Posted by altaterradilavoro on Feb 28, 2019
Una
campagna anticattolica travestita da lotta agli abusi. Nel silenzio di tutti
di Giuliano Ferrara
pubblicato su “Il Foglio” il 28 febbraio
2019
Contro
il capitano Dreyfus un secolo fa si scatenò l’inferno, e lui finì all’inferno,
perché attraverso di lui volevano combattere la sua razza, il cosmopolitismo
delle élite, l’antimilitarismo. Contro il cardinale George Pell oggi si è
scatenato l’inferno, e lui rischia di finire all’inferno, perché attraverso di
lui il pensiero unico dominante vuole mettere in ginocchio la chiesa cattolica
e la sua morale considerate l’ultima remora o contraddizione potenziale
all’omologazione universale al nuovo credo scristianizzato del sesso, della
riproduzione, della famiglia e del gender senza Dio né legge.
Alfred Dreyfus era un capitano ebreo dell’esercito francese.
Fu arrestato per spionaggio nel 1894, condannato all’ergastolo e degradato e
inviato a scontare la pena all’Isola del Diavolo, nella Guyana francese. La
condanna scatenò feroci passioni: un fronte trasversale all’insegna dei diritti
umani universali proclamò la sua innocenza, mentre una vasta convergenza
patriottarda, antisemita e militarista si batté con rabbia per la conferma
della sua condanna. Nel 1899 Dreyfus si vide cassata la sentenza con rinvio a
un nuovo processo della corte militare, fu di nuovo condannato l’anno stesso,
malgrado l’evidenza delle prove a carico del vero colpevole di spionaggio, e
dieci giorni dopo la nuova condanna a dieci anni fu graziato dal presidente
della Repubblica, per essere infine riabilitato sotto Clemenceau alla vigilia della
Prima guerra mondiale. Maurras, il fondatore dell’Action Française, chiamò
“falsi, sì, ma patriottici” i documenti d’accusa, e di questo scandalo tra i
due secoli si disse che gli antidreyfusardi, tra i quali anche le frange
estreme della sinistra comunarda, colpivano nel capitano la sua razza, il
cosmopolitismo delle élite radicali e degli intellettuali dreyfusardi, nel
dramma di un nazionalismo e bellicismo frustrati dalla perdita dell’Alsazia e
della Lorena a vantaggio della Germania nel 1870.
Un caso analogo è quello del cardinale George Pell,
australiano, fino a ieri numero tre della chiesa cattolica, condannato dalla
Corte dello stato di Victoria per atti di pedofilia violenta, incarcerato in
attesa che sia fissata la pena e in vista di un processo d’appello. Le cose che
abbiamo riferite qui ieri e i documenti intorno al processo che pubblichiamo
dimostrano che, sebbene in un clima persecutorio infame, segnato da una
aggressiva tendenza colpevolista a ogni costo di parte immensa dell’opinione
pubblica mondiale e dei media, qualche dubbio, almeno nella lontana Australia,
comincia a farsi largo, malgrado una piccola folla urlante abbia gridato
all’imputato che “marcirà all’inferno” e i media di tutto il mondo, a ogni
latitudine, facciano coro con rarissime eccezioni nella crociata anticristiana.
La parte decisiva
del processo a Pell, per un caso di ventitré anni fa, si è svolta con
l’interrogatorio a porte chiuse di un trentenne denunciante il cui nome non
verrà mai reso noto, per l’opinione internazionale e per il pubblico un
accusatore anonimo. La prima giuria convocata nell’agosto dell’anno scorso ha
confessato, con alcuni giurati in lagrime, di non poter emettere alcun
verdetto. Il retrial o ri-processo, con una giuria convocata ad hoc, ha stabilito,
sulla base di una sola testimonianza d’accusa non suffragata dal benché minimo
riscontro testimoniale, che il vecchio cardinale e braccio destro del Papa,
politicamente scorretto, conservatore, burbero, ambizioso e potente, è
colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio di una violenza in una sagrestia
a porte aperte subito dopo la processione e la messa domenicale, la sua prima
da vescovo di Melbourne, in una finestra temporale instabile ma non superiore
ai cinque-sei minuti per la commissione del delitto. Fino a cinquanta anni di
galera possibili. Un secondo presunto abusato era morto di eroina nel 2014, un
anno prima che il ragazzino tredicenne del coro, ormai trentenne, si decidesse
a denunciare il misfatto al riparo della privacy e nello strepito del crucifige
di un movimento attivistico incandescente in Australia e nel mondo; e fino alla
morte l’altra vittima ha sempre negato che sia accaduto alcunché, rispondendo
di “no” alla madre che gli domandava se fosse successo qualcosa (ora la
famiglia chiederà un risarcimento alla chiesa, ora dice di aver capito la
ragione delle sofferenze e della morte tossica del ragazzo).
Una parte della classe dirigente australiana, che ha
convissuto nella vita pubblica con il cardinale Pell e lo ha conosciuto bene in
via privata, si dice esterrefatta dalle risultanze giudiziarie, in totale
contrasto con l’identità percepita, un uomo intelligente e di carattere,
dell’alto prelato (gli ex premier John Howard, Tony Abbott). Si ascoltano voci
garantiste e innocentiste anche fra commentatori laici, fuori della chiesa, in
particolare nel gruppo editoriale Murdoch. Il Papa ha fatto fatica per
incredulità a prendere le misure graduali, ma automatiche nel nuovo costume e
regime di curia, che hanno allontanato Pell dalle sue immense responsabilità
nel governo della chiesa, dove era stato chiamato da Bergoglio – nonostante
campagne già in atto contro di lui – come ministro del Tesoro, e per misure
estreme aspetta l’appello, che sarà deciso, immaginiamo in mezzo a quali
pressioni ambientali, da una giuria togata di tre persone. Forse intorno a
questo processo, che ha tutta l’apparenza di una spietata caccia alle streghe,
può cominciare a cambiare qualcosa nella mentalità con cui si guarda a queste
vicende drammatiche. Nel mondo non ci sono solo giornalisti conformisti, o
pavidi, e facinorosi moralizzatori del mondo cattolico progressista cosiddetto
che guardano con sadico compiacimento l’inabissamento nello scandalo e nella
“vergogna” (“Pedofilia: la vergogna del cardinale”, titolo vergognoso di
Repubblica ieri) di un principe della chiesa giudicato intellettualmente e
caratterialmente intrattabile, e che sarebbe stato chiamato in rappresentanza
della minoranza da Francesco a Roma, a loro grottesco e fazioso giudizio (sullo
sfondo sempre l’insinuazione che tutto il marcio debba farsi risalire a
Giovanni Paolo II e a Ratzinger).
Da vent’anni, praticamente in solitario (il che dovrebbe
essere una circostanza sospetta per chiunque abbia una visione liberale e
garantista del diritto nel suo rapporto con i media e l’opinione pubblica), qui
nel Foglio sosteniamo che è in atto una campagna ferocemente anticattolica
travestita da lotta al lupo clericale, al prete abusatore e al vescovo che lo
copre.
Per farlo non abbiamo bisogno di negare gli abusi, che ci
sono stati e in una misura non indifferente, in parallelo con la sordità etica
di un mondo pansessualista verso l’integrità dei bambini anche e sopra tutto
fuori delle mura della chiesa. Ci basta discernere, comprendere i modi e i
timbri antigiuridici, ideologici, del gigantesco ricatto scristianizzatore e
anticattolico condotto da grande stampa, organismi giudiziari e ad hoc,
commissioni, comitati attivistici che parlano in nome delle vittime e dei
poderosi risarcimenti, governi: attraverso i preti, con una azione di
generalizzazione ricattatoria che trasforma il clero in una vasta orda di orchi
nelle mani di una ossessione satanica per gli agnelli, i nuovi antidreyfusardi
vogliono colpire un’istituzione bimillenaria invecchiata, tragicamente incerta
tra la sua tradizione e l’aggiornamento mondano, smantellando alcuni suoi
caposaldi come il celibato, la cura d’anime, l’indipendenza del culto e della
sua amministrazione da parte del clero consacrato, il celibato, il sacramento
della confessione segreta, l’esclusione delle donne dall’ordinazione, la morale
sessuale, la sua autorità di cultura e umanità, la fiducia dei fedeli, la sua
gerarchia a partire dal vescovo di Roma, il Papa.
La chiesa cattolica non ha saputo o potuto reagire, si è
affidata com’è nella sua natura a uno spirito di resa, prima di tutto alle
leggi della provvidenza divina, mediante espiazione e preghiera, poi alle leggi
dell’omologazione al mondo: un vecchio Papa antirelativista e antimoderno,
Benedetto XVI, ha rinunciato al Soglio di Pietro con un gesto inaudito per
secoli, spettacolare e amarissimo, esito e origine di una delegittimazione
profonda dell’istituzione; un nuovo Papa, per la prima volta un gesuita, ha
cercato di contrastare il fenomeno in una logica progressiva di adattamento
alle sue leggi e di resa ai Diktat moralistici del secolo, con risultati
grotteschi, fino all’autoflagellazione sinodale e alla prosternazione della
chiesa in ginocchio davanti all’autorità inquisitoria della stampa e dei media.
Oggi la chiesa di Papa Francesco è messa così: i tradizionalisti
antibergogliani lo accusano di subire le pressioni di una vasta lobby gay
dell’immoralismo interessato e omertoso (ultimi i cardinali Brandmüller e Burke
in una lettera alla vigilia del convegno sinodale recente); gli Lgbt
definiscono “Sodoma” il Vaticano e il clero cattolico, rilanciano sul
mercato il sospetto
generalizzato sui “comportamenti dell’80 per cento dei preti”, per dimostrare
che la sessuofobia antigay è il prodotto o il riflesso della sessuomania
predatoria sui più piccoli e vulnerabili, e che per superare il segreto
criminale la chiesa ha bisogno di un colossale coming out; proliferano dovunque
nel mondo indagini e accuse le più varie, estese su decenni e decenni, arrivate
a toccare migliaia e migliaia di preti, decine di vescovi e molti cardinali con
imputazioni che dannano generazioni di ministri ordinati e il modo di essere
della gerarchia e della gestione del clero, su su fino alla curia romana e al
Papa stesso, con il caso del suo confessore accusato di pedofilia, il vescovo
di Orán Gustavo Oscar Zanchetta (in Belgio, prima della Renuntiatio di
Ratzinger, l’intera conferenza episcopale fu messa ai domiciliari per una
intera giornata, e la polizia giudiziaria procedette allo scavo nelle tombe di
cardinali come Leo Suenens, uno di padri del Concilio Vaticano II, allo scopo
dichiarato di trovare prove di abusi ivi sepolte).
In questa storia gotica e noir, dove un
mondo che predica e pratica in tutto il suo luccicante splendore di cultura e
di mercato gay culture e gender culture, salvo mescolare fede e perversione
mettendole in carico come speciale patologia al clero cattolico, suo magnifico
caprone espiatorio, l’impressione è di una chiesa boccheggiante. Per i
credenti, si può dire che è affar loro e della fede nella divina provvidenza;
ma per i non credenti e i laici extra muros, per chi ha un amore anche vago per
il diritto eguale e per una conoscenza non pregiudiziale e oggettiva della
realtà storica, il dipanarsi impunito da decenni di un’orchestrazione d’accusa
generalizzante, inquinante, ai danni di una cosa preziosa come la chiesa
cattolica, testimone e contraddittore del mondo e delle sue parzialità,
dovrebbe essere uno stimolo per conoscere, per interessarsi, per
contro-accusare e sceverare il vero dal falso. Non per voltarsi dall’altra
parte e plaudire alla condanna universale senza contraddittorio, come fecero i
peggiori antidreyfusardi, con conseguenze che macchiarono di orgoglio
luciferino tutto il Novecento.
Read More
Posted by altaterradilavoro on Feb 11, 2019
Sommario:
1. – La vita e l’attività pubblicistica. 2. – Condannato dai rivoluzionari
repubblicani e dal tribunale del Re. 3. – La “leggenda nera”. 4. – La complessa
personalità costellata da eminenti doti. 5. – Riflessioni conclusive.
1. – La vita e l’attività pubblicistica. – Antonio Luigi Capece Minutolo, Principe di Canosa, nasce a Napoli il 5 marzo 1768(1), terzogenito dei coniugi don Fabrizio e donna Rosalia de Sangro dei Principi di San Severo (è, perciò, nipote ex matre di Raimondo, grande genio del settecento); dalla sua fede di battesimo conservata nell’Archivio di Stato di Napoli apprendiamo anche il nome della “mammana” (ostetrica): Antonia Ferrara.
Appartiene
ad una antica famiglia con signoria sul feudo di Canosa ed era ascritta al
primo dei Sedili di Napoli, quello di Capuana.
Nel
Duomo di Napoli fa bella mostra la cappella dei Capece Minutolo, ricordata
anche da Boccaccio nella novella di Andreuccio da Perugia, dove i ritratti di
tredici viceré, due cardinali e una schiera di guerrieri denotano la nobiltà e
onorabilità della stirpe.
Compie i suoi studi nel collegio Nazzareno di Roma, sotto la guida dei Gesuiti; successivamente viene avviato alla professione forense, dove si distingue nella trattazione delle cause penali. 2. – Condannato dai rivoluzionari repubblicani e dal tribunale del Re. – Il Principe di Canosa ha avuto il triste privilegio di aver subito la condanna a morte dai repubblicani rivoluzionari, perché incolpato di essere monarchico, ed
ugualmente una
sonora condanna dal Tribunale del Re, allorché venne restaurata la monarchia,
perché ritenuto colpevole di essersi posto contro l’autorità regale,
rappresentata dal suo Vicario.
All’inizio del 1799, invero, nelle torbide giornate della
repubblica napoletana, i giacobini lo condannarono a morte per aver organizzato
la plebe ed armato i lazzari(2) che, in nome del Re, si opponevano allo
straniero invasore ed ai cittadini suoi fiancheggiatori. “I lazzaroni, questi
uomini meravigliosi scampati dall’esercito che era fuggito avanti a noi, chiusi
in Napoli, sono degli eroi. Si combatte in tutte le strade, il territorio è
disputato palmo a palmo, i lazzaroni sono comandati da capi intrepidi, il forte
di S. Elmo li fulmina, la terribile baionetta li atterra, essi ripiegano, in
ordine, tornando alla carica”(3).
Fortunosamente scampato alla pena capitale, ebbe a subire
dolorose traversie con il ritorno di re Ferdinando IV a Napoli e la
restaurazione della monarchia: uscito dal carcere repubblicano l’11 luglio
1799, a seguito della capitolazione dei rivoluzionari asserragliati nel
castello di Sant’Elmo, il 1° agosto successivo venne rinchiuso nelle regie
carceri.
A suo carico pesava, infatti, la contestazione del potere del
“Vicario” (Francesco Pignatelli di Strongoli), lasciato come alter ego dal
re quando con la corte si era trasferito in Sicilia. Si sosteneva, in
proposito, che, secondo antica tradizione, in assenza del sovrano, la potestà
di governare la Nazione spettasse ai “Cavalieri della Città” ed ai componenti
della “Deputazione straordinaria per il buon governo e per l’interna
tranquillità”, che rappresentavano la città di Napoli(4); il Vicario, al più,
avrebbe dovuto agire d’intesa con i “sedili”.
In questa situazione erano inevitabili dissidi ed incertezze nel governo della città, per cui lo stesso Vicario decise di rifugiarsi in Sicilia. Peraltro, una volta restaurata la monarchia e ritornato il Re nei suoi poteri, il Canosa venne nuovamente portato in carcere e sottoposto a giudizio per il suo comportamento nei riguardi del Vicario.
Il Presidente del
Tribunale della Giunta di Stato, Vincenzo Speciale, che il Canosa definisce
“pazzamente feroce”, chiede per lui la somma condanna, ma il Re, sollecitato
dalle famiglie dei Cavalieri della Città, decise di affidare il giudizio finale
anche alla Giunta del buon Governo, presieduta dal Principe di Cassaro, persona
molto equilibrata. Lo stesso Canosa così racconta la vicenda: “i membri della
Giunta di Stato furono scissi tra loro nella decisione della causa. La scissura
toccò tanto gli estremi, che mentre uno votò per la morte, votarono due
affinché venisse fatta relazione al Monarca intorno ai meriti che contratto
avea colla buona causa il supposto reo. Tra le tante sentenze strampalate si
cavò quasi come media proporzionale, tra chiassi ripetuti e cachinni la
condanna di cinque anni di castello”. Precisamente, alla più mite condanna si
giunse per l’assoluzione dalla reità di Stato e cioè dall’accusa di aver
promosso l’instaurazione di una “repubblica aristocratica”, e per il riconoscimento
solo dell’insubordinazione al Vicario(5).
Tuttavia, nel 1801, a seguito del Trattato di Firenze con cui
Napoleone aveva imposto una generale amnistia per i giacobini condannati, anche
il Canosa, che certamente non rientrava tra costoro, riacquista la libertà.
I repubblicani rivoluzionari, dunque, lo avevano condannato
perché “monarchico” ed il Tribunale del re lo condannava perché incolpato di
aver voluto instaurare una sorta di repubblica aristocratica:
“monarchia” e “aristocrazia”, come rileva Benedetto Croce(6), sono proprio “i
due elementi che egli bensì componeva armonicamente nella sua antiquata
personalità, ma che la storia aveva scissi e messi in contrasto”.
3. – La “leggenda nera”. – Il Principe di Canosa è
perseguitato da una leggenda nera che l’ha dipinto a fosche tinte in
vita e continua a perseguitarlo anche dopo la morte; si è giunti ad incolparlo
della strage di centinaia di migliaia di “giacobini, murattisti e
carbonari”, fino ad attribuire alla sua nefasta influenza presso la Corte di
Modena, il supplizio di Ciro Menotti. 4
Vincenzo Gioberti
lo ritiene “uomo d’infame memoria, che, dopo commesso in Napoli ogni sorta di
ribellione, trovò asilo tra le braccia dei gesuiti alle sponde del Crostole”(7).
Niccolò Tommaseo lo definisce “villano di Canosa, cacciato da
Napoli e dalla Toscana come uomo stolidamente torbido e vituperevolmente
irrequieto”(8); “prepotente, fanatico e cieco reazionario, nemico di ognuno che
aspirasse ad ordini più civili di governo”, lo considera Matteo Mazziotti(9).
Giuseppe Mazzini – dal sicuro dei suoi esili, nota S.
Vitale(10) – lo raffigura “colle baionette d’intorno e il carnefice a fianco”(11).
Più astioso è il giudizio di Pietro Colletta, che, ricordando
il carcere subito dopo i moti del 1821, lo taccia di essere “aristocratico per
dottrina, plebeo per genio”, “diffamato per opere pessime”, “orditore sagace…
di trame, ribellioni, delitti”, “cagione di mille morti, o da lui date o
dall’avversa parte, per vendetta e condanne”, “doppiamente adultero, sempre
ubriaco di vino e di furore”, autore di “opere inique sotto le immagini del
Salvatore e dei Santi”, “tenuto malvagio nel mondo”(12).
Sono affermazioni senza alcun fondamento, di cui specialmente
quelle del Colletta furono dal Canosa puntigliosamente confutate in vita nell’Epistola
ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del reame di Napoli del
generale Pietro Colletta, pubblicata a Capolago nel 1834 e recentemente
ripubblicata dal Vitale in appendice al suo volume “Il Principe di Canosa”.
A sua volta, il Blanch, dopo un generico apprezzamento
dell’umanità del Canosa, bolla le sue vedute politiche come “una idea esagerata
che ha la forza di rendere nulle le migliori intenzioni e le virtù stesse”(13).
Più benevolo è il giudizio di B. Croce(14) che di fronte alle voci calunniose della polizia del Saliceti e alle tenaci difese dello stesso Canosa, dichiara di propendere per queste, osservando che “l’uomo era bensì un don Chisciotte(15) della reazione, ma non punto sanguinario, né malvagio e nemmeno ingeneroso”.
Pur dichiarando di
non volersi discostare dalle considerazioni del Croce, il Maturi(16) ridimensiona
alquanto il sostanzialmente positivo giudizio del Croce osservando che “Accanto
al generoso cavaliere, v’è nel Canosa il settario capace per odio di parte
delle più basse delazioni e delle più odiose quali l’inasprimento delle pene in
materia di opinioni, gli atti più odiosi quali i processi napoletani del 1799 e
i processi piemontesi del 1833”.
Il conte Clemente Solaro della Margarita, che pure come il
Canosa è fedele al trono e devoto all’altare, non è tenero nei suoi
confronti: gli riconosce che è “uomo onesto, devoto ai buoni principi”, ma
aggiunge che è “incapace di maneggiare affari di Stato, specialmente nell’epoca
difficile di una restaurazione. Più poteva in lui la passione che il senno; non
aveva idee fisse; non perseveranza di condotta; voleva il bene non sapeva
operarlo; fu tremendo coi carbonari della plebe, i più accorti delle classi
sociali riuscirono a schermirsene”.
4. – La complessa personalità costellata da eminenti doti.
– I negativi giudizi espressi sul Canosa sono unilaterali e mostrano di non
considerare le qualità che il personaggio possedeva in grande misura, come il
sommo disinteresse personale, la generosità d’animo non venata da rancori, la
costanza dei sentimenti, lo spirito di indipendenza alieno da cortigianeria.
I suoi sentimenti non sono stati mai contaminati da venature
di interesse economico: “Io, afferma il Canosa, ero il capo di una patrizia
famiglia commoda bastantemente nel mio paese.
Abbandonai tutto sul fondato timore di perder tutto, ed in
effetti tutto perdei fuor che il mio onore. Nel venire non ebbi presente
giammai altro che il mio dovere, l’odio verso la rivoluzione”(17).
Il tornaconto personale non ha mai ispirato o condizionato la
sua attività, per difendere i suoi ideali sacrificò la famiglia (giovane
moglie, teneri figli, vecchi genitori), gli studi, la tranquillità ed i suoi
averi, tra cui la libreria che aveva “carissima”(18). 6
E’ anche il caso di
ricordare che, quando si avvicina il pericolo dell’invasione straniera, il
Canosa si arruola volontario nell’esercito regio e recluta, a proprie spese,
una cinquantina di uomini a difesa di Napoli e della monarchia.
Il disinteresse economico ha, perciò, costituito la nota
dominante della sua attività, come viene dimostrato dal fatto che è morto
povero; in un mondo in cui l’utile personale costituisce la direttiva
principale per ogni azione, questa sola connotazione contribuisce ad elevare la
figura del Canosa ed a farlo assurgere a modello da imitare, anziché a farlo
sprofondare tra i soggetti da scansare.
Canosa era senza dubbio generoso, così come può aspettarsi da
una persona, come lui, di alto lignaggio; sono significativi, in proposito, alcuni
episodi, forse di no grande rilievo, che però aiutano a comprendere meglio la
sua personalità.
Così, nel soggiorno in toscano (1816), incontrato un vecchio
compagno d’armi che si trovava in difficoltà economiche, gli concede il suo
aiuto versandogli mensilmente la somma di cento lire. Si tratta di Giuseppe
Torelli che non era propriamente un amico del Canosa perché a Ponza (1807),
dove era stato costituito un “punto d’appoggio”, una specie di “resistenza”,
per la preparazione di un movimento anti francese a Napoli, aveva cercato di
metterlo in cattiva luce con la stessa Regina; in seguito, scomparsa la Regina,
il Torelli aveva chiesto inutilmente aiuto al Ministro Medici che lo scacciò in
malo modo. In Toscana, dunque, avvicina il Principe che, ricordando che era
stato “nemico della rivoluzione, e fedele alla grande Maria Carolina… due
attributi che per me canonizzano il demonio”, dimentica precedenti contrasti e
gli concede concreto sostegno(19).
Meritevole di essere segnalato è anche il comportamento
tenuto nei confronti del generale A. Bergani, che aveva aderito al regime
costituzionale ed era rimasto fedele fino all’ultimo a Gioacchino Murat: mosso
a compassione dalla supplica della moglie del generale, lo giustificò davanti
al Re, facendo richiamo all’osservanza dello spirito militare e alle materiali
necessità di sopravvivenza, e lo fece rimettere in libertà(20). 7
In precedenza aveva
mostrato la sua magnanimità graziando alcuni sicari inviati a Ponza per la sua
eliminazione dal ministro di polizia del napoleonide Giuseppe Bonaparte.
Un altro elemento costante della sua attività è stata
l’avversione senza indulgenza ai moti rivoluzionari che cozzavano profondamente
con la sua profonda convinzione di legittimista. Contro lo spirito rivoluzionario
sostiene che la lotta non può essere affidata ai poteri ordinari e molto meno
al potere costituzionale: “il solo che può vincerlo è un dispotismo vigoroso ed
estremamente attivo”(21).
Con apprensione rileva, quindi, al ritorno di Ferdinando IV
sul trono di Napoli, che i murattiani continuano a mantenere alte cariche
nell’amministrazione statale e nell’esercito, i beni confiscati al clero e alla
nobiltà non vengono restituiti, la fedeltà dei sudditi non viene in alcun modo
ricompensata.
Teme, perciò, che la politica, seguita dai ministri Medici e
Tommasi, finisca per isolare il Re che si troverà senza la difesa dei nobili, i
cui poteri sono stati annullati, e senza l’ausilio del clero la cui autorità
religiosa viene scossa da una diffusa miscredenza.
In questa situazione, osserva il Canosa, le forze
rivoluzionarie si faranno vive e finiranno con il prevalere.
Le pessimistiche considerazioni del Canosa vennero esposte
nel lavoro “I Piffari di montagna”, pubblicato nel maggio del 1820 ed assunsero
subito il significato di una negativa profezia, in quanto, nel luglio
successivo, scoppiano i moti rivoluzionari che costringeranno il Re a cedere il
potere, salvo poi l’intervento restauratore delle truppe austriache.
Ricordando quegli avvenimenti qualche tempo dopo, il Cav.
Luigi Medici, principe di Ottaviano, mestamente osservava che “Quando non si
possa (rimettersi la feudalità), come veramente ben che non si possa, qual
altro principio vi si surrogherà? Qui Canosa vuole dispotismo puro, i liberali
costituzione e rappresentanza. Gli uni e gli altri dicon male: ma sarebbe lunga
diceria e non ho tempo. Dico di volo che nel quinquennio [1815-1820] credei di
sciogliere il 8
problema; ma,
disgraziatamente, due tenenti [Silvati e Morelli che insorsero a Nola, chiedendo
la costituzione] mi provarono che ero un coglione, e tutto fu rovesciato. Ond’è
che non ci penso più”(22).
Qui, dunque, il Canosa ha avuto ragione; lo ammette anche
Croce nel suo interessante saggio sul Principe di Canosa(23).
Senza alcun tentennamento od ombra di dubbio, il Canosa, era
convinto monarchico; del resto, in quanto nobile, riteneva fermamente che “ove
non vi è Monarchia, non vi è nobiltà”. Dei nobili, però, ricordava le
tradizioni di fedeltà e di eroismo a difesa del Re e si rammaricava che,
all’epoca, essi si fossero ridotti da aristocratici feudali in accidiosi
cortigiani, rinunciando alla propria funzione di comando e di giustizia(24).
Il Canosa, però, non ha assunto mai atteggiamenti di
cortigianeria e quando si è presentata l’occasione, senza venir meno
all’ossequio dovuto alla maestà del capo dello Stato, ha palesato la difformità
delle sue opinioni, mostrando l’indipendenza del suo spirito e nello stesso
tempo la rettitudine del suo comportamento.
E’ sintomatico l’episodio del comando impartitogli
dalla regina Maria Carolina, con la quale peraltro esisteva una grande
comunanza di vedute, e che il Canosa dichiarò di non poter eseguire, perché era
contrario alle leggi.
La Regina gli osservò: “Ma le leggi non le facciamo noi?
Ebbene noi la sospenderemo o revocheremo”; il Canosa, tuttavia, mantenne il suo
rifiuto, dichiarando: “Signora giustissima… non tutte le leggi sono fatte dal
Re. Ce ne sono talune che sono leggi di cui la sorgente si trova naturale,
nella legge emanata da Dio, che è il Re dei Re. La legge alla quale si oppone
il comando, per equivoco, datomi da Vostra Maestà, è appunto una legge
universale, una legge di natura”.
L’episodio merita particolare attenzione. Il Canosa, monarchico perinde ac cadaver, non esegue l’ordine regale perentoriamente impartitogli, ma la Regina, che pur sovente ricorda di essere “figlia di Maria Teresa” e perciò abituata a farsi ubbidire senza discussioni, non dubitava della realtà del Principe ed ha accettato le sue spiegazioni. Personaggi di diversa levatura, in simili frangenti si sarebbero
comportati in altro
modo e sarebbero stati lieti di appiattirsi sui superiori regii voleri.
Rifulge, quindi, nel Canosa la profonda conoscenza del diritto, acquisita in
gioventù con l’esercizio della professione forense, e la spiccata accortezza
nell’assolvere, al di là di ogni condizionamento, il suo ruolo di consigliere,
additando la via più corretta per l’espletamento dell’attività di governo.
Strenuo difensore dei diritti della nobiltà, si oppose alla
richiesta, loro rivolta, dall’avvocato fiscale Nicola Vivenzio di prestare il
servizio militare in tempo di guerra.
In proposito, rifacendosi al giasnaturalismo, sostenne con
fermezza che lo Stato, alla stessa guisa dei privati, deve rispettare i
contratti. Orbene, gli antichi feudi concessi o donati dal Re, comportavano
l’obbligo del servizio militare; ma l’obbligo venne abolito da Alfonso I
d’Aragona e da Ferdinando il Cattolico e convertito in donativi.
Per quanto concerne i feudi moderni, osserva che venivano
acquisiti a condizioni venali, ma che tra queste non era contemplato l’obbligo
del servizio militare.
Per conseguenza, il Re non poteva pretendere dai nobili il
servizio militare perché non era compreso nel contratto; ma, sostiene il
Canosa, quando la monarchia si trova in pericolo, i nobili devono accorrere in
suo aiuto spontaneamente, fornendo denaro ed uomini contro le avverse minacce.
Coerente con le sue opinioni, quando il Re con la corte si
ritira in Sicilia e sorge la necessità di rinforzare l’esercito regio con altre
truppe, il Canosa, come abbiamo accennato sopra, si reca nei casali vicini a
Napoli, solleva gli animi contro i francesi e raduna, a proprie spese, circa
cinquanta reclute.
Ma non “s’indusse a chiedere rimunerazione alcuna dalla
generosità del Sovrano, trovandosi molto contento d’aver servito S. M. (D. G.)”(25).
6. – Riflessioni conclusive. – Anche oggi, pur dopo le
importanti ricerche di W. Maturi e di S. Vitale e gli interessanti studi di B.
Croce che hanno esaminato più estesamente la vita e le opere del Canosa,
permane una generale avversione nei 10
suoi confronti,
avversione che richiama singoli e certamente secolari episodi per farne
discendere giudizi assolutamente negativi e perentori.
In effetti, il Canosa, quale arguto polemista, nel suo
discorrere era solito avvalersi di paradossi e di enfatizzazione per colorire
meglio le sue argomentazioni e sminuire quelle dei suoi oppositori.
Chi, come il conte Monaldo Leopardi, lo aveva avuto vicino
per affinità di idee e per familiarità di rapporti e, quindi, si trovava in
posizione privilegiata per valutare i suoi intimi pensieri ed i suoi concreti
atteggiamenti, aveva chiaramente affermato che “Egli è l’Argante del Re, e
bisognerebbe avere l’animo di Giuda per negargli il diritto all’omaggio e alla
riconoscenza di quanti combattono per la difesa della legittimità”; e più oltre
sottolineava che “In sostanza, se Voltaire fu il Patriarca dell’empietà, La
Fajette è stato il Patriarca della bugiarda libertà, è Canosa incontra
stabilmente il Patriarca del realismo e della legittimità”(26).
Alla morte del Canosa, è ancora il Leopardi che unicamente ne
tesse l’elogio funebre, con appropriate espressioni che lungi dal diffondersi
in ipocriti elogi, come si è soliti in simili occasioni, suonano a monito degli
indolenti: “… una vergogna dell’Italia il non aver alzato una voce d’encomio”; ed
a coloro che non volessero intendere ricorda apparentemente enfatiche ma
rispondenti pienamente alla realtà che “Canosa era un gran dotto, un gran
politico, un vero galantuomo e un vero cristiano”(27).
Domenico LA MEDICA
(1) non il 6 marzo, come afferma N. Del Corno, in Gli “scritti sani”, Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all’Unità, Milano, Franco Angeli, 1992, 37; il 6 marzo è la data di battesimo. (2) Il termine “lazzaro” non si rinviene nella letteratura napoletana anteriormente alla rivolta di Masaniello (1647) e forse deriva dallo spagnolo lazaro , cencioso, pezzente, con cui i signori napoletanoi, che spagnoleggiavano nella lingua, indicavano la torma dei popolani seminudi, di cui si circondava quel capopopolo; proprio perché vestiti di stracci, richiamavano alla mente il Lazzaro resuscitato e quello cencioso dell’Evangelo. Di lazzari si torna a parlare nelle burrascose giornate del 1799, per la loro resistenza alle truppe di occupazione francesi e, successivamente, quando, sotto la guida del cardinale Ruffo, si distinsero per la lotta contro i “giacobini”.
In seguito con
l’espressione lazzaro si intese quella categoria del sottoproletariato
che non aveva alcuna occupazione e viveva accontentandosi del minimo, ma che
non per questo aveva perso la sua spensieratezza; come ideali, poi, nutriva “in
religione, il culto devoto e fanatico dei Santi protettori e, in primo luogo,
di San Gennaro, e in politica, il culto del re” (Croce B., I “lazzari,
in Aneddoti di varia letteratura, II, Napoli, 1942, 428 ss.; Benigno F.,
Trasformazioni discorsive e identità sociali, il caso dei lazzari, in Storica,
2005, 7 ss.).
(3) Così si esprimeva il gen. Championnet, nella sua
relazione al Direttorio, come riporta Colletta P., Storia del reame di
Napoli, libro III, cap. XXII.
(4) Il privilegio della Città di Napoli di rappresentare la
Nazione e di assumerne il governo, in caso di assenza o di imbecillità
del Sovrano, si fa risalire all’antico patto tra il Re e Nazione sul quale
si fondava la Monarchia. Questo privilegio si sarebbe dovuto ritenere ancora in
vigore, in quanto Carlo di Borbone con il manifesto del 1753 aveva conservato
alla Nazione i suoi privilegi, ricevendone in cambio il giuramento di fedeltà e
con l’atto di cessione del 5 ottobre 1759, aveva trasmesso al suo figlio
Ferdinando IV l’obbligo di osservare quei privilegi.
Pertanto, quando il Re si era allontanato da Napoli, la
nomina del Vicario venne ritenuta come abuso regio contro i diritti della
Città.
In effetti, la monarchia borbonica aveva perso l’antica
fisionomia di monarchia feudale temperata dai privilegi per assumere quella di
monarchia assoluta, perciò le pretese della Città, più che dirette a restaurare
un diritto esistente, erano sembrate che dessero adito alla instaurazione di
una sorta di repubblica aristocratica (v. Maturi W., Il Principe di
Canosa, Firenze, 1944, 16 ss.)
(5) Merita di essere ricordata la memoria scritta a difesa
del suo operato, in cui è evidente lo spirito polemista che caratterizza il suo
stile e la cultura giuridica rafforzata nell’esercizio della professione di
avvocato (a Napoli, li chiamavano e li chiamano tuttora “paglietta”)
precedentemente svolta: “Non v’ha dubbio alcuno, che la lettera di dimissione
scritta al signor Vicario Generale fu di vari giorni posteriore all’anarchia
accaduta. Dunque la lettera fu scritta quando il potere civile non esisteva
nelle mani del Vicario generale, anzi quando, cessato assolutamente tra tutti,
era veramente Civitas dissoluta, … Dunque, il generale Pignatelli, nel
momento in cui fu scritta la lettera, non era più nel fatto Vicario generale.
Dunque con la lettera non se gli venne a togliere se non ciò che aveva col
fatto già perduto. Dunque non venendo ad avere alcun affetto di fatto, non
poteva averlo neanche di diritto” (riportata da Maturi W., Op. cit.,
33).
(6) B. CROCE, Uomini e cose della vecchia Italia,
Bari, 1927, 242.
(7) GIOBERTI V., Gesuita moderno, Losanna, 1846, II,
325.
(8) TOMMASEO N., Dell’Italia, I, cap. VII.
(9) MAZZIOTTI M., L’esilio di Pietro Colletta in Austria, in
Nuova Antologia, 1° gennaio 1916, 4.
(10) VITALE S., Il Principe di Canosa e l’Epistola contro
Pietro Colletta, Napoli, s.d., 8
(11) MAZZINI G., La Giovane Italia, Roma, 1902, 99.
(12) Storia del reame di Napoli (1734 – 1825),
Capolago, 1834, I, 314: II, 16ss-; la colpa dell’adulterio si spiega forse
perché dopo aver sposato donna Teresa Galluccio, dei duchi di Toro, aveva avuto
relazioni con altre due donne che, però, si conclusero, appena il Canosa rimase
libero, con regolare matrimonio: precisamente, la seconda moglie, Anna
Orsellini, figlia di un cenciaio di Pisa, gli diede tre figli (due femmine ed
uno maschio); alla morte di questa (31 dicembre 1836), sposò a Pesaro Teresa
Gabellini di Roma, anch’essa di umili origini, alla quale era legato da
precedente relazione.
(13) Scritti storici, II, Nota: Il sistema del
Principe di Canosa, Bari, 1945, 121 ss.
(14) Op., cit., 244.
(15) Simile definizione era stata data a Metternich dal poeta
austriaco Grillparzer, come vicorda Bagger E., Francesco Giuseppe, Milano,
1935, 22.
(16) Op. cit., 281.
(17) Un dottore in filosofia e un uomo di Stato, dialogo
del Principe di Canosa sulla politica amalgamatrice, 1832, 15 seg.
(18) V. Epistola, cit., 133; per necessità
economiche, fu in seguito costretto a disfarsi dei suoi libri (v. Maturi W., Il
principe, cit., 146 n. 3).
(19) MATURI W., Op. cit., 136 n. 3.
(20) MATURI W., Op. cit., 155 seg..
(21) I Piffari di montagna ossia cenno estemporaneo di un
cittadino imparziale sulla congiura del principe di Canosa e sopra i Carbonari,
1820, 163.
(22) Si tratta di una lettera scritta dal Medici nel 1823, di
cui dà notizia B. Croce, Uomini e cose, cit., 246. 12
P
Read More
Posted by altaterradilavoro on Gen 18, 2019
Tutti sanno che esistono
parecchie vie dedicate a Garibaldi, e anche diverse vie che portano il nome di
Nino Bixio. In alcune località è possibile trovare vie o piazze dedicate a
Vittorio Bottego e a Giovanni Miani. Chi erano questi ultimi? Se hanno dedicato
loro piazze o vie si intende che possano essere eroi, o perlomeno persone degne
di onore. Addirittura, al più noto Pietro Badoglio è stato rinominato un paese,
chiamato in suo onore Grazzano Badoglio (AT).
Tuttavia, chi fa ricerca storica si accorge che molti personaggi onorati o
spacciati per eroi nell’attuale sistema, in realtà erano criminali incalliti o
persone pronte a calpestare qualsiasi senso morale pur di avere fama e successo.
Ogni sistema premia o riconosce chi gli è affine.
Nella foto: Giuseppe
Garibaldi e i Mille sbarcano a Milazzo.
Per capire la natura del sistema attuale basterebbe accorgersi dei tanti
personaggi riconosciuti come eroi, ma che di fatto erano feroci criminali, che
ad oggi danno il nome a molte vie o piazze delle città italiane.
Ad esempio, a Parma troviamo un monumento dedicato a Vittorio Bottego, e in
altre città troviamo vie a lui dedicate. Questo personaggio fu uno dei più
crudeli che esplorarono l’Africa nella seconda metà del XIX secolo. Egli era
mosso, più che da intenti scientifici, da motivi politici e strategici: voleva
rendere più deboli le tribù indigene mettendole le une contro le altre, per
preparare il terreno alla conquista.
Bottego partecipò a diverse
spedizioni. Nel 1892 fu incaricato dalla Società Geografica Italiana di
esplorare il medio e basso corso del Giuba. Raggiunse il Ganale Doria e l’anno
dopo si spinse fino al bacino dell’Omo, armato di tutto punto e con 250 ascari
al seguito, come se si trovasse in battaglia e non su un territorio sovrano. A
Jellèm (Etiopia) la sua impresa fu definitivamente stroncata: nel tentativo di
attraversare l’Etiopia fu fermato e invitato a disarmarsi per avere salva la
vita, ma egli preferì combattere e morire.
Privo di scrupoli, Bottego
considerò gli indigeni alla stessa stregua degli animali, non ebbe la pur
minima considerazione della loro vita e della loro dignità e praticò ogni
genere di violenza, di cui parlò nei suoi stessi scritti. Egli, come altri
esploratori europei, raccontò di saccheggi, uccisioni, stupri e incendi. Si
sentì più che autorizzato a compiere crudeltà e massacri, e del resto,
l’atteggiamento di sopraffazione e di violenza prevaleva fra i colonialisti,
aizzato da numerose pubblicazioni come il “Bollettino della Società africana
d’Italia” che, ad esempio, scriveva:
“Siate ricchi, forti e vi rispetteranno. Allora il negro, al quale pel più
lieve gesto d’insofferenza voi avete assestato trenta colpi di frusta sulla
schiena, verrà da voi con una pietra sul collo perché gli schiacciate la testa
e vi bacerà i piedi e vi sarà grato che gli abbiate lasciato la vita”.(1)
Diversi massacri furono commessi anche dall’esploratore Giovanni Miani, che
così raccontò una delle sue scorribande in un villaggio:
“Io circondai l’incinta ponendo vari soldati agli usci, chi cercava di fuggire
era preso per così dire al volo. Il scek fu ucciso con tutta la sua famiglia,
poi mutilate le mani per cavargli i braccialetti d’onore, indi (i soldati) gli
tagliarono il membro portandolo in trionfo sopra una lancia. Dato l’assalto al
villaggio, ordinai di estrarre tutto il grano e gli animali che potevano. Il
saccheggio fu accordato a tutti i soldati e selvaggi nostri (…) Osservando
l’incendio ebbi un gusto superiore a Nerone perché mi feci accendere la pipa
col fuoco del villaggio.”(2)
Interminabili furono i
crimini di Pietro Badoglio. Egli fu nominato Governatore della Tripolitania e
della Cirenaica nel dicembre del 1928, e rimarrà in carica fino al dicembre del
1933. Sarà mandato in Etiopia da Mussolini durante la guerra di conquista.
In Libia darà inizio ad una lotta senza limiti di crudeltà, per realizzare la
riconquista definitiva e porre fine al controllo incerto che l’Italia aveva
avuto nel periodo di conquista precedente al fascismo. Badoglio, insieme a
Graziani, sarà il maggiore artefice delle crudeltà e dei massacri che saranno
perpetrati nelle colonie africane. Senza pietà egli commise i crimini più
efferati contro la popolazione inerme, utilizzando anche i gas tossici, oltre
alle deportazioni, ai lager e alle impiccagioni dopo processi sommari.
Nel 1930 Badoglio approvò
una grande offensiva per piegare definitivamente la resistenza libica. Le
operazioni di Graziani però daranno scarsi risultati. Gli insuccessi
sollevarono le critiche di Badoglio, che voleva inasprire ulteriormente le
misure e consigliava le deportazioni. Egli scrisse:
“Bisogna anzitutto creare
un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e
popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo
provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta
sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla
sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.(…)
urge far rifluire in uno spazio ristretto tutta la popolazione sottomessa, in
modo da poterla adeguatamente sorvegliare ed in modo che vi sia uno spazio di
assoluto rispetto tra essa e i ribelli. Fatto questo, allora si passa
all’azione diretta contro i ribelli”.(3)
La soluzione proposta da
Badoglio piacque anche a Mussolini, e si dette inizio alla deportazione dal
Gebel di 100.000 persone, che furono costrette ad abbandonare i propri villaggi
e a fare un viaggio senza ritorno.
Durante il viaggio almeno 15.000 persone persero la vita, alcune per fame o
sete, altre uccise dagli italiani o abbandonate nel deserto. Badoglio,
soddisfatto scriveva: “Bisogna assolutamente bandire il sistema arabo della
sparatoria da lontano (…) (occorre) essere feroce, inesorabile. Deve essere una
vera caccia al ribelle nella quale sarà redditizio ogni atto della più sfrenata
audacia.”(4)
Badoglio e Graziani, con il
pieno appoggio di Mussolini, avevano deciso di ricorrere ai metodi più spietati
per distruggere la resistenza libica, e anche il massacro dei civili risultava
utile. Dal novembre del 1929 al maggio del 1930, furono lanciate 43.500 bombe
in 1605 ore di volo, ma non sappiamo esattamente quante bombe furono caricate
di iprite.
Un telegramma di Badoglio a Siciliani e a De Bono consigliava di essere
spietati: “Si ricordi che per Omar al-Mukhtàr occorrono due cose: primo ottimo
servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa con aviazione e bombe a
iprite”.
Il 20 gennaio del 1931
Cufra, città santa per gli islamici, verrà occupata dopo un combattimento molto
aspro, in cui la resistenza sarà costretta a fuggire verso il confine con
l’Egitto e sarà inseguita e uccisa. Si verificheranno per tre giorni violenze
sfrenate e continui saccheggi da parte degli italiani sulla popolazione:
fucilazioni indiscriminate, torture anche su bambini e vecchi (ad alcuni
estirpati unghie e occhi), indigeni evirati e lasciati morire dissanguati,
donne incinte squartate e feti infilzati, testicoli e teste portati in giro
come trofei (molte foto terribili di questo e di altri eventi si trovano oggi
negli Archivi Storici di Addis Abeba).
L’11 settembre del 1931 Omar al-Mukhtàr fu catturato e impiccato dopo un
processo farsa che non considerò nemmeno l’età avanzata del prigioniero (oltre
70 anni). Nel processo fu accusato di tradimento ma in realtà egli non aveva
mai riconosciuto l’autorità degli italiani e non si era mai sottomesso al loro
potere.
Omar al-Mukhtàr era soltanto un vecchio che aveva lottato per venti anni contro
l’oppressione dello straniero e si era dovuto trasformare, da insegnante del
Corano, in partigiano combattente.
La condanna a morte di Omar al-Mukhtàr sarà eseguita davanti ai prigionieri
senussiti del campo di concentramento di Soluch, che furono costretti ad
assistere all’impiccagione del loro eroe, su cui per tanti anni avevano riposto
le loro speranze di libertà. Dopo la morte di Omar al-Mukhtàr la resistenza
senussita sarà sconfitta, e i pochi combattenti rimasti si arrenderanno oppure
si rifugeranno in Egitto, in attesa del riscatto che arriverà con la Seconda
guerra mondiale.
In Etiopia Badoglio utilizzò i gas anche per terrorizzare la popolazione e
sganciò bombe ad iprite senza sosta su villaggi, fiumi e laghi, uccidendo
persone inermi, anche vecchi, donne e bambini.
Con la guerra d’Etiopia, i funzionari della colonia ottennero notevoli
vantaggi, come anche la classe ricca, le banche, le grandi industrie e i
generali, che furono insigniti di titoli e di ricchi trattamenti economici. Ad
esempio, Badoglio ottenne una villa a Roma, un ricco vitalizio e il titolo di
duca di Addis Abeba.
Il 6 maggio 1946 un decreto
del governo De Gasperi istituì, presso il Ministero della Guerra (poi della
Difesa), una Commissione d’inchiesta per i presunti criminali di guerra
italiani, che fu attiva fino al 1948 (5); l’impegno principale della
Commissione fu di giustificare il rifiuto di consegnare i criminali alla
giustizia, accogliendo senza eccezioni le argomentazioni difensive. Il numero
stesso degli inquisiti andò assottigliandosi col passare del tempo.
Inizialmente, le richieste internazionali al governo italiano di estradizione
dei criminali di guerra ammontavano a 295. Nel 1946 il presidente del Consiglio
Alcide De Gasperi aveva reso pubblico un elenco di 40 persone tra militari e civili,
accusati di aver violato le leggi del diritto internazionale di guerra
compiendo crimini contro l’umanità; nel 1947 la Commissione governativa li
aveva ulteriormente e definitivamente ridotti a 29, ma nemmeno questi ultimi
verranno mai sottoposti a processo.
Il primo caso vagliato fu quello del generale Badoglio, accusato di aver usato
gas tossici e di aver bombardato ospedali della Croce Rossa durante la guerra
d’Etiopia. Malgrado le resistenze inglesi, gli etiopici (sostenuti anche da
Norvegia e Cecoslovacchia) riuscirono a persuadere la Commissione
internazionale a inserire Badoglio nella lista dei criminali di guerra col
“grado A” (il massimo), insieme ad altri gerarchi e generali.
Badoglio, insieme a Graziani, Pirzio Biroli, Gallina, Lessona e altri, aveva
fatto uccidere soltanto in Etiopia oltre 700.000 persone, eppure non sarà mai
processato per questi delitti.
Gli etiopici organizzarono una loro commissione nazionale sui crimini di
guerra. Nel 1949 l’Italia respinse la richiesta etiope per l’estradizione di
Graziani e Badoglio. Il 17 settembre l’ambasciatore etiope a Londra sottopose
la questione al Foreign Office, che consigliò di desistere. Così nessun
criminale fu mai estradato. Pietro Badoglio alla sua morte ebbe un funerale di
Stato.
A scuola ci hanno
raccontato una Storia d’Italia assai mistificata, in cui alcuni personaggi che
in realtà erano criminali o mercenari di bassa lega appaiono come eroi di
primario splendore. Questo risulta logico se si pensa che la stessa Unità
d’Italia fu un evento pilotato da chi deteneva il potere imperiale. Dire la
verità significa far comprendere il vero sistema di potere.
Garibaldi, spacciato per “eroe dei due mondi”, in realtà era un criminale al
soldo degli inglesi, per i quali aveva praticato il traffico di schiavi e il
saccheggio mediante la “guerra di corsa”. Nell’America del sud era stato
arrestato e condannato per aver rubato cavalli. Gli stessi Savoia si
lamentavano del suo comportamento a dir poco disonesto. In una lettera inviata
a Cavour, Vittorio Emanuele II, dopo lo storico “incontro di Teano”, scriveva
di Garibaldi: “Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima
faccenda Garibaldi, sebbene – siatene certo – questo personaggio non è affatto
così docile né così onesto come lo si dipinge, e come voi stesso ritenete. Il
suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male
immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il denaro
dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui, che s’è circondato di
canaglie, ne ha seguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese
in una situazione spaventosa”.(6)
L’11 maggio del 1860 i
Mille sbarcarono a Marsala, favoriti dalle navi della flotta inglese “Intrepid”
e “H.M.S. Argus”, ormeggiate al porto di Marsala (la flotta borbonica non
avrebbe mai attaccato gli inglesi). Fra i Mille c’erano diversi delinquenti
comuni. Garibaldi stesso aveva scritto: “Francesco Crispi arruola chiunque:
ladri, assassini e criminali di ogni sorta”.(7)
L’impresa dei Mille non fu altro che un modo per soggiogare la popolazione al
nuovo potere, e infatti, dopo l’unificazione d’Italia le repressioni saranno
ferocissime e riguarderanno molte regioni d’Italia, specie quelle meridionali e
il Veneto. Ovviamente, dopo l’impresa militare, nel 1864, Garibaldi sarà
accolto a braccia aperte dalla regina d’Inghilterra e dal ministro Henry John
Palmerston. Ufficialmente, in quell’incontro Garibaldi ringraziò le autorità
inglesi per l’appoggio dato alla spedizione dei Mille, ma non raccontò che da
molti anni era al soldo di Londra per commettere nel Sud America ogni sorta di
crimine.
Anche Nino Bixio, altro
personaggio spacciato per eroe, non risparmiò repressioni nel sangue. Ad
esempio, nell’agosto del 1860, egli represse nel sangue le proteste a
Biancavilla, Cesarò, Randazzo, Maletto e Bronte.
A Bronte i contadini avevano fatto ricorso alla giustizia, sostenuti
dall’avvocato Nicola Lombardo, ma tutte le cause intentate contro gli
usurpatori delle loro terre erano fallite. L’unica strada rimasta era quella
della sollevazione.
La repressione a Bronte fu feroce, gli insorti furono massacrati durante i
tumulti o arrestati e fucilati in seguito. Furono fucilate almeno cento
persone, che in nome dei principi propugnati dallo stesso Garibaldi si erano
riappropriate di alcune terre usurpate dai parenti di Nelson.
La responsabilità del massacro di Bronte sarà attribuita a Bixio, che in una
serie di lettere documentò gli eventi che portarono al fatto criminale. Ad
esempio, in una di queste, scritta il 7 agosto 1860 e inviata al maggiore
Giuseppe Dezza, dice di aver messo le “unghie addosso a uno dei capi”. Si
raccontò anche l’episodio del garzone che chiese il permesso di portare due
uova all’avvocato Lombardo, che si trovava in carcere, a cui Bixio disse
cinicamente: “altro che uova, domani avrà due palle in fronte!”. Lombardo sarà
fucilato insieme ad altre quattro persone, accusate di aver organizzato la
rivolta a Bronte.
I fatti di Bronte furono
considerati di poco conto e posti sotto silenzio dalla storiografia ufficiale,
per proteggere il mito di Garibaldi e dei Mille. Gli eventi furono in parte
chiariti soltanto da uno studioso di Bronte, il professor Benedetto Radice, che
pubblicò nell’Archivio Storico per la Sicilia Orientale, nel 1910, una
monografia dedicata a Nino Bixio a Bronte (1910, Archivio Storico
Siciliano).(8) Dopo questo scritto, molti sapevano dell’eccidio, ma nessuno
storico considerò questo e altri fatti per modificare l’interpretazione del
Risorgimento Italiano.
Nell’ottobre del 1985, il Comune di Bronte pose un monumento alla memoria delle
vittime delle repressioni. Sulla targa del monumento si legge: “Ad perpetuam
rei memoriam che nell’agosto 1860 di cittadini brontesi donò la vita in
olocausto – Amministrazione Comunale – 10 ottobre 1985”. Ciò nonostante, a
pochi metri è rimasta una strada dedicata a Nino Bixio, segno che i presunti
eroi, anche quando i fatti vengono a galla, tardano ad essere considerati per
quello che erano veramente, ovvero criminali al soldo del potere dominante.
Questi personaggi sono
diventati “eroi” proprio per aver sottomesso le popolazioni attuando crimini di
vario genere e promettendo cose che sapevano di non poter mantenere. Con
l’avvento di Garibaldi, i contadini siciliani si erano illusi di poter avere
quella libertà che chiedevano da tempo. Con un decreto, Garibaldi abolì la
tassa sul macinato e ogni altra tassa imposta dal potere precedente. Il 2
giugno 1860 emanò norme per la divisione delle terre dei demani comunali,
assegnandone una quota ai combattenti garibaldini o ai loro eredi, se caduti.
Con queste riforme Garibaldi accrebbe la sua popolarità, e accese le speranze
dei siciliani, che però ben presto dovettero accorgersi che le riforme erano
state soltanto un atto propagandistico, poiché la quantità di tasse da pagare
era quella di prima e la redistribuzione delle terre non era avvenuta. I
contadini sarebbero diventati ancora più poveri, e quelli che si sarebbero
sollevati sarebbero diventati “fuorilegge” e uccisi senza alcuna pietà.
Bixio, Garibaldi e altri
“eroi” obbedivano al diktat “Italia e Vittorio Emanuele”, che veniva indicato
in tutti i decreti come formula che conferiva poteri pressoché assoluti al fine
di imporre l’occupazione in vista dell’unificazione dell’Italia. Nell’art. 1 del
decreto del 17 maggio 1860 si legge: “Durante la guerra, il giudizio dei
reati…”, tale decreto avrà efficacia anche dopo la “sconfitta” dell’esercito
borbonico. Da ciò si inferisce che l’occupazione delle terre veniva considerata
uno stato di guerra, e le popolazioni “ribelli” dovevano essere trattate come
combattenti in guerra. Tutti coloro che si ribellarono al potere sabaudo furono
trucidati, repressi, oppure fucilati dopo un processo sommario nei Tribunali di
guerra. In altre parole, il popolo italiano fu considerato come un nemico in
guerra, e non come compartecipe ai fatti unitari. Nelle sollevazioni, il popolo
faceva richieste economiche precise, e la repressione scattava affinché queste
richieste venissero ritirate, in quanto non c’era alcuna intenzione da parte
dei Savoia di rispettare la sovranità popolare o di rendere più equa la
situazione economica dell’Italia.
I massacri della popolazione e le condanne a morte venivano attuati in nome del
re (che soltanto con la legge 17 marzo 1861 n. 4671 diventerà ufficialmente re
d’Italia), sulla base del decreto 17 maggio 1860 n. 84, da cui si legge “Le
sentenze, le decisioni e gli atti pubblici saranno intestati: In nome di
Vittorio Emanuele Re d’Italia”.
A sua volta, Vittorio
Emanuele obbediva alle autorità inglesi che lo avevano messo sul trono. Le
autorità inglesi difendevano gli interessi dei Lord e degli altri personaggi
dell’establishment. Ad esempio, a Bronte, il Console inglese, John Goodwin,
faceva continue pressioni affinché Garibaldi e l’allora Ministro dell’Interno
Francesco Crispi tutelassero a tutti i costi gli interessi
agricolo-patrimoniali dei Nelson. Nelle lettere, Goodwin invita a punire
l’avvocato Nicola Lombardo: “arrestare l’autore di tale assassinio onde essere
giudicato dall’autorità competente e condannato. (9)
In conclusione, ieri come oggi molti sono i falsi eroi nazionali, che in realtà
sono veri criminali, e molti veri eroi delle terre depredate dalle autorità
occidentali risultano essere considerati “terroristi” e per questo perseguitati
e uccisi.
Oggi, se volete essere consacrati ad eroi, andate a massacrare innocenti nelle
missioni estere, e se morirete ammazzati magari vi dedicheranno una via o una
piazza. Di sicuro diranno che siete “caduti per la libertà” e vi offriranno una
corona di fiori e una medaglia. La vostra vita sarà valsa una medaglia e molti
onori, mentre le vite innocenti che avrete distrutto non avranno nemmeno il
valore di un minuto di silenzio.
Antonella Randazzo
Fonte: http://lanuovaenergia.blogspot.com
Link:
http://lanuovaenergia.blogspot.com/2009/04/falsi-eroi-ma-veri-criminali.html
10.04.2009
NOTE
1) “Bollettino della
Società africana d’Italia”, 1882, cit. in Aruffo Alessandro, “Storia del
colonialismo italiano da Crispi a Mussolini”, Editrice Datanews, Roma 2003,
p.29.
2) Miani Giovanni, “Diari”, cit. in Aruffo Alessandro, “Storia del colonialismo
italiano da Crispi a Mussolini”, Editrice Datanews, Roma 2003, p. 28.
3) ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sottof. 2, in Del Boca Angelo, “Gli
italiani in Libia, dal fascismo a Gheddafi”, Laterza, Roma-Bari 1991.
4) ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98, cit. in Del Boca Angelo, “Gli italiani in
Libia, dal fascismo a Gheddafi”, Laterza, Roma-Bari 1991.
5) Sulle vicende della Commissione, cfr. in particolare F. Focardi e L.
Klinkhamer [a cura di], “La questione dei criminali di guerra italiani e una
Commissione d’inchiesta dimenticata”, in “Contemporanea”, a. IV, n. 3, luglio
2001, pagg. 497-528.
6) Smith Denis Mack, “Garibaldi, una grande vita in breve”, Arnoldo Mondadori
Editore, Milano 1993, p. 285.
7)www.brigantaggio.net/brigantaggio/Storia/Meridionale/Q37_Mafia.PDF+inglesi+terre+sicilia+contadini&hl=it&ct=clnk&cd=5&gl=it&ie=UTF-8
8) Sciascia Leonardo, “Nino Bixio a Bronte”, Edizioni Salvatore Sciascia,
Caltanissetta, 1963.
9) Radice Antonio, “Risorgimento perduto”, De Martinis & C., Catania 1995.
BIBLIOGRAFIA
Alianello Carlo, “La conquista del Sud – Il Risorgimento nell’Italia meridionale”, Rusconi, Milano 1982.
Ciano Antonio, “I Savoia e il massacro del Sud”, Grandmelò, Roma 1996.
De Matteo Giovanni, “Brigantaggio e Risorgimento – legittimisti e briganti tra i Borbone ed i Savoia”, Guida Editore, Napoli 2000.
Di Fiore Gigi, “1861. Pontelandolfo e Casalduni: un massacro dimenticato”, Grimaldi & C. Editori, Napoli 1998.
Di Fiore Gigi, “I vinti del Risorgimento”, UTET, Torino 2004.
Izzo Fulvio, “I Lager dei Savoia”, Controcorrente, Napoli 1999.
Pellicciari Angela, “Risorgimento da riscrivere”, Ares, Milano 2007.
Radice Antonio, “Risorgimento perduto”, De Martinis & C., Catania 1995.
Servidio Aldo,”L’imbroglo Nazionale”, Alfredo Guida Editore, Napoli 2000.
Smith Mack Denis, “I Savoia Re d’Italia”, Rizzoli, Milano 1990.
Smith Denis Mack, “Garibaldi, una grande vita in breve”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993.
Zitara Nicola, “Il proletariato esterno. Mezzogiorno d’Italia e le sue classi”, Jaca Book, Milano 1977.
Zitara Nicola, “Negare la negazione”, La Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria 2001.
fonte https://comedonchisciotte.org/falsi-eroi-ma-veri-criminali/?fbclid=IwAR0PDDcobZ7P-t7yBPVj-u4KGwUaVokcUMj7bqwEeQTaunU9iJuHqyxeqng
Read More
Posted by altaterradilavoro on Dic 21, 2018
Nel dicembre del 1918 l’Europa celebrò il primo Natale di pace dopo quattro anni di sangue ininterrottamente versato. Il mondo che nasceva, però, non era più quello di ieri. Il 3 novembre l’Impero austro-ungarico aveva firmato a Padova l’armistizio di Villa Giusti con le Forze Alleate.
Il 7 novembre giunse al cancelliere tedesco Max von Baden l’ultimatum dei socialisti tedeschi i quali imponevano, per venerdì 8 novembre a mezzogiorno, la abdicazione del Kaiser Guglielmo II. Il Granduca di Baden comunicò al Sovrano, che si trova nel suo Quartier Generale di Spa, che l’esercito non era più sicuro e si andava verso la guerra civile. Fino alla mattina dell’8 novembre, il Sovrano manifestò l’intenzione di ristabilire l’ordine e di domare la Rivoluzione alla testa delle sue truppe.
Ma nella notte dall’8 al 9 tutto precipitò. I consiglieri militari e civili dell’Imperatore, riuniti a Spa insistettero perché il Kaiser abdicasse e partisse per l’Olanda. Il 9 novembre Guglielmo comunicò di abdicare come Imperatore di Germania, non come Re di Prussia e affidò al maresciallo von Hindenburg il Comando dell’Esercito, incaricandolo di trattare l’armistizio. Il giorno stesso l’Imperatore lasciò la Germania per non più tornarvi.
L’8 novembre la direzione del Partito socialdemocratico austriaco si pronunziò pubblicamente per una “Repubblica democratica e socialista dell’Austria tedesca”. A mezzanotte l’Imperatore Carlo I convocò nel suo studio del palazzo di Schönbrunn, i due consiglieri più intimi, il conte Hunyadi e il barone Werkmann, e dichiarò calmo: «Anche l’Austria crollerà sull’esempio della rivoluzione tedesca. Proclameranno la repubblica e non vi sarà più nessuno per difendere la monarchia…Io non voglio abdicare e non voglio fuggire dal Paese…».
Seguirono momenti convulsi, in cui, nell’entourage dell’Imperatore, ognuno aveva proposte e suggerimenti diversi per far fronte alla drammatica situazione. L’ammiraglio Miklós Horthy, che era giunto dall’Adriatico per discutere la consegna della flotta ai croati, si mise sull’attenti dinanzi al sovrano e con la mano destra protesa giurò, senza che nessuno glielo avesse chiesto: «Non mi concederò tregua fintantoché non rimetterò la Maestà vostra sul trono di Vienna e di Budapest».
Tre anni dopo sarebbe stato proprio il generale Horthy, reggente del Regno di Ungheria, a prendere le armi contro il suo sovrano alla periferia di Budapest e a farlo addirittura arrestare e deportare, pur di conservare il potere in Ungheria.
Alle undici di mattina dell’11 novembre, si presentarono a Schönbrunn il presidente del Consiglio Heinrich Lammasch e il ministro degli Interni Edmund von Gayer, i quali portavano con sé il testo dell’abdicazione di Carlo, concordato con gli uomini politici del vecchio e del nuovo regime.
Il documento era stato approvato dal cardinale di Vienna, il principe-arcivescovo Friedrich Gustav Piffl, che esattamente una settimana prima, il 4 novembre aveva celebrato l’onomastico di Carlo con una solenne messa officiata nella cattedrale di Santo Stefano. Fu uno dei suoi sacerdoti Ignaz Seipel a trovare la formula di compromesso per cui il sovrano rinunciava al trono, senza pronunciare la parola “abdicazione”.
Se l’Imperatore non avesse firmato, disse Gayer al sovrano: «quest’oggi pomeriggio stesso vedremo le masse operaie davanti a Schönbrunn…e allora i pochi che si rifiuteranno di abbandonare Vostra Maestà perderanno la vita tentando di resistere e insieme con loro cadranno uccisi anche la Maestà Vostra e la sua augusta famiglia».
I ministri esigevano che la firma fosse apposta immediatamente, senza lasciare neppure qualche ora di riflessione. L’imperatore esitò. Egli era un uomo di grande nobiltà di carattere, ma non aveva l’energia della moglie Zita, che in quel momento fu la sola a protestare, con tutte le sue forze, rivolgendosi con queste parole a Carlo: «Un sovrano non può mai abdicare, può essere deposto e i suoi diritti sovrani possono essere dichiarati decaduti. Abdicare però…mai, mai e poi mai! Preferirei morire qui accanto a te. Perché poi rimarrebbe Otto e se anche ci ammazzassero tutti quanti vi sarebbero altri Asburgo!».
A mezzogiorno dell’11 novembre 1919 il Sovrano firmò l’atto di rinuncia al potere in cui riconosceva anticipatamente «la decisione che l’Austria tedesca prenderà per la sua futura forma costituzionale».
Nel pomeriggio l’Imperatore e la sua famiglia dopo aver pregato nella cappella reale, salutarono gli ultimi dignitari e si diressero verso le automobili che li avrebbero portati nel loro palazzetto di caccia di Eckartsau. «Lungo le arcate – ricorda Zita – schierati in duplice fila c’erano i nostri cadetti delle Accademie Militari, adolescenti fra i sedici e i diciassette anni, con gli occhi lucidi ma ritti sull’attenti e devoti sino all’ultimo all’imperatore, degni in tutto e per tutto del motto che avevano ricevuto in passato da Maria Teresa, Allzeit Getreu (perennemente fedeli)».
Il 12 novembre a Vienna venne proclamata ufficialmente la repubblica. Il giorno prima, in un vagone ferroviario nei boschi vicino a Compiègne, fu firmato l’armistizio tra l’Impero tedesco e le Forze alleate. Questo atto segno la fine militare della prima Guerra mondiale.
Il 4 dicembre 1918 la nave George Washington salpò dal porto di New York per la Francia, recando a bordo il presidente Woodrow Wilson e la delegazione americana alla Conferenza di Pace. Wilson, violando il diritto internazionale, era intervenuto personalmente sui governi provvisori socialisti di Austria e di Germania, per imporre il cambiamento istituzionale.
Il 14 dicembre il presidente americano incontrò a Parigi il primo ministro francese Georges Clemenceau. I due uomini politici furono i principali artefici della repubblicanizzazione dell’Europa che seguì alla Prima Guerra Mondiale. Clemenceau, mistico del giacobinismo, vedeva nella vittoria il compimento degli ideali della Rivoluzione francese. Wilson voleva trasformare il globo in una confederazione di repubbliche rigorosamente uguali, ricalcata sugli Stati Uniti d’America.
Il principale ostacolo da abbattere era l’Austria-Ungheria, ultimo riflesso della Christianitas medioevale. Charles Seymour, uno dei negoziatori americani del Trattato di Versailles, ricorda: «La Conferenza di pace si trovò posta nella posizione di un autentico liquidatore dello Stato asburgico. (…) In forza del principio di autodeterminazione dei popoli, spettava alle nazioni danubiane di determinare da sole il loro destino».
La Conferenza di pace si aprì a Parigi il 18 gennaio 1919. In quegli stessi giorni la terribile epidemia di influenza detta “spagnola” raggiungeva il suo apice. In Italia avrebbe fatto 600.000 morti, lo stesso numero di vittime dei tre anni di guerra. Anche due dei tre veggenti di Fatima, Giacinta e Francesco, contrassero la malattia nel dicembre 1918. Francesco morì il 4 aprile 1919. Giacinta venne ricoverata all’ospedale di Lisbona, dove morì il 20 febbraio 1920.
Il 22 dicembre papa Benedetto XV manifestava la sua speranza per «le deliberazioni, che non tarderanno ad essere prese dall’Areopago di pace, a cui si volgono ora i sospiri di tutti i cuori». Il 1919, scriveva L’Illustrazione italiana del 22 dicembre 1918, «sarà l’anno della trasfigurazione del mondo».Le illusioni dei “ruggenti anni Venti”, furono presto spazzate vie da un nuovo uragano di guerra, che aveva le sue premesse proprio nei Trattati di pace conclusi a Parigi nel 1919-1920.
Il secolo che seguì è considerato il più terribile della storia d’Occidente. Ad esso si possono applicare i versi di William B. Yeats: «Things fall apart; the centre cannot hold; Mere anarchy is loosed upon the world» (“tutto crolla; il centro non regge più; sul mondo si è scatenata l’anarchia”). Il Sacro Romano Impero era stato ufficialmente dissolto da Napoleone nel 1806, ma l’Austria-Ungheria continuò a svolgere fino al 1918 la sua missione, costituendo il fulcro dell’equilibrio e della stabilità dell’Europa.
Poi si aprì il vortice dell’instabilità, che dalla sfera politica oggi è passato a quella religiosa, provocando lo smarrimento di milioni di anime. Ma la Chiesa sopravvive alle tempeste che travolgono gli Imperi e il Bambino Gesù, ogni Santo Natale, ci invita ad abbandonarci con immensa fiducia a Lui, come bambini addormentati nelle braccia materne.
Roberto de Mattei
fonte https://www.corrispondenzaromana.it/1918-2018-tutto-crolla-il-centro-non-regge-piu/
Read More