Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Porta Napoli in onore dell’Imperatore Carlo V, la porta che collegava Lecce con Napoli nel 1548

Posted by on Ott 6, 2019

Porta Napoli in onore dell’Imperatore Carlo V, la porta che collegava Lecce con Napoli nel 1548

… per chi intraprendeva la via consolare che conduceva a Napoli, la capitale del regno.

Un  luogo simbolo del capoluogo salentino è l’Arco di Trionfo di Lecce, meglio conosciuto come Porta Napoli. Situato nella omonima Piazzetta Arco di Trionfo, nel centro di Lecce, è un imponente monumento storico eretto nel 1548 su progetto dell’architetto Giovan Giacomo dell’Acaya e su decisione del marchese Trevico Ferrante Loffredo. Quest’ultimo fu sovrintendente alle fortificazioni del Regno, preside della provincia Terra d’Otranto e castellano nella città di Lecce in cui fece ricostruire la cinta muraria; l’opera fu realizzata in onore dell’Imperatore Carlo V d’Asburgo (imperatore del Sacro Romano Impero), per le strutture fortificate in difesa della cittadinanza che l’imperatore aveva realizzato precedentemente; infatti anche quest’arco rientra nell’intero progetto di ricostruzione delle mura urbane per difendere la città dalle incursioni Turche. In quel periodo la città di Lecce era circondata dalle “mura della città” e questa era una delle sue porte.
Fu costruita nel punto dove precedentemente c’era la Porta dedicata a san Giusto, che fu demolita. Oltre ad essere l’antico accesso alla città “vecchia”, è comunemente detta Porta Napoli in quanto indicava anche la porta dalla quale uscire dalla città per intraprendere la via consolare che conduceva a Napoli, che era la capitale del regno.
La struttura dell’arco, interamente in pietra leccese, è alta 20 metri, ha un timpano triangolare, sorretto da due colonne per lato con capitelli compositi in stile corinzio, che sorreggono un timpano triangolare a tutto sesto che contiene lo stemma imperiale asburgico, l’aquila bicipite, la corona, alcune armi militari e le colonne d’Ercole. Immediatamente sotto vi è un’epigrafe in suo onore dove si elogiano le gesta dell’Imperatore Carlo V.

Sulla lapide Carlo V viene ricordato come sterminatore dei Turchi in Terra d’Otranto. Infatti nel 1480, nei possedimenti in Terra d’Otranto di Carlo V si era verificata la sanguinosa battaglia contro le incursioni Turche e l’imperatore fornì un grande aiuto militare.

Nell’epigrafe è scritto :

IMP . CAESARI CAROLO V TRIVMPHATORI SEMPER AVC PRIMO INDICO SECUNDO GALLICO THPCIO APHRICANO CHRISTIANO

RVM PEBELLANTIVM DOMITORIT VRCARVM PAVORI FVGATORIO REIP CHRISTIANAE TOTOORBE FACTIS CONSILUSCO

AMPLIHCATORI APCVMEX AVCTORITATE FERDINANDI LOPPREDI TVRCIS AC CAETERIS CAROLI HOSTEUS OMNI SALENTINO

…VM IAPYGVMO LITTORE PROPVLSANDIS PRAEHCTI OR. P. Q. LITIENSIS DEVOTVS NVMINI MAIESTATIO EIVS DEDICAVIT

M. D. XLVIII

Traduzione dell’epigrafe: 

“All’Imperatore Cesare Carlo V, augusto trionfatore, nelle Indie, nelle Gallie ed in Africa; soggiogatore dei cristiani ribelli, spavento e sterminio dei Turchi; propagatore della religione cristiana in tutto il mondo con le opere e con i consigli; essendo al governo di questa provincia Ferrante Loffredo, che seppe tener lontani da i lidi del Salento e della Japigia i Turchi ed i nemici dell’impero; l’Università ed il popolo leccese riconoscente dedicò quest’arco alla grandezza e maestà di Lui, l’anno 1548.”

Lecce, Porta Napoli, cartolina viaggiata particolare con carro e cavalli

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Profezia di Virgilio sulla missione di Cristo

Posted by on Set 30, 2019

Profezia di Virgilio sulla missione di Cristo

Con profezia di Virgilio si intende la quarta egloga del poeta latino (7019 a.C.), composta nel 40 a.C., che la tradizione cristiana ha indicato come profetica quanto alla nascita e alla missione di Cristo. Secondo il testo Virgilio avrebbe ripreso un oracolo pronunciato dalla sibilla di Cuma, profetessa romana.

Citando una vergine senza attribuirgli un chiaro ruolo, descrive la nascita “dal cielo di una nuova progenie”, un bambino “cara prole degli dei, alto rampollo di Giove”, che instaura un periodo di pace per la società e per la natura, e sotto la cui guida scompaiono “le tracce della nostra colpa“.

Il contesto storico immediato può riferirsi all’attesa, nel dominio romano del 40 a.C., della nascita di un bambino e di un connesso periodo di pace e benessere, ma secondo la tradizionale lettura cristiana del sensus plenior (“senso più pieno”) la poesia può essere riferita alla nascita di Gesù.

Contesto storico

L’assassinio di Cesare nel 44 a.C. aveva dato inizio a una guerra civile per la conquista del potere che, in varie fasi, ha coinvolto diversi personaggi, in particolare Ottaviano (il futuro imperatore Augusto) e Marco Antonio. La pace di Brindisi, stilata tra i due nel 40 a.C., lasciava sperare la fine della guerra e una ritrovata stabilità politica, anche se i disordini continuarono fino alla battaglia di Azio del 31 a.C. che vide emergere Augusto come unico imperatore romano.

Nel contesto della momentanea pace ritrovata, Virgilio compone una breve poesia (egloga), inclusa nelle sue Bucoliche, dove auspica la nascita di un bambino, iperbolicamente definito di origine divina (v. 15-16.49). Il poeta – neutralmente – non precisa se il bambino è figlio di Ottavio o Marco Antonio. Sotto al suo regno, dopo un periodo intermedio dove continueranno le violenze (v. 31-36), cesseranno infine le guerre civili (v. 13-14), la terra ritroverà la pace e vi sarà una piena armonia con la natura (v. 28-45).

Virgilio riprende inoltre la classica teoria delle età (oro, argento, bronzo, ferro) e auspica la fine dell’attuale età del ferro e una nuova età dell’oro (v. 8-9). Riprende anche lo schema storico degli etruschi che prevede dieci periodi, il nono dei quali, attuale, era segnato da Apollo (v. 10), e il decimo da Saturno (v. 6.). In tale visione della storia Virgilio riprenderebbe un precedente oracolo della sibilla di Cuma, il cui effettivo contenuto ci è però ignoto: avrebbe profetizzato solo un’età dell’oro o anche, con essa, la venuta di un bambino divino e pacificatore?

Interpretazione cristiana

La tradizione cristiana, con un ritardo di qualche secolo, ha visto nella egloga di Virgilio una profezia circa la venuta di Cristo. In effetti parla di una vergine (anche se non viene definita madre del bambino), di un bambino “cara prole degli dei, alto rampollo di Giove” (v. 49), che “riceverà vita divina e vedrà gli eroi mescolati con gli dei, e sarà lui stesso visto da loro” (v. 15-16), con il quale “qualsiasi traccia rimasta della nostra colpa svanirà, liberando la terra dalla sua perpetua paura” (v. 13-14). Anche se non vi è cenno a un sacrificio salvifico diretto, la morte in croce, nella poesia può essere facilmente vista la descrizione della missione del messia divino che cancella gli effetti del peccato originale.

La prima interpretazione cristiana si trova in Lattanzio (ca. 313):[3] anche se non parla della prima venuta (incarnazione) ma della seconda venuta di Gesù (Parusia) con toni idilliaci, scrive: “E allora ci saranno i tempi aurei che dissero i poeti, regnante Saturno. Il loro errore sta nell’avere descritto il futuro come se si stesse per avverare o si fosse già avverato […]. Quando in realtà

[negli ultimi tempi]

sarà cancellata la religione degli empi e la terra sarà sottomessa a Dio, anche il nocchiero lascerà il mare […]” (citazioni dei v. 38-45 dell’egloga frammisti a brani di Isaia).

La più antica e autorevole interpretazione cristiana del brano si trova in un discorso tenuto dall’imperatore Costantino di fronte a un’assemblea ecclesiastica, in un periodo imprecisato tra il 313 e il 325.[4] Il testo originale era forse in latino ma ci è pervenuto in greco. L’imperatore filocristiano, che attribuisce erroneamente il poema a Cicerone, scrive tra l’altro: “Il principe dei poeti italici [latini] dice: Ora una nuova progenie scende dall’alto del cielo (v. 7). E ancora in un altro passo delle Bucoliche: Muse sicule, cantiamo un poco più in alto (v. 1). Cosa è più chiaro? Aggiunge infatti: Viene l’ultima era della Cumana (v. 4), intendendo la sibilla cumana. E non è contento di questo, va oltre, come spinto a dare la sua testimonianza. Cosa dice? Nasce il nuovo ordine dei tempi. Ora torna la vergine, ora torna il regno di Saturno (v. 5-6). Chi è la vergine che torna? Forse non è colei che fu ripiena e gravida dello Spirito di Dio? Cosa ostacola infatti che colei che fu incinta per lo spirito di Dio fosse vergine e lo sia rimasta?”. Costantino prosegue poi nell’esposizione e nel commento dell’egloga, identificando gli eroi con i santi, collegando “la nostra colpa” con il peccato originale introdotto dal serpente, e intendendo la pace ritrovata come frutto del sacrificio e della risurrezione del salvatore.

Agostino cita l’egloga in due occasioni, accogliendola come profezia della venuta di Cristo. In una lettera scritta dopo il 395 afferma: “All’infuori di Cristo Signore, non v’è affatto alcun altro al quale il genere umano possa rivolgere le seguenti espressioni: Se ancora rimangono tracce del nostro delitto, spariranno del tutto, sotto la tua guida, e libereranno la terra dalla continua paura. Queste espressioni Virgilio confessa d’averle copiate dall’oracolo di Cuma, cioè della Sibilla; questa profetessa, infatti, aveva probabilmente udito in spirito qualche presagio riguardante l’unico Salvatore e reputò suo dovere rivelarlo”.[5] Similmente, nella Città di Dio (ca. 413426), afferma: “I vostri oracoli, come tu stesso scrivi, lo [Gesù] hanno dichiarato santo e immortale. Di lui anche il più alto poeta [Virgilio] ha detto, certo con un discorso poetico perché nella persona vagamente accennata di un altro, ma con verità se a lui lo riferisci: Con la tua guida, se rimangono alcune tracce del nostro peccato, (i nuovi tempi) libereranno il mondo dalla vana perenne paura. Anche se non di peccati, ha parlato tuttavia di tracce di peccati, perché anche in uomini molto avanzati in virtù possono rimanere a causa della insufficienza della vita terrena. Esse saranno guarite soltanto da quel Salvatore, per il quale è stato formulato il verso citato. Virgilio, infatti, nel quarto verso dell’egloga dichiara che non è una sua affermazione personale quando dice: È giunta già l’ultima età dell’oracolo di Cuma. Da ciò appare indubbiamente che il fatto fu preannunciato dalla sibilla di Cuma”.[6]

San Girolamo († 420) invece è più prudente: accennando a vari oracoli pagani, afferma fugacemente che “non possiamo dire che [Virgilio] Marone fosse un cristiano senza Cristo, che scrisse: Ecco ritorna anche la Vergine, ritorna il regno di Saturno; ormai discende già dal cielo una nuova progenie (v. 6-7) […]. Queste sono cose puerili”.[7]

Dante, nella sua Divina Commedia, fa dire al poeta latino Stazio (Publio Papinio Stazio, m. 96) mentre si rivolge a Virgilio che si convertì alla fede cristiana sulla base della sua profezia:

« Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti: Secol si rinnova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenie scende da ciel nova.
Per te poeta fui, per te cristiano.
ma perché veggi mei ciò ch’io disegno,
a colorare stenderò la mano.
Già era ‘l mondo tutto quanto pregno
de la vera credenza [cristiana], seminata
per li messaggi de l’etterno regno;
e la parola tua sopra toccata
si consonava à nuovi predicanti;
ond’io a visitarli presi usata. 
»
(Dante, Purgatorio, 22,67-81)

In epoca moderna, il motto Novus ordo seclorum presente nel sigillo nazionale statunitense e presente anche nelle banconote da un dollaro, è una ripresa a senso del v. 5 dell’egloga (saeclorum nascitur ordo).

In campo esegetico, il celebre statunitense cattolico Raymond Edward Brown, nel suo studio La nascita del Messia (1993, tradotto in italiano nel 2002), molto prudentemente evidenzia una somiglianza indiretta tra l’egloga e le aspettative messianiche diffuse nell’ambiente ebraico, in particolare sulla base di Isaia, ma non arriva a definire il testo come una vera e propria profezia cristiana.

Papa Benedetto XVI, nel suo studio dedicato a L’infanzia di Gesù (2012), cita la quarta egloga definendola “un testo che, come un presagio del mistero del parto verginale, ha fatto riflettere la cristianità fin dai primi tempi” (p. 66). Dopo una breve trattazione, conclude: “Si può forse dire che la figura della vergine e quella del bambino divino fanno, in qualche modo, parte delle immagini primordiali della speranza umana, che emergono in momenti di crisi e di attesa, senza che vi siano in prospettiva figure concrete” (p. 67).

Sicelides Musae, paulo maiora canamus.
non omnis arbusta iuvant humilesque myricae;
si canimus silvas, silvae sint consule dignae.
Ultima Cumaei venit iam carminis aetas;
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
tu modo nascenti puero, quo ferrea primum
desinet ac toto surget gens aurea mundo,
10 casta fave Lucina; tuus iam regnat Apollo.
11 Teque adeo decus hoc aevi, te consule, inibit,
12 Pollio, et incipient magni procedere menses;
13 te duce, si qua manent sceleris vestigia nostri,
14 inrita perpetua solvent formidine terras.
15 ille deum vitam accipiet divisque videbit
16 permixtos heroas et ipse videbitur illis
17 pacatumque reget patriis virtutibus orbem.
18 At tibi prima, puer, nullo munuscula cultu
19 errantis hederas passim cum baccare tellus
20 mixtaque ridenti colocasia fundet acantho.
21 ipsae lacte domum referent distenta capellae
22 ubera nec magnos metuent armenta leones;
23 ipsa tibi blandos fundent cunabula flores.
24 occidet et serpens et fallax herba veneni
25 occidet; Assyrium vulgo nascetur amomum.
26 At simul heroum laudes et facta parentis
27 iam legere et quae sit poteris cognoscere virtus,
28 molli paulatim flavescet campus arista
29 incultisque rubens pendebit sentibus uva
30 et durae quercus sudabunt roscida mella.
31 Pauca tamen suberunt priscae vestigia fraudis,
32 quae temptare Thetin ratibus, quae cingere muris
33 oppida, quae iubeant telluri infindere sulcos.
34 alter erit tum Tiphys et altera quae vehat Argo
35 delectos heroas; erunt etiam altera bella
36 atque iterum ad Troiam magnus mittetur Achilles.
48 Adgredere o magnos—aderit iam tempus—honores,
49 cara deum suboles, magnum Iovis incrementum.
50 aspice convexo nutantem pondere mundum,
51 terrasque tractusque maris caelumque profundum;
52 aspice, venturo laetantur ut omnia saeclo.
53 O mihi tum longae maneat pars ultima vitae,
54 spiritus et quantum sat erit tua dicere facta:
55 non me carminibus vincat nec Thracius Orpheus
56 nec Linus, huic mater quamvis atque huic pater adsit,
57 Orphei Calliopea, Lino formosus Apollo.
58 Pan etiam, Arcadia mecum si iudice certet,
59 Pan etiam Arcadia dicat se iudice victum.
60 Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem;
61 matri longa decem tulerunt fastidia menses.
62 incipe, parve puer. qui non risere parenti,
63 nec deus hunc mensa dea nec dignata cubili est.

TRADUZIONE IN ITALIANO

1. O Sicule Muse, alziamo un po’ più alto il canto.
2 Gli olmi e i bassi tamarischi non piacciono a tutti.
3 Se cantiamo le selve, siano le selve degne di un console.
4 Ora è giunta l’ultima età cantata dall’oracolo cumano;
5 inizia di nuovo [o grazie all’integro] una gran serie di secoli;
6 ecco ritorna anche la Vergine [Dike-Giustizia?], ritorna il regno di Saturno;
7 ormai discende già dal cielo una nuova progenie.
8 Sorridi benevola al Bambino nascente, con il quale cesserà l’età del ferro
9 e sorgerà quella dell’oro in tutto il mondo,
10 o casta Lucina [dea del parto], poiché già regna il tuo Apollo.
11 Questo evo glorioso avrà inizio durante il tuo consolato,
12 o Pollione [40 a.C.], quando i grandi mesi e cominceranno il loro corso.
13 Sotto la tua guida qualsiasi traccia rimasta della nostra colpa
14 svanirà, liberando la terra dalla sua perpetua paura.
15 Egli [il Bambino] riceverà vita divina e vedrà
16 gli eroi mescolati con gli dei, e sarà lui stesso visto da loro.
17 Ed egli dominerà un mondo reso pacifico dalla virtù del padre.
La futura primavera dell’infanzia del Bambino
18 Intanto a te per primo, o Bambino, la terra non coltivata darà semplici offerte
19 di edere serpeggianti e di baccar,
20 di colocasie miste con il ridente acanto.
21 Le capre torneranno da sé a casa con le poppe gonfie di latte;
22 e i greggi non avranno paura dei potenti leoni.
23 Per te la culla produrrà tanti gai fiori.
24 II serpente morirà, e morirà l’erba traditrice del veleno,
25 mentre l’assiro amomo nascerà in ogni campo.
La futura estate dell’educazione del Bambino
26 Appena potrai leggere le glorie degli eroi e le gesta del padre e
27 intendere cosa sia il valore,
28 il campo a poco a poco diverrà biondo di ondeggianti spighe,
29 e l’uva rossa penderà dai pruni selvatici,
30 e le due querce trasuderanno rugiadoso miele.
31 Sopravviveranno, però, pochi germi dell’antico peccato,
32 che indurranno a tentare il mare con navi, a cingere di mura
33 le città, e a fendere il terreno di solchi.
34 Ci sarà allora un altro Tifi e una seconda Argo a trasportare
35 scelti eroi; ci saranno anche nuove guerre,
36 e ancora una volta un grande Achille sarà inviato a Troia.
La futura maturità del Bambino
37 Poi, quando gli anni avranno fatto di te un uomo forte,
38 anche il nocchiero lascerà il mare, e la nave costruita con pino
39 cesserà di trasportare merci. Ogni terra produrrà ogni cosa;
40 il suolo non patirà marre, né la vigna falci;
41 anche il robusto bifolco scioglierà il giogo ai tori.
42 Non si dovrà più imparare a tingere la lana con vari colori;
43 perché già da sé il montone nei prati cambierà il suo vello
44 in porpora di fuoco, o in giallo zafferano;
45 e spontaneamente gli agnelli pascenti si rivestiranno di vermiglio.
46 Le Parche, unanimi nel saldo volere dei fatti,
47 dissero ai loro fusi: «Affrettate quei tempi».
Il trionfo del Bambino
48 Entra nelle tue glorie, ormai è tempo,
49 o cara prole degli dei, alto rampollo di Giove!
50 Guarda il mondo tremare con la gran volta,
51 la terra e l’ampio mare e il profondo ciclo,
52 guarda come tutte le cose tripudiano del secolo che viene!
53 Che mi possa restare di una lunga vita l’ultima parte,
54 e tanta ispirazione che mi permetta di celebrare le tue gesta:
55 nel canto non mi vincerà né il Trace Orfeo,
56 né Lino, sebbene questi la madre assista e quello il padre,
57 Orfeo Calliopea, Lino il Bello Apollo.
58 Lo stesso Pan se, giudice l’Arcadia, lottasse con me,
59 lo stesso Pan, giudice l’Arcadia, si dichiarerebbe vinto.
60 Avanza, o Fanciullo, e riconosci tua madre col sorriso,
61 che dieci lunghi mesi portarono alle pene del parto.
62 Avanza, o Fanciullo, cui i genitori non hanno ancora sorriso,
63 che né dio ha onorato della sua mensa, né dea del suo talamo.

fonte https://it.cathopedia.org/wiki/Profezia_di_Virgilio

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San Genna’, futtetènne (anche di Saviano)

Posted by on Set 24, 2019

San Genna’, futtetènne (anche di Saviano)

A Roberto Saviano piace san Gennaro perché è patrono di tutti gli immigrati, puoi chiederne la protezione anche quando rubi o fai una scappatella. Chissà chi glielo avrà detto? A San Gennaro neanche Saviano gli è risparmiato

«Un uomo per tutte le stagioni» era il titolo che il drammaturgo Robert Bolt applicò alla figura di san Thomas More, decollato da Enrico VIII. «Un santo per tutte le stagioni» può dirsi anche a proposito di san Gennaro, anche lui decollato, e vediamo perché. Come tutti i filoborbonici sanno, quando nel 1799 il generale giacobino Jean-Étienne Championnet espugnò Napoli mettendo in fuga re e regina, la prima cosa che gli «infanciosati» locali (cioè i filogiacobini collaborazionisti degli invasori francesi) gli andarono a dire fu che il popolo napoletano era superstizioso, conveniva perciò fare sciogliere pubblicamente il sangue del patrono san Gennaro. Championnet puntò allora la pistola alla testa dell’arcivescovo e in effetti il sangue del santo «squagliò». Ma a Napoli nisciuno è fesso, specialmente allora, e il popolo gridò al tradimento. Come! San Gennaro aveva osato avallare quei senza-Dio francesi e i loro atei Alberi della Libertà? Si era piegato ai loro manutengoli Caracciolo e Pimentel Fonseca, che ritenevano quella del Sangue del Santo una pagliacciata clericale ordita per tenere soggiogata la plebe? E allora quei napoletani (di allora, ripetiamo) non esitarono a rinnegare il loro santo preferito. Gennaro aveva, tra gli altri titoli, quello di generalissimo dell’esercito e il soldo relativo veniva regolarmente versato al suo Tesoro (l’unica cosa che ai francesi interessava). Fu subito destituito e al suo posto venne nominato come patrono di Napoli sant’Antonio di Padova, che non faceva sciogliere il sangue ma, tra l’altro, ritrovare le cose perdute (lo fa ancora, provare per credere). I sanfedisti e i lazzari lo stamparono sulle bandiere e in suo nome liberarono la città e il regno dagli occupanti e dai giacobini. Uno dei loro epigoni attuali, lo scrittore Roberto Saviano, deve essersi ricordato di questa attitudine di san Gennaro a sorvolare, diciamo così, su certi dettagli in vista di, si suppone, un bene maggiore (nel caso di Championnet, salvare la pelle all’arcivescovo e al suo clero). Così, leggiamo sul «Corriere del Mezzogiorno» che in un video di «Fanpage» sulla festa che gli immigrati napoletani fanno a san Gennaro (una delle tre) a New York, ha detto – e ti pareva – che Gennaro «è diventato il santo di tutti gli immigrati». Tutti? Tutti, anche quelli africani che i cattivi sovranisti italiani (messicani nel caso di Trump) non intendono coccolare a spese proprie. Saviano, si sa, è di sinistra e la sinistra italiana ha sempre avuto un romanziere da sbandierare come «coscienza civile». Fin dal dopoguerra, infatti, la ressa per fare la «coscienza civile» è stata da spintoni, anche se solo a uno (alla volta) toccava la palma. D’altronde, un intellettuale che deve fare? Se si butta a sinistra (come diceva Totò) piovono soldi, premi, difese d’ufficio, inviti e cotillons. Se si azzarda a fare il contrario ci sta che non trovi neanche uno straccio di editore. Ai tempi di Leonardo Sciascia, per esempio, quello scrittore era interpellato su tutto e continuamente, e se, poniamo, in Sicilia veniva pescato un polpo con un solo tentacolo, c’era sempre qualche giornalista che arricchiva il suo articolo con un commento di Sciascia sull’anomalia. Così, Saviano, che è partenopeo e per giunta tiene casa a New York. C’è la festa di san Gennaro a New York? Sentiamo che cosa ne pensa Saviano, dicono i giornalisti (il cui livello di conformismo è ormai pari a quello della scuola statale). E Saviano, che volete che faccia? Esterna. Già si era esibito in un ragionamento pannelliano sulla cocaina (i.e.: poiché non c’è modo di combatterne il traffico ed è così amata, legalizziamo); ora, memore (forse) di Championnet, tira san Gennaro per la giacchetta. Tanto, quello non è uso smentire. «È un santo a cui puoi chiedere ‘proteggimi mentre rubo’, o ancora ‘proteggimi mentre ho la scappatella», dice Saviano. Come fa a saperlo? Boh. Forse tutto quel che sa su Gennaro l’ha letto nella Napoli di Bellavista di De Crescenzo, il quale se ne uscì con la trovata folkloristica delle «parenti» di san Gennaro e i loro insulti quando il sangue tardava a sciogliersi. Infatti, Saviano dice che il santo è così di bocca buona, «per tutte le stagioni», che si può rivolgerglisi anche «con parolacce». Infine, «è l’unico santo in assoluto a cui ti puoi rivolgere come a un amico». Da questa affermazione uno potrebbe ricavare che Saviano è un intenditore di santi, ne conosce tantissimi se non tutti e in modo approfondito. Insomma, è un mistico. Ma noi non ci crediamo. Napoli per Napoli, preferiamo rivolgerci a sant’Antonio (De Curtis).

Rino Camilleri

fonte http://lanuovabq.it/it/san-genna-futtetenne-anche-di-saviano

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Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (III)

Posted by on Ago 12, 2019

Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (III)

Parte terza: Il Periodo Crispino (1887-1896)

L’avvento della sinistra al potere era stata definita dai contemporanei “rivoluzione parlamentare”. La definizione può sembrare oggi esagerata, ma in effetti una rivoluzione ci fu davvero perché si affermò in quegli anni un nuovo equilibrio di potere. Una “rivoluzione passiva”, secondo la definizione di Vincenzo Cuoco, nei riguardi del Risorgimento. Si verificò una progressiva assimilazione delle classi dirigenti regionali nel processo di unificazione. In pratica, le classi dirigenti meridionali si amalgamarono con quelle del centro-nord. Naturalmente da parte degli storici del nord la penetrazione delle classi dirigenti meridionali, elette con la sinistra, nel sistema di potere del nord è stato descritta come un fatto negativo. Come sempre, quando si vuole screditare qualcuno, sono state usate frasi del tipo “l’uno vale l’altro”, “sono tutti corrotti”, e così via. Frasi e definizioni che ancora oggi sono di gran moda, come possiamo facilmente constatare aprendo qualsiasi giornale. In realtà non è così, la destra non vale la sinistra e viceversa, e il peso nel progredire della società è ben diverso. Fin dal 1860 infatti la parte più conservatrice dell’aristocrazia meridionale confluì nel partito di Cavour, mentre la parte più innovatrice divenne garibaldina. In Sicilia ci fu sempre una dialettica tra la parte più conservatrice dell’aristocrazia terriera, latifondista e la borghesia imprenditrice.

La borghesia imprenditrice del Sud

Nel 1876 l’iniziativa politica passò in mano alla borghesia progressista. Fondamentale per l’ancor giovane unità d’Italia è stato il fatto che questa sorta di rivoluzione si compisse nel meridione, in nome degli interessi fino ad allora calpestati del sud. Le classi proprietarie meridionali, raccolte sotto la bandiera della sinistra furono determinanti nel garantire l’unità politica e territoriale del neonato Stato italiano.

Non dobbiamo dimenticare che l’unità era figlia di una brutale annessione militare delle regioni meridionali ed era stata gestita e governata esclusivamente dal nord. Il meridione non era stato altro che una terra di conquista da sfruttare ai fini dello sviluppo delle regioni dominanti del nord. La vittoria della sinistra meridionale fu indubbiamente un fatto di “democratizzazione” dell’intero Paese e aiutò la crescita della sinistra anche nel nord. Sbaglia nel giudizio Benedetto Croce nella sua Storia d’Italia quando afferma che “il governo della sinistra fu lo stesso di quello della destra ma peggiorato”, così come sbaglia Tomasi di Lampedusa con il suo gattopardesco “Cambiare tutto per non cambiare niente”. I cambiamenti profondi in una società non si colgono nell’immediato e i loro effetti si vedono a lungo termine. Un tessuto sociale di tipo feudale non mostra chiari segni di democrazia solo perché ha un governo di sinistra. Occorrono decenni se non secoli per “svezzare”le nuove generazioni [1]. Il partito della sinistra si propose come il partito “della riparazione e della giustizia”dei torti consumati ai danni della Sicilia e del meridione. La piattaforma del riparazionismo trovò in Sicilia il suo ideologo in Camillo Finocchiaro Aprile… “per noi democrazia non importa (comporta, N.d.R.) agitazione ad ogni costo né sfrenato eccitamento delle masse popolari, importa rispetto ai diritti e alle opinioni di tutti, importa ordine e libertà…..E’ giusto, è ragionevole, che, come degli oneri, abbia l’isola nostra la sua parte di benefici, e che i voti di queste popolazioni siano ascoltati. E la difesa di codesti interessi non sarà soltanto una questione economica ma anche una questione politica” [2]. Questa impostazione del Finocchiaro Aprile rispecchiava, dopo un secolo, un reale cambiamento del clima politico. Fin dagli inizi dell’800, infatti, la Sicilia si era sempre trovata all’opposizione, con i Borbone prima e con i Savoia dopo il 1860. Con l’avvento della sinistra finalmente la Sicilia poteva entrare a far parte di un nuovo disegno politico, sostenuto non solo da Finocchiaro Aprile ma anche da Crispi e da Francesco Ingrao. che per prima cosa reclamava una riforma del sistema elettorale che desse voce anche ai lavoratori della terra [3].

Le riforme della Sinistra

Tra le riforme effettuate dalla sinistra una volta salita al potere ricordiamo: la scuola elementare obbligatoria (riforma Coppino del 1877); la soppressione della tassa sul macinato; l’abolizione del corso forzoso; la riforma elettorale: votavano gli uomini con più di 21 anni con il biennio elementare o paganti almeno un’imposta annua di 19,80 lire; le prime riforme sul lavoro: infortuni, sciopero, lavoro minorile e orari. L’avvento della sinistra inoltre favorì la diffusione del positivismo e rese possibile intraprendere anche una unificazione culturale oltre che politica perché coinvolse gli uomini di cultura e di scienza di tutte le regioni italiane; da ciò nacque l’esigenza di usare uno stesso linguaggio. Si ripropose pertanto la questione della lingua, questa volta non più con intenti separatisti come nel settecento ma con intenti unitaristi. Tra le due opposte posizioni, quella di Manzoni e quella di Isaia Ascoli (l’Ascoli prese posizione riguardo alla questione della lingua italiana, opponendosi alla soluzione di Alessandro Manzoni di usare il fiorentino parlato come lingua nazionale e proponendo invece di utilizzare l’italiano sovra regionale, che era già la lingua comune della scienza, e che di fatto veniva già utilizzato da secoli da tutti gli scrittori d’Italia, avendo anche il pretesto per innalzare il livello culturale della popolazione), in Sicilia prevalse la posizione dell’Ascoli. Gli scambi linguistici tra siciliano e italiano divennero più intensi che mai e fiorirono studiosi linguisti come Salomone Marino, Guastella, Vigo e Pitré. Tra il 1880 e il 1890 si ebbe una fioritura culturale di prim’ordine: letterati, architetti, sociologi, storici e giuristi, come Verga, De Roberto, Basile, Colajanni, Mosca, Orlando, Cannizzaro, Amari, ecc. espressero il meglio della loro produzione. L’ambiente culturale era vasto e gradevole e apprezzato dagli studiosi che anche dall’estero venivano a insegnare o ad apprendere nelle Università siciliane. Clamoroso è il caso del poeta Mario Rapisardi, un ateo radicale amato anche dai ceti popolari a tal punto che durante le celebrazioni del 1° Maggio, a Catania, era d’obbligo sostare sotto le sue finestre.

Nel raggruppamento politico denominato Sinistra confluivano in realtà uomini di diversa provenienza e orientamento: vi erano liberali riformatori, come il nuovo capo del Governo Agostino Depretis; rappresentati della borghesia settentrionale, terrieri meridionali; ex garibaldini e mazziniani, come Francesco Crispi; professionisti e intellettuali meridionali, come Francesco De Sanctis.

La pesante eredità lasciata dalla Destra

Gli ambiziosi programmi del governo cozzarono contro una situazione internazionale sfavorevole e, per quanto durante l’età di Depetris (1876-87) si registrasse un inizio di industrializzazione, lo sviluppo economico generale dell’Italia fu inferiore alle speranze e coincise con la grave crisi agricola degli anni Ottanta. Inoltre la Destra aveva lasciato in eredità alla Sinistra una serie di scottanti questioni: l’ordine pubblico inesistente, la lacerazione nei rapporti tra le forze politiche, le inchieste parlamentari non concluse, il brigantaggio che imperversava da sedici anni e che la destra più che combatterlo aveva arginato criminalizzando intere popolazioni. Con la Destra il sud era stato criminalizzato in toto, con la sinistra si chiedeva invece al sud la spinta a ricostruire il paese: una spinta soprattutto culturale e progressista. In tutto questo però, a causa delle lacerazioni tra le forze politiche, per assicurarsi di volta in volta una maggioranza in parlamento, Depretis cominciò a favorire il cosiddetto trasformismo, contribuendo a rendere ancora più incerta la linea di demarcazione tra destra e sinistra e tra i vari gruppi basati su antagonismi regionali e clientelari.

Il deterioramento dei rapporti italo-francesi, favorì intanto l’orientamento della diplomazia italiana verso Berlino e Vienna, così da portare nel 1882 alla stipulazione della Triplice Alleanza [4]. Questo indirizzo politico ebbe il suo sostenitore più intransigente in Francesco Crispi. Inoltre per adeguare la politica estera italiana a quelle delle potenze europee venne iniziata un’azione coloniale[5] che nel 1885, dopo la forzata rinuncia della Tunisia [6], si indirizzò verso la conquista dell’Eritrea.

Il Periodo Crispino

Dopo aver abbandonato la sinistra, Crispi era entrato nel gioco del trasformismo, che nel 1887 gli consentì di subentrare a Depretis. Crispi accentuò il protezionismo economico in chiave essenzialmente antifrancese, provocando una guerra doganale che ebbe effetti disastrosi sulla produzione agricola, soprattutto meridionale [7]. Egli cercò inoltre di instaurare un regime forte non privo di aperture riformatrici, ma soprattutto teso alla ricerca di una nuova grandezza coloniale nel tentativo di risolvere i problemi relativi alla povertà nel mezzogiorno e a tal fine firma il trattato di Uccialli con Menelik, in base al quale era riconosciuto il controllo italiano in Eritrea ed un ambiguo protettorato sull’Etiopia. La politica coloniale porterà invece al disastro di Adua (marzo 1896). Al di là della fallimentare impresa coloniale, il governo di Francesco Crispi indirizzò il sistema politico italiano in direzione di un rafforzamento dello stato e di un marcato autoritarismo. Nonostante ciò Crispi realizzò importanti riforme (miglioramento dell’efficienza della burocrazia; ampliamento del diritto di voto nelle elezioni locali; eleggibilità dei sindaci; riforma della sanità e della pubblica assistenza).

Per Crispi, un modello da imitare era Bismark: egli ai valori risorgimentali aggiunge il conservatorismo e il nazionalismo. I punti cardine della sua riforma furono: Il nuovo Codice Penale e l’abolizione della pena di morte; Il riconoscimento della libertà di associazione, pensiero, sciopero per i lavoratori. Tra le altre varie riforme, sono da ricordare: la nuova legge comunale e provinciale, che comprendeva l’elettività del sindaco. A causa della crisi economica del 1892 il governo Crispi cade e sale Giolitti. A sud intanto, prendono corpo i Fasci dei Lavoratori, che chiedono un contratto di lavoro e una soluzione riguardante la questione dello zolfo siciliano invenduto, a causa della invasione dei mercati di quello americano. Giolitti non interviene, neanche quando la situazione degenera in guerriglia. A contribuire al suo declino interviene lo scandalo della Banca Romana. Travolto dallo scandalo, Giolitti si dimette e Crispi torna al governo. Con fare autoritario, da vastissimi poteri alla Polizia. Reprime nel sangue rivolte in Sicilia, toglie il diritto di voto a 800.000 persone e si attira perplessità sul suo operato. L’ambiguità del trattato con Menelik fece scoppiare una guerra che si concluse con la disfatta italiana ad Adua, nel 1896, e con le dimissioni di Crispi.

Ma torniamo al 29 luglio del 1887, quando, morto De Pretis, Francesco Crispi fu nominato presidente del Consiglio. Ebbe così inizio quello che da molti viene definito come periodo “crispino”, caratterizzato da un predominio siciliano nell’alternanza tra Crispi e Di Rudinì. Questo decennio fu fondamentale per la storia italiana, fu un salto in avanti nonostante i traumi, le crisi economiche e finanziarie, la guerra coloniale persa, un colpo di stato sventato. Alla fine l’Italia ne uscì più matura e, almeno il nord, economicamente più forte.

Non così si può dire della Sicilia e del meridione d’Italia. Alla fine del decennio “crispino”, la Sicilia ne uscì indebolita e i livelli culturali, economici e politici si abbassarono di conseguenza. A provocare il tracollo economico furono principalmente la guerra commerciale con la Francia che causò il tracollo dell’esportazione dei prodotti agricoli pregiati, la fillossera che distrusse la gran parte dei vigneti, la protezione daziaria in favore dell’industria e della cerealicoltura e la crisi dello zolfo. L’industria zolfifera fu messa in ginocchio sul mercato estero dalla concorrenza dello zolfo americano. La capacità di iniziativa che la Sicilia aveva mostrato fu duramente colpita da questi eventi. Non a caso è proprio in questo periodo che inizia la fase discendente della famiglia più rappresentativa della economia siciliana: i Florio. Mentre nel resto del paese l’industrializzazione avanzava in Sicilia e nel meridione in genere si ebbe una regressione. L’intero sud, protagonista dell’ascesa della sinistra al potere, fu quello che pagò il pedaggio perché il nord si sviluppasse. Lo stesso Francesco Saverio Nitti tristemente notava “Tra il 1870 e il 1888 l’importanza del mezzogiorno era molto maggiore nella vita sociale ed economica dell’Italia che oggi non sia” [8]. Ma perché avvenne questo?

Nascita del divario Nord-Sud

Con l’avvento della sinistra e dei politici siciliani. la Sicilia divenne fulcro dei problemi fondamentali del paese: la crisi economica esplosa nell’85-86 che determinò i provvedimenti doganali colpì essenzialmente la Sicilia e le regioni meridionali, gli avvenimenti internazionali che coinvolgevano l’area mediterranea, portarono al militarismo e le riforme della società italiana che portarono alla riorganizzazione dei settori fondamentali della vita istituzionale come la promulgazione dell’enciclica Rerum novarum nella chiesa e la nascita del Partito socialista italiano e del Movimento sociale cattolico nello Stato, diedero lo slancio alla affermazione dei Fasci dei lavoratori che ebbero il loro culmine tra il giugno del 1892 e il dicembre 1893. I Fasci furono il primo esempio di organizzazione popolare, operaia e contadina insieme. I primi Fasci operai sorti nell’Italia centrale erano prevalentemente costituiti da proletariato urbano, prevalentemente di matrice anarchica, i Fasci siciliani si rivolsero invece a tutta la classe proletaria e popolare di città e di campagna. Non erano più, come i fasci operai dell’Italia del centro-nord, agenzie politiche ed elettorali di certa borghesia “illuminata”, ma diedero voce a rivendicazioni economiche più ampie del semplice mutuo soccorso tra i soci, e soprattutto sul piano politico non rispondevano ad alcun esempio governativo. Erano difficili da collocare e non a caso furono diversamente giudicati dagli studiosi dell’epoca: Il filosofo marxista Antonio Labriola li definì “..il primo atto del socialismo proletario italiano”[9], lo storico e politologo Gaetano Salvemini, con molta asprezza e poca comprensione, li definì “…una convulsione isterica, nella quale il socialismo ci entrò solo perché, essendovi nel resto del mondo un partito socialista rivoluzionario, questi affamati saccheggiatori di casotti daziari cedettero di essere socialisti anche loro.” [10]. Il filosofo Benedetto Croce arrivò a giustificarne la feroce repressione con un giudizio su quegli uomini che cercavano equità sociale a dir poco “classista”: “Il Crispi stroncò un movimento che non conteneva nessun germe vitale ed era privo di avvenire… Il torto di quegli uomini, di quei giovani era di eccitare e tirarsi dietro masse ignoranti e inconsapevoli, credendo di potersene valere per attuare idee che quelle non comprendevano… Cioè di tentare, sia pure a fin di bene un imbroglio che non è cosa che possa mai partorir bene e, tessuta con l’inganno, merita di essere distrutta con la forza”[11]. Lo studioso inglese Hobsbawm [12] definì invece i Fasci “un movimento diretto ad ottenere particolari miglioramenti economici” e li paragona al “cartismo” [13] inglese.

Checché ne dica Croce, i Fasci siciliani non sorsero dal nulla e nonostante la terribile repressione non finirono nel nulla. La Sicilia e tutto il meridione d’Italia è stata, dopo l’unità, la palestra in cui muove i primi passi il socialismo marxista rivoluzionario ed è proprio grazie ai Fasci Siciliani che viene proposto un marxismo creativo che con Antonio Labriola acquista rilevanza internazionale. Tutto il meridione, stava cercando di ridurre la disuguaglianza ed il rapporto di semidipendenza istauratosi tra sud e nord dopo il 1860 e la nascita dei Fasci siciliani si colloca proprio in quest’ottica. Solo la loro repentina esplosione e diffusione, ma non la loro nascita, è determinata dalla crisi del 1887. Con la crisi la Sicilia diventa il punto può vulnerabile: tagliate le esportazioni, distrutti i vitigni, costrette a chiudere le zolfare… I Fasci diventano l’opportunità per una ristrutturazione del sistema economico e sociale non solo siciliano ma nazionale, sono una opportunità per modificare il rapporto nord-sud. Purtroppo molta colpa nella sconfitta dei Fasci è da attribuire al comportamento del Movimento socialista internazionale, che in un primo tempo fu favorevole ai Fasci siciliani, ma poi non ne accettò la forte presenza contadina. Una tale distorsione nella visione socialista in Italia fu contrastata fortemente dal Labriola, ma fu anche avallata da Croce e da Salvemini. Ma quanto avveniva in Sicilia si verificava anche in Francia, In Belgio, In Olanda, in Germania. Nonostante il Congresso socialista di Marsiglia avesse equiparato i contadini agli operai delle fabbriche ci si pose il problema se costoro e il proletariato urbano potessero realmente partecipare alla formazione di una società socialista.

L’intervento di Engels e la fine della “via meridionale” all’emancipazione

Fu chiesto anche il parere a Engels il quale, purtroppo e con poca lungimiranza, rispose che bisognava considerare i contadini come piccoli proprietari o come compartecipanti, nelle vesti di affittuari o mezzadri del capitale e pertanto non potevano essere considerati proletari! Il parere di Engels fu accolto senza discussione anche in Italia. Intanto il socialismo siciliano aveva ottenuto una serie di successi. Fra l’agosto e l’ottobre del 1893 aveva organizzato e portato alla vittoria il primo grande sciopero italiano riuscendo a trasformare il terraggio in mezzadria . A seguire, stava conducendo una battaglia contro le tasse municipali chiedendone l’abolizione o la drastica riduzione, ma nel bel mezzo di questa galoppata vittoriosa irruppero i divieti e i voltafaccia del Partito socialista nazionale e internazionale. L’isolamento dei fasci portò inevitabilmente alla sconfitta.

Alla luce di quanto avvenuto in seguito il Partito socialista non avrebbe potuto commettere errore più grande. E le conseguenze di tale errore non sono state mai più riparabili. I Fasci dei lavoratori rappresentavano la continuazione dell’iniziativa meridionale sbocciata nell’80. La loro violentissima repressione determinò la esclusione della Sicilia e in parte anche del meridione dalla vita politica di sinistra. Il mancato sostegno o meglio l’abbandono del Partito socialista italiano lasciarono libere le mani ai ceti dominanti isolani che ripetutamente chiesero al governo lo scioglimento dei Fasci dei lavoratori. Giolitti, presidente del consiglio e ministro dell’interno dal maggio del ’92 al novembre del ’93 si era sempre rifiutato di intervenire, ma le sue dimissioni in seguito allo scandalo della Banca romana, cui non fu estraneo il Crispi, aprirono nuovamente le porte a quest’ultimo che ritornato alla presidenza accondiscese facilmente a quell’atto liberticida proclamando lo stato d’assedio. I contadini furono considerati alla stregua di pericolosi sovversivi capaci di rovesciare lo Stato. La stampa nazionale poi cominciò a sfornare una serie di articoli volti a denigrare i dirigenti socialisti siciliani. Si scriveva anche di complotti tra la Francia e i socialisti siciliani volti ad azioni anti-italiane. L’opinione pubblica fu pilotata contro i contadini siciliani che venivano dipinti come esseri primitivi, affamati, saccheggiatori e inconsapevoli! Nel 1893 la Sicilia fu lasciata sola. Ebbe contro i latifondisti, i conservatori e i reazionari di tutta Italia e l’Internazionale socialista. Crispi prestò orecchio a tutto ciò e non solo volle vincere ma volle stravincere. Le si schierò contro, la mise a ferro e a fuoco, stroncò nel sangue i Fasci che vennero sciolti e i loro dirigenti furono processati e condannati al carcere duro. La Sicilia e con essa tutto il mezzogiorno cessarono di aver peso nella vita politica italiana.

La sconfitta di Adua

La pessima annata del 1897 e il rincaro della vita esasperano gli animi: il 1898 segna l’esplosione di una irrefrenabile collera popolare accumulatasi in quarant’anni. L’anno si apre con una vittima proprio in Sicilia: è il 2 gennaio quando, a Siculiana, la polizia spara sulla folla che protesta per avere pane e lavoro uccidendo un contadino. Ma le manifestazioni e le rivolte si susseguono in tutta Italia per l’aumento del prezzo del pane, per il lavoro e contro le imposte. Scioperi e tumulti si contano a decine in Sicilia, in Campania, nelle Marche, in Puglia. Il 16 febbraio la polizia interviene contro una manifestazione a Palermo. Il 18, a Troina, la truppa spara su disoccupati, donne e ragazzi: il bilancio è di cinque morti e ventotto feriti. Il paese, posto in stato d’assedio, viene invaso da due compagnie di fanteria. Il 22 febbraio, a Modica, soldati e carabinieri fanno cinque morti. In marzo anche il nord scende in campo: a Bassano sono gli alpini a intervenire contro la popolazione, mentre a Molinella vengono arrestati un sindacalista e cinquanta mondine, e sciolte le cooperative.

I cannoni contro il popolo che manifesta

In aprile scoppia la guerra ispano-americana, col risultato di far aumentare il prezzo del grano e della farina, anche grazie all’indifferenza del governo che avrebbe potuto benissimo evitare il rincaro del pane sospendendo, almeno temporaneamente, il dazio sulla farina. La protesta divampa in tutto il paese, e Di Rudinì, cedendo alle pressioni del re Umberto I e degli ambienti di Corte che reclamavano una politica più dura, chiama le forze dell’ordine a intervenire dovunque. Da Sud a Nord fino a culminare nelle cannonate del generale Bava Beccaris sugli scioperanti di Milano e mettendo in campo altre misure restrittive che portarono all’arresto di molti esponenti dell’estrema sinistra. Senza comprendere l’importanza crescente dell’opinione pubblica che gli era contraria, il Rudinì cercò di far approvare dal Parlamento una serie di leggi illiberali, che limitavano il diritto di sciopero, la libertà di stampa e di associazione. Ma fu ben presto abbandonato dal Re e data l’ostilità della maggioranza parlamentare, il 29 giugno 1898, fu costretto a dimettersi.

La verità è che Di Rudinì non aveva la statura politica di Crispi e le sue misure restrittive stavano colpendo violentemente anche il nord. Fu sostituito dal generale Luigi Pelloux (già responsabile della gestione militare della Puglia in occasione dei disordini del 1898). Milano e il nord non ebbero contro come la Sicilia tutte le forze politiche e sociali, Milano e il nord ebbero l’opportunità di riprendere la crescita economica a spese di un sud ancora una volta devastato e calpestato.

Note [1] Analoghi discorsi si sentono spesso fare nei confronti del ’68 (1968). Ma come è possibile paragonare le condizioni della donna e dei lavoratori che si sono sviluppate in seguito a quell’evento a quelle precedenti? E chi si sognerebbe di dire che la restaurazione imposta dal congresso di Vienna cancellò la ventata di progresso che seguì all’illuminismo e alla rivoluzione francese? [2] Il testo del discorso è consultabile in “L’Amico del popolo” del 21 marzo 1876. [3] In Italia c’erano due sinistre: quella “Meridionale”, formata da piccola e media borghesia artigianale e commerciale, proprietari terrieri, ceti professionali che si vedevano svantaggiati dall’unità; e quella “Settentrionale”, formata da media borghesia che invece godeva dei vantaggi dell’unità. Gli industriali in pectore del nord chiedevano al governo di attuare provvedimenti protezionistici al fine di proteggere il debole mercato interno dalle importazioni straniere ma la crescita industriale si accompagnava alla arretratezza delle strutture di credito. Lo Stato pertanto si limitava a sostenere lo sviluppo industriale, tassando i cittadini e poiché le maggiori entrate venivano dall’agricoltura e quindi dal sud, le tasse penalizzavano il sud e finivano regolarmente a finanziare il nord. [4] Con la Triplice Alleanza, l’Italia ottenne la rottura dell’isolamento diplomatico e l’impegno dell’Austria a compensi territoriali in caso di sua espansione balcanica. L’alleanza con l’Austria sembrava sancisse pure una definitiva rinuncia a Trento, Trieste e all’Istria. [5] Sotto la pressione inglese, nel 1882 l’Italia acquista la baia di Assab e comincia la sua avventura coloniale (in contrapposizione ai principi risorgimentali). Se da un lato i latifondisti meridionali vedevano risolto il problema delle terre ai contadini, dall’altro era evidente l’impreparazione italiana dovuta sia alla mancanza di capitale e di industrie. Nel 1887 l’Italia tenta di conquistare l’Eritrea, ma a Dogali furono trucidati 500 soldati italiani. [6] La Francia invase la Tunisia, che subiva da sempre l’influenza italiana, e ciò ruppe definitivamente i rapporti tra le due potenze. L’Italia, ancora giovane non poteva rimanere isolate diplomaticamente, così il governo firmò la Triplice Alleanza con Austria e Germania, che impegnava le potenze a difendersi solo in territorio europeo. [7] La crisi agraria dovuta al ribasso dei prezzi a causa dei prodotti importati, rese necessario il protezionismo, iniziando una guerra di dazi con la Francia.Contro il protezionismo si schierarono i proprietari terrieri che esportavano merci (agrumi, olio, vino) e l’industria tessile e meccanica (che importava materiali meno costosi e migliori). [8] Ne “Il bilancio dello Stato”, 1900; cit da G. Giarrizzo, in “La Sicilia e la crisi agraria, I, 7 [9] Cit. in Renda Storia della Sicilia, III, 1061 [10] Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale, Feltrinelli, 1968, 26 [11] B. Croce, Storia d’Italia, pg 108 [12] Hobsbawm, I ribelli; forme primitive di lotta sociale. P.34 [13] Il Cartismo nasce in Inghilterra nel 1836, grazie a un gruppo di operai e di artigiani londinesi che rivendicano, nella propria “carta del popolo”(People’s Charter), un programma politico per tutto il movimento operaio. Le rivendicazioni principali erano le seguenti: suffragio universale (per gli uomini), elezione annuale del parlamento, votazione segreta dei deputati , divisione del paese in circoscrizione elettorali uguali in modo da assicurare un’eguale rappresentanza , abrogazione del censo per essere eletti e remunerazione dei deputati.

fonte http://www.ilportaledelsud.org/1887-1896.htm

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Massimiliano Verde: difendere la lingua napoletana è un diritto dell’umanità

Posted by on Giu 8, 2019

Massimiliano Verde: difendere la lingua napoletana è un diritto dell’umanità

Intervista al Palazzo di Vetro dell’ONU con il Presidente dell’Accademia Napoletana, venuto recentemente a New York per salvare il napoletano

“Era arrivato il momento che qualcuno seriamente si occupasse di preservare un patrimonio dell’identità culturale italiana e non solo… A Napoli circa il 70% dei suoi abitanti parla ancora il napoletano come prima lingua… “Gomorra e Ferrante? In quanto storico e studioso della cultura, della lingua, dell’arte io non mi occupo di fictions…. puntare e sensibilizzare i giovani soprattutto, ad una lingua, quale quella napoletana che è quella dell’antifascismo, della democrazia e della resistenza al nazismo…

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