Posted by altaterradilavoro on Feb 21, 2019
Più
rabbie governative.
Là dove i cittadini potevano impunemente far da giudici e da manigoldi, che i
tribunali?
S’abborracciavano giudizii di maestà, si condannavano persone a centinaia. 1 soldati magistrati
inappellabili.
Il Lamarmora seguitò l’usanza Cialdiniana, e faceva
senza legge fucilare e ardere, acciò il terrore supplisse alla forza.
Nullo il segreto postale; il governo copiava i
briganti; nulla la libertà di stampa, privilegio di soli rivoluzionarii.
A’ 9 novembre la canaglia che s’appellava
studiosa rinnova in via Toledo i falò de’giornali indipendenti,
La stampa meridionale, l’Araldo, la Settimana e
l’Alba, dice distruggere il brigantaggio morale; né soddisfatta, visto che
seguitavano, la dimane corre alle tipografie, rompe torchi, sperde caratteri,
batte gli scrittori.
La polizia stigante guardava.
Ma che. era ardere giornali, dove s’ardevano
paesi? Il governo sfacciato, per ricusarne la solidalità in Europa, stampò un
manifesto del Procurator Generale riprovante il fatto; ma a’ colpevoli non fu
torto un capello.
Il
duca di Caianiello, carceralo nove mesi, non trovatasi reità, uscì per
sentenza, ed esulò a Parigi.
Il deputato Ricciardi a’ 4 dicembre in parlamento deplorò la trista condizione
del napolitano; né sapendosi tenere, sborrò in lodare il governo de’ Borboni,
quello contro cui tutta la vita s’ era vantato aver congiuralo; e conchiuse
chiedendo l’altr’anno s’aprisse la Camera a Napoli. I colleghi gli risero in
faccia a dilungo.
Due giorni dopo ne toccò una al fratel suo,
conte de’ Camaldoli, ma legittimista; cui la sera del 6 perquisirono la casa; e
benché non trovassero indizio di colpa, il carcerarono.
Mandaronlo alla corte criminale come capo di
comitato reazionario; la quale dopo diciassette giorni gli die’ la libertà
provvisoria, con obbligo di residenza in città. Egli si tolse a tal vessazione,
fuggendo a Roma.
Arrestarono
ben altra gente.
Torino servitosi de’ comitali e delle sette per diroccare l’antico, ora temeva
di quelle sue arti, né solo de’ legittimisti, ma de’ medesimi suoi settarii:
valeva rincatenare la belva.
Il Ricasoli il 20 novembre scriveva a’ prefetti, che «se le società segrete
fecero opera di coraggioso patriottismo quando cospiravano, ora che Italia è
fatta,
sono ree di fellonia, cospirando contro il governo nazionale» cioè contro esso
Ricasoli; però ordinava si sorvegliassero e punissero.
Più rabbie parlamentari.
Quasi tante perpetrate morti e nefandezze non
bastassero, i liberaloni del parlamento si scagliavano contro la troppa
libertà.
Il
Petruccelli a’ 6 dicembre disse: «La libertà talvolta è omicida. Abbiamo
bisogno d’un nuovo anno 1793.
A ogni cittadino un moschetto, a ogni traditore un patibolo. » E fu chi diegli
del bravo.
Ma come nel 93 il primo patibolo s’alzò pel re, cosi lucida era la conseguenza.
E che
meno del 93 nel napolitano? ma colui volea farvi il deserto, acciò vi
sguazzassero poche belve come lui: fu lampo della feroce legge Pica uscita 1′
anno appresso.
Il deputato Bertani a’ 7 accusò il ministero di violare il segreto postale,
violato anche ad esso.
I ministri se n’ offesero, dichiararono ch’ove
fosse vero si terrebbero rei di delitto.
Elessesi
una giunta a verificarlo; la quale chiese vedere i registri dell’Interno, e ‘l
Ricasoli non li volle mostrare.
Essa trovato vero il delitto, per evitare lo scandalo, fé un ridicoloso
rapporto: assicurò violato il segreto postale, e che il Bertani avea ragione,
ma che anche i ministri non aveano torto.
Forse /voleva dire che a leggere le lettere de’ cittadini bene, ma d’un
deputato no; e non fu rimestato.
Rabbie finanziere.
l
guai maggiori di quel governo malversatore stan sempre nelle Finanze.
Proclamata ladra l’amministrazione antica, i liberatori co’ fatti loro si
mostrarono ladrissimi.
Stamparono
d’uffìzio che nel 1860 riscossero d’entrate lire 471, 499, 722, 60, e ne
spesero 829, 875, 728, 10, cioè in più 348 milioni o 376, 005, 50 che
raggranellarono vendendo a libito rendite pubbliche.
Ma dicevano quello essere anno anormale. Poi nel 1861 spesero un bilione e
undici milioni e 39, 881, 63 lire, cioé in più dell’entrate 533 milioni e 608.
416, 30; cui rimediarono con lo imprestito de’ 700 milioni.
Questo
a’ profani manifestarono, il vero chi ‘l seppe mai?
Disonesti scialacquanti di quel del pubblico, avriano arso il mare.
Non bastate le tante cresciute tasse, non il decimo di guerra imposto nel
napolitano, esteso il 5 dicembre a tutta Italia, non i debiti fatti allora,
quel ministro Bastogi a’ 21 dicembre disse in parlamento, ch’oltre i milioni
spesi in più quel!’ anno, ne occorrevano altrettanti da spendere nel 62; però
chiedeva altri prestiti, altre imposte.
Propose
anche vendere titoli di nobiltà a denari. Febbre era di pigliare e sparnazzare.
La rivoluzione sin oggi s’ha inghiottito e inghiotte un milione e più di
disavanzo per ogni giorno che passa; sicché a tutto il 66 gl’Italiani han
pagato per tasse quattro bilioni e mezzo al governo rivoluzionario, che ha
speso invece otto bilioni.
E quei che celebravano la costituzionalità del
vedere i conii, e accusavano di non dare conti i prenci assoluti, che
spendevano poco, quelli dico gran costituzionali non hanno poi dato un conio in
sette anni, perché forse è in essi un abisso che neppure osano guardare.
Ma quella camera non si sbigottiva di nulla; o
anzi il 12 del mese riconfermava il suo voto del 27 marzo, cioè Roma capitale
d’Italia; e col deliberamento stesso dichiarava mancare all’Italia, oltre Roma
«l’armamento nazionale, l’ordinamento, l’efficace tutela delle persone e della
proprietà, un personale onesto, abile e devoto alla causa nazionale, il
riordinamento della magistratura, lo sviluppo de’ lavori pubblici e della
guardia nazionale.» E volea Roma, per regalarle la felicità.
m
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Posted by altaterradilavoro on Feb 8, 2019
L’ondata migratoria sospinta e
sostenuta dai poteri finanziari rappresenta un vulnus per l’identità delle genti italiche,
fatta di storia millenaria, tradizioni, cultura, leggi, principi e valori, cui
in nulla si riconducono i migranti economici che sbarcano a migliaia ogni
giorno, che nei millenni non hanno costruito nulla di simile a noi. Perciò,
voglio coltivare il senso della nostra identità, per una volta ripercorrendone
le pagine della storia e non solo, come sempre, la trama dei principi
costituzionali. Per capire di cosa Vi parlo, comincio guardando negli
occhi questa immagine della famiglia materna.
Questo saggio è di VINCENZO
FALCONE, Docente di Politica Economica dell’Unione Europea
1) Il Brigantaggio
Sul tema del brigantaggio meridionale, e calabrese in particolare, esiste una letteratura talmente vasta che non pretendiamo, in questa sede, di essere esaustivi sull’argomento.
Ci proponiamo, piuttosto, di esporre qualche notizia informativa, senza alcuna pretesa di nuove scoperte storiografiche, se si eccettua qualche documento dell’epoca, che ci sembra significativo e illuminante sulla mentalità e sul modo di agire di quelli che furono comunemente definiti “briganti”.
Per poter dare una data di inizio al fenomeno del Brigantaggio in Calabria, bisogna risalire alla metà del 1500, ai tempi dell’imperatore Carlo V, quando, in particolare, le angherie dei feudali e le tassazioni cominciarono a rendere quasi impossibile la vita delle masse popolari, all’interno delle quali cominciarono a nascere bande armate che, pur saccheggiando casali e centri abitati, non erano, comunque, malviste dalle popolazioni locali, in quanto esse colpivano, in maggiore misura, i ricchi baroni o i proprietari terrieri (ma non quelli più potenti), allo scopo di vendicare le ingiustizie sociali perpetrate nei confronti della povera gente.
Il brigantaggio divenne uno dei problemi più gravi per i governanti dell’epoca, che durò almeno 400 anni (praticamente fino alla fine del 1800) e giocò ruoli diversi a seconda del tipo di iniziative che intraprendevano gli stessi briganti, oppure in funzione delle alleanze che essi riuscivano a creare con i protagonisti delle lotte per il potere.
Il brigantaggio meridionale in generale, caratterizzato da metodi quasi identici a quelli della delinquenza comune, fu spesso ritenuto causa di malessere sociale e di disagi economici di grande portata che, inevitabilmente, coinvolsero le popolazioni civili interessate dai territori di riferimento, allorquando i governanti, nel periodo napoleonico, o lo Stato, nel periodo postunitario, intervennero per combattere, in modo più o meno cruento, le diffuse sacche di criminalità.
La Calabria è stata, in particolare nel XIX secolo, una delle maggiori ribalte del brigantaggio italiano.
In effetti, il brigantaggio, nell’Ottocento, ebbe diverse impronte: ci furono cicli di aggregazione di bande con ispirazione politico-sociale, altre fasi in cui prevalse il movente criminale e mafioso, e perfino qualche momento in cui si parlò di “brigantaggio romantico”.
In ripetute occasioni, ad alimentare il clima di aggressività furono, come al solito, i Borboni.
Basta ricordare il coinvolgimento di alcuni briganti nel 1799, durante la spedizione sanfedista del cardinale Fabrizio Ruffo per reprimere, nel Mezzogiorno, il «caos giacobino» della conquista francese e a rimettere sul trono di Napoli proprio la dinastia borbonica.
Il brigantaggio, in questi casi, assume carattere politico, alleandosi con i più potenti, ricattando piccoli baroni e proprietari e rispettando, in generale, la povera gente che garantiva loro nascondiglio e copertura.
Assistiamo, quindi, non solo alla connivenza dei baroni con i briganti, ma anche alla “abilitazione”di questi ultimi al rango di borghesi liberi e ricchi e di comandanti militari.
Dopo il 1860, nacque la categoria dei “briganti-guerriglieri” che scendevano in campo contro l’unità d’Italia presentata come «usurpazione piemontese».
Il brigante, in molti casi, era visto dalle masse popolari come un “giustiziere”: vendicatore di secolari soprusi, altre volte, come unica alternativa al Governo, o allo Stato; poche volte come criminale da isolare.
Infatti, sia durante il decennio napoleonico che subito dopo l’Unità d’Italia, la grande difficoltà incontrata dallo Stato, nel combattere il brigantaggio, era la connivenza e l’omertà della gente che proteggeva il brigante o che, comunque, difficilmente lo tradiva.
Un’omertà così fortemente radicata nella popolazione si ripropone, ancora oggi, con riferimento alla criminalità organizzata.
A creare situazioni anomale ha contribuito, in qualche modo, la stessa conformazione geografica che, se da un lato, ha fatto di questa estremità della penisola una via terrestre di comunicazioni essenziale tra il resto del Mezzogiorno continentale e la Sicilia, dall’altro ne ha fatto una regione remota, con una natura splendida ma impervia.
Il teologo e giurista tedesco Johann Heinrich Bartels, che fu anche borgomastro di Amburgo, rilevò con sgomento che “le informazioni che Napoli riceve dalla Calabria sono identiche a quelle che la Spagna un tempo riceveva dall’America”.
Egli era convinto che doveva esserci qualche interesse occulto all’origine di una disinformazione così incomprensibile.
Nei loro resoconti, i visitatori europei sottolineavano la contraddizione tra il forte senso d’ospitalità dei calabresi e l’estrema fertilità delle campagne, contrapposti alla povertà dei contadini e al quasi totale analfabetismo.
Secondo i fratelli Fouchier, ad esempio, tale situazione di arretratezza era dovuta agli onnipotenti baroni, proprietari di latifondi immensi, i quali erano convinti di mantenere il loro potere, se i contadini non si fossero emancipati e se il loro tenore di vita fosse stato limitato alla stretta sopravvivenza.
Sulla ribalta della Calabria, allora, si mossero vivacemente anche mestatori internazionali, quali lo spagnolo José Borges che sbarcò sul litorale ionico come agente sobillatore di istanze reazionarie e come reclutatore di «cafoni armati».
Poiché questa non è la sede per approfondire tutte le questioni legate al brigantaggio, limitiamo le nostre riflessioni al periodo post-unitario ed a quello post-fascista, sottolineando il fatto che sia il Regno d’Italia che i primi governi repubblicani non riuscirono a trovare le giuste soluzioni alle reazioni e alle sommosse popolari dell’epoca:
Furono, infatti, costretti ad utilizzare il potere militare per reprimere le ribellioni delle masse di disperati ed emarginati che si sentivano, alla fine, più protetti e garantiti, prima dal brigantaggio e poi dalla criminalità organizzata.
La differenza culturale e l’incapacità di valutare appieno i gravissimi problemi della Calabria, non consentivano di dare il giusto peso alla miseria sconfinata, al malcontento, al malessere sociale profondo, alla fame di terra dei contadini, alle gelosie e lotte tra benestanti che, alimentando brigantaggio e criminalità, costrungevano la regione ed i suoi abitanti alla rassegnazione nei confronti di uno Stato ingiusto ed emarginante che obbligava la popolazione o a convivere con l’illegalità, oppure ad emigrare.
Iniziando, dunque, le nostre riflessioni a partire dall’unificazione del regno d’Italia, ci sembra opportuno, soprattutto in relazione alla Calabria, citare la nota riflessione di Benedetto Croce concernente il trapasso dal momento eroico, che aveva caratterizzato gli anni del Risorgimento nazionale, a quello più prosaico della risoluzione dei problemi nati con l’Unità: […] Non più scoppi di giubilo come nel sessanta da un capo all’altro d’Italia, e il respirare degli oppressi e l’affratellarsi delle varie popolazioni, ormai tutte italiane […].
Molti sentivano che il meglio della loro vita era stato vissuto.
Tutti dicevano (e disse così anche il re, in uno dei discorsi della Corona) che il periodo “eroico” della nuova Italia era terminato e si entrava in quello ordinario del lavoro economico e che, alla “poesia” succedeva la “prosa”.
In Calabria, come in quasi tutto il Mezzogiorno, spentasi l’euforia dell’impresa dei Mille e quella suscitata dai plebisciti, attraverso i quali la stragrande maggioranza dei calabresi aveva manifestato il desiderio di far parte dello Stato italiano, riemergevano i vecchi problemi ai quali si sovrapponevano quelli nuovi, nati dal confronto con le regioni più progredite del resto d’Italia.
Infatti, la Calabria, nei quindici anni di governo della Destra Storica, dovette affrontare la nuova situazione politica, venutasi a creare con l’Unità, da una posizione di estrema debolezza economica e sociale.
Il nodo più difficile da sciogliere era rappresentato dalla necessità di subordinare i problemi locali a quelli generali dell’Italia.
La regione non “sentiva” l’opportunità di sacrificare le sue scarse risorse economiche e intellettive nell’interesse generale di un’entità statale che ai più appariva lontana ed astratta.
I calabresi, infatti, a parte il ristretto numero dei patrioti che avevano avuto un ruolo determinante nel corso delle lotte risorgimentali e quello, altrettanto sparuto, degli intellettuali che avevano letto Hegel, Settembrini, Mazzini e Gioberti, dovettero, tra l’altro, fare i conti con un “nuovo” fenomeno politico, lo “Stato unitario” che stravolgeva il concetto stesso che essi avevano sempre avuto, sia dello Stato che della politica.
Fino al 1860, i calabresi avevano tenuto come punto di riferimento una capitale, Napoli che quasi nulla aveva chiesto e alla quale in verità poco era stato dato dalle estreme periferie del Regno.
Il re stesso, molto somigliante nei vizi e nelle virtù, ai suoi sudditi, aveva fatto sentire la sua voce attraverso quella, spesso violenta e brutale, dei suoi funzionari e dei ricchi proprietari terrieri, detentori del potere reale esercitato nei confronti dei braccianti e della plebe cittadina.
Era stato difficile, per una popolazione che deteneva il triste primato di altissimi indici di analfabetismo, di mortalità infantile, di disoccupazione e di mancanza, pressoché totale, di strutture, coltivare ideali che non fossero quelli della sopravvivenza e dell’affannosa ricerca della giornata di lavoro o del posto nella pubblica amministrazione.
Conseguita l’Unità, i calabresi venivano, quindi, chiamati a rendersi partecipi di questioni generali (completamento dell’unità nazionale, rapporti con la Chiesa, alleanze con gli Stati europei, ecc.) che, in effetti, nulla sembrava avessero in comune con i numerosi problemi locali rimasti uguali a prima, anzi peggiorati a causa dalle nuove leggi che prevedevano, tra l’altro, un sistema fiscale più moderno, più organico e rigoroso ed il servizio di leva come doverosa partecipazione di tutti gli italiani alla difesa della patria comune.
Tra i numerosi problemi che la Destra dovette immediatamente affrontare, relativamente alla crisi che investiva il Mezzogiorno e, soprattutto, la Calabria, vi furono quelli del brigantaggio, quelle delle conseguenze economiche derivanti dall’applicazione della legge sul macinato e, infine, quelle dell’eterna questione dei boschi della Sila.
Già all’inizio del 1861, in Calabria, il brigantaggio si manifestò nelle forme endemiche di furti, ricatti, vendette personali, atti vandalici contro le colture e il bestiame.
Cominciarono ad apparire le prime bande guidate da capi decisi, abili e spietati che rappresentavano un preoccupante superamento della fase iniziale del fenomeno che negli anni immediatamente precedenti l’Unità era stato caratterizzato dall’azione di fuorilegge isolati.
Le bande che crescevano, di giorno in giorno, in numero e aggressività, arrivarono ad attaccare i borghi rurali e, in qualche caso, anche i centri importanti .
Durante tali aggressioni, venivano uccisi liberali, sindaci, ufficiali della guardia nazionale, nonché, distrutti gli archivi comunali e liberati i detenuti.
Episodi del genere si registrarono a Strongoli, a Zagarise e a San Mauro Marchesato.
Nel 1864, nel constatare l’esplosione del fenomeno, Vincenzo Padula così lo interpretava:
“Finora avemmo briganti, ora abbiamo il brigantaggio; e tra l’una e l’altra parola corre grande divario. Vi hanno briganti quando il popolo non gli ajuta, quando si ruba per vivere, e morire con la pancia piena; e vi ha brigantaggio quando la causa del brigante è la causa del popolo, allorquando questo lo ajuta, gli assicura gli assalti, la ritirata, il furto e ne divide i guadagni. Or noi siamo nella condizione del Brigantaggio […]. Il Brigantaggio imbaldanzito dice al popolo: “Garibaldi” vi promise carne e pane, e vi tradì; “Vittorio Emanuele” vi giurò di farvi felici e non attenne le promesse: seguite dunque noi. E il popolo è coi briganti; vale a dire, il popolo che una volta fu per Garibaldi, pel Re, per l’ordine, per l’emancipazione d’Italia, ora è per la vergogna di Italia, pel disordine, pel saccheggio. Come cademmo così basso? Chi alimenta l’audacia dei briganti, ed assicura loro il dominio dei boschi? Noi non temiamo di dirlo”.[1]
Aggravatasi, pertanto, la situazione, il governo pensò di intervenire per stroncare questo fenomeno dilagante.
Il 15 luglio del 1863 cominciò, così, alla Camera dei Deputati la discussione sulla legge che prevedeva un massiccio intervento nelle province meridionali del Regno d’Italia.
Fin dalle prime battute, alla Camera emersero le due opposte tendenze che da qualche anno dividevano il paese sul quel fenomeno, che nel Mezzogiorno aveva assunto le dimensioni di un male endemico.
Bisogna ricordare, infatti, come abbiamo già accennato, che la presenza di briganti in Calabria aveva quasi scandito la storia stessa della regione, sin dal 1500.
In tempi più recenti i briganti erano stati, di volta in volta, utilizzati anche per fini politici.
Durante la spedizione del cardinale Ruffo, nel corso del decennio francese, la ferocia dei briganti calabresi era diventata tristemente nota in tutta Europa, soprattutto, attraverso i diari degli ufficiali francesi, testimoni di veri e propri atti di crudeltà, compiuti nei confronti dei loro soldati.
Il brigantaggio non assunse mai in Calabria, come del resto nelle altre regioni del Mezzogiorno, i caratteri di una rivolta sociale.
In effetti, tale fenomeno fu sempre un fatto ricollegabile alla complessiva arretratezza della nostra regione, ma non per questo i briganti ebbero mai la consapevolezza, se si eccettua qualche rarissimo caso, di lottare per ideali di giustizia sociale o di libertà.
Incompreso nella sua reale dimensione e nelle sue svariate componenti, il brigantaggio, nel momento in cui lo Stato pensò di intervenire per reprimerlo, divise il mondo politico italiano.
Da una parte, si schierarono, rappresentando la maggioranza, quanti vedevano in esso una manifestazione di delinquenza comune, resa maggiormente persistente a causa della crisi determinata dai recenti sconvolgimenti politici e dal passaggio da un sistema di governo ad un altro.
I parlamentari che sollecitavano un pronto intervento dello Stato erano indotti ad assumere questa posizione anche a causa della scarsa informazione sui molteplici problemi che travagliavano la Calabria e dal pregiudizio che il brigantaggio fosse da collegare ad una certa ferocia propria delle popolazioni del Sud.
Dall’altra, fatte salve le posizioni moderate e di mediazione che emersero nelle discussioni, sempre abbastanza animate, si collocavano i parlamentari convinti di trovarsi davanti ad un problema sociale da esaminare, con molta pacatezza e da risolvere con provvedimenti legislativi adeguati.
Tra i parlamentari calabresi si fece sentire, forte ed autorevole, la voce di Luigi Miceli[2], mentre gli altri rimasero silenziosi, come se i provvedimenti da prendere non interessassero direttamente la propria regione e i propri elettori.
Il Miceli si mostrò subito contrario ad interventi repressivi eccezionali, convinto com’era che altre dovessero essere le misure da prendere di fronte a fatti che, nonostante la loro gravità, celavano i profondi squilibri sociali esistenti nel Mezzogiorno d’Italia e, segnatamente, in Calabria.
Le cause del brigantaggio erano, a suo giudizio, l’endemica miseria delle masse contadine, la prepotenza e l’esosità dei proprietari terrieri, l’ingiusta distribuzione della ricchezza, l’infimo livello culturale del popolo, la mancanza assoluta di scuole, strade, ospedali ed altre infrastrutture primarie.
“Un Governo che succede ad una rivoluzione”, affermò il Miceli, nella seduta parlamentare del 31 luglio 1863, “è obbligato ad agire con la massima rapidità e franchezza, a non frapporre indugio di un sol giorno, ad approvare leggi dalle quali deve risultare la salvezza del plebe che vive di stenti […]. Un Governo onesto e che vuole la tranquillità del Paese, un Governo che vuole sradicare il brigantaggio e il borbonismo, non deve dare motivi per cui si istituiscano paragoni tra lui e il cessato Governo, deve fare giustizia, una rigorosa giustizia e più di tutto deve farla contro i potenti che abusano del loro stato”.
Nonostante la ferma posizione del Miceli e di altri parlamentari che operavano all’opposizione, venne approvata la legge Pica che prevedeva lo stato d’assedio, anche nelle Calabrie, e le conseguenti norme legislative che di fatto sospendevano le garanzie costituzionali.
L’esercito italiano intervenne in Calabria con estrema determinatezza e applicò, con severità, la legge speciale da poco approvata dal Parlamento.
Saccheggi, incendi, perquisizioni, ingiustizie e soprusi furono ciò che la Calabria conobbe da parte dei piemontesi i quali pretendevano di risolvere con la repressione, un problema che, invece, andava visto ed interpretato con lungimiranza politica, piuttosto che soffocato con la forza delle armi.
Corollari di tutta questa campagna furono numerosi processi ed esecuzioni sommarie a carico di briganti o presunti tali.
Non si tenne conto del fatto che i contadini calabresi, per costume, non consideravano reato il possesso del fucile o del coltello.
Per le truppe inviate in Calabria, tale possesso rappresentava un delitto da punire severamente.
I briganti risposero con durezza a questo stato di cose e spesso misero a repentaglio la vita degli stessi soldati italiani, più volte in difficoltà su un terreno poco conosciuto e che tanto si prestava agli agguati e alle improvvise ritirate.
I briganti strinsero ancor più i loro rapporti sia con gli agenti borbonici che con una parte del clero locale, piuttosto sensibile alla politica oltranzista messa in atto da Pio IX.
Strette tra l’incombente minaccia dei briganti e le severe sanzioni per quanti si fossero assunto il compito di aiutare, in un modo o nell’altro, i fuorilegge, le popolazioni calabresi sperimentarono un sistema di governo che ai loro occhi apparve ingiusto ed estremamente lontano dai propri bisogni.
Nella vischiosa situazione in cui venne a trovarsi la Calabria, a pochi anni dall’Unità, un ruolo importantissimo venne assunto dai proprietari terrieri, molti dei quali vennero definiti “manutengoli” per l’utilizzazione che fecero dei briganti a difesa delle loro proprietà, minacciate dalle bande che battevano tutto il territorio.
La prima fase dell’insorgere del brigantaggio postunitario viene generalmente definita “politica” a causa degli aiuti offerti dai sostenitori del passato regime.
Nell’estate del 1861, i Borboni pensarono che fosse necessario incanalare l’attività delle bande brigantesche verso precisi obiettivi politici di stampo legittimista.
I briganti, cioè, avrebbero dovuto operare in modo da preparare il terreno ai fini di una sollevazione generale del Mezzogiorno che favorisse il loro ritorno.
A tale fine, il principe di Scilla, nel luglio del 1861, pensò di affidare, tramite opportune istruzioni da parte del generale borbonico Clary, la delicatissima missione ad uno spagnolo della Catalogna Josè Borjes[3] che, con pochi compagni fidati, sbarcò in Calabria, sul litorale ionico, tra Bruzzano e Brancaleone, il 14 settembre 1861, nascondendosi tra i boschi dell’Aspromonte.
Il momento scelto non era, tuttavia, favorevole, anche perché, col sopraggiungere della stagione invernale, l’attività dei briganti si riduceva notevolmente e la repressione di luglio e di agosto, da parte dell’esercito nazionale, soprattutto nella provincia di Catanzaro, fu rapida e decisa.
Borjes e i suoi pochi compagni si trovarono quindi ben presto isolati.
Braccato dalle guardie nazionali e dalle truppe, egli tentò di tirare dalla sua parte la banda comandata dal brigante Mittica, con il quale sembra avesse concertato un attacco a Platì.
Fallito il progetto, mentre Mittica veniva ucciso in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, il Borjes, aiutato da un inviato del Principe di Bisignano, riuscì a fuggire verso la Basilicata.
Con la partenza del Borjes, si chiudeva in Calabria la fase del cosiddetto brigantaggio politico.
Quando venne approvata la legge Pica[4], lo Stato italiano si trovò a combattere contro bande che, praticamente, non potevano più contare sull’appoggio del partito borbonico.
Nonostante ciò, i risultati ottenuti dall’esercito non furono molto positivi, tant’è vero che, nel 1864, venne proposta la proroga della legge straordinaria.
Anche nel corso di quella discussione in Parlamento, tra i deputati calabresi, intervenne solo Luigi Miceli, per sostenere, tra l’altro che, “La legge eccezionale, vista in se stessa, è diventata tristissima per il modo violento ed arbitrario col quale è stata eseguita”
Del resto, l’intervento dello Stato ai fini della repressione del fenomeno non era una novità per il Mezzogiorno.
Anche il governo borbonico, proprio nel dodicennio preunitario, era intervenuto energicamente, conseguendo un certo successo. Le forze dell’ordine, coordinate in quell’occasione dal marchese Nunziante, che aveva ricevuto poteri eccezionali, avevano, infatti, catturato parecchi malfattori e denunciato presunti favoreggiatori (i cosiddetti manutengoli).
È un episodio da tenere ben presente, se pensiamo che non pochi proprietari terrieri calabresi avevano aderito e sostenuto i programmi unitari, anche perché speravano che un governo più forte di quello borbonico avrebbe avuto maggiori possibilità di debellare, definitivamente, quella piaga che non pochi danni procurava alle loro proprietà con incendi, furti di bestiame, ricatti e grassazioni varie.
Con l’Unità, molti Consigli municipali calabresi avevano invocato l’intervento dello Stato, anche se, poi, avevano manifestato il loro dissenso in occasione di rappresaglie particolarmente violente, eseguite nei territori posti sotto la loro giurisdizione.
In definitiva, si era creata in Calabria, una contraddittoria visione delle cose : da una parte si faceva pressante richiesta di azioni determinanti da parte dello Stato ma, nel contempo, venivano rivolte critiche aspre allo stesso, quando la sua presenza assumeva tutte le caratteristiche di un vero e proprio stato d’assedio.
Infatti, la tecnica adottata dal generale Fumel che, spesso, non distingueva tra briganti e innocui possessori di fucili o di coltelli, non era il mezzo più idoneo per risolvere le cose.
Luigi Miceli, continuava a portare avanti la sua battaglia politica contro quei mezzi che egli considerava inidonei per stroncare e risolvere il problema del brigantaggio.
Egli era uno dei pochi, se non l’unico deputato calabrese, che era riuscito ad inquadrare il fenomeno nei termini di una crisi profonda che, come tale, richiedeva interventi straordinari, in quanto, a suo parere, le vere cause del brigantaggio dovevano essere ricercate nell’inerzia del governo, nella protervia dei proprietari terrieri, oppressori della povera gente, nella mancata soluzione della questione silana e nella grave situazione delle terre demaniali.
Ad ogni modo, tra il 1861 e il 1862, furono eliminati in Calabria circa 1.560 briganti (1.023 nella provincia di Catanzaro, 306 in quella di Cosenza e 234 in quella di Reggio Calabria).
Tuttavia, nonostante le leggi eccezionali, il biennio 1863-64 segnò una recrudescenza del fenomeno che proprio in quegli anni, da elemento “politico”, dato l’appoggio che esso aveva ricevuto dai Borboni, si trasformava in vero e proprio dramma socio-economico.
Le estorsioni divennero più frequenti e non risparmiarono più neanche i grandi proprietari terrieri.
Ciò procurava ai briganti l’appoggio dei contadini.
In un ambiente come quello calabrese, i solidi legami materiali e morali tra i contadini (a parte l’antico mito ancora persistente del brigante difensore dei deboli) rendevano, ancora più difficile, l’opera di repressione, in un contesto che mal sopportava la presenza di uno Stato che, fino ad allora, si era mostrato, quasi soltanto, sotto l’aspetto repressivo.
Del resto, molti briganti erano coraggiosi e astuti e sapevano accattivarsi le simpatie dei diseredati, abituati da sempre a farsi giustizia da sé, date le note deficienze dei governanti del passato.
Celebri e non sempre disprezzate, in tutta la Calabria, divennero le bande di Pietro Monaco, di Faccione, di La Valle e di Malerba.
Essi erano riusciti ad assoldare o quanto meno a trascinare dalla loro parte, parecchi elementi del disciolto esercito meridionale garibaldino.
La stessa grave crisi economica che aveva investito la Calabria, fin dal 1860, non rendeva agevole stroncare il brigantaggio che, anzi, proprio da questa negativa congiuntura, traeva spesso alimento.
I prezzi del pane e del sale si elevarono continuamente, dopo il 1860, e le misure adottate dal governo furono quasi sempre limitate o tardive.
Si pensò di costruire strade, ponti, acquedotti e, a questo fine, con un decreto reale del gennaio 1861, vennero stanziati 10 milioni per lavori pubblici a favore del Mezzogiorno.
Vennero approntati i progetti, ma i soldi tardarono ad arrivare e Liborio Romano[5], nelle sue “Memorie Politiche”, affermava decisamente che, rimasto disatteso il decreto del 23 gennaio 1861: “ne seguirono due gravissimi mali: il primo, che il brigantaggio si accrebbe di tutti coloro che l’indigenza spinse a farvi ricorso come solo mezzo alla vita, fra’ quali non pochi dell’esercito borbonico, improvvidamente disciolto, il secondo era la mancanza di strade comunali che rendeva più difficoltosi gli scambi interpersonali e commerciali”.
Ma il governo non affrontò globalmente il problema e si limitò ad adottare solo misure di emergenza.
Scarso rilievo, infatti, ai fini del controllo del carovita, ebbero le importazioni di grano che avrebbero dovuto provocare un “ribasso” sui mercati meridionali.
In sintesi, si possono distinguere due grandi fasi del brigantaggio postunitario: la prima, quella politica, in quanto sorretta dall’appoggio dei Borboni che, anche in Calabria, si erano serviti, come già detto, del catalano Josè “Borjes; la seconda, quella sottolineata dalla famosa relazione Massari, presentata nel comitato segreto della Camera dei deputati nel maggio 1863 e pubblicata dopo qualche mese.
Questa relazione, mise in evidenza che le principali cause determinanti del brigantaggio erano lo stato di estrema miseria in cui versava il proletariato meridionale, ossia quello dei contadini senza terra.
In essa veniva sottolineato, inoltre, che, nelle province dove i contadini possedevano la terra o partecipavano, in qualche modo, ai suoi frutti, minore appariva il flagello del brigantaggio.
Ci sembra ora utile ricordare un documento dell’epoca, che, tra l’altro, ci offre la possibilità di ricostruire il clima creatosi attorno al fenomeno del brigantaggio.
Nel giugno del 1867 si celebrò, presso la Corte di Assise di Catanzaro, un processo a carico di 21 briganti.
Riportiamo alcuni brani del resoconto che di tale processo fece un anonimo articolista del «Giurista Calabrese».
Il documento ci sembra interessante per diversi motivi ma, soprattutto perché vi si nota la tendenza, di stampo positivistico, a leggere, nei tratti somatici degli imputati, una sorta di innata malvagità.
Evidentemente, sulla scia degli studi di Cesare Lombroso e dei suoi seguaci, si pretendeva di interpretare il carattere degli individui e delle popolazioni proprio attraverso l’esame del tratto somatico.
Ecco infatti cosa dice a tale proposito il cronista, nel descrivere i vari imputati:
“I giudicabili [ gli imputati, n.d.r.] serban quasi tutti un contegno di noncuranza — taluno di essi sta in atteggiamento di sprezzo — niuno sembra agitato dal rimorso. Il solo Pietro Bianchi, dalle atletiche forme e dalla folta e nera barba, conserva un’aria quasi serena, ma sotto quell’apparente tranquillità osservi la marcata sporgenza del labbro superiore, e l’occhio irrequieto vivacissimo, indice di una scaltrezza senza pari […]. Greco è il solo che veste il costume brigantesco — egli tocca appena 30 anni — È di mezzana statura: la conformazione speciale della bocca, e della fronte — e l’occhio stupidamente feroce, indicano l’abbiettezza e la perversità dell’animo […]. Un occhio piccolo, affossato, cupo — una bocca enormemente sporta in fuori, una fronte schiacciata, angustissima, il color del volto giallo-terreo e sfornito di peli — fanno distinguere fra tutti Pasquale Dardano Bufalaro — Se la fisonomia di Benedetto Greco può, tuttocché ributtante, esaminarsi per qualche tempo, quella di Dardano ispira tale invincibile ribrezzo che lo sguardo si ritorce inorridito, come se avesse incontrato le forme della iena. Antonio Critelli Grio, è giovine, robusto. Gli cresce sul mento una barba rossiccia, ed ha costantemente le labbra atteggiate ad un riso sprezzante — Sta poggiato ad una delle spranghe che chiudono i giudicabili, ed in tale giacitura pare che non si curi della solennità del giudizio”.
Anche la pubblica accusa, nella sua requisitoria di cui riportiamo i passaggi più significativi, interpreta, pienamente, la generalizzata lettura che si faceva del brigantaggio, anche se non mancano in essa degli accenni a fenomeni molto inquietanti, quali, ad esempio, quello del manutengolismo:
“Volge ormai il quinto anno dacché la selvaggia creazione del brigantaggio arreca alle due prime Calabrie lutti e danni pressocché innumerevoli. Quella orde di masnadieri fatte audacissime dall’aspra natura dei luoghi, dall’ignavia dei monti, e (con voce vibrata) dall’impudente connivenza dei pochi ai quali piace arricchire dell’altrui, non temerono di manomettere a viso aperto le sostanze dei privati, di maculare l’onore delle famiglie, di attentare alla vita dei cittadini […]. Distrutta la pastorizia con le frequenti uccisioni delle greggi: isterilita l’agricoltura tagliando le piante ed appiccando il fuoco alle biade ed alle case rurali; disseccata la fonte del commercio colle reiterate aggressioni sul pubblico cammino: impoverite le famiglie con le numerose estorsioni: insozzata coi ratti e cogli stupri la santità del pudore domestico: il tipo del brigante diventato nella degenere coscienza delle plebi un ideale di fortunati ardimenti […], parea che la forza sociale, e la potestà delle leggi dovessero rimanere paralizzate per lunga stagione […]”.
Terribili e, purtroppo, quanto mai attuali le testimonianze delle vittime dei briganti.
Uno di essi narrò che “mentre l’infelice Mancuso era agonizzante fu tagliato a pezzi, e dilaniato nel modo il più spaventevole. Ciò fatto [i briganti, n.d.r.] si recarono dall’altro pastore Chiarella e lo percossero in modo che gli ruppero la colonna vertebrale. Quel misero cercava allontanarsi carponi dal luogo, ma i briganti gli scaricarono contro vari colpi d’arma da fuoco e lo ferirono a morte. Prima di allontanarsi misero sul cadavere del Mancuso un biglietto scritto precedentemente da Perrelli, nel quale si diceva che egli, Sacco e Trapasso aveano consumati gli assassinii, perché sospettavano che i due pastori aveano fatto la spia alla pubblica forza contro i briganti”.
Un’altra vittima così diceva ai magistrati: “e così mi condussero nella Sila fra le nevi ed i geli, perché nel forte dell’inverno, e mi tennero 31 giorni fra le sevizie e le minaccie di morte, non essendo mai contenti delle somme ed oggetti preziosi che si mandavano dalla famiglia. Finalmente mediante la somma di ducati 16 mila circa fui liberato”.
Presidente: “aveste reciso anche l’orecchio sinistro?”.
Querelante: “Sissignore, a fin di mandarlo alla mia famiglia ed ottenere maggiori somme sen’altro indugio: ecco (e si alzò sollevando i capelli che coprivano l’immane sfregio)”.
Giustino Fortunato definì il brigantaggio l’ultimo terribile atto della vecchia e grave questione demaniale.
Presso l’Archivio di Stato di Catanzaro giacciono le maquettes dei briganti: erano lettere minatorie, ricatti, minacce, richieste di denaro, di averi o di altro alle famiglie benestanti.
In esse, probabilmente scritte da uno scrivano semianalfabeta sotto dettatura, si riscontra l’evidente ignoranza dei briganti i quali si esprimevano o scrivevano (se sapevano scrivere), in forma dialettale, per cui alcune parole si presentano incomprensibili e intraducibili.
A titolo di esempio, ne trascriviamo una, datata 1865, in cui era scritto: “Gentilissimo Signore è cavalieri Ripetuosamente Vengo a Baggiare la mano ma sono costretto a fati uno buoglieto in mia testa è Vi na Prego subito che ricevite questo biglietto che avete la premura per lo spazio di tre giorni che vi benignati à mandarer gli uggetti che noi vi domandamo. Primo tre cento ducati, due rivovari due pistoli a due buoti due stiletti ben fatti è 6 anela di oro; non altro vi saluto mo tutti è sono servitore – firmato Giachino loggo con la sua compagnia”,
(Gentilissimo Signore e cavaliere, rispettosamente vengo a baciarVi la mano, ma sono costretto a scrivere un biglietto di testa mia. Vi prego che quando riceverete questo biglietto di avere la premura nel tempo di tre giorni, vi benigniate di mandarmi gli oggetti che vi chiediamo. Per prima cosa trecento ducati, poi due revolver, due pistole a due fuochi, due stiletti ben fatti e sei anelli di oro; non altro vi salutano ora tutti e sono servitore – Gioacchino Longo con la sua compagnia).
Sempre lo stesso Longo, in un’altra lettera, chiederà 40 mila ducati, di cui ventimila in oro e ventimila in argento; poi, cento anelli, cento fazzoletti di seta, sette brillanti, …dieci paia di orecchini alla francese, sei cilindri (orologi) di oro con le catene di oro, sette carabine, revolver, settecento palle di revolver, sette cannocchiali di lunga vista e sette fili di oro per la gola del più grosso.
In un’altra lettera, sempre il Longo, aggiungerà: “sinon mandati questa somma, lo vostro figlio noi lo uccidiamo”.
In un altro avviso, aggiunge che avrebbe mandato le orecchie (“laricche”), oppure la testa.
Un altro brigante, nel 1864, chiederà seimila ducati, una bisaccia di pane e companatico, trenta canne[6] di velluto per fare cappelli, una canna di castoro, un orologio da taschino, “rilogo di sacca”, otto anelli, una collana, tre cappelli, quattro canne di velluto rigato, quattro paia di stivali, un revolver, cento bottoni in argento e di non fare parola con nessuno.
Un altro, nel 1862 chiede: “duecento piastre, perché non vi chiedo una somma che non potreste possedere, perché mi debbo sostenere con tutti i miei compagni, perché se me le rimettete ringrazio la vostra bontà e se no vi darò dei dispiaceri e lo voglio sapere subito, avete due ore di tempo”.
Un altro, nel 1861 scriverà: “La comitiva mi dice che se volete i buoi vivi dovete mandare sei canne di castoro, oppure il corrispondente in denaro, ed altri venti pezzi per il cappello, un paio di scarponi, tre mazzi di cartucce, due bottiglie di rosolio e due di rum (“rumbu”), un mazzo di sigari e quattro libbre di tabacco, moltissimo pane ben fatto, quattro camicie e quattro fazzoletti;… in caso contrario subito faremo “il festino”.
Una prova della religiosità e della devozione dei briganti verso le immagini votive si rileva in una lettera datata 8 agosto 1863, nella quale il brigante Vincenzo Scalise, detto Pane di Grano, minaccia i galantuomini di Petilia Policastro, un paesino in provincia di Crotone, ai quali intima di trasferire la statua della Madonna nel Romitorio, perché “Lei non è stata mai molestata e la gente che vi è andata in preghiera si è mossa con grande sicurezza e non è stata molestata e né verrà molestata da alcuno. Se non portate la madonna al romitorio vi bruso (vi brucio) le vostre robe (il casino, vacche e pecore) e con un battero (un fiammifero) vi rovino e la dovete portare in processione”.
Ma vi è, pure, una lettera di un ricattato, con uno stile di persona colta, il quale alla richiesta, sicuramente esosa, risponde al brigante affermando: “Caro Antonio, credimi non posso più. Il mio cuore è grande ma le mie finanze sono ristrettissime. Non andare presso le malelingue. Datti carico delle mie circostanze. Il bene che mi fai non andrà perduto. Se non posso oggi, spero potrò appresso. In me avrai un amico sincero che potrà esserti utile in ogni tempo, di notte e di giorno. Non mi affliggere perché non me lo merito. Io non ti conosco, non ti ho fatto male veruno. Ho sempre difeso i parenti dei briganti ed i loro amici senza interessi, e con zelo, quindi se non merito riguardi, merito almeno di non essere posto in croce. …Fa quello che Dio ti ispira. … Un amico vale più di un milione. Ajutami caro Antonio e poi comandami della vita. Ti saluto coi tuoi compagni e mi attendo i tuoi favori- tuo amico Luigi Chimirri”.
Poi vi è una lettera del 1865, nella quale il brigante Francesco Cristiano fa uno sconto al ricattato, perché ha appreso che è un sostenitore del Reale Francesco II: “voi siete rialista, così invece di ottocento ne manderete quanto potete, ma pensate che si devono contentare trenta persone… altrimenti avete un gran dispiacere. Come si vede, il rispetto verso il sostenitore dei reali è fino ad un certo punto, altrimenti saranno comunque guai”.
In una lettera di un sequestrato, il sig. Antonio Perri fu Diodato di Conflenti (prov. di Catanzaro), datata 1865, c’è scritto: “Mia cara Madre e caro fratello se mi volete vedere un’altra volta mandatemi la somma di quattromila ducati, il mio fucile e dieci canne di castoro, dieci di cotone, dieci di vellutino e duecento palmi di vellutino per i cappelli, perché io sono attaccato mano e piedi e poi la roba vale più della mia vita”.
Poi ancora: ”cara sposa vai da tuo padre, digli di fare il possibile per farsi prestare il denaro, che poi faremo i conti, perché verranno due signori con un fazzoletto bianco messo sopra la spalla sinistra la sera della domenica”.
Alla fine della missiva raccomanda di guardarsi dalle persone che potrebbero incontrare, “per non restare derubati e colle mani vacante”.
Un altro sequestrato, Luigi Filippo Chimirri, in una lettera del 1867, scrive: “Caro padre, io sono in mano ai briganti, che vogliono quarantamila ducati, poi sei orologi in oro a doppia cassa con le catene a laccetto per collana, sei revolvers, sei a due colpi di un’oncia, sei cannocchiali di lunga vista, venti paia di orecchini di dieci ducati il paio, cento anelli, cinquanta fazzoletti di seta, dieci collane per donna, dieci grembiuli damascati di seta, dieci canne di bordiglione castrato e dieci di castoro verde, dieci brillanti per le mani e subito preparate questa somma, affinché io possa ritornare a casa, se no passo all’altra vita”.
“Caro Padre non fate venire la forza militare cittadina, perché scontrandosi con la comitiva, io sarò ucciso. Vi raccomando, perché so benissimo che è impossibile che voi possiate disporre di tali somme ed oggetti, ma essi questo mi dissero di scrivere ed io scrissi. Non vi date troppo alla collera e pregate per il vostro infelice figlio”.
In una lettera del 1868 si legge: “inviatemi subito, nel termine di due ore, perché io sono di passaggio, duecento ducati, una bisaccia di pane e companatico per otto persone, perché se non me li mandate vi uccido i buoi e le pecore”.
Nel 1868, il brigante Angelo De Santijs scrive al parroco di Castagna “un paesino della presila”: “”Con tanta gentilezza vengo a pregarvi, se voi accettate le mie preghiere, voglio solo due fucili a due canne, il revolver ed un coltellaccio per questa sera”
“Non fateli venire meno queste cose se no vi provoco dei danni”
“Se non potete mandarmi questi oggetti, mandatemi la somma di cento ducati, al fine di poter comprare queste cose”.
Alcuni briganti, nelle loro lettere minatorie, si firmavano anche come “vostro amico”; in un’altra lettera un brigante, con una giustificata distinzione, si firmava “il vostro affezionatissimo amico e nemico”.
Questa breve corrispondenza epistolare tra persecutori e perseguitati dimostra come il brigantaggio che, agli inizi era stato visto dalle stesse popolazioni locali come uno “strumento di rivendicazione” ai soprusi perpetrati dai potenti contro i deboli, stava diventando, sempre più, un cancro che tendeva a divorare anche quelle poche speranze di riscatto da parte di un popolo analfabeta, povero, pieno di pregiudizi e abbandonato dalle istituzioni.
Questa consapevolezza, spinse, lentamente, le popolazioni calabresi a rifiutare il sostegno alla bande brigantesche ed ai suoi “prestigiosi” capi, sui quali, molto spesso, le speranze degli umili e dei diseredati si erano riversate.
Questo cambio di atteggiamento, da parte delle masse contadine nei confronti del brigantaggio, facilitò le forze dell’ordine a sgominare le ultime bande, verso la fine degli anni ’60 del XIX secolo.
continua…………
fonte http://www.vincenzofalcone.it/schede.php?id=54
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Posted by altaterradilavoro on Dic 20, 2018
Corpi di reato e disegni di
“mattoidi”. Pipe
e tabacchiere costruite da detenuti. Il pezzo più pregiato della sua collezione
privata, raccolta tra campagne nel meridione, carceri e manicomi, Cesare
Lombroso però lo teneva in bella vista sulla scrivania, come fermacarte. E poco
importa che qualcuno la ritenesse un’abitudine un po’ macabra.
Al teschio del detenuto
Giuseppe Villella
da Motta Santa Lucia, in Calabria, il medico veronese doveva la scintilla della
sua principale scoperta; tra esami e misurazioni, era stata proprio l’autopsia
su quel cranio, e su nessun altro, a indurlo a concludere che delinquenti si
nasce, e c’è poco da fare.
Tutta colpa di uno scherzo
dell’anatomia:
uno spazio pianeggiante dove i manuali indicavano una sporgenza. Battezzata “fossetta occipitale mediana”,
l’anomalia fu eretta da Lombroso, in un saggio del 1876, a segno del destino
dell’uomo delinquente. E Villella – “tristissimo uomo d’anni 69,
contadino, ipocrita, astuto, taciturno, ostentatore di pratiche religiose, di
cute oscura, tutto stortillato, che cammina a sghembo e aveva torcicollo non so
bene se a destra o a sinistra” – a suo prototipo scientifico.
A centotrentasei anni di
distanza da
quella teoria e, soprattutto, a più di un secolo dalla sonora bocciatura della
comunità scientifica mondiale che respinse, tra un misto di disprezzo e
derisione, gli studi di Lombroso, la testa del calabrese oggi è in vetrina nel
museo universitario “Lombroso” di Torino, riallestito nel 2009 con l’intera
collezione privata dello studioso. Chi avesse voglia di dargli un’occhiata,
però, dovrà affrettarsi.
Su istanza del Comune di Motta
Santa Lucia,
supportato dal comitato tecnico-scientifico “No Lombroso”, il 3 ottobre scorso
il tribunale di Lamezia Terme ha infatti condannato l’università di Torino alla
restituzione del cranio al paese calabrese d’origine, nonchè al pagamento delle
spese di trasporto e tumulazione. Una querelle giudiziaria surreale? Non
esattamente, a guardarci bene dentro.
“È noto quale ideologia sia
stata diffusa
in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle classi
settentrionali: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce i più rapidi
progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente
degli esseri inferiori dei semibarbari o dei barbari completi, per destino
naturale”. Antonio
Gramsci, nel 1926, non parla esplicitamente di Lombroso. Non ne ha bisogno.
Era universalmente noto
l’appassionato
contributo che il veronese, e i suoi seguaci più fedeli (Niceforo, in primis),
avevano dato, nella fase post unitaria, alla creazione e diffusione di un’idea
del Sud come luogo irredimibile. La questione meridionale? Il malumore dei
contadini calabresi, lucani, siciliani, campani? Il brigantaggio? Un problema
di strutture anatomiche, di atavismo criminale.
Altro che ragioni storiche,
economiche e sociali,
altro che terre da distribuire ai contadini: al Sud sono concentrate troppe “fossette occipitali mediane”,
ci vive una “razza maledetta” che si può affrontare solo con i tribunali
militari e la legge “Pica”.
È in quegli anni, e grazie a
Lombroso, che
la “diversità”
del Meridione entra e si fissa nell’immaginario della neonata nazione italiana
nel segno dell’inferiorità antropologica e dell’incomprensione culturale.
Errori di valutazione che porteranno, per esempio, a ritenere collegati
fenomeni storicamente e geograficamente distinti come brigantaggio e
’ndrangheta, cancellando le ragioni “politiche” del
primo e nobilitando pericolosamente l’immagine della seconda.
Non era di certo un picciotto, e forse non era neppure un
brigante, Giuseppe Villella. Entrato nel carcere di Vigevano nel 1863, in cella
sopravvisse pochi mesi: morì di tisi in ospedale, offrendo il suo corpo
“stortillato” al bisturi e al compasso di Lombroso, titolare della cattedra di
psichiatria all’Università di Pavia, che, riconoscente per l’illuminazione
ricevuta, sottrasse il suo cranio e lo unì alla raccolta privata di mirabilia.
Da bambino, nei campi di Motta
Santa Lucia,
nel Lametino, Giuseppe aveva visto passare, trionfanti sui Borboni, i francesi
di Bonaparte e, da adulto, arrivare i piemontesi. E tra i vecchi vincoli che si
disfacevano e i nuovi, non meno duri, a cui abituarsi, da contadino analfabeta
e un po’ straccione non riusciva mai a capire a che santo convenisse votarsi.
Una sensazione piuttosto diffusa, di quei tempi e da quelle parti. Lo
condannarono per sospetto brigantaggio.
Secondo la legge Pica per essere qualificato brigante, e
trasferito automaticamente nelle carceri settentrionali, bastava essere parente
di briganti, o essere trovato armato in un gruppo di tre persone. Di certo non
c’è canzone o poesia che ne abbia cantato le gesta o resoconti storici che ne
segnalino il nome.
Nell’archivio di Stato di
Catanzaro si
ricorda un Giuseppe Villella fu Pietro condannato nel 1844 per aver rubato a un
ricco possidente 5 ricotte, due forme di cacio e due pani. Se si tratta del
nostro, insomma, fu di quei briganti un po’ pezzenti e senza seguito, più
impegnati a rubare galline che a combattere i piemontesi. Ma a dargli, post
mortem, fama perenne ci pensò Lombroso.
“Il Comune di Motta Santa
Lucia
da anni si batte perché il teschio del concittadino Villella Giuseppe possa
essere restituito al paese natale (…) per un riscatto morale della città perché
il teschio del Villella non è il simbolo dell’inferiorità meridionale (…) e la
sua esposizione viola il sentimento di pietà per i defunti”.Per il giudice Gustavo Danise del
Tribunale di Lamezia Terme il comune d’origine del cittadino italiano Giuseppe
Villella ha ragioni sacrosante.
Quelle non scritte riguardano
la pietas infranta
dalla sepoltura negata. Quelle scritte nelle leggi di polizia mortuaria parlano
altrettanto forte e chiaro: quel cranio è stato illegittimamente conservato da
Lombroso, e illegittimamente è ora esposto dall’Università di Torino. Tanto più
che, rigettata da un secolo la teoria di Lombroso, mancano ragioni scientifiche
che ne giustifichino possesso ed esposizione.
Dunque, va restituito al comune
calabrese,
come hanno chiesto il sindaco di Motta Santa Lucia Amedeo Colacino e il
comitato “No Lombroso”, impegnato da anni in una campagna contro un museo
ritenuto “osceno, inumano e razzista”, cui hanno aderito associazioni e Comuni
da tutta Italia (molti quelli lombardi).
Nel frattempo a Motta Santa Lucia ci si prepara a seppellire le vecchie ossa solcate dagli strumenti di Lombroso. E con esse, qualcuno si augura anche l’origine di un pregiudizio ostinato. In un gesto simbolico di riconciliazione tra due mondi che proprio sulla fossetta del cranio di Villella cominciarono a non comprendersi.
fonte https://www.linkiesta.it/it/article/2012/11/11/i-meridionali-sono-biologicamente-inferiori-i-danni-di-lombroso/10267/
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