. «È un santo a cui puoi chiedere ‘proteggimi mentre rubo’, o ancora ‘proteggimi mentre ho la scappatella», dice Saviano. Come fa a saperlo? Boh. Forse tutto quel che sa su Gennaro l’ha letto nella Napoli di Bellavista di De Crescenzo, il quale se ne uscì con la trovata folkloristica delle «parenti» di san Gennaro e i loro insulti quando il sangue tardava a sciogliersi. Infatti, Saviano dice che il santo è così di bocca buona, «per tutte le stagioni», che si può rivolgerglisi anche «con parolacce». Infine, «è l’unico santo in assoluto a cui ti puoi rivolgere come a un amico». Da questa affermazione uno potrebbe ricavare che Saviano è un intenditore di santi, ne conosce tantissimi se non tutti e in modo approfondito. Insomma, è un mistico. Ma noi non ci crediamo. Napoli per Napoli, preferiamo rivolgerci a sant’Antonio (De Curtis).

Rino Camilleri

fonte http://lanuovabq.it/it/san-genna-futtetenne-anche-di-saviano

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E SAN GENNARO DISSE NO A GARIBALDI

Posted by on Set 9, 2019

E SAN GENNARO DISSE NO A GARIBALDI

Il 7 settembre 1860 il Gran Maestro della Loggia d’Oriente Giuseppe Garibaldi entrava a Napoli. Ad accompagnarlo, oltre a Liborio Romano, il capoguappo Tore ‘e Crescienzo, La Sangiovannara tenutaria di bordello, e altre due prostitute, era schierata gran parte della Massoneria, come la massona, Enrichetta Caracciolo; il massone Fra Giovanni Pantaleo; il massone Alexandre Dumas; il massone Salvatore Morelli; la massona Jessie White Mario; il massone Alberto Mario; il massone Adriano Lemmi… Quel giorno Napoli era straripante di camorristi e massoni. Entrambe le consorterie vigilavano a che tutto andasse come già stabilito ai vertici della Massoneria, affinchè non si ripetesse l’epilogo che si ebbe nel 1799 quando l’ avanzata massonica fu arrestata dai “Lazzari”. Eppure qualcosa rovinò la “festa”. Quella mattina qualcuno consigliò Garibaldi di recarsi presso la cappella di San Gennaro nel Duomo, ma quale fu la sua sorpresa quando al suo arrivo la trovò sbarrata e senza anima viva ad accoglierlo. L’autore del gesto fu il Cardinale Sisto Riario Sforza che saputo dell’arrivo di Garibaldi fece sbarrare la chiesa. L’episodio non passò inosservato e venne riportato nell’edizione straordinaria del giornale “Nuova Italia” dell’8 settembre 1860 nel quale si legge: ” Dopo un’ora di riposo, in carrozza, seguito dagli stessi suoi fidi e dalla guardia nazionale, transitò Toledo ed andò al Vescovado dove non trovò un sol prete, nè una sedia, nè nulla, chè tutto aveva involato la rabbia e la ladroneria del prete”. Inutile dire che in seguito all’accaduto il Cardinale Riario Sforza venne esiliato. La massoneria aveva vinto, con l’aiuto della nascente camorra, e da allora tiene saldamente il timone della grande loggia “Italia”.

Annamaria Pisapia

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LA NOTTE DELLA TAMMORRA A NAPOLI CON L’ALTA TERRA DI LAVORO

Posted by on Ago 10, 2019

LA NOTTE DELLA TAMMORRA A NAPOLI CON L’ALTA TERRA DI LAVORO

L’Arte Musicale dell’ alta Terra di Lavoro torna alla Capitale, Napoli, dopo 2 secoli e mezzo alla Corte di Re Carlo ma questa volta non è Carlo di Borbone di Napoli ad aspettarli ma sarà Carlo Faiello, direttore artistico dell’ evento “La Notte della Tammorra” organizzato dall’ Ass. “Il Canto di Virgilio” che si terrà il 15 agosto 2019 a Napoli alla rotonda Diaz su lungomare Caracciolo.

L’evento da molti anni è diventato una tappa fissa della musica, non solo popolare, di tutta l’Italia Peninsulare, una volta Regno di Napoli, per volontà di Carlo Faiello che ha faticosamente recuperato lo spirito che animava la gloriosa festa di Piedigrotta, sostituì quella orgiastica di origine pagana pre-cristiana, che una volta l’anno e per molti secoli, accoglieva in quei pochi giorni tutti i musicanti, cantori, ballatrici e ballatori, termini che si usavano per il mondo della musica popolare, che da tutto il Regno arrivavano in pellegrinaggio a rendere omaggio alla Madonna di Piedigrotta per poi esibirsi con la loro musica e i loro balli; la Festa di Piedigrotta ha anticipato di alcuni secoli quello che oggi è l’Oktoberfest e i Festival sparsi in giro per il mondo. Carlo Faiello artista napoletano a 360 gradi illustre figlio della “Scuola Musicale Napoletana” che gli addetti ai lavori chiamano semplicemente “La Scuola”, ha dato il titolo “La Notte della Tammorra” per rendere omaggio alla sua amata città e alla sua amata terra ma ha voluto che divenisse anche un incontro tra tutte le arti musicali popolari del sud della Penisola Italica che si esibiscono in purezza prima del suo concerto. Inconsapevolmente Carlo Faiello ha ereditato, cosa vuol dire fidarsi e farsi guidare dalla propria anima che ti porta in una strada a te sconosciuta, anche il “modus operandi” dei Borbone che furono i primi che portarono i Lazzari e la Musica Popolare a Corte quando a palazzo Reale si festeggiavano la nascita degli Infanti e l’affiancarono alla Musica Importante, quella del San Carlo per intenderci confermando e rinnovando il “sacro e profano” che a Napoli ha la sua sede naturale. In pochi sanno che Ferdinando IV quando andò a Taranto per una visita diplomatica rimase folgorato dal ritmo della “PizzicaPizzica” e volle che fosse trascritta per farla diventare, come spesso ci ricorda il M.so Enzo Amato, musica “Esatta” per affiancarla alle più note “Tarantelle” e “Tammurriate”. Stessa cosa accadde quando ascoltò per la prima volta il “Salterello” di cui rimase rapito e volle che seguisse la stessa sorte della “PizzicaPizzica” facendolo trascrivere e pretese che le suddette musiche venissero suonate al suo funerale insieme alla Tarantella e alla Tammurriata “(Lettera di. FERDINANDO. QUARTO DI BORBONE a suo figlio. Francesco, dicembre 1820). …. donò al consorte e all’intero reame …… beffardo funerale alla misera …… specie di salterello campagnolo, …… tenevano spettacoli di tarantella e..”

Carlo Faiello seguendo il suo istinto di artista napoletano e grande personaggio di Cultura che non l’assorbe ma la crea, dopo che nelle precedenti edizioni ha portato a Napoli musiche del Cilento, del Salento, della Calabria, del Gargano e della Sicilia quest’anno ha voluto anche la musica popolare dell’alta Terra di Lavoro, degli Abruzzi, del Molise e dei territori che una volta confinavano con il Regno di Napoli che sono il Saltarello o Salterello e Ballarella. Gli artisti che hanno avuto il piacere e l’onore di essere stati scelti da Carlo Faiello a rappresentare l’alta Terra di Lavoro sono delle vere eccellenze che da anni spendono la propria vita nel conservare e trasmettere le vere tradizioni musicali, e non solo, del nostro territorio. I Musicanti vengono dalla Valle di Comino, in Terra di Lavoro, per l’esattezza da Villa Latina, una volta e per molti secoli Agnone, luogo che da i natali a grandi Zampognari che da tempo immemore diffondono la propria Musica in tutto il mondo che a Napoli divenne arte, avranno i nomi di Domenico Fusco alla Zampogna a Chiave, Diego Fusco alla Ciaramella, Angelo Fusco alla Zampogna, Petrilli Luca al Tamburello e Salvatore Sarda all’Organetto che indosseranno gli abiti tipici della zona con i famosi “Scarpitti” ai piedi noti anche perché indossati dai Briganti Insorgenti. Alle danze si esibiranno le “Ballatrici” che avranno il nome di Maya Tedesco, Marilena Norato, Lorenza Di Stefano e Cinzia Zomparelli. Con queste premesse, che ad alcuni possono sembrare esagerate o di parte, vi invitiamo a venire il 15 agosto ’19 a Napoli alla “Notte della Tammorra” perché non sarà un normale concerto ma una grande festa non popolana ma Popolare scritto per l’appunto con la P maiuscola dove tutti saranno protagonisti e ci sarà da divertirsi.

Claudio Saltarelli

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Il casato Burali d’Arezzo, uno dei più antichi d’Europa

Posted by on Lug 29, 2019

Il casato Burali d’Arezzo, uno dei più antichi d’Europa

   La famiglia  gentilizia Burali d’Arezzo va divisa in sei rami, che sono Arezzo, Firenze, Pisa, Parma, Napoli e Sicilia. Essa, che possedette vari castelli, è originaria di Buro, in Francia, città di cui scrive Giulio Cesare nel “De Bello Gallico”, definendola “fortissima fra le città tutte della Gallia e della Germania”, onde Burali, che sono tra le famiglie più antiche d’Europa, come si evince dai documenti degli archivi pubblici e privati nazionali.

   Essi calarono in Italia nel 700 e si stanziarono nella Valle Superiore del fiume Arno, fondando la città di Ostina, governata da loro per cinque secoli con ottime istituzioni. Di questo centro restano sparsi ruderi nel Valdarno di Sopra, in provincia di Arezzo, distrutto per la guerra tra guelfi e ghibellini. Altri componenti della medesima famiglia, partiti da Buro, si fermarono in Parma, dove si distinsero, meritando il primato tra i cittadini parmensi. I Burali di Arezzo  e di Parma sono dello stesso casato, come lo prova lo stesso sigillo adottato da essi e numerose lettere scritte dal Cavaliere Anfione Burali, Consigliere del Serenissimo Duca di Parma, al Governatore di Arezzo, Giacomo Burali.

   I Burali avevano ricevuto dai re longobardi, per i servigi resi agli stessi, un diritto illimitato, tra cui la facoltà di fondare delle città. Essi innalzarono le mura di Ostina, magnifici edifici, sontuosi palazzi e un Foro. Il dominio dei Burali su Ostina durò circa 570 anni, sino al 1269, quando  la città, che si difese ostinatamente, fu distrutta quasi completamente dagli esuli ghibellini di Firenze e dai Pazzi, signori della Superiore Valle d’Arno: La famiglia  fu costretta all’esilio. Allora i Burali, principi di Ostina, marchesi e conti della Repubblica Fiorentina, Gran Capitani della Superiore Valle d’Arno, si insediarono in Arezzo, dove acquistarono magnifici palazzi.Un ramo , da cui discende il cardinale, passò al servizio di Ladislao, re di Napoli. Sappiamo che un Donato Burali d’Arezzo , che svolse la duplice funzione di consigliere del sovrano  e di luogotenente del grande cancelliere; conosciamo anche la figura di un Checco  Burali d’Arezzo,che, anch’egli sotto Ladislao, fu castellano e governatore nella campagna di Eboli, nel Salernitano. Siccome Ladislao, assieme alla madre Margherita d’Angiò, risiedeva a Gaeta, essendo stata occupata Napoli da Luigi d’Angiò, la famiglia Burali d’Arezzo acquistò proprietà terriere di notevole estensione ad Itri, dove ebbe i natali il cardinale Paolo.

   Numerosi storici hanno documentato la nobiltà e le gesta dei Burali d’Arezzo. Tra gli altri, l’illustre Francesco Guicciardini nella celeberrima “Storia d’Italia”, in venti libri scritta tra il 1537 e il 1540, in forma annalistica, forse sull’esempio di Tacito, opera di potente unità, tanto esteriore quanto intrinseca.

   Il gloriosi casato, a cui hanno reso onori tante Corti europee, ha dato alle ambascerie di pace, alla Chiesa, alla giurisprudenza, agli studi umanistici, alle armi, tanti uomini preclari, ai quali sovrani ed autorità municipali conferirono beni, poteri e titoli.

   I Burali d’Arezzo  edificarono chiese e cappelle in molte città, italiane e straniere Ne diamo un breve accenno : la chiesa di S. Maria e quella di S. Francesco con il vasto convento nelle adiacenze di Arezzo, a memoria del Beato Giovanni Burali di Parma, settimo General  Ministro dell’Ordine dei Minori; la grandiosa cappella nella vetusta chiesa di S. Michele; l’altra di Maria Immacolata in Guascogna;  la cappella di S. Andrea nella chiesa di S. Germiniano;  la cappella della SS.  Trinità nel monumentale tempio di S. Maria in Gradi, la cappella  della Conversione di S. Paolo nella chiesa  della collegiata ed altra di S. Onofrio, pure in Arezzo;  la cappella dell’Angelo Custode nel convento dei Padri Francescani in Gaeta; la cappella, anch’essa dedicata all’Angelo Custode nella chiesa di S. Francesco in Itri; la chiesetta di S. Maria della Misericordia e l’altra di S. Erasmo, entrambe in Itri; le cappelle gentilizie nel duomo di Gaeta, nella chiesa dei  SS. Apostoli e in quella di S. Paolo Maggiore in Napoli, dedicate, queste ultime, al Beato Paolo Burali d’Arezzo, cardinale Arcivescovo di Piacenza e di Napoli.   

     Il Beato Paolo (al secolo Scipione)  Burali d’Arezzo fu una figura straordinaria, una delle più espressive del periodo della riforma cattolica, che affascinò S. Carlo Borromeo e tanti altri, sempre con la sua profonda umiltà, virtù caratteristica di tutta la sua vita, con la sua purezza, nella quale si innestavano una vasta dottrina, una pietà evangelica e  il rigore. La candidatura alla tiara pontificia del Burali, alla morte di Pio V, fu bocciata dalla cosiddetta corrente mondana del conclave, perché si temeva che egli avrebbe trasformato il Sacro Collegio in un convento teatino. Dunque Paolo  non fu eletto pontefice nel 1572, per la sua soverchia rigidezza ed austerità, nonostante S. Carlo Borromeo e il cardinale Michele Bonelli,  l’“Alessandrino”,  nipote del defunto papa, avessero puntato decisamente le proprie carte su di lui, che, invece, concorse efficacemente, il 13 maggio 1572, all’elezione di Ugo Boncompagni, suo antico maestro di diritto canonico all’università di Bologna, elevato al soglio pontificio con il  nome di Gregorio XIII.

    Il cardinale Burali d’Arezzo, del titolo di S. Pudenziana, intransigente difensore della fede, nasce all’ombra del castello di Itri, uno dei più grandiosi d’Europa, che ha svolto un ruolo strategico nelle comunicazioni tra i vari Stati, essendo in posizione dominante sull’Appia. Alla storica famiglia altomedioevale, tra le più nobili della Toscana (il padre è il principe Paolo Burali d’Arezzo, Segretario di Stato dell’Imperatore Carlo V, la madre è Victoria Oliveres di Barcellona, dell’alta nobiltà spagnola, figlia di Pere Oliveres, consigliere  e poi uditore reale nel vicereame di Napoli), vennero conferiti feudi, poteri e titoli.

  Il principe Paolo Burali d’Arezzo è un protagonista nelle ambascerie, contribuendo, fra l’altro, in maniera ragguardevole, a sanare i profondi  contrasti tra Carlo V di Spagna e Francesco I di Francia. Egli, in qualità di ambasciatore del pontefice Clemente VII e del  duca di Milano Francesco Sforza, si muove con grande competenza presso l’imperatore, che nutre per lui grande ammirazione, come pure il sovrano francese Francesco I di Francia.

   Finalmente, nel giugno del 1529, viene firmato il trattato di pace di Barcellona. Il papa riceveva alcuni compensi territoriali ed investiva Carlo V re di Napoli, promettendogli anche di incoronarlo imperatore in Italia. Il principe Paolo,morta, ancora giovane, la moglie, abbracciò la vita religiosa nel 1557, nominato prelato e cameriere di Clemente VII.   

   Ricordiamo, sulla base di un’opera dello storico Camerini, il ruolo  svolto dal Beato di casa Burali, Giovanni di Parma, nato nel 1208 e morto ottantunenne. Seguace di S. Francesco d’Assisi, fu ambasciatore papale,  inviato presso il sovrano di Francia Luigi IX, per chiedere aiuti per la Crociata. Poi, come scrive Ireneo di Busseto, spedito da Innocenzo IV a Costantinopoli per trattare l’unione delle Chiese. Egli, nelle credenziali da esibire all’imperatore, è qualificato come “Angelo della Pace”. L’ambasciata è coronata da successo, perchè la chiesa greca sii pacifica con quella latina. Anche nel Concilio di Lione, del 1245, Giovanni Burali di Parma ricopre un ruolo di rilievo. In esso (XIII ecumenico) si sanzionò la scomunica di Federico II. Lo stesso fu il primo professore d’italiano alla Sorbona di Parigi. Sappiamo che Enrico III, re d’Inghilterra, scende sin sulla soglia del suo palazzo per venir incontro al Beato Giovanni Burali e che Luigi IX, sovrano di Francia, che fu canonizzato da Bonifacio VIII nel 1297,va a mensa, suo ospite.

   Il moto popolare di Masaniello a Napoli, nel 1647, che scomnvolse il Mezzogiorno d’Italia, ebbe ripercussioni nelle province. La rivolta si diffuse, come fuoco divampante al soffiar del vento, in molti centri del reame assumendo caratteri sempre più politici, perché i ribelli proclamaromno la repubblica. L’insurrezione contro gli Spagnoli si estese con facilità, fino a Fondi, Sperlonga ed Itri, sotto l’energica spinta di Giuseppe Burali d’Arezzo, che guidò la ribellione con fortuna, potendo disporre di più di 600 uomini.

   L’opera di Giuseppe Burali d’Arezzo fu di così notevole importanza nello sviluppo della rivolta, da destare inquietudini serie negli Spagnoli. Dopo aver alluso ai moti delle altre province, così il De Turri in “Dissidentis desciscentis receptaeque Neapolis”, Napoli, 1770, p. 537, accenna a quelli di Itri e di Fondi: “His Tristiores, etiam, successibus erant qui aeque ad regni limites sed ad inferum mare contigere. Fundos et cum eis Sperlingam cum universis circumiacentibus oppidis Dominicus quidam Aloysii vulgo Peponus, et Josephus de Aretio tumultuarii Duces, occupavere.” E il Piacente in “Le Rivoluzioni del Regno di Napoli negli anni 1647-1648”, Napoli, 1861, p. 255, “Sollevatosi Itri, terra non meno di 40 miglia lontana,  per la via di ponente, da Capua, Giuseppe d’Arezzo gentiluomo di quella terra e forse il oprimo che incominciasse tra i nobili a lazzarizzarsi, non solo la costrinse a dichiararsi a devozione del popolo, ma prese patente di Maestro di Campo dall’Ambasciadore di Francia, e divenutto Capo di 600 persone che raccolse dai vari villaggi di quel contorno, si spinse, emulando la (sic!) Colessa, sotto le mura di Fondi, città non meno considerabile.” Il Burali d’Arezzo si impadronì subito del convento di S. Francesco, da cui lanciava all’assalto i suoi. Vedi il Piacente. Con un assedio di parecchi giorni, il signor  Burali d’Arezzo costrinse alla resa i soldati regii ben provvisti, che si difendevano gagliardemente; resa che parve tanto strana allo stesso Comandante Martino De Berrio, da indurlo al sospetto di un tradimento. Perciò fece imprigionare il capitano Francesco Inglese. Ma, siccome l’inchiesta risultò favorevole, l’Inglese fu posto in libertà. Consultare P: Oliva, “Discorso della Sollevatione”, p. 50.

   Il Burali d’Arezzo, instancabile nel presidiare i posti e nell’estendere la rivolta, avuto in mano sua anche Itri e Sperlonga, tentò di occupare Castellone e Mola, ma vi fu respinto dai 50 Spagnoli che vi erano di guardia, prima ancora che vi giungessero i rinforzi del duca di Marzano, del marchese della Pietra, dei Grimaldi di Genova, e del Mormile, duca di Vairano. Nel “Diario di Francesco Capecelatro contenente la storia delle cose avvenute nel Reame di Napoli negli anni 1647-1650”, opera primaria, edita, per la prima volta, sulla rivoluzione di Masaniello, in data 1850-1854, il Capecelatro scrive: “Due fratelli della famiglia di Arezzo, nipoti del già Cardinale di tal nome, naturali della terra d’Itri, avuti alcuni capi Francesi da Terracina, avevano fatta rubellare la loro patria ed occupato Castiglione (sic!) presso Gaeta  (Castellone e Mola, oggi Formia, n. d. r.), ove s’erano fortificati e, tentato parimente di occupare Mola, vicino borgo della detta città, ne erano stati ributtati da cinquanta Spagnuoli che v’erano di guardia;il perché fu inviato a quella volta il Mormile duca di Vairano (che poi perfidamente rubellandosi con Giovan Battista del Balzo di Capua Barone di Presenzano suo cognato, s’unirono ai popolari) ed il laudato gentiluomo di Gaeta e cavaliere dell’abito di Caltrava Duca di Marzano, che con il Marchese della Pietra dei Grimaldi di Genova, che ersa in prima gito in Teano, raunando soldati si fussero opposti a quei rumori.” Ciò, prima del 20 dicembre 1647. Poi con 300 cittadini gaetani e 200 soldati, il maggiore Pedro Sanchez, introdottosi, per occulte vie, in Itri, saccheggiò il paese e delle alle fiamme la casa del Comandante.  Gli insorti riconquistarono Itri e fortificarono meglio Sperlonga.Ciò impressionò tanto il conte di Onatte, che nel viaggio da Roma verso Napoli, dove si recava come nuovo viceré, si indugiò apposta alcuni giorni a Terracina, per farvi con il Burali d’Arezzo le trattative della resa delle terre da lui mantenute così tenacemente; trattative continuate da Napoli, tramite il Principe di Roccaromana.

   Però, in soccorso dell’Onatte,che si insediò a Napoli con la crudeltà,vennero presto, anziché le pratiche già iniziate, le disgrazie del capo degli insorti. Venuto in sospetto dei Francesi, fu imprigionato, a tradimento, nel castello di Fondi, ma, liberato dai suoi partigiani, cadde, presso Terracina, nelle mani dei soldati pontificii, che lo rinchiusero a Frosinone. Si ignora che sorte gli toccasse in seguito.Sembra che, essendo poco sicuro il carcere di Frosinone, la Santa Sede ritenne opportuno trasferire Giuseppe Burali d’Arezzo a Civitavecchia. Durante il tragitto, però, i Francesi riuscirono a liberarlo. Per la sollevazione di questi paesi, i fratelli Burali d’Arezzo furono condannati alla pena capitale, ma la madre di essi, una Vipereschi di Benevento, si presentò da Masaniello e, ricordando i meriti del santo arcivescovo di Napoli, Paolo Burali d’Arezzo, poi beato, di cui gli agitatori erano pronipoti, riuscì ad ottenere il condono del castigo.

   Secondo il Capocelatro, forse il più autorevole testimone della rivoluzione, filospagnolo, le accuse contro di lui sarebbero queste: la dispersione del danaro gallico, inteso alla propaganda antispagnuola, e l’odiosità insolente con cui tenne il governo del paese. Si riportano le parole del Caracciolo. I ricorsi degli stessi concittadini all’ambasciatore francese di Roma costrinsero questi ad inviare a Fondi una persona di fiducia, il capitano Troyna, che, appurata la verità delle accuse, procedette all’arresto dei fratelli Burali d’Arezzo. Egli venne con 130 soldati, cenò lietamente con loro nel castello e, all’improvviso, li fece arrestare. Ma il brutto complimento gli costò la vita. I loro aderenti riuscirono, dopo quattro giorni, ad uccidere, di notte,il Capitano, mentre era a letto, o si recava da una sua donna, e, in tal modo, a sciogliere dalla prigione i signori Burali d’Arezzo. Uno di loro fuggì in campagna, a “Valle d’Itri”, dove i Burali d’Arezzo avevano una casa rurale, senza essere raggiunto. Gli altri due, uno dei quali D. Giuseppe, passarono nella prigione pontificia, arrestati presso Terracina.

   A quanto scrive lo stesso Capocelatro, i soldati papalini li avrebbero assicurati alla giustizia per i “molti gravi delitti da loro commessi” nello Stato del papa. Non pare ammissibile, né l’Oliva ha il minimo accenno a tale corcostanza infamante! Presumibilmente, l’ambasciatore francese a Roma volle colpire in loro la strage fatta del capitano Troyna, oppure, come scrive l’Oliva, furono presi come “banditi” dello stato ecclesiastico.In quanto alle colpe attribuite loro, esse vanno non solo ridotte, ma discusse. L’appropriazione, da parte dei fratelli Burali d’Arezzo, dei 14.000 scudi francesi dati loro allo scopo di “assoldare” uomini- ciò che, secondo il Caracciolo, non avrebbero fatto- non pare si possa sostenere, quando si pensi alla rapidità ed estensione del tumulto che essi provocarono e mantennero a lungo, in molti paesi del regno di Napoli. Ed il danaro dovette andar disperso e profuso nell’istigare alla rivolta e nel fortifoicare i posti. Cosa che fu eseguita prontamente, senza alcun dubbio. Forse il diarista registrò, senza ombra di riserva, una diceria pubblica, sorta in ambienti ostili.L’Oliva, che poteva saperne per i facili contatti fra Gaeta ed Itri, parla solo del “conto” che l’inviato francese doveva chiedere a Giuseppe Burali d’Arezzo di “alcune migliaia di ducati” spediti per “soccorrere le genti” ed insiste sugli “eccessi” e mire interessate, che travolsero nella rovina “quel giovane”, che “viveva con ogni comodo nella sua terra d’Itri, nella quale teneva il primo luoco, amato, temuto e servito da tutti”. Egli, invece, fu accecato dall’ambizione (“Discorso della Sollevatione” di P. Oliva, pp. 59,61). Altrove accenna anche all’opera di malvagità “degli amici et aderenti” suoi, che, “vedendosi privi delle loro solite rapine”, lo scarcerarono uccidendo il Troyna. Giuseppe Burali d’Arezzo fu sempre il capro espiatorio di colpe anche non sue, ma le gelosie o le vendette private dovettero aver gran parte (è lecito congetturarlo) nel muovere e nell’accreditare le accuse contro di lui, che avrebbero bisogno di essere avvalorate da altri documenti, perché si possa crederle definitive. Malgrado la gravità di un arresto indetto dai Francesi stessi, che avevano interesse ad evitarlo, le fontoi del Caracciolo e dell’Oliva, devoti alla Spagna, restano decisamente sospette e appassionate. Del resto, pur dando all’ipotesi di quell’appropriazione valore storico, è da riflettere che per la rivoluzione i Burali d’Arezzo ebbero la casa arsa e saccheggiata, nonché la prigione!

   Comunque sia, la sua scomparsa incoraggiò tanto gli Spagnoli, che ne approfittarono gettandosi subito all’occupazione dei paesi ancora sollevati. Con uno squadrone di cavalleria, al comando del principe di Minervino, e 1200 soldati, agli ordini del principe di Garaguso, del conte di Loreto e del duca di Marzano, D: Martino De Berrio, dopo aver sorpreso Itri, che finì di saccheggiare orrendamente, ed aver accettato la capitolazione di Fondi, che gli aveva già inviato, per via, le chiavi della città, si diresse a Sperlonga, dove si erano concentrati i nemici, disponendosi a prenderla d’assalto, a detta di Francesco Capecelatro e di Paolo Oliva.

Alfredo Saccoccio

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La grande impresa del Cardinale Ruffo

Posted by on Lug 21, 2019

La grande impresa del Cardinale Ruffo

L’uomo, cui il destino riserva, in quel fatidico principiare dell’anno 1799, il gravoso incarico di risollevare l’onore delle armi napolitane contro l’invasore francese, veste panni assai strani. Almeno per un condottiero. E’ un cardinale di Santa Romana Chiesa, si chiama Fabrizio Ruffo ed è calabrese purosangue. La sua famiglia, di antica nobiltà, ha, da sempre, infatti, vastissimi feudi nella Calabria meridionale. 

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