La resistenza calabrese all’occupazione francese (1806/1813)
La resistenza calabrese all’occupazione francese (1806/1813) e sua incompatibilità con l’agiografia risorgimentale italiana
( con note sulla battaglia dimenticata di MAIDA, 4/7/1806 )
La resistenza calabrese all’occupazione francese (1806/1813) e sua incompatibilità con l’agiografia risorgimentale italiana
( con note sulla battaglia dimenticata di MAIDA, 4/7/1806 )
Servirebbe il revisionismo storico anche per
riscrivere il decennio post rivoluzione francese, 1789-1799,
(giustizia sommaria, beni confiscati, ruberie di stato, chiese distrutte e
incendiate, ostie e reliquie profanate, preti imprigionati e massacrati, suore
stuprate e uccise, credenti umiliati e trucidati, in nome degli
“immortali” principi di Libertè, Egalitè, Fraternitè senza
dimenticare il genocidio della Vandea ) per poter comprendere come le spinte
giacobine e massoniche abbiano influenzato gli avvenimenti storici successivi e
come continuino a condizionare quelli presenti. Il giacobinismo nato dalla
volontà di strateghi “illuminati” è in realtà il risultato di un complotto
massonico fondato apparentemente sul culto della Patria, ma che, di fatto,
spingeva su ideologie come quella del progresso, dell’uguaglianza astratta e
dell’individualismo sfociate in una vera e propria dittatura di un’élite che,
modernamente, viene chiamata “Nuovo Ordine Mondiale”.
Il giacobinismo ( “Societè des amis de la
Constitution”, “Società degli amici della Costituzione”) nacque quindi a Parigi
nel 1789 nell’ex convento domenicano di San Giacomo ( di qui il nome) . Finto
apportatore di ideali di libertà, fraternità ed uguaglianza ha avuto un gran
numero di seguaci in Italia che ricordiamo, per mano di Napoleone (il vero
ideatore del vessillo italiano tricolore), si concretizzò nella costituzione
delle 4 Repubbliche Sorelle ( Cispadana, Cisalpina, Romana e Partenopea)
assoggettate completamente all’esercito francese, che assorbiva terre e denaro
da inviare in Francia per risanarne i debiti.
Si assiste, così,come ci ricorda Benedetto Croce in
“Storia del Regno di Napoli” ad un radicale cambiamento: dall’attività
massonica speculativa si va verso l’attività politica con la trasformazione
delle Logge in centri di aggregazione dei Giacobini: «…gli ingegni napoletani…
sul cadere del Settecento, primi in Italia, cioè fin dal 1792, … si misero in
corrispondenza con le società patriottiche francesi, e i più giovani e ardenti
riformarono le loro Logge massoniche in club giacobini…»
Ricordiamo
brevemente di come quindi, preparato il terreno, le truppe francesi entrano a
Napoli e istituiscono ( con la complicità “illuminata” della borghesia e dei
nobili napoletani), la Repubblica Napoletana, conosciuta anche come Repubblica
Partenopea. Nata per l’idealismo di pochi borghesi e nobili fintamente
illuminati ma nella realtà meschini traditori dei Borbone e di tutto il popolo
e lontana dai bisogni di quest’ultimo, resiste solo pochi mesi, infatti, il 13
giugno del 1799, grazie alla rivolta che partì dalla Calabria guidata dal
Cardinale Ruffo e dai lazzari napoletani (cautamente appoggiati idealmente
anche da Ugo Foscolo, nei suoi “Commentari” ) cessò questa nuova e poco amata
forma costituzionale che cercò di soppiantare con l’inganno la monarchia dei
Borbone. I repubblicani giacobini si resero colpevoli anche dell’uccisione di
60mila sudditi napoletani , vittime mai ricordate da Istituzioni sorde
impegnate invece a commemorare le 122 impiccagioni a Napoli, che si
susseguirono ininterrottamente da giugno a settembre,più altre centinaia nel
resto del Regno, di traditori tra i quali la nobile Pimentel De Fonseca,
Francesco Caracciolo, Domenico Cirillo, “vittime” della giustificata ritorsione
dei Borbone ( peraltro realmente addolorati anche dal vile tradimento di quelli
che consideravano fedeli amici).
Una nota folkloristica e religiosa: Sant’Antonio prese, in quel frangente e
solo per un breve periodo (dal 1799 al 1814), il posto di San Gennaro come
Patrono nel cuore dei Napoletani accusato di essere “nu Sant
Giacubino” in quanto “consentì” il miracolo della liquefazione
del sangue anche dinanzi al nemico francese.
Quanto incise invece il giacobinismo durante le fasi del Risorgimento e dopo?
Secondo gli accordi scaturiti dal Congresso di Vienna del 1814 si ripristinò
l’Antico Regime cancellando di fatto tutte le conseguenze della Rivoluzione
francese e del regime napoleonico, “la Lombardia e l’antica Repubblica di
Venezia divennero province dell’Impero asburgico, mentre il Granducato di
Toscana e i ducati di Parma e Modena vennero assegnati ai membri della dinastia
asburgica. Lo Stato pontificio con le Legazioni fu restituito a papa Pio VII,
che rientrò a Roma fra le ovazioni dei popoli della penisola. Nel Mezzogiorno
il Regno di Napoli e Sicilia ritornò Ferdinando IV, che assunse il nome di Ferdinando
I, re delle Due Sicilie. Sia il Papa, che addirittura concesse all’Austria di
mantenere una guarnigione a Ferrara, sia i sovrani dei ducati della Toscana e
di Napoli confidavano nella protezione austriaca. Solo il Piemonte,
ingranditosi con la Liguria, restò autonomo dalla influenza austriaca, con la
solita funzione di Stato Cuscinetto tra la Francia e l’Austria.”
Questa Restaurazione però per colpa anche di pesanti restrizioni imposte dalle
vecchie Monarchie non spense le fiammelle repubblicane di un giacobinismo mai
sopito che invece, come ricorda Antonio Gramsci dalle sue bellissime lettere
dal carcere, fu un modo tutto borghese di fare politica, “sinonimo di politico
settario ed elitario in senso deteriore” che introdusse una forte spinta laicista,
anticattolica e totalitaria e che innescò, per colpa di quelle ideologie
malate, l’insana regola di ordire complotti e strategie subdole per il
raggiungimento ad ogni costo del Nuovo Ordine Mondiale. Oggi come allora che in
quel contesto storico avevano lo scopo di “liberare” l’Italia dai
vecchi Stati feudali e dalla Chiesa cattolica. E così in un apparente
stravolgimento di alleanze ed amicizie, con la complicità della massoneria
inglese e la neutralità di quella francese, l’Italia fu unita. E sappiamo come.
La stessa Massoneria internazionale dirigerà successivamente tanti altri eventi
con un’abilissima regia: gli scontri che porteranno alle guerre mondiali e la
conseguente sconfitta dei grandi nazionalismi italiano, tedesco e giapponese, e
alla conseguente divisione del mondo in due blocchi, decisi, a Yalta nel 1945,
da Roosevelt, Churchill e Stalin. I due mondialismi materialisti di
un’ipotetica Repubblica Universale si spartivano così il pianeta: da una parte
il “capitalismo liberaldemocratico, agnostico e tollerante”, dall’altro il
“comunismo ateo e totalitario”. Ci sono sempre i “fratelli massonici” dietro le
libertà dei figli dei fiori sessantottini così come la diffusione dell’LSD,una
strategia mirata della CIA deliberatamente voluta per creare incapacità di
pensiero critico .
Ci sono sempre loro nell’ 1989 quando il comunismo crollava e gli Usa,
burattini dei sionisti, veri deus ex machina dell’umanità, diventavano i
padroni del mondo tanto che Bush nel 1991 affermò che si era giunti all’alba di
un “nuovo ordine mondiale”. Ed infatti aveva ragione: siamo giunti quasi
alla deriva di una società multietnica e multiculturale che annullerà tutte le
culture e le fedi a cominciare dall’Europa, disarmata intellettualmente e in
crisi d’identità, interessata dall’invasione di immigrati provenienti dall’Est,
dall’Africa, dall’America Latina e dall’Asia, la maggior parte dei quali di
fede musulmana “incompatibile con gli ordinamenti civili occidentali che crea
incomprensioni e problemi di convivenza, ma che ai progressisti,ai custodi del
politically correct e proprietari dei mezzi di comunicazione( che condizionano
le menti di improbabili radical-chic o di semplice gente generosa che non
ragiona se non con il cuore), la cosa sembra non importare.
John Foster Dulles, presidente della Fondazione Rockefeller tristemente
preannunciava, in piena Seconda guerra mondiale: «Un Governo mondiale, la
limitazione immediata delle sovranità nazionali, il controllo internazionale di
tutti gli eserciti e di tutte le marine, un sistema monetario unico, la libertà
di immigrazione nel mondo intero». E la Chiesa che avrebbe potuto essere
l’ultimo baluardo di difesa se non si adeguerà a queste strategie mostruose non
sarà che una pedina già fortemente compromessa dal di dentro, “corrotta
moralmente ed in balia di scandali sessuali, battaglie per la soppressione
della veste talare, matrimonio dei preti, revisione dei dogmi in funzione del
progresso universale, sconvolgimento della liturgia, l’Eucarestia ridotta a un
semplice simbolo della comunione universale ed il vecchio Papato ed il vecchio
sacerdozio abdicanti di fronte ai preti dell’avvenire”.
Di certo esisterà una massoneria buona ma con questi presupposti io quando mi
troverò al cospetto di simboli giacobini di sicuro cambierò strada. Numerosi e
“striscianti” e che veicolano messaggi subliminali soprattutto quando è l’arte
il mezzo: berretti frigi,alberi della libertà, la livella che alludeva
all’uguaglianza, i fasci consolari dell’autorità romana, il caduceo simbolo
della pace conquistata grazie all’abbattimento delle tirannie, la piramide e
l’occhio onniveggente, la squadra ed il compasso, l’archipendolo o la
cornucopia.
Brutte storie. Alla fine non ci resta che aggrapparci a tutti i valori allora demonizzati e banditi dal NWO (Nuovo Ordine Mondiale): attacchiamoci alla famiglia e ai suoi valori, rispettiamo il nostro passato, riscopriamo le nostre tradizioni,il cibo,gli usi e i costumi della nostra Terra, ancora una volta fondamentali per non perdere l’ identità che siamo riusciti a conservare accogliendo tutti i popoli che hanno avuto bisogno di noi. Ma soprattutto coltiviamo amore.
Patrizia Stabile
per Napoli giornale gratuito, direttore Alessandro Migliaccio
In Enciclopedia Cattolica, 12 voll., Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro Cattolico, Città del Vaticano 1952-1954, vol. X (1953), pp. 1754-1755.
Estensore: RENZO UBERTO MONTINI, ordinario di storia nei licei.
La Capitale era
divisa in sei circoscrizioni, rette da Eletti/Magistrati, che costituivano la
“Città”: cinque aristocratiche comprendevano gran parte della nobiltà; uno
popolare comprendeva la borghesia napoletana ed aveva diritto di rappresentare
tutti i Comuni del Reame.
La “Città”, quindi, costituiva un vero Parlamento.
Secondo un vecchio privilegio elargito da Federico II e confermato poi da vari
sovrani, compresi quelli di Spagna, vacando il trono, spettava agli Eletti,
alla “Città”, il governo dell’intero Reame.
Vantavano, quindi diritti molto temibili per il tentennante Vicario del Re, il
Principe Francesco Pignatelli.
I Francesi erano ormai alle porte della Capitale e bisognava:
Il 24/12/1798
alla seduta degli Eletti furono ammessi altri 16 deputati borghesi.
Gli Eletti, facendosi patroni ed interpreti della volontà popolare, poichè i
Lazzari chiedevano le armi e i castelli, proposero di costituire una milizia
cittadina.
Si recarono dal vicario del Re, il Principe Francesco Pignatelli, per
rammentargli i privilegi della “Città”, e chiedergli di rimettere nelle loro
mani il compito della difesa e dell’ordine pubblico, e di concedere le armi
necessarie alla costituzione di una milizia civica di 14.400 uomini.
In realtà lo scopo era quello di affrettare la conclusione della pace e di
salvarsi (gli eletti) dal peggio e dall’anarchia.
La costituzione di una repubblica aristocratica era solo una minaccia priva di
fondamento.
Il 12/1/1799 si ottenne l’armistizio che prevedeva:
Il generale Mack
evacua, quindi, Capua per ritirarsi su Napoli.
Il popolo è certo del tradimento dei ministri e degli ufficiali dell’esercito.
Comincia, così, a diffondersi l’adagio “Chi tene pane e vino ha da essere
giacubbino”.
Iniziano a farsi
sentire gli effetti dell’armistizio. Molti molini, che traevano forza motrice
dal torrente dei Lagni, le cui rive erano occupate dal nemico, avevano
interrotto la macinazione, per cui si risentiva penuria di farina.
Sorge lo spettro della fame, mentre nobili e borghesi si abbandonano ad una
certa spensieratezza. E questo esalta il furore dei Lazzari.
Il 15/1/1799, all’alba, i Lazzari si gettano contro le porte di Castel Nuovo.
Dopo un breve
combattimento si impadroniscono della porta principale.
Una volta entrati non fanno danni alle persone. Inalberano la bandiera Reale, cacciano
il presidio, si armano fino ai denti, pongono sentinelle sui cammini di ronda e
si preparano all’estrema difesa.
La stessa scena avviene nel medesimo tempo in Castel Sant’Elmo, nel forte del
Carmine e in quello dell’Ovo.
Durò tutta la giornata la processione dei Lazzari che si recavano a provvedersi
di un fucile, d’una baionetta e di munizioni.
Già si trascinavano in piazza i cannoni che i Lazzari non sapevano adoperare.
Furono spalancate le porte delle carceri, liberando circa 6.000 prigionieri, tra
i quali gli imputati per reati politici erano una piccola minoranza.
Il convincimento popolare era che il re fosse stato tradito dagli stranieri e
dai signori, dei quali una parte s’era venduta ai francesi, e l’altra anelava
di stipulare una pace che salvasse le loro ricchezze e desse la plebe nelle
mani del vincitore.
Quindi il popolo
non poteva considerare colpevoli coloro che avevano derubato i ricchi,
traditori del re e del popolo.
E se una torma di plebei invadeva la casa di qualche benestante, il saccheggio
aveva sapore di rappresaglia.
Ciò non diminuisce la forza morale che solleva i Lazzari, visto che, a quel
tempo, gli eserciti delle nazioni più civili punivano, appunto, col saccheggio
la resistenza delle città nemiche.
Il popolo aveva ormai acquistato il diritto di considerare colpevoli della
catastrofe tutte le classi abbienti.
I Lazzari non insorgevano dopo una carestia; il loro movimento, spontaneo, era
la difesa disperata della loro terra, degli usi, dei costumi, delle credenze,
della religione. Di tutto ciò che, in ogni paese, forma la concretezza
dell’animo popolare ed è la patria stessa.
Molti si
recarono a presidiare l’altura di Capodichino, dove, per tradizione, si sapeva
che gli eserciti invasori calavano sulla città.
Da questo accampamento era partita una colonna verso Casoria, in cerca del
generale Mack, considerato codardo e traditore, per togliergli il comando e
farne giustizia.
Ma questi, avvertito, depose il comando e chiese asilo al nemico, ottenendo
anche un passaporto.
Il Mack passò innanzi a Gaeta il giorno stesso che la fortezza cadeva nelle
mani francesi.
16/1/1799
Il vicario, che fino a quel momento non aveva mai voluto fornire di armi (pur
avendone la possibilità) la milizia, munitosi di una buona somma di ducati
scappò.
Lo stato insurrezionale della città non consentiva il versamento della somma
pattuita con i francesi.
Rotto così l’armistizio, il generale Championnet avanzava lentamente su Napoli.
Gli Eletti, per salvare loro stessi e calmare l’insurrezione popolare,
spedirono al generale francese una deputazione, la quale promise il pronto
rispetto dei patti dell’armistizio, a condizione che si sospendesse la marcia
sulla capitale.
Championnet, dubitando degli Eletti, rifiutò di trattare. E poichè si
cominciava a fare distinzione tra re e nazione, assicurando che questa non
aveva mai inteso muovere guerra ai francesi, il generale francese li esortò a
“democratizzarsi”, nel qual caso egli sarebbe entrato in città da amico e
alleato.
Conosciute queste trattative, i tumulti si moltiplicarono. I Lazzari accusarono
di tradimento i magistrati cittadini e i gentiluomini che avevano elevato al
comando.
I francesi erano a poche ore di marcia e bisognava prepararsi a combattere alle
barriere.
I cannoni, dai Castelli, furono trascinati a braccia sull’altura di
Capodichino, sulla via di Poggioreale e al ponte della Maddalena.
Non ci si dette pensiero che la capitale era assolutamente priva di mura e
fortificazioni.
Si confidava sulle proprie braccia e sull’aiuto di San Gennaro, in nome del
quale si combatteva e che formava il simbolo della concreta patria che si
difendeva.
I tumulti si aggravavano di più, tanto che, oltre ai pavidi proprietari e ai
giacobini, anche i legittimisti e coloro che più avevano temuta l’occupazione
francese, spedivano messi allo Championnet perchè affrettasse la marcia.
Non vi era alcuno che avesse il coraggio di mettersi lealmente a capo della
plebe e tentar la sorte in un’ultima giornata. Nessuno volle intendere che
l’anarchia sarebbe divenuta ordine composto ed eroico, solo che un uomo fosse
riuscito a riscuotere la fiducia della plebe.
Nelle ultime ore, sulle alte classi sociali, presero il sopravvento i
giacobini, gli unici che potessero moralmente giustificare il desiderio
dell’occupazione francese.
Francesi e giacobini sapevano che il Castel Sant’Elmo era la chiave della
situazione.
All’interno del castello vi erano, infatti, 40.000 armati che avrebbero opposto
ai francesi un muro di ferro e fuoco veramente infrangibile.
Nella notte del 18/1/1799 i giacobini tentarono, senza riuscirvi, di
impadronirsi del castello.
Il 20/1/1799 l’arcivescovo fece portare in processione la statua di San
Gennaro. Questo per persuadere la plebe del favore del clero.
Anche l’aristocrazia e la borghesia partecipò alla processione, anche queste
per portare il popolo dalla loro parte. Ma il loro scopo era quello di far
cessare il popolo di dare la caccia ai ricchi traditori e dare quindi il tempo
al nemico di prevenire la sua resistenza.
Il 21/1/1799 i giacobini, tra cui alcuni che avevano partecipato alla
processione, riuscirono con uno stratagemma ad impadronirsi del Castel
Sant’Elmo.
Il grosso dei giacobini vi si asserragliò e lo Championnet, sicuro ormai del
fatto suo, muoveva i battaglioni sulla capitale.
La città fu
investita dalla parte orientale.
I francesi si fecero largo dopo aver raso al suolo Pomigliano d’Arco.
A Capodimonte, a Capodichino, al Ponte della Maddalena, i battaglioni francesi
urtarono contro un’ostinata resistenza.
I Lazzari, tra i quali era impossibile contare il numero dei caduti, opponevano
alle baionette e ai cannoni delle vere muraglie umane.
Nella prima giornata i francesi concentrarono l’assalto sul punto di maggiore
resistenza (la Porta Capuana), tentando di occupare fin da subito i quartieri
più popolari.
Combattevano lì 2.000 Lazzari comandati da Michele il Pazzo, ma anche qualche
centinaio di svizzeri delle guardie reali.
La brigata Monnier era riuscita con una furiosa carica a sloggiare i Lazzari da
Poggioreale e li aveva inseguiti fino alla porta.
Respinta una prima volta, Monnier ritentò la carica. Travolti nel primo impeto
i Lazzari, i francesi passarono la porta e giunsero nella piazza, ove, furono
accerchiati da un furioso fuoco di fucileria proveniente dalle case
circostanti.
Abbandonati i loro morti sul selciato, dovettero battere in ritirata, mentre
Svizzeri e Lazzari, trascinati in piazza 12 cannoni, fulminavano d’infilata la
via per la quale il nemico fuggiva.
Il maggiore Thièbault, riuscì, per fortuna del nemico, ad arrestare una colonna
di 3.000 Lazzari, evitando una disastrosa rotta.
I francesi riorganizzarono una colonna d’assalto. Simulando la fuga si fecero
inseguire dai Lazzari, che questa volta furono sorpresi di fianco dai
granatieri di riserva, che ne fecero orrendo massacro.
Tuttavia la porta e la piazza non furono espugnate prima che l’incendio non
avesse distrutte le case della plebe.
Lo spirito combattivo dei Lazzari non era, comunque, minimamente fiaccato.
I popolani si lasciavano massacrare combattendo con disperazione cieca.
I Lazzari, sebbene sloggiati dalle primitive posizioni, conservavano una forte
linea difensiva.
Intanto i giacobini, rinchiusi nel Castel Sant’Elmo, vedendo volgere piuttosto
incerte le sorti della giornata, indirizzarono una lettera agli Eletti nella
quale minacciavano il bombardamento della città, se i magistrati non avessero
disarmato il popolo insorto.
I magistrati erano, inoltre, chiamati responsabili delle conseguenze e delle
rappresaglie.
Gli Eletti risposero che non erano in grado di fermare 40.000 armati sbandati i
quali erano riusciti a far “rinculare” il nemico al quale avevano tolto buona
parte dell’artiglieria, affrontandolo a “petto nudo e scoperto”.
Ma la loro preoccupazione era che in caso di vittoria dei Lazzari, questi
avrebbero sfogato su di essi il loro sdegno. Quindi speravano che i Lazzari
riuscissero a respingere il nemico e quindi poter trattare una pace
vantaggiosa.
I giacobini, quindi, si accingevano a porre in atto la minaccia di bombardare
la città.
La sera del 21/1/1799 spedirono alcuni messi ai francesi, esortandoli ad
attaccare il giorno dopo i Lazzari ai Ponti Rossi, in modo che il forte avrebbe
colpito i difensori alle spalle.
Il 22/1/1799 il
generale Championnet inviò un parlamentare ai bivacchi dei Lazzari, per offrire
la pace.
Ma la plebe, che fino a quel momento era stata tradita da tutti, non conoscendo
il “diritto delle genti”, massacrò l’ufficiale francese.
La battaglia si riaccese a Capodimonte e al Ponte della Maddalena.
I Lazzari furono praticamente accerchiati ed assaliti da tutte le parti.
S’era appena iniziata la battaglia, che Sant’Elmo cominciò a bombardarli.
Ai francesi fu necessario l’intervento, in aiuto, di una brigata. Due
battaglioni di questa passarono dietro le colline di Capodimonte e del Vomero,
senza incontrare resistenza e penetrando in Sant’Elmo, ove si piantava l’albero
della libertà.
I Lazzari, pur combattendo intrepidamente, cedevano terreno.
Ma i Lazzari di Foria e di Chiaia respinsero francesi e giacobini malgrado le
loro critiche condizioni.
Un distaccamento francese, proveniente da Capodichino, sorprese i difensori di
Via Foria di fianco e li ricacciò facendo terribile strage. Quaranta Lazzari
fatti prigionieri furono fucilati in massa.
La plebe dovette difendersi e barricarsi nel Largo delle Pigne. Avevano solo
quattro cannoni.
Nel centro della città correvano pattuglie di Lazzari in servizio d’ordine
pubblico. Dai conventi, monaci e preti scagliavano sui difensori vasi da fiori
e ogni oggetto possibile. Da qualche casa borghese non si esitava a sparare
qualche fucilata e qualche pistolettata sulla plebe.
Giacobini, o creduti tali, erano assaliti nelle case, trucidati, gettati i loro
cadaveri sui fuochi di bivacco.
Durante il 21 e 22/1/1799 i Lazzari ordinarono che tutti i portoni e tutti gli usci rimanessero spalancati. Ogni luogo di rifugio doveva essere pronto a ricoverare i passanti bersagliati dal bombardamento di Sant’Elmo.
Dopo sette ore di resistenza i Lazzari abbandonarono il Largo delle Pigne.
La resistenza si concentrava nel quartiere di Mercato. Tenevano ancora buona parte di Via Toledo, il Palazzo Reale, il Castello del Carmine, il Castel Nuovo e il Castello dell’Ovo.
All’alba del terzo giorno Championnet dette ordine che la lotta procedesse senza quartiere.
I francesi discesero per Via San Carlo alle Mortelle e per Via Santa Lucia a Monte, per piombare sul fianco dei Lazzari, in Via Toledo e in Piazza San Ferdinando.
Dopo un aspro combattimento si impadronirono del centro e sbucarono in Largo del Castello. Qui, dopo un prolungato tiro di artiglierie da Sant’Elmo, presero d’assalto Castel Nuovo.
Ora si poteva battere alle spalle i Lazzari che combattevano al forte del Carmine e che sostenevano altri francesi.
Questi ultimi, sebbene avessero ricevuto dei rinforzi, urtavano contro circa 8.000 Lazzari, che cedettero il terreno solo nelle ore pomeridiane, quando furono accerchiati. Tentarono di asserragliarsi nel forte del Carmine, ma il Castello fu preso d’assalto, prima che si potessero chiudere le porte. Molti difensori furono trucidati.
Championnet poteva ritenersi padrone della città.
Tuttavia, se i forti e i principali centri di resistenza organizzata avevano ceduto, il popolo era ancora in armi.
Ma una cannonata da Castel Sant’Elmo spazzò il Largo di Palazzo.
10.000 caduti.
da “Lazzari e Santa Fede”, di Alberto Consiglio, 1936
fonte http://lazzaronapoletano.it/category/0003/0003-0003/
Read MoreI giacobini si ritennero patrioti e sostennero che la rivoluzione era a favore del popolo, per risollevarlo dalla miserrima condizione, intanto però, ne fomentavano la strage, ritenendo quindi che la felicità vada imposta dalle menti elette anche a prezzo di un bagno di sangue.
Qualche esempio di stragi di civili:
In un dispaccio del 21 gennaio 1799 dai giacobini napoletani allo Championnet, al fine di invitarlo ad affrettarsi a marciare su Napoli per la loro salvezza, troviamo scritto:
“NON LA NAZIONE
MA IL POPOLO E’ IL NEMICO DEI FRANCESI”
Questa
affermazione, scritta dai filofrancesi durante i giorni della rivolta dei
lazzari, con l’evidente paura di fare una brutta fine, dimostra che le poche
decine di giacobini della “Repubblica Napoletana” ben capivano che solo
l’arrivo immediato delle truppe d’invasione francesi poteva salvarli dalla
furia popolare.
Scrive Massimo Viglione: “Ma, proprio scrivendo quelle parole, essi
dimostravano, a se stessi ed alla storia, il loro totale isolamento da tutto il
resto del popolo. Il fare una distinzione fra la categoria di “Nazione” e
quella di “Popolo”, attribuendo la prima a se stessi, cioè poche decine di
giacobini, e la seconda, con valenza dispregiativa, a milioni e milioni di
individui di tutte le classi sociali, dall’ultimo dei contadini al Re, risulta
essere una testimonianza inequivocabile non solo dell’isolamento, ma anche
della loro utopia, e dimostra anche tutto il loro reale disprezzo per il
popolo, atteggiamento tipico di ogni casta intellettuale di ogni tempo e
luogo”.
La parte
continentale del Regno subì una spietata occupazione francese; i giacobini
napoletani istituirono un governo fantoccio denominato “Repubblica Partenopea”
che non fu riconosciuto neanche dalla Francia.
Tutti i beni, compresi gli scavi di Pompei, furono dichiarati proprietà dello
straniero che pretese anche forti indennità di guerra.
Un cardinale
della Chiesa, il principe Fabrizio Ruffo, di sua spontanea iniziativa chiese a
Ferdinando uomini e mezzi per liberare il Regno.
Ottenne, così, il titolo di Vicario plenipotenziario del Re, una nave e sette
uomini.
Ruffo mosse
inizialmente con altri sette uomini contro l’esercito francese e liberò il
Regno dagli eserciti napolconici invasori.
Non ha ricevuto dagli storiografi alcun riconoscimento per la sua azione, né il
suo nome appare nella toponomastica delle città o sulla fiancata di un
incrociatore.
Eppure quella del Ruffo fu un’autentica guerra di liberazione: all’inizio
dell’anno 1799 quasi tutta la penisola italiana era sotto la dominazione
straniera; nel mese di ottobre non vi era più un soldato francese in Italia.
Scrive il Viglione: “La grande marcia di riconquista del Regno effettuata dal
cardinale Ruffo va inquadrata nel contesto generale del vasto fenomeno
dell’Insorgenza. Mentre il Ruffo risaliva il Regno con il suo esercito, 38.000
toscani liberavano il Granducato, decine di migliaia di italiani affossavano la
Repubblica Cisalpina e riconquistavano il Piemonte al seguito degli eserciti
austro-russi; tutti insieme, infine, marciarono su Roma nel mese di settembre,
quasi in una gara a chi arrivava prima a mettere la bandiera su Castel
Sant’Angelo: e la gara fu vinta, ancora una volta, dalle truppe del cardinale
Ruffo, che per prime liberarono la capitale della Cristianità”.
Il popolo si
schierò a difesa delle istituzioni e della fede cattolica, l’insorgenza
popolare divampò in tutto il Regno, inarrestabile. “Probabilmente, chiunque
altro avrebbe rinunciato alla folle idea gridando all’ignavia dei suoi Sovrani.
Non il Ruffo, che veramente partì con quel che aveva, e sbarcò il 7 febbraio
1799 in Calabria nei pressi di Pizzo.
Quattro mesi dopo, l’esercito dei volontari della Santa Fede, o sanfedisti, era
composto di decine di migliaia di persone, ed entrava in Napoli da trionfatore,
restaurando la Monarchia borbonica.
Ruffo iniziò la riconquista della Calabria verso il mese di aprile, e in maggio
mosse verso il Nord, passando attraverso Matera, quindi Altamura, per dirigere
poi verso Manfredonia ed Ariano, ove giunse il 5 giugno, preparandosi a
marciare sulla capitale.
Liberò Napoli il 13 giugno dopo una tragica battaglia che rivide i lazzari in
azione al suo fianco.
Il 21 giugno
1799 i francesi e i collaborazionisti giacobini si arresero”.
Da buon cristiano concesse ai giacobini condizioni di resa più che
caritatevoli, ma l’ammiraglio Nelson, giunto a Napoli il 24 giugno 1799, non
riconobbe la capitolazione accordata dal cardinale Ruffo che fu messo a tacere.
Se non fosse stato per Nelson essi sarebbero potuti partire per la Francia, e
sarebbero stati dimenticati; senza saperlo egli li trasformò in martiri. Le
navi trasporto furono portate a tiro dei cannoni, i passeggeri erano come, topi
in trappola e i più noti furono imprigionati nelle stive delle navi inglesi.
Racconta il Viglione: “Ruffo fece di tutto per salvare i giacobinii napoletani.
Molti storici, nelle loro opere chiariscono senza ombra di dubbio come l’unico
vero responsabile della condanna dei giacobini fu Orazio Nelson con l’avallo
della Regina. E, in fondo, furono gli stessi democratici ad autocondannarsi.
Infatti, quando l’Armata giunse a circondare la capitale, il Ruffo in persona
entrò in contatto con i comandi giacobini, e promise che avrebbe loro messo a
disposizione navi regie per partire per la Francia.
I repubblicani ebbero anche da ridire, e pretesero dal Ruffo che desse pubblico
ed ufficiale riconoscimento alla Repubblica Napoletana, altrimenti non
avrebbero accettato l’offerta.
Il cardinale, con cristiana pazienza, andò anche oltre i suoi legittimi poteri
di Vicario del Re e riconobbe a nome del Sovrano la Repubblica”.
E chiarisce subito: “E’ chiaro che fece ciò solo allo scopo di salvarli. I
giacobini allora iniziarono ad imbarcarsi, ma nel frattempo giunse nel porto il
Nelson con la sua flotta, e fece subito sapere che il patto era infame e che
non ne avrebbe permesso l’esecuzione, anche a costo di decapitare il Ruffo!
Questi allora andò personalmente a protestare sulla nave dell’ammiraglio,
ricordandogli che aveva dato la sua parola e che era il Vicario del Re.
Ma il Nelson, forte dell’appoggio della Regina, rispose insolentemente tramite
la sua amante Lady Hamilton che non era dignitoso per un ammiraglio parlare
troppo a lungo con un prete cattolico.
Il Ruffo, benché umiliato, non si diede per vinto, e provò nuovamente a
convincere i giacobini a consegnarsi a lui, promettendo di farli fuggire via
terra.
I repubblicani però preferirono consegnarsi al Nelson, reputando che era meglio
fidarsi di un ammiraglio protestante piuttosto che di un prete cattolico.
Appena costoro si imbarcarono sulla nave, Nelson li fece arrestare tutti.”
La decapitazione
di suo cugino Luigi XVI e di Maria Antonietta, le sofferenze e l’allontanamento
da Napoli non predisponevano il Re alla clemenza verso i traditori, verso
coloro che avevano appoggiato l’invasore straniero, in nome di una “civiltà”
imposta con la violenza.
Fu istituita una Giunta di Stato che doveva giudicare i civili e una Giunta di
generali per i militari.
Di 8000 prigionieri:
Durante i pochi mesi della repubblica
vennero condannati a morte e fucilati 1563 legittimisti
da “La storia proibita – Quando i Piemontesi invasero il Sud”, AA.VV.,
Controcorrente, Napoli, 2001
fonte http://lazzaronapoletano.it/category/0003/0003-0003/
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