Alta Terra di Lavoro

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“Michael Warren Davis, Il radicalismo di Russell Kirk, traduzione a cura di Fernando di Mieri”

Posted by on Mag 30, 2019

“Michael Warren Davis, Il radicalismo di Russell Kirk,  traduzione a cura di Fernando di Mieri”

In un tempo caratterizzato dai “sogni dell’avarizia”, è ciò di cui la Destra ha maggiore bisogno

Alla fine, durante l’estate, ho fatto il mio pellegrinaggio a Piety Hill. La casa di mattoni rossi di Russell Kirk domina il villaggio di Mecosta, Michigan, coperto di ruggine. L’alloggio originale in legno era stato costruito nel 1878 dal bisnonno Amos Johnson. Dopo che bruciò il Mercoledì delle Ceneri del 1975, Russell Kirk ha realizzato questa curiosa costruzione all’italiana.

Due pistole a pietra focaia stanno sulla cappa del camino, affiancando un elmetto che sembra appartenere a Gengis Khan. La sala da pranzo è ottenuta interamente dai resti di una locale chiesa parrocchiale; i banchi sono stati usati per il tetto, mentre statue di angeli si levano in nicchie situate dietro il vecchio posto di Kirk a capotavola. Divenne cattolico nel 1963, ma il tavolo nel salotto venne usato dai suoi nonni spiritisti durante le loro sedute.

«La mia guest house era infestata dal suo prozio Raymond -così mi dice il nipote undicenne di Kirk- finché un prete in visita non convinse Ray che si era trattenuto oltre il consentito». La biblioteca del Saggio di Mecosta, ricca di 10.000 volumi, dove ha scritto la gran parte dei suoi saggi e libri, si trova in una casetta cosparsa di edera, adiacente al campus principale.

Si tratta, come ho detto, di una specie di luogo sacro per me. Sono giunto a Kirk attraverso T.S. Eliot, la cui poesia ho letto ossessivamente quando ero matricola al liceo. Il suo vecchio  amico di penna Kirk è stato la mia prima introduzione alla politica. Dieci anni sono passati e io resto un Kirkiano piuttosto irriducibile

.

Persino durante la vita di Kirk, l’ufficialità conservatrice cominciò a spacciarlo come un filosofo di corte alla Casa Bianca di Ronald Reagan, esistente solo per coprire il programma di “the Gipper”[2] con una patina di sofisticazione intellettuale. Reagan piaceva abbastanza a Kirk (come doveva), ma questi non era un reaganiano di ferro. È una verità chiara a tutti coloro che si degnano di leggere i suoi libri. Il complesso dei principi e dei programmi politici, che Kirk chiamava “conservatorismo”, non assomiglia praticamente in nulla alle tesi che esistono oggi sotto quell’egida.

Ma, esattamente, cos’ è un “Kirkiano”?

Spero che non si giudichi dagli omaggi che sono stati scritti per il centenario di Kirk. Le riviste, da The Atlantic a Newsmax, hanno pubblicato elogi commemorativi del Saggio di Mecosta. Molti di questi l’ hanno visto un po’ come un comprimario nella fondazione della National Review, un eccentrico accademico che in qualche modo si è trovato vicino all’avanguardia del movimento di Goldwater[1].

Per esempio, Kirk respinse con tutto il cuore il fusionismo di Frank S. Meyer e William F. Buckley, vale a dire l’ideologia sincretica che combina l’economia libertaria con il tradizionalismo sociale, quella a cui ora ci riferiamo semplicemente come conservatorismo. Nel suo saggio Libertà, tradizione, conservatorismo, Meyer riduce le due linee a “tendenze” o “accentuazioni” all’interno della stessa più ampia cultura del conservatorismo. Egli afferma: «Entrambe accettano implicitamente, in larga misura, i fini dell’altra».

Kirk (e la sua controparte libertaria F.A. Hayek, se è per questo) ha respinto completamente la tesi di Meyer. Come ha spiegato nel saggio Libertarians: the Chirping Sectaries, il libertarismo e il conservatorismo non sono solo diversi, sono antitetici. È arrivato persino a dire che “un conservatore libertario è un uccello raro come un nazista ebreo”. Infatti, i libertari sono “materialisti utilitaristi”, dice Kirk, mentre i tradizionalisti credono in un “ordine morale trascendente”. I libertari si occupano principalmente di questioni che concernono la libertà nella sua opposizione alla mancanza della libertà, la ricchezza contro la povertà. Per i tradizionalisti, invece, la problematica del giusto contro il male prevale su tutto. O il governo sta dalla parte del Bene contro il Male, oppure si dichiara neutrale, rivelandosi quindi complice del Male. Queste sono le nostre opzioni.

La convinzione che tutta l’attività umana – individuale, sociale, economica e politica- debba essere diretta da questo “ordine morale trascendente” al servizio del Bene è davvero l’essenza del tradizionalismo. Allo stesso modo, Kirk ha insistito sul fatto che misuriamo l’efficacia dell’azione in primo luogo (anche se non solo) sulla base della sua “conformità alle durature verità morali”. Osserva in Enemies of the Permanent Things: «Il vero progresso consiste nel movimento dell’umanità verso la comprensione delle norme e verso la conformità alle norme. La vera decadenza si manifesta allorquando l’umanità si allontana dalla comprensione delle norme e dall’obbedienza alle norme stesse».

Secondo la valutazione di Kirk, allora, la funzione principale del governo non è quella di garantire la sicurezza materiale e il comfort della sua cittadinanza. È, piuttosto, quella di prevenire l’immoralità e l’anarchia sociale. L’uomo non è homo economicus, come credono i socialisti e i libertari, ma imago Dei. Deve anche essere visto come tale in termini sociologici. Il fatto che sia stato creato a immagine di Dio, per amare e servire il prossimo come fa il suo Creatore, non è cosa di poco conto. Parla ai suoi più profondi bisogni creaturali: il bisogno di espressione creativa, amicizia, adorazione e sacrificio.

Kirk e i suoi discepoli hanno identificato questi bisogni più profondi con la triade neoplatonica di Verità, Bontà e Bellezza. Essi li trovano incarnati nell’antica cristianità: negli insegnamenti, nella pietà e nella devozione dei nostri antenati cristiani. Kirk si affretta a sottolineare che lo stato ha un ruolo da svolgere nel provvedere a questi bisogni, allo scopo di rafforzare o ripristinare l’ordine cristiano. Egli cita ripetutamente la definizione di governo proposta da Burke: «un espediente della saggezza umana per soddisfare i desideri umani». Il governo deve stare con il Vero, il Bene e il Bello contro il falso, il male e il brutto.

Da qui la sua difesa della censura. Nella sua raccolta del 1956 Beyond the Dreams of Avarice, Kirk esalta l’antico censore romano, che ha vinto “la corona di una virtuosa carriera politica”. Era suo dovere “determinare le responsabilità dei cittadini e controllare che queste responsabilità fossero adeguatamente rese esecutive […] Erano i custodi della nobile, antica virtù romana, e i loro poteri erano molto vasti”. Nell’esercizio di quei poteri, erano “responsabili solo dinanzi alle tradizioni romane e alla loro coscienza”. Quindi, il protagonista del vero progresso è il censore, non l’imprenditore, come sostiene il libertario. È il censore che protegge la società dalla vera decadenza, non l’autorità di regolamentazione, come suggerisce il progressista. Il censore garantisce la conformità alle norme morali, che è la linfa vitale di una civiltà sana.

Chiaramente, Kirk non intende la libertà alla maniera dei conservatori moderni, cioè non considera gli appelli alla “libertà” come argomenti sostanziali in e di per sé. Questa dissonanza sorge, come previsto da Kirk, da un’altra netta e inconciliabile differenza tra i principi fondamentali del libertarismo e del tradizionalismo.

«Il libertario pensa che questo mondo sia principalmente un palcoscenico per l’ego vanaglorioso», osserva Kirk, mentre il conservatore si scopre invece pellegrino in un reame di mistero e meraviglia, dove sono richiesti il dovere, la disciplina e il sacrificio, e dove la ricompensa è quell’amore che supera ogni comprensione. Il conservatore considera il libertario come empio, nel senso dell’antica pietas romana. Vale a dire, il libertario non venera antiche credenze e usanze, o il mondo naturale, o il suo paese, o la scintilla immortale che si trova nei suoi simili.

Alla fine, i conservatori furono costretti a scegliere tra l’inviolabilità della volontà individuale e la sovranità della pietas. Scelsero la prima, e così i loro presupposti e principi operativi divennero sempre più libertari. Nessun repubblicano oggi oserebbe mettere fuori legge la pornografia, per esempio, semplicemente perché è fortemente critico sul piano morale. Ma per il Kirkiano, per mettere fuori legge qualcosa non c’è motivo migliore del fatto che è semplicemente malvagio.

Si prenda l’esempio della riforma dell’istruzione. Anche in questo settore i conservatori sono indistinguibili dai libertari. Di fronte all’indottrinamento marxista nelle università, non fanno una battaglia per difendere le verità tramandate dai nostri antenati nella cristianità, come invece farebbe un tradizionalista. Non richiedono dei programmi radicati nel canone occidentale. No: piangono disperatamente per la “libertà accademica” e insistono sul fatto che le università dovrebbero essere un “mercato di idee”, proprio come farebbe un libertario.

Nel frattempo, i veri tradizionalisti del mondo accademico – la facoltà dei college di arti liberali classiche, come il “Thomas More” nel New Hampshire e il “New Saint Andrews” nell’Idaho- guardano molto spesso al campo di battaglia dei bolscevichi della Ivy League con una sorta di rispetto rancoroso: un soldato un altro. Come Kirk si aspetterebbe: «I conservatori non hanno intenzione di scendere a compromessi con i socialisti; ma anche una simile alleanza, per quanto risulti ridicola, è quasi più concepibile della coalizione di conservatori e libertari. Almeno i socialisti dichiarano l’esistenza di una sorta di ordine morale; i libertari non vedono praticamente limiti».

Insiste nel dire: «Ogni società, di solito in teoria e inevitabilmente in pratica, ha affermato il suo diritto di frenare coloro che distruggerebbero le fondamenta della società». Credere che ai giovani debba essere permesso di “pensare da soli” al college – che, alla veneranda età di 18 anni, sono intellettualmente abbastanza sofisticati da non aver bisogno praticamente di istruzioni da un accademico più anziano e più qualificato – suona come il genere di idiozia che sarebbe stata smerciata dai progressisti del tardo XIX secolo.

In effetti, lo è. E questo è il motivo per cui i tradizionalisti possono essere prontamente d’accordo con la battuta di Chesterton: “Tutto il mondo moderno si è diviso tra Conservatori e Progressisti. Il compito dei Progressisti è continuare a commettere errori. Il compito dei Conservatori è di evitare che gli errori vengano corretti”. I Conservatori americani sono stati a lungo i difensori del liberalismo milliano leggermente spalmato di cristianesimo. Kirk non aveva parole più amichevoli per J.S. Mill che chiamarlo un “intelletto ripulito”.

“La conformità alle verità morali durature non è servile”, scrive Kirk. “L’obbedienza alle convenzioni di un ordine civile giusto non è stupida”. Egli avrebbe ben compreso il monito di san Paolo ai Romani: «Non sapete che se vi ponete  al servizio di qualcuno come schiavi ubbidienti, siete schiavi di colui al quale ubbidite, sia esso il peccato, che conduce alla morte, ovvero dell’obbedienza, che conduce alla rettitudine? Ma ringraziato sia Dio che voi, una volta schiavi del peccato, siete diventati obbedienti dal profondo del cuore all’insegnamento che avete ricevuto e, essendo stati liberati dal peccato, siete diventati servitori della giustizia»[3].

A questo punto possiamo vedere come Kirk sia compatibile con una certa maniera pragmatica di intendere il conservatorismo moderno. Anche se dimentichiamo tutto su Meyer e Buckley – e, in effetti, molti di noi l’hanno fatto – possiamo ancora usare gli argomenti di Kirk per rafforzare l’ala socialmente conservatrice del Partito Repubblicano e salvare il consenso di Reagan. Potrebbe non essere teoreticamente consistente, ma sarebbe retoricamente incisiva.

Il problema è che il pensiero di Kirk non tollera nemmeno il secondo “ingrediente” del fusionismo: non era un sostenitore del capitalismo laissez-faire. Ne era lontano. In Prospects for Conservatives, Kirk mette in guardia i fautori del libero mercato dall’assunzione innocente che “la libertà politica e personale durerà, nella misura in cui continuiamo a ripetere la parola ‘libertà’, non importa quanto il processo di concentrazione del potere economico in grandi società nominalmente ‘private’ sia portato avanti […] Mentre il consolidamento del potere economico avanza, il reame della libertà personale diminuirà, sia che i padroni dell’economia siano servitori statali o servitori di società private”.

Questi “servitori di società private” rendono poveri anche i signori del corpo politico. «Troppo stupido anche solo per intravedere la necessità di riverire e obbedire alla legge che lo protegge dalla rivoluzione sociale -scrive in The Conservative Mind- il capitalista manca di capacità sufficiente per l’amministrazione della società che egli ha fatto sua».

Non dobbiamo aspettarci che il capitalista comprenda la delicata rete di consuetudini, pregiudizi e lealtà che costituiscono una civiltà sana. Egli compra e vende il lavoro degli altri e scommette sulle loro fortune. Gli altri non sono i suoi vicini o i compatrioti, ma i suoi investimenti.

Kirk nutrì grande interesse verso Wilhelm Röpke, un economista tedesco dell’era della Guerra Fredda che cercò una “Terza Via” che ci avrebbe “condotto fuori dal dilemma tra ‘capitalismo’ e collettivismo”. Come Kirk, non poteva tracciare alcuna distinzione sostanziale tra il “proletario sradicato” e i “monopolisti e dirigenti”.

Piuttosto, i due vedrebbero positivamente la restaurazione di un’economia decentralizzata e su piccola scala. Rifiutavano l’ossessione condivisa dei socialisti e dei capitalisti della crescita – l’omonimo “sogni dell’avarizia” – favorendo la proprietà di massa dei beni e l’ampia distribuzione dei mezzi di produzione. Kirk dice di Röpke in The Politics of Prudence: «Il suo obiettivo è ripristinare la libertà per gli uomini promuovendo l’indipendenza economica. Il miglior tipo di contadini, artigiani, piccoli commercianti, uomini d’affari piccoli e medi, esponenti delle libere professioni e funzionari fidati e servitori della comunità – questi sono i destinatari della sua sollecitudine, poiché tra loro la natura umana tradizionale ha ancora le sue radici più vitali, e in quasi tutto il mondo, si stanno radicando tra la specializzazione “capitalistica” e la consociazione “socialista”. Non hanno bisogno di scomparire dalla società, ancora una volta possono costituire i maestri della società».

L’impresa competitiva non è sbagliata in sé, naturalmente. Kirk sarebbe più probabilmente d’accordo con Chesterton sul fatto che “troppo capitalismo non significa troppi capitalisti, ma troppo pochi capitalisti”. Infatti, ecco di nuovo Kirk, ora in The American Cause: «Economicamente e moralmente, un sistema competitivo non ha nulla di cui vergognarsi. Al contrario, soddisfa i desideri umani e rispetta la libertà umana molto meglio di qualsiasi vago schema di affidamento basato unicamente sull’altruismo o su qualsiasi sistema di lavoro forzato. In sostanza, non è la competizione che è brutale; piuttosto, è la mancanza di competizione che rende brutale una società».

Kirk ha semplicemente capito che il sistema del laissez-faire non sempre favorisce la competizione. Potrebbe anche produrre monopoli, depressioni o rivoluzioni. Quindi, dovremmo fare attenzione a quegli “zeloti” che “ci insegnano che ‘la prova del mercato’ è  il tutto dell’ economia politica e della morale” e “ci assicurano che le grandi società non possono sbagliare”, ha scritto Kirk in The Intercollegiate Review nel 1986, a metà quasi del secondo mandato di Reagan.

Dobbiamo dire una breve parola anche a proposito di politica estera. Le parole più famose di Kirk sull’argomento derivano probabilmente da un discorso del 1988 alla Heritage Foundation, quando osservò che “non di rado sembrava come se alcuni eminenti  neoconservatori scambiassero Tel Aviv per la capitale degli Stati Uniti”. Il commento fu tipico di chi non riesce a percepire le note, ma indegno delle accuse di antisemitismo che seguirono, come spiega Bradley Birzer, uno studioso del The American Conservative, nella sua biografia Russell Kirk: American Conservative.

Chiaramente, tuttavia, Kirk era un deciso anti-interventista. Ma lui non era, dobbiamo notare, un American Firster[4]. La sua opposizione al neoconservatorismo non derivava principalmente dal timore di sprecare sangue e soldi americani per popolazioni che non li meritavano. Piuttosto, ha avversato l’idea che gli Stati Uniti possano “liberare” un paese più di quanto possano conquistarne e occuparne uno. Così scrive nel suo contributo alla What is Conservatism ?: «Imporre la costituzione americana a tutto il mondo non lo renderebbe felice; al contrario, la nostra costituzione funzionerebbe in pochi Paesi e renderebbe molti uomini miserevoli in breve tempo. Gli Stati, come gli uomini, devono trovare le proprie strade per l’ordine, la giustizia e la libertà. Di solito quei percorsi sono antichi e tortuosi e le loro indicazioni sono Autorità, Tradizione, Prescrizione».

Quindi, ha messo in guardia contro coloro che “immaginano che la politica estera possa essere condotta con zelo religioso, sulla base di un diritto assoluto e di un torto assoluto”. Naturalmente, questo non accade perché il bene e il male non contano in politica, o che noi dovrebbe abiurare qualsiasi tipo di nozioni religiose. Anzi. Come disse in un altro discorso della Heritage Foundation nel 1991, trattando la Guerra del Golfo:

“Il sangue di un uomo non dovrebbe mai essere versato, se non per redimere il sangue dell’uomo”, ha scritto Burke nella sua prima Lettera su una pace regicida. «È giustamente versato per la nostra famiglia, per i nostri amici, per il nostro Dio, per il nostro paese, per la nostra specie. Il resto è vanità; il resto è crimine». Burke desiderava che l’Inghilterra dichiarasse guerra alla Francia a causa della minaccia dei rivoluzionari francesi all’ordine civile dell’Europa, e a causa dei loro crimini sistematici. Ma si è posto contro la guerra per mero vantaggio commerciale. Così dovrebbero fare i repubblicani. “Il resto è vanità; il resto è crimine”.

Il problema a proposito degli interventi, spiega Kirk, è che non possiamo redimere gli uomini, che vivono nel paese che invadiamo, perché non accettano la nostra definizione di redenzione. Non abbiamo speranza, quando vogliamo imporre le nostre nozioni liberali e laiciste di bene e male ad una nazione musulmana fondamentalista come l’Afghanistan, o una nazione mezzo stalinista/mezzo ortodossa come la Russia. Dovremmo aiutare quei popoli a percorrere la loro strada verso l’ordine, la giustizia e la libertà, ma solo se siamo pronti ad accettare le loro nozioni di autorità, tradizione e prescrizione. Altrimenti, intervenendo causeremo a loro (e a noi stessi) solo danni maggiori.

Il conservatorismo di Russell Kirk non ha molti tratti in comune con il Partito Repubblicano o i media di centro-destra del 2019. Che lo vogliano o meno, i conservatori moderni leggono Kirk in modo selettivo, scegliendo solo quelle citazioni o idee che concretizzano il consenso reaganiano. Naturalmente, si può concludere che Kirk aveva torto e Buckley (o Hayek o Strauss) aveva ragione. Non voglio dire che qualcuno di questi possa essere un argomento per il conservatorismo kirkiano. Né voglio sostenere che la parola “conservatorismo” sia appannaggio dei Kirkiani e quindi non dovrebbe essere usata dai seguaci di Buckley, o di Hayek o di Straussi.

Vorrei solo lasciare che Kirk parlasse per sé stesso per una volta. Dopo cento anni, credo che si sia guadagnato questo diritto. Certo, è semplicemente allettante indorare le nostre idee con il suo prodigioso capitale intellettuale, specialmente ora che è morto. Ma forse dovremmo chiederci: se lo rispettiamo abbastanza da invocare il suo nome e citare i suoi libri, non sarebbe saggio considerare la sua filosofia in toto? Avendo trascorso così tanti anni a scavare i suoi capitoli e saggi per cavarne citazioni prima di riporli con reverenza sul ripiano più alto, non gli dobbiamo un’adeguata lettura?

Non si può nutrire molta fiducia nel fatto che i conservatori più anziani siano ora disposti a riconsiderare i loro punti di vista, anche se hanno avuto il tempo di rimuovere i loro occhiali a strisce e di leggere da cima a fondo The Conservative Mind. Non è tanto una riflessione su quei conservatori quanto sulla natura umana, e la flemma della vecchiaia è solitamente una delle sue virtù.

Ma, per fortuna, un numero impressionante di Millennials[5] sta cadendo sotto l’influenza di Kirk il radicale, Kirk il dissidente. Il mio amico Jeff Cimmino ha pubblicato un rapporto su National Review nel 2017, che descrive i “giovani conservatori anti-libertari” che sono “sempre più importanti in alcuni campus universitari”. Questi tradizionalisti della prossima generazione si stanno alimentando del pensiero di Kirk, Edmund Burke, Tommaso d’Aquino, G.K. Chesterton e C.S. Lewis. «Sono l’avanguardia di una nuova generazione che sta di traverso alla storia -dichiara Cimmino- cercando di riorientare gli americani verso idee e ideali che nutrono l’intera persona: comunità, verità, bontà e bellezza».

Quello che mi ha colpito di più del pezzo, tuttavia, è stata l’osservazione di Cimmino del fatto che la Catholic University of America invia ogni anno un gruppo di persone a St. Mary Mother of God, a Washington, DC, per la festa del Beato Carlo d’Austria, l’ultimo imperatore asburgico. La festa del Beato Carlo nella Old St. Mary è stata la prima messa in latino a cui abbia mai partecipato. Era il 2013, quando ci sono andato in qualità di presidente dei Monarchici del George Washington University College. Si potrebbe dire che eravamo stati fra la prima ondata dei nuovi tradizionalisti.

Poi, quando ho continuato i miei studi all’Università di Sydney, ho subito trovato un’altra cellula di giovani che si professavano Burkeani, che sono diventati miei amici duraturi. Uno del nostro gruppo sta raccogliendo saggi per un libro sul conservatorismo tradizionalista, che sarà pubblicato dalla Connor Court Publishing, la più grande casa editrice di centro-destra. Fra i contributori troviamo l’ex primo ministro Tony Abbott e l’editorialista di Mail on Sunday Peter Hitchens, anche se la maggior parte dei contributori sono Millennials.

Non ho trascorso abbastanza tempo in Gran Bretagna per sapere se questa tendenza sia rilevabile anche nel Regno Unito, ma ho il forte sospetto che sia così. Chiunque abbia dimestichezza con i social media sa che High Tories come Hitchens, Jacob Rees-Mogg e Sir Roger Scruton hanno un seguito enorme tra i giovani attivisti conservatori.

Quindi, da dove viene questo rinascimento tradizionalista?

La mia generazione ha visto l’Occidente annichilito dal consumismo, dalle leggi lassiste sul divorzio, dalla Rivoluzione sessuale, dall’esternalizzazione, dall’urbanizzazione e dalla centralizzazione. Tutti questi motivi sono accettati (anche se a malincuore) dai moderni conservatori come “il prezzo che dobbiamo pagare” per vivere in un paese libero e prospero. Hanno torto. La libertà senza moralità è semplice licenza; la prosperità senza amore è semplice decadenza. Il tradizionalista rifiuta entrambe le perversioni mentre sostiene il Bene essenziale che essi distorcono.

Per citare Burke: «Il governo è un espediente della saggezza umana per provvedere ai desideri umani». E che cosa vogliono i tradizionalisti della generazione dei Millennials? Amicizia, famiglia, comunità, un’onesta giornata di lavoro, musica vera, buoni libri e soprattutto Dio. Kirk lo riassunse molto bene quando disse che “i conservatori affermano che la società è una comunità di anime, che unisce i trapassati, i vivi e i non ancora nati. Essa è coerente con ciò che Aristotele diceva ‘amicizia’ e i cristiani chiamano ‘amore del prossimo’”.

Questa è la visione radicale che Kirk ha contrapposto ai “sogni dell’avarizia” condivisi da socialisti, progressisti e libertari. Questa è ciò per cui un tempo i conservatori hanno combattuto. Abbiamo abdicato a questo dovere nei decenni successivi alla morte di Kirk, ma una nuova generazione di conservatori sta ora riprendendo la lotta.

 

Dr. Russell Amos Kirk, è ancora una volta il tuo tempo.

 

Requiescat in Pace

Michael Warren Davis

Traduzione e note di

Fernando Di Mieri


[1] Esponente del Partito Repubblicano, è stato sconfitto da Johnson alle presidenziali del 1964.

[2] Soprannome di R. Reagan, derivato dalla sua interpretazione cinematografica del giocatore di base-ball George Gipp. Reagan fece diventare uno slogan l’espressione “Win one for the Gipper”.

[3] Romani, 6, 16-18.

[4] Sostenitore dell’ America First Party (1944), di indirizzo politicamente isolazionista.

[5] Millennials è un termine per indicare la generazione nata fra la metà degli anni Ottanta e gli inizi del Terzo Millennio. In un’accezione più ampia indica le nuove generazioni.

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La vera storia dell’impresa dei mille 7/ La disinformazione: gli inglesi inventano le ‘rivolte’ contro i Borbone

Posted by on Mag 3, 2019

La vera storia dell’impresa dei mille 7/ La disinformazione: gli inglesi inventano le ‘rivolte’ contro i Borbone

Oggi cominciamo a entrare nel cuore di quel grande imbroglio passato alla storia come ‘impresa dei Mille’. Quando i Mille sbarcano a Marsala non c’era alcuna rivolta contro il regno del Borbone. Ma i giornali internazionali – guidati dai disinformatori inglesi (quelli del ‘giornalismo anglosassone’…) – raccontavano un sacco di frottole. Un po’ come oggi certi giornali scrivono le panzane per denigrare il Movimento 5 Stelle. O come la disinformazione sulle stragi di Stato

di Giuseppe Scianò

Va avanti la realizzazione del progetto Inglese di unificare l’Italia dalle Alpi al Mediterraneo – Il Rosada pone un quesito a proposito dello sbarco dei Mille a Marsala dell’11 maggio 1860:

“Il dilemma in cui lo sbarco di Marsala aveva posto il Gabinetto britannico non era invero di facile soluzione. Era più conveniente agli interessi europei e mediterranei dell’Inghilterra favorire con l’unificazione dell’intera penisola, la formazione di un forte Stato nazionale, in grado di emanciparsi gradualmente dall’influenza francese, o difendere l’autonomia del Mezzogiorno con le consuete armi di un’aggressiva ‘Gunboat diplomacy’, sperimentata ancora una volta all’inizio dell’anno nella guerra Ispano-Marocchina, per ottenere a suo tempo da un indebolito e più docile Governo di Napoli l’assenso al distacco più o meno larvato della Sicilia dal Regno e al suo passaggio nella sfera d’influenza inglese?”.

Il Rosada stesso risponde:

“L’Inghilterra, com’è noto, scelse la prima strada, timorosa che sul trono di Napoli potesse salire il candidato ‘in pectore’ di Napoleone III, Luciano Murat; ciò che avrebbe riportato i rapporti di forza in Mediterraneo al punto in cui si trovavano nel 1808, all’apogeo dell’Impero napoleonico” (7).

Insomma il Rosada conferma in toto – e ne dimostra la fondatezza e l’attualità – l’esistenza di un pericolo francese che tende a minacciare la supremazia britannica nel Mediterraneo. Conferma così anche le previsioni del Ministro di Francesco II, Carlo Filangieri di Satriano, che però nutriva soprattutto la preoccupazione che l’Inghilterra brigasse molto per restituire alla Sicilia la propria indipendenza, attraverso il distacco dal Regno delle Due Sicilie.

Il Filangieri, infatti, aveva scritto a Francesco II, qualche tempo prima, riferendogli del suo colloquio con il Cien Roguet, inviato personale dell’Imperatore dei francesi Napoleone III, la lettera datata 1 ottobre 1859, della quale il Rosada ha riportato il passo essenziale.

“…Mi chiese poi notizie della Sicilia, ed io senza misteri gli accennai gli scandalosi intrighi degli Inglesi, che fomentavano in tutta l’isola i disordini ed il malcontento contro il provvido Governo di V.M. per promuovervi una esplosione, come quella del 1848, tendente alla separazione dell’isola dal Reame di Napoli nel che riuscendo manovrerebbero in modo da farla cadere sotto il protettorato o almeno sotto l’esclusiva loro influenza, ed allora scoppiando una guerra fra i due colossi occidentali il Mediterraneo, invece di essere un lago francese, come lo vollero Luigi XIV ed i suoi successori, diventerebbe un lago inglese, protetto da Gibilterra, Malta, Corfù, Messina, Augusta, Siracusa, che sono i più belli porti d’Europa…» (8).

Il Rosada, dopo aver riportato la lettera e fatto una panoramica dei tentativi di «Napoleone il piccolo» (la definizione non è nostra, ma di Victor Hugo) di inserirsi nella Penisola italiana, in contemporanea con la sottrazione di quest’area all’influenza austriaca, aggiunge:

“Nel marzo del ’60, la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, necessario compenso per l’acquiescenza di Napoleone III alle annessioni nell’Italia centrale, ridestava in Palmerston la vecchia diffidenza per i nebulosi sogni di Renovatio Imperi del nipote del grande Napoleone, appena sopita dalla stipula del trattato di commercio franco-inglese del 23 gennaio precedente”.

E dopo qualche altra osservazione, altrettanto acuta, il Rosada afferma:

“Di qui la seconda missione siciliana del Mundy, il cui tipico carattere politico-militare l’Ammiraglio cerca invano di velare con lo stesso ripetuto pretesto della protezione a proprietà britanniche, che nessuno minacciava. […] Nelle acque siciliane tra il Mundy e il suo collega francese, Barbier De Tinan, come dodici anni prima tra i loro predecessori, Parker e Baudin, si riaccendeva il vecchio contrasto franco-inglese per la supremazia nel Mediterraneo, di cui l’isola costituiva una posizione chiave” (9).

In verità – ci permettiamo di dire – la flotta francese fece poco e niente: creò false illusioni e lasciò tutta l’iniziativa agli Inglesi. Cosa, questa, che vedremo assieme fra non molto.

Il Governo di Londra non improvvisa: ha già deciso e calcolato tutto.
Un momento di approfondimento…

Apprezziamo le osservazioni del Rosada, ma crediamo che egli abbia collocato nel maggio 1860 la decisione inglese di sciogliere ogni riserva e di passare decisamente alla costituzione di un grande Stato Italiano esteso dalle Alpi al Mediterraneo, nel quale fossero fagocitati ed inglobati, al più presto (anche a costo di intervenire con la forza), tutto il territorio del Regno delle Due Sicilie e le popolazioni che lo costituivano. Insomma, ci è sembrato che il Rosada sostenga che la spedizione dei Mille e lo sbarco di Marsala abbia fatto precipitare in senso unitario ed italo-sabaudo le scelte politiche della Gran Bretagna.

Il dubbio ci obbliga a esporre, con chiarezza, quella che invece è la nostra opinione. Per sostenere la quale non mancheremo di avvalerci anche della rappresentazione contestuale, puntuale e fornisce lo stesso Rosada.

Riteniamo, infatti, che il Gabinetto Inglese avesse già preso, da tempo, ogni decisione in proposito. Ancora prima cioè che l’idea della Spedizione avesse preso corpo. Un’idea alla quale l’Inghilterra dava sin dall’inizio il proprio contributo. Si pensi alla «patente per Malta» della quale ci ha parlato il Cantù (10).

I sintomi sono moltissimi. Ne citiamo alcuni relativi proprio alla Spedizione dei Mille. Intanto la Spedizione fu etichettata, fin dall’inizio, con il motto Italia e Vittorio Emanuele. E non certo per lasciare contento il Re Sabaudo, beneficiario del tutto, ma per dichiarare esplicitamente l’obbedienza al disegno inglese, senza lasciare spazio ad equivoci o ad imprevisti. Va considerato, infatti, che Garibaldi, nello stesso momento in cui partiva la Spedizione, aveva già inviato il seguente messaggio, probabilmente costruito dalla diplomazia anglo-piemontese, al Re di Sardegna (Piemonte), futuro Re d’Italia, Vittorio Emanuele II.

“Sire! Il grido di aiuto che parte dalla Sicilia ha toccato il mio cuore e quello di parecchie centinaia di miei antichi soldati. Io non ho consigliata l’insurrezione dei miei fratelli di Sicilia, ma dacché essi si son levati in nome dell’unità d’Italia rappresentata in nome di V. M., contro la più vergognosa tirannia dei nostri tempi, io non ho esitato a farmi capo della spedizione. So che l’impresa in cui mi metto è pericolosa; ma io confido in Dio e nel coraggio e nella devozione dei compagni. Il nostro grido di guerra sarà sempre: ‘Viva l’Italia, Viva Vittorio Emanuele suo primo e più prode soldato!’ Ove noi avessimo a soccombere, io spero che l’Italia e l’Europa libera non dimenticheranno che quest’impresa è stata ispirata dal più generoso sentimento di patriottismo. Se vinceremo io avrò il vanto di adornare la Corona di V. M. d’un nuovo e forse più splendido gioiello, a sola condizione però che Ella non permetterà che i suoi consiglieri lo trasmettano agli stranieri, come hanno fatto della mia città natale. Non ho comunicato il mio progetto a V. M. perché temevo che la grande devozione che io sento per Lei, mi avesse persuaso ad abbandonarlo. G. Garibaldi”.

Certamente fu messa in moto la consueta manfrina con la quale, offendendo l’intelligenza dei contemporanei e dei posteri, si volle far credere che Vittorio Emanuele II ed il Governo Cavour fossero, poveretti, all’oscuro di tutto. Se fosse stato vero, sarebbero stati gli unici di quel regno.

E anche questa fu una finezza britannica, recitata male in italiano. Ma di fatto millantata ed opportunamente strumentalizzata.

Rimane comunque evidente la caratterizzazione in senso unitario e monarchico della spedizione, così come pretendeva il Gabinetto Palmerston.
Anche la notizia (che venne ripetuta ad ogni piè sospinto e che avrebbe fatto indignare, per la sua falsità, financo due Garibaldini come il Bandi ed il Nievo) secondo la quale i Siciliani sarebbero stati in piena rivolta (perché impazienti di ottenere l’Unità d’Italia con il suo Re Vittorio Emanuele), rientrava nella particolare attenzione che l’Inghilterra, come sempre, dedicava agli umori dell’opinione pubblica, non solo di casa propria.

Non mancò, infine – e questa, sì, tipicamente italiana – quella dichiarazione, apparentemente ruffianesca, già sopra riportata, con la quale l’Eroe Nizzardo dichiarava di volere adornare di un nuovo e splendido
gioiello la corona del Re Galantuomo…

Di fatto Garibaldi riproponeva la centralità del suo ruolo personale
nell’operazione Conquista del Sud. Non si contentava infatti della parte di mosca cocchiera tra mosche cocchiere. Era infatti lui, Peppino Garibaldi, che avrebbe donato al Re Sabaudo l’ex Regno delle Due Sicilie e che voleva essere il protagonista principale dell’impresa in corso.

Il Governo Britannico e l’opinione pubblica internazionale – Ribadiamo che gli Inglesi avevano preparato lungamente il terreno. Senza questa preparazione la Spedizione non avrebbe avuto la benché minima speranza di successo.

Si pensi alla corruzione degli alti gradi dell’Esercito e della Marina del Regno delle Due Sicilie. Si pensi ai contatti con la mafia, la ’ndrangheta, la camorra. Si pensi al lavorìo, più raffinato, della Massoneria. Si pensi alle truppe mercenarie che alla data del 5 maggio 1860 (ed anche da prima) erano state nella stragrande maggioranza finanziate, addestrate e mobilitate in varie località dell’Europa e probabilmente dell’Africa.

Tutte cose che non si possono preparare dall’oggi al domani. E non parliamo della messa in riga dei repubblicani, i quali non sono certamente quella decina di sprovveduti della bassa forza, che avrebbero protestato nel momento iniziale della spedizione. Ci riferiamo ai repubblicani illustri, che erano stati già ospitati – e forse foraggiati – per anni ed anni, in Inghilterra.
E che ora non potevano dire di no.

Non parliamo neppure dei giornali, dei finanziamenti, delle congiure, delle sommosse e delle rivolte, incoraggiate tramite servizi segreti e persone di fiducia. Rivolte spesso inconsistenti, ma sempre utili per la propaganda.
Non solo: proprio in questo momento delicato davano preziosi frutti le campagne di stampa e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica contro quelle belve dei Borbone, spergiuri, tiranni, vampiri ed assassini.

Campagne propagandistiche preparate nel tempo dagli Inglesi. Il Governo di Londra peraltro continuava a fare pubblicare giornali e libri che esaltavano i regnanti di Casa Savoia come angioletti benefattori. Gli Inglesi mentivano nell’uno e nell’altro caso. Dobbiamo peraltro dire che, se qualche grossa accusa di spergiuro (nei confronti della Sicilia, soprattutto, e della sua Costituzione) si poteva rivolgere ai Borbone, senza dubbio maggiori erano le accuse che si sarebbero dovute rivolgere ai Savoia, già dal primo momento dell’operazione Conquista della Sicilia.

Ma queste cose l’opinione pubblica internazionale non aveva modo di conoscerle, se non approssimativamente. Vinceva la disinformazione accuratamente pilotata dal Governo di Londra per coinvolgere l’opinione pubblica internazionale a favore di una conquista militare che mirava ad occupare, a conquistare, a distruggere, a colonizzare, a depredare e a denazionalizzare il Regno delle Due Sicilie ed i Popoli del Sud. Quello Siciliano soprattutto anche per la centralità geografica nel Mediterraneo della stessa Sicilia.

Il ‘padre della Patria siciliana’, Ruggero Settimo, dov’era? – Ben pochi pensano o sanno – a proposito di disinformazione – che Ruggero Settimo, il leader carismatico dell’Indipendentismo Siciliano, era formalmente un rifugiato politico nell’isola di Malta, sotto tutela della Gran Bretagna. In verità era stato letteralmente congelato per non disturbare i lavori in corso.

Eppure, il 26 settembre 1849, poco dopo la conclusione della tragica, sfortunata, ma gloriosa rivoluzione indipendentistica e della breve ma significativa vita dello Stato Siciliano (11 gennaio 1848 – 15 maggio 1849), Ruggero Settimo era stato accolto, a La Valletta, con gli onori dovuti ad un Capo di Stato. E come tale fu trattato. Fatto, questo, che è ben conosciuto da coloro che hanno studiato le vicende siciliane del biennio 1848-1849.

Ma nel 1860 Ruggero Settimo era diventato a poco a poco un prigioniero – seppure in gabbia dorata – del Governo Inglese. Il quale ormai non voleva sentire più parlare di indipendenza siciliana ed era amico soltanto di coloro che erano disposti a lavorare per l’annessione della Sicilia al futuro Regno d’Italia.

Kermesse britannica? Sì, ma per scoraggiare gli altri Stati – Certamente, dopo lo Sbarco dei Mille – uno sbarco impasticciato dal piroscafo garibaldino ‘Lombardo’, che si sarebbe addirittura incagliato da solo nel basso fondale – gli Inglesi capirono che dovevano stare con gli occhi bene aperti. Dovevano infatti condurre manu manuzza, come si dice in Sicilia, tutta l’operazione conquista del Sud. Non bastava avere preparato le condizioni necessarie, bisognava intervenire più direttamente. Non solo nello Sbarco e nel dopo Sbarco, ma in tutta l’operazione Unità d’Italia.

Sarebbe stato, quindi, dominante il sistema delle interferenze britanniche, che erano una garanzia di costante ed autorevole protezione. Ad ogni costo e a tempo pieno. Il tutto mentre le ‘mosche cocchiere’ si accingevano a diventare Padri della Patria italiana.

Ciò, senza nulla togliere ai veri idealisti unitari, che pure vi furono (ma non nella misura e nella qualità dei colleghi dell’Italia centro-settentrionale). Pensiamo ad esempio ai fratelli Cairoli, dei quali, nelle vicende risorgimentali, ne morirono quattro su cinque. Tutti eroi (11). E senza pericolo di confonderli con le ‘mosche cocchiere’ che, spesso, non ebbero neppure l’onestà di svolgere con la dovuta professionalità e con correttezza il loro ruolo. Queste, peraltro, avrebbero ricevuto molto di più, di quello che avrebbero meritato, in termini morali e materiali.

Come distruggere le aspettative indipendentiste dei Siciliani – I fatti successivi dimostreranno ulteriormente la esattezza della tesi, secondo la quale, dall’inizio alla fine, l’operazione Unità d’Italia del 1860 era il risultato di un lavoro avviato da diversi decenni dagli Inglesi. E l’operazione, proprio per la esigenza di creare un unico grande Stato Italiano, escludeva a priori qualsiasi altro progetto che rispettasse le esigenze della Nazione Siciliana, del Popolo Siciliano. Nessuna speranza di sopravvivenza o di rinascita del Regno di Sicilia (o del Regno di Napoli e, neppure, del Regno delle Due Sicilie). Insomma: Regnum utriusque Siciliae delendum est.

L’Inghilterra impone le proprie scelte in campo internazionale –
Poniamo un altro interrogativo:

“A parte il Papa Pio IX, chi realmente si opponeva al disegno Inglese?”.

Di fatto nessuno, soprattutto dal punto di vista militare. Neppure i Paesi che avevano interessi contrastanti con quelli dell’Impero della Regina Vittoria. Questi Stati non avevano in quel momento le forze, i mezzi ed il coraggio sufficienti a neutralizzare le azioni del Leone Britannico.

L’opposizione del Papa, inoltre, sul piano militare era inconsistente. Pio IX, infatti, senza l’appoggio di guarnigioni straniere, non poteva neppure salvaguardare i confini del proprio Stato, che infatti erano stati già nel 1860, ed anche prima, pesantemente violati ed anche spostati, ad ogni piè sospinto, soprattutto per opera del Governo Sabaudo di Torino.

Sostanzialmente contrari all’egemonia ed all’espansionismo britannico erano soprattutto, oltre alla Francia (della quale il Rosada ha parlato ampiamente), Prussia, Austria e Russia. Paesi verso i quali il Regno delle Due Sicilie, a prescindere dalle simpatie politiche e dalle affinità ideologico-culturali dei rispettivi governanti, aveva in corso una serie di trattati commerciali e di scambi destinati a svilupparsi ulteriormente. Ovviamente se lasciati indisturbati. Fossero rimasti o no i Borbone sul trono di Napoli.

All’Inghilterra tutto ciò dava fastidio, perché vedeva minacciati i propri monopoli e sapeva bene che, dietro i commerci, sarebbe potuta crescere l’influenza politica. Si pensi al fatto che in Sicilia erano presenti alcuni Consolati Russi, tanti erano i rapporti commerciali e gli scambi di ogni tipo.

Purtroppo i Paesi – contro i quali pure si muoveva pesantemente la strategia dell’Inghilterra – avevano preferito la linea morbida, pensando a torto di imbuonire la Potenza Britannica non contrariandola troppo apertamente. Ed avevano anche agito ciascuno per conto proprio, senza neppure tentare una strategia comune. Il terrore di subire ritorsioni da parte del Leone Britannico aveva bloccato e continuava a ‘bloccare’ tutti.

Ammettiamo, quindi, senza timore di smentita, che nell’Europa e nel mondo, nel 1860, solo l’Inghilterra era nelle condizioni di dettare legge e di ridisegnare confini ed equilibri internazionali. E per il Regno d’Italia aveva già disegnato, appunto, uno Stato monolitico ed accentratore ed un territorio che andasse dalle Alpi al cuore del Mediterraneo, isole comprese. Povera Sicilia!

Torino. Numerosi «esuli Siciliani» vengono strumentalizzati e coinvolti nella strategia dell’occupazione della Sicilia, abbandonando spesso gli ideali che avevano animato la lotta per l’indipendenza della Sicilia nel biennio 1848-1849.

Una volta che tutto il Regno delle Due Sicilie fosse stato sacrificato a favore del costituendo Regno d’Italia ed una volta che quest’ultimo fosse rimasto legato all’Inghilterra da vincoli di gratitudine, di amicizia e, soprattutto, di interessi (e ne fosse diventato quasi uno stato vassallo), che motivazioni sarebbero più esistite per il Governo Britannico per agevolare
– o solamente per non ostacolare – l’indipendenza della Sicilia?

Risposta: ‘Nessuna!’.

Piuttosto esisteva tutto l’interesse per fare l’esatto contrario. E cioè: impedirne l’indipendenza. Ed accorpare la Sicilia allo Stivale. Da questa situazione sarebbe partita anche l’operazione di travasare nelle manovre per realizzare l’Unità d’Italia gli esuli Siciliani, che, a seguito della restaurazione borbonica del 1849, si erano trasferiti nel Regno Sabaudo. Qui, tutti o quasi, quegli esuli avevano ricevuto onori, incarichi prestigiosi e prebende di vario tipo. Era avvenuto così, che buona parte degli esuli Siciliani fosse diventata unitaria e filo-sabauda. Una pagina nera per l’Indipendentismo Siciliano, che però non coinvolse proprio tutti gli esuli. Alcuni di questi rifiutarono, infatti, incarichi e prebende e, seppure con prudenza, continuarono a difendere le ragioni e i diritti della Nazione Siciliana. Senza fortuna.

L’Imperatore Napoleone III, da parte sua, capì troppo tardi quanto stava accadendo in Italia e che il progetto inglese mirava, sì, a distruggere la dinastia borbonica e le sue ramificazioni, ma mirava, nel tempo, a distruggere anche la dinastia dei Bonaparte ed il rinato nazionalismo francese.

Dice Giorgio Dell’Arti: “I francesi temevano nuovi ingrandimenti territoriali del Piemonte e la formazione di un Regno d’Italia talmente forte che sarebbe stato impossibile influenzarlo. Tentarono di convincere gli Inglesi a fare causa comune per evitare annessioni. Ma Palmerston voleva un Regno d’Italia forte a quel modo» (12) che danneggiasse con la sua esistenza anche la Francia… (n.d.A.).

Napoleone III, come abbiamo visto, era un grande ammiratore dell’operato del Governo di Londra, ma non aveva ancora ben capito che l’Inghilterra lo detestava. Né aveva mai nutrito il sospetto che quando e se (dopo meno di dieci anni da quei fatti) il suo Impero fosse stato mandato a gambe all’aria dalla Prussia, gli Inglesi avrebbero provveduto a fare altrettanto, se non peggio, proprio con il discendente di Bonaparte. Ed in modo molto più scientifico.

L’ingenuità di Napoleone III fu tale e tanta che la collaborazione con la Gran Bretagna, seppure con qualche riserva mentale, sarebbe continuata a lungo e si sarebbe estesa anche al Medio e lontano Oriente. A tutto vantaggio della furba Albione, ovviamente.

E le navi straniere nel porto di Palermo… stanno a guardare! – 
Subito dopo lo sbarco di Marsala, Turchia, Francia, Austria, Piemonte, Portogallo, Spagna, Stati Uniti d’America, ed altri Stati avrebbero mandato navi militari in Sicilia, soprattutto nei porti di Palermo e di Messina. Il pretesto ufficiale era che queste dovevano vigilare sulla sicurezza personale e sui beni dei rispettivi cittadini, che nessuno minacciava. Lasciavano, cioè, libera l’Inghilterra di fare ciò che voleva.

E a Palermo si sarebbe recato anche il Contrammiraglio britannico
George Rodney Mundy a bordo dell’Ammiraglia Hannibal, scortato da
altre navi da guerra. Il Mundy era in assoluto l’Ammiraglio più importante e più rispettato fra i tanti comandanti di navi presenti. E, fra l’altro, continuava a giocare in casa, considerato che la Mediterranean Fleet di S.M. Britannica – fra le flotte che stazionavano in quel momento nel Mediterraneo – era la più potente. E la più presente nelle acque siciliane.

Fine della settima puntata/continua

(7) In G. R. Mundy, op. cit., introd. a cura di A. Rosada, pagg. 14 e 15.

(8) In G. R. Mundy, op. cit., pag. 13.

(9) In G. R. Mundy, op. cit., pagg. 14-15.

(10) C. Cantù, in Vittorio Casentino di Rondè, op. cit., pag. 183.

(11) I fratelli Cairoli erano cinque: Benedetto, Ernesto, Luigi, Enrico e Giovanni. Tutti parte- ciparono alle lotte per l’unità d’Italia. Il più grande, Benedetto (nato a Pavia nel 1825), sarebbe diventato Presidente del Consiglio dei Ministri nel 1878. Fu un ottimo combattente. Partecipò all’impresa dei Mille e fu ferito a Palermo. Come politico fu mediocre. Sopravvisse ai quattro fratelli morti, molto giovani, o in combattimento o a seguito di ferite o di malattie provocate dalla guerra. Benedetto, nel 1889, morì di morte naturale, a Capodimonte. Ernesto (nato nel 1832) si arruolò nei Cacciatori delle Alpi. Morì in combattimento nel corso della seconda guerra d’indipendenza a Biumo Inferiore nel 1859, a soli ventisette anni. Luigi, nato nel 1838, era topografo, matematico ed ufficiale dell’esercito piemontese. Partecipò all’impresa garibaldina con il Generale Coseni (seconda spedizione). Morì di tifo a Cosenza, stremato dalle fatiche del- la guerra di occupazione del Sud, nel 1860. Aveva ventotto anni. Enrico, nato nel 1840, studen- te in medicina, seguì i fratelli fra i Cacciatori delle Alpi e fra i Mille. Anch’egli fu ferito a Pa- lermo nel 1860. Partecipò a tutte le campagne di Garibaldi. Morì nel fallito tentativo di conqui- stare Roma, nel 1867, nello scontro di Villa Glori. Aveva appena ventisette anni. Giovanni fu il più giovane dei fratelli Cairoli, essendo nato

Fonte

https://www.inuovivespri.it/2019/01/19/la-vera-storia-dellimpresa-dei-mille-7-la-disinformazione-gli-inglesi-inventano-le-rivolte-contro-i-borbone/

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LA CALATA DEGLI OSTROGOTI di NICOLA ZITARA

Posted by on Gen 25, 2019

LA CALATA DEGLI OSTROGOTI di NICOLA ZITARA

La parola italianità significa, più o meno,  che qualcosa o qualcuno, per il suo atteggiarsi, porta i segni dell’appartenenza alla cultura, al costume, al carattere degli italiani. Ma l’Italia, il paese che detta agli uomini o alle cose il suo segno, qual è? Quella del Sud o quella del Nord? Perché, in effetti, è chiaro a tutti, che di Italie ce ne sono due: quella degli itagliani e quella dei taliani.

La confusione è cominciata al tempo di Roma repubblicana, allorché gli italici erano romani per i doveri militari e non lo erano per l’arricchimento provenienti dai saccheggi che illustrano (anche se non lo si dice) la civiltà romana. La confusione è andata così avanti che è difficile stabilire se furono i Romani a conquistare l’Italia o se furono gli Italici a conquistare Roma.

Comunque una certa alterità (o doppiezza) tra chi sta dentro l’Itaglia a pieno titolo e chi non possiede il titolo pieno, ma solo una specie di usufrutto, c’è sempre stata. Pensate al significato etnico e politico della frase “Temo i Greci e i doni che essi portano” (o quando portano doni. Esattamente: Timeo Danaos et dona ferentes), che circolava a Roma-urbe al tempo di Scipione l’Emiliano.

Ora, questi Greci della  frase erano essenzialmente taliani del Sud, i quali, vinti e sottomessi dai Romani, portavano doni ai vincitori e padroni, al fine di ingraziarseli in vista di un lavoro o di un favore (al tempo di Cicerone si diceva clientes, da cui l’itagliano clientela, in taliano ‘amici’). In buona sostanza, i Romani, non paghi di esercitare una padronanza sui Taliani, li giudicavano anche male.

La cosa si è ampiamente ripetuta dopo l’unità cavourrista. Raffaele Cadorna, intrepido generale milanese, nel 1866, assediò, bombardò, conquistò  e sottomise Palermo insorta contro l’unità. Nella sottostoria d’Itaglia, Palermo non fu la prima città bombardata, ma la seconda dopo Genova (dal grande Lamarmora Alfonso, inventore dei bersaglieri).

La quarta fu Gaeta (un tempo città, anche se oggi è un insignificante borgo taliano), la quarta Reggio Calabria, la quinta  – non appena Caldiroli avrà assunto il comando dello Stato Maggior Generale (ed anche Ammiraglio), sicuramente Napoli. Non tutta, però; solo quella abitata dai Taliani. Perché, come tutti sanno, a Napoli ci sono anche molti Itagliani (Bassolino, Jervolina, Pomicino, Mussolina, etc.). Il seguito si vedrà. Forse Augusta, forse Mazara del Vallo, forse Agrigento, non so.

Anche al tempo dell’eroico Cadorna c’erano ambivalenze italiche. Palermitani nemici della patria e palermitani patrioti. Leoluca Orlando Cascio non era ancora nato, ma viveva e operava un suo antenato e precursore come sindaco di una città (e forse antenato anche nel senso proprio di stipite familiare), il quale patriotticamente guidò la mafia nell’opera di liberazione della decaduta capitale federiciana, in ciò seguendo l’esempio del Generale Garibaldi, che pochi anni prima, alla testa di venti idealisti, 980 avanzi di galera, un assegno scoperto e 3000 mafiosi (per pudore detti ‘picciotti’, ancorché analfabeti e non capaci di capire altro se non il tintinnio delle piastre – chissà perché turche? – generosamente distribuite dai consoli inglesi di stanza), aveva liberato l’intera Sicilia dall’odiato Borbone.

Qualche decennio dopo, il  marchese Di Rudinì fu elevato per i suoi meriti a presidente del consiglio dei ministri itagliano e taliano, aprendo la strada a un mafioso più illustre ancora, un componente della seconda generazione di patrioti, il prof. Vittorio Emanuele Orlando,  presidente della vittoria nel 1918. 

Cornuti e mazziati, il nome dell’illustre guerriero, generale Cadorna,  ce lo ritroviamo nella toponomastica dei nostri paesi e città bombardate, insieme a quello del Generale Lamarmora, che non pago della carneficina di Genova, si esibì nella patriottica opera di liquidare i briganti taliani.

Leggo su Corriere Economia del 7 febbraio 2005 il fondo di Edoardo Segantini dal titolo “Quella cosa del Sud che nessuno vuole dire”.

A lettura fatta, mi resta da capire se sono taliano o itagliano. Infatti, io vivo immerso nella mafia, che sicuramente non è cosa italiana, in quanto l’italianità è definita dall’aeroporto della Malpensa, dall’EuroStar (non so se “E’ bello Star in Europa” o se Stella d’Europa), dalla Scala, da Giuseppe Verdi, da Maria Callas e, perché no, anche da Giovanni Verga e dall’Opera palermitana dei Pupi.

Tuttavia potrei anche essere itagliano anch’io, perché sono stato prima fascista e poi antifascista, subito dopo, forse per redimermi, ho fatto  l’emigrazione a Melano, sono transitato per Piazza Cairoli e accanto alla Scala, quando vi cantava la Callas e Toscanini vi dirigeva l’orchestra, e anche accanto  al Piccolo quando era guidato da Strehler. Insomma sono mezzo taliano e mezzo Itagliano. Ma non tutto Itagliano, come Segantini.      

La mafia è taliana e non conosce l’itagliano. E tuttavia intrattiene gran rapporti d’amicizia  con i banchieri e i costruttori di Milano, che, come ben si sa, sono Itagliani cosmopoliti (o forse Itagliani apolidi), comunque parlano una lingua EuroUNiversal).

Per combatterla, il collega Segantini suggerisce l’invio dell’esercito. Personalmente sono d’accordo. La  mafia, o la si vince militarmente o i vari De Gasperi, Einaudi, La Malfa, Saragat e i Comitati di Liberazione Alta e Bassa Italia continueranno a nasconderla nel sottoscala.

Resta il tema dei Dona Ferentes, dei regali o regalie (o anche sportule o tangenti, vulgo intrallazzi). Cioè il tema di Benetton, Zonin, Melagatti, Pelagatti, Filogatti, Carlusconi, Bruttusconi, Perlusconi, Merlusconi, Pittusconi, che stanno comprando le case a Ortigia e le terre viticole della mafiosa Sicilia, come insegna lo stesso numero di Corriere Economia in altra pagina. Quo vadis, Domine?  Questa è la strada maestra dell’itaglianità. Lo anticipai nel 1971, ma nessuno mi credette.

Predissi (L’unità d’Italia, nascita di una colonia) che per redimerci pienamente, gli avremmo venduto   la terra come i nostri megaellenici progenitori,  e portato doni che li avrebbero messi in sospetto. “Cu nesci, arrinesci”, chi va fuori fa fortuna, cita il Corriere. Stiamo nescendu, anzi nescsimu da 150 anni. Però non pensavo di vivere tanto da fare in tempo a vendere la casa avita a un Serluschese del Trecento. Ecce Domine!

PS. Secondo me, la perfetta talianità dei meridionali si ha con Totò Riina e con questo Cuffaro, di cui – chiedo scusa – mi sfugge il nome di battesimo. Quella degli Itagliani, di edificare dei taliani simili a loro è un pio e cavourristico proponimento, che mai potrà realizzarsi, perché la talianità è dell’Oriente mentre l’itaglianità è dell’Occidente. Se e quando i taliani si faranno anche loro le fabbriche, tutt’al più torneranno a essere come i Danaos prima che intraprendessero l’esercizio di portare doni, non mai Itagliani.

Perché c’è il risvolto dei Dona Ferentes. Anche questo in latino: Graecia capta ferum vincitore cepit, frase che tradotta a senso (storico) dice: i taliani – i quali non vollero combattere a loro difesa, e perciò noi Romani li abbiamo vinti e assoggettati – con i loro artifici (o altro) stanno mettendosi sotto gli Itagliani.  Le case, la terra, prendete anche questo. I nobili prediligono gli ambienti storici.

Senza il citato Cadorna, Giovanni Paolo II benedirebbe  i credenti dal balcone del Quirinale. Ma i preti, bene o male, furono pagati. A Napoli e in Sicilia, i sabaudi si beccarono non meno di una decina di regge, senza sborsare un centesimo. Il nostro lavoro se prendono già, pagandolo male. Il nostro sottosuolo è loro sin dal maledetto giorno dell’unità. Adesso anche le case, le spiagge, il sole, la terra. 

L’attuale caduta della capacità d’acquisto, per salariati e stipendiati, a questo mira. Ma il giorno in cui non vi porteremo più doni (forse) non è lontano.

Nicola Zitara

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Il primo Festival di Sanremo si chiamava Festival Napoletano

Posted by on Gen 23, 2019

Il primo Festival di Sanremo si chiamava Festival Napoletano

Il Festival di Sanremo ha segnato il punto di partenza, ma anche di arrivo, per la maggior parte dei cantanti e musicisti italiani che volevano fare della musica il loro pane quotidiano. Dal mitico Lucio Dalla alla giovanissima Mimì Bertè (Mia Martini), sono stati tantissimi i nomi dei cantanti annunciati al Festival della canzone italiana. Ma siamo sicuri che il Festival di Sanremo non abbia origini un po’ più meridionali?

Molto probabilmente i nonni napoletani ricorderanno con orgoglio la locandina del Festival Napoletano al Casinò Municipale di Sanremo che si svolse dal 24 dicembre 1931 al primo gennaio 1932. Il Festival Napoletano fu organizzato da un gruppo di poeti e musicisti provenienti da Napoli, con a capo Ernesto Murolo (padre di Roberto) ed Ernesto Tagliaferri, con lo scopo di esportare la canzone napoletana oltre i confini campani e del Sud, sperando vivamente di rilanciare questa musica in tutto il mondo.

Ernesto Murolo fu il direttore artistico, Ernesto Tagliaferri si occupò di dirigere l’orchestra ed i commenti musicali; i cantanti in gara erano delle voci già molto apprezzate. L’orchestra era unica (e non cambiava mai) e le canzoni in gara non erano inedite come oggi. Nella prima edizione del Festival Napoletano del 1932 le canzoni presentate erano la maggior parte una specie di tormentoni dell’epoca, ascoltate svariate volte ai festival minori ,come ad esempio quello di Piedigrotta, oppure anche dei grandi classici; chiaramente non mancava qualche pezzo nuovo scritto dal duo Murolo- Tagliaferri. I cantanti erano soliti danzare su delle coreografie in compagnia dei figuranti, spesso coreografie di danze popolari come la tarantella o la tammurriata.

Grazie alle sue importanti amicizie, Murolo riuscì a formare un nutrito cast di big canori, tra cui spiccavano i nomi di Nicola Maldacea, re indiscusso della macchietta e del Cafè Chantant; si racconta che fosse ossessionato dal gioco e che in quell’ occasione perse in poche ore alla roulette tutto suo il gettone d’ingaggio; Ada Bruges, una popstar italiana dell’epoca, proveniente da una trionfale tournèe americana; la ventiquattrenne Milly, una delle prime a fare il proprio debutto con la celluloide, Giorgio Schottler, famoso, in particolar modo, per aver duettato con Enrico Caruso; Ferdinando Rubino, un artista moderno, poiché si alternava tra musica, cinema e teatro; Vittorio Parisi, futuro insegnante di canto di Sergio Bruni. Fra i nomi illustri della sezione giovanile, invece, non si possono dimenticare Carlo Buti e Carmencita.

Oltre all’ottimo gruppo di cantanti, la direzione artistica si servì dell’intervento di sedici ballerini di tarantella, nonché del noto attore teatrale Salvatore De Muta, l’ultimo grande Pulcinella, che, insieme a sua moglie Rosa, recitarono dei brani di Pulcinella e Colombina. Napule ca se ne vaper certi versi un titolo alquanto profetico, chiuse la serata finale del Festival, tra gli applausi di un pubblico commosso.

L’edizione successiva si svolse a Lugano per poi tornare direttamente nel 1952 dopo la guerra con il nome di Festival di Napoli ( modificato in Festival della Canzone Napoletana, per ragioni televisive) ed andò addirittura in onda sulla Rai fino agli anni ’70. Un anno prima ci fu il debutto ufficiale del Festival di Sanremo.

Di seguito la lista dei cantanti in gara alla prima edizione del Festival Napoletano con le loro canzoni:

‘A frangesa                                    (Costa)                Ada Bruges

‘A pacchianella d’Uttaiano   (Capurro-Giannelli)      Carmencita

‘A surrentina                        (G.B. & E. De Curtis)     Milly – Armando Falconi

Adduormete cu’ mme         (Murolo-Tagliaferri)      Carlo Buti

Ammore canta                    (Murolo-Tagliaferri)      Vittorio Parisi

E ddoie catene                    (Murolo-Tagliaferri)      Carmencita

Funiculì funiculà                  (Turco-Denza)               Ferdinando Rubino

Int’a n’ora Dio lavora          (Murolo-Tagliaferri)       Clara Loredano – Pina Gioia – Lola Verbana

Lariulà                                 (Di Giacomo-Costa)       In coro tutto il cast

Marechiaro                         (Di Giacomo-Tosti)         Vittorio Parisi

Muntevergine                    (Cinquegrana-Valente)   Mario Pasqualillo – Ferdinando Rubino – Alfredo Sivoli

Napule                              (Murolo-Tagliaferri)         In coro tutto il cast

Napule ca se ne va           (Murolo-Tagliaferri)         Alfredo Sivoli

‘Nbraccio a mme              (Murolo-Tagliaferri)         Ferdinando Rubino

‘O cunto ‘e Mariarosa       (Murolo-Tagliaferri)         Ada Bruges

‘O paese d”o sole             (Bovio-D’Annibale)          In coro tutto il cast

‘O sole mio                       (Capurro-Di Capua)         Mario Massa

Paraviso e fuoco eterno   (Murolo-Tagliaferri)        Mario Pasqualillo

Serenatella amara            (Bovio-D’Annibale)         Giorgio Schottler

Torna a Surriento              (G.B. & E. De Curtis)        Vittorio Parisi – Ferdinando Rubino

Totonno ‘e Quagliarella    (Capurro)                        Arturo Gigliati

Ve chiammate                   (Murolo-Valente)           Nicola Maldacea – Milly

Voce ‘e chitarre                 (Murolo-Tagliaferri)         Clara Loredano

Disegno di Emanuel D. Picciano

fonte https://www.storienapoli.it/2018/08/04/il-primo-festival-di-sanremo-si-chiamava-festival-napoletano/

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REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA (III)

Posted by on Gen 15, 2019

REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA (III)

16 gennaio 1860 Francesco II compì ventiquattro anni, e fu grande festa in tutta Napoli; i sovrani accolsero la nobiltà borbonica a palazzo reale, e fu uno spettacolo di divise, grandi uniformi, fregi, ricchi abbigliamenti; ministri, alto clero, diplomatici stranieri; le carrozze della nobiltà fecero la spola tra i fastosi palazzi aviti e la piazza di palazzo reale.

Purtroppo i sovrani di Napoli erano circondati, anche in questa occasione, da una massa di cortigiani, funzionari, militari, uomini di governo ignoranti e incapaci, tutti pronti al tradimento.

Da questi emergeva un solo statista degno di rispetto, quel Carlo Filangeri che, deluso dalle circostanze, aveva abbandonato la barca del governo nel momento in cui si addensavano, paurosamente, le nuvole della tempesta. Maria Sofia, sul trono accanto a Francesco, era splendida, affascinante, la corona reale le riluceva sull’acconciatura dei capelli, opera del più rinomato parrucchiere napoletano, quel Totò Carafa, del quale si serviva la migliore aristocrazia del Regno.

Accanto alla regina sedeva l’ambasciatore di Spagna, don Salvador Bermudez de Castro, un hidalgo dai modesti natali che si era conquistato sui campi di battaglia il favore dei sovrani di Spagna, che lo avevano nominato marchese di Lema e ambasciatore presso il governo delle Due Sicilie. Bermudez de Castro era un uomo affascinante: appena quarantenne, aveva guadagnato l’amicizia incondizionata di Francesco e la simpatia piuttosto interessata della regina.

Le malelingue del tempo, compresa Maria Teresa, lo attribuirono come amante della regina, ma in realtà fra lo spagnolo e Maria Sofia ci fu solo una forte, leale e sincera amicizia, anche perché la regina di Napoli vedeva nel de Castro tutte quelle doti e virtù che avrebbe voluto trovare nel marito.

Il genetliaco del re fu anche l’occasione del varo a Castellammare di Stabia di una potente nave da guerra, la nuova fregata Borbone, che era armata con sessanta moderni cannoni. Una delle migliori navi a vapore del tempo, che andava a rinforzare la già potentissima squadra navale napoletana: la migliore nel bacino del Mediterraneo.

Nel porto di Napoli, una grande città di cinquecentomila abitanti, la quarta metropoli d’Europa, stavano ancorate le navi militari di molti Paesi: la Bretagne, ammiraglia della flotta francese; l’Algeciras, l’Imperial; le inglesi Hannibal, Agamemnon, London; pericolosa intrusa, anche l’ammiraglia della flotta del Regno di Piemonte e Sardegna: la Maria Adelaide, comandata dall’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, che ritroveremo nel mare all’assedio di Gaeta, e poi quale responsabile del disastro navale di Lissa nella guerra del 1866 contro l’Austria.

Fra le navi straniere la Borbone, con il suo gran pavese e i suoi lucidi cannoni schierati, faceva un bell’effetto. Ironia della sorte, la fregata, consegnata ai Piemontesi dal suo comandante traditore e ribattezzata Garibaldi, la ritroveremo con i suoi sessanta cannoni a sparare sulla piazzaforte di Gaeta contro quegli stessi carpentieri e marinai napoletani che l’avevano costruita e varata.

Frattanto gli eventi precipitavano: il Piemonte, dopo l’occupazione della Lombardia con l’appoggio militare francese, aveva conquistato tutta l’Italia centrale: Toscana, Emilia, Romagna (queste ultime terre sottratte allo Stato Pontificio) con il sistema dei plebisciti truccati.

Pio IX aveva comminato la scomunica agli usurpatori: questo atto della Chiesa aveva turbato profondamente il cattolico Francesco, che aveva rafforzato in sé la convinzione che i Piemontesi fossero i primi nemici della fede cristiana in Europa.

Nel marzo successivo giunsero dalla Sicilia i primi segni della crisi che avrebbe sconvolto e distrutto il Regno: le campane del convento della Gancia suonarono a martello annunziando lutti e sciagure. I servizi segreti napoletani avvisarono il re dei preparativi che Garibaldi andava effettuando in Liguria con il tacito consenso del governo sardo. Fu individuato anche il luogo dello sbarco: la Sicilia.

Maria Sofia, consapevole del pericolo più del marito, spinse il sovrano ad emanare disposizioni urgenti per fronteggiare l’imminente aggressione; il re allertò la flotta, concertò personalmente le misure di difesa per bloccare sul nascere l’impresa di Garibaldi.

La squadra navale napoletana era allora la più potente del bacino del Mediterraneo: comprendeva fra navi grosse e piccole 36 vascelli, fra cui 11 fregate (l’equivalente oggi dei moderni incrociatori); a capo della squadra navale era Luigi conte d’Aquila, zio del re.

L’esercito napoletano era il più potente di tutti gli Stati italiani: comprendeva 83.000 uomini bene armati e bene addestrati, senza contare i mercenari svizzeri e bavaresi, che costituivano il nocciolo duro di tutte le forze armate.

Impensabile, dunque, che 1072 borghesi guidati da Garibaldi potessero battere un siffatto esercito. Infatti, il gruppo capeggiato dall’eroe dei Due Mondi era costituito da professionisti: medici, avvocati, ingegneri, commercianti, capitani di marina mercantile, chimici; c’erano pure alcuni preti che avevano abbandonato da tempo l’abito talare.

I Siciliani erano 34:24 palermitani, 3 messinesi, 3 trapanesi, 1 catanese, e rispettivamente uno di Trabia, uno di Gratteri e Francesco Crispi, con la moglie Rosalia, di Castelvetrano.

A comandare l’esercito napoletano erano in tanti: Landi, Lanza, Nunziante, Clary; tutti incapaci, corrotti ed invidiosi l’uno dell’altro. Landi e Lanza erano addirittura ultrasettantenni e non erano più in grado di montare a cavallo: seguirono le operazioni militari in Sicilia seduti in carrozza! Pur tuttavia, se i due generali non fossero stati corrotti e inclini al tradimento, i garibaldini non sarebbero certo riusciti neanche a sbarcare.

Ma Landi, a Calatafimi, pur disponendo di una posizione strategica favorevole, le colline, e di una forza di 3000 uomini di truppa scelta, di un reggimento di cacciatori, di 20 pezzi di artiglieria, di una cavalleria forte di 1500 unità, si ritirò senza combattere, così come Lanza a Palermo consegnando la città a Garibaldi.

Quando giunse a Napoli la notizia che in Sicilia la situazione stava drammaticamente precipitando, la regina chiese a Francesco di intervenire personalmente e lo incitò a mettersi a capo delle truppe per combattere la sfiducia che serpeggiava fra i soldati, già consapevoli del tradimento dei loro generali. Maria Sofia consigliò con energia di fare arrestare Landi e Lanza e farli processare per alto tradimento.

Poi chiese che fosse richiamato a capo del governo il principe di Satriano, l’unico uomo politico in quel momento capace di padroneggiare la situazione che si andava profilando disastrosa.

Il principe di Satriano, convocato dal re, in un primo tempo declinò l’invito poiché l’età e le malattie legate alla vecchiaia non gli consentivano di adempiere con la solita premura ed attenzione all’incarico di primo ministro; cedette poi alle insistenti richieste di Maria Sofia, che si recò di persona nella villa di campagna dove il principe si era ritirato da tempo.

Filangeri dettò subito le sue condizioni, previa accettazione del suo incarico di primo ministro: proclamazione immediata della Costituzione, invio di un contingente di 40.000 uomini a Messina, che dovevano essere guidati dallo stesso re. A queste condizioni, il vecchio generale era disposto ad assumere la carica di Capo di Stato Maggiore.

La regina rinnovò con entusiasmo la sua disponibilità a cavalcare accanto al re, alla testa dei soldati, ma Francesco, sempre dubbioso ed esitante, non si mostrò favorevole alle proposte del principe di Satriano, anche perché la Corte, controllata da Maria Teresa, non vedeva di buon grado la concessione della Costituzione.

Filangeri, deluso ed amareggiato dall’atteggiamento del re, declinò il suo incarico e, sollevato, se ne tornò nella sua residenza di campagna. Furono contattati i generali Ischitella e Nunziante perché assumessero il comando supremo in Sicilia, ma essi rifiutarono.

L’alto incarico fu affidato, pertanto, al generale Ferdinando Lanza.
Francesco II, su consiglio di Maria Sofia, inviò ai comandi di Sicilia delle direttive precise ed avvedute, purtroppo disattese da comandanti incapaci di applicarle, o per inefficienza, insipienza, o per serpeggiante tradimento.

La regina continuò ad insistere affinché il marito concedesse la Costituzione, malgrado l’ostilità aperta della regina madre e di tutta la corte filoaustriaca. Segretamente trattò col Papa, e lo convinse ad inviare una lettera al re di Napoli. Il dispaccio di Pio IX giunse nella reggia di Caserta il 24 maggio 1860.

La parola del Papa fu per il re di Napoli verbo divino, anche perché il Pontefice lo esortava a non fidarsi troppo dei Savoia e di un Piemonte abilmente padroneggiato da Cavour.

Il re convocò i ministri e il Consiglio di Famiglia, ed espose fermamente la sua intenzione, scatenando la fiera opposizione di Maria Teresa, che lo accusò di mancanza di coraggio, di insensibilità e di aver ceduto alle intimazioni dei cugini sabaudi.

La sfuriata della regina madre mortificò il timido Francesco, che piegò il capo in silenzio senza reagire; reagì, pesantemente, invece Maria Sofia, che rintuzzò con orgoglio e fierezza le parole dell’ex regina ingiungendole con dura voce, appena frenata dalla rabbia, di rispettare il re e di piegare il capo dinanzi alla volontà sovrana. In quel frangente, Maria Sofia si comportò da vera regina dimostrando, ancora una volta, il suo carattere deciso e fermo e la piena lealtà che la legava al marito.

Quel giorno stesso Francesco II promulgò l’atto sovrano di concessione della Costituzione. Ma questa decisione ormai tardiva non suscitò gli effetti sperati; i liberali rimasero indifferenti anche perché i Borbone avevano già concesso altre tre Costituzioni: nel 1812, nel 1820 e nel 1848, tutte disattese nella loro promessa di libertà e riforme.

Quando giunse a Napoli la notizia della conquista di Palermo da parte di Garibaldi, la situazione precipitò drammaticamente: in città scoppiarono tumulti e violenze, ci furono scontri a fuoco fra i filoaustriaci e i liberali, e come al solito furono saccheggiati negozi, abitazioni civili; alcuni commissariati di polizia furono abbandonati e dati alle fiamme. In questo frangente drammatico il re proclamò lo stato di assedio e nominò ministro di Polizia quel Liborio Romano che poi sarebbe passato anche lui, come gli altri traditori, dalla parte di Garibaldi.

Quel momento drammatico segnò anche la divisione della Corte: Maria Teresa, i suoi figli e molti dignitari e funzionari abbandonarono la capitale per rifugiarsi nella fortezza di Gaeta.
Accanto al re rimasero pochi ministri fedeli e l’indomita Maria Sofia, che assunse subito la guida del governo, rivelando, ancora una volta, le sue doti di coraggio, equilibrio e saggezza.

Passato lo Stretto con la complicità delle navi inglesi e americane e con il favore dei comandanti di marina traditori, Garibaldi si affacciò sul continente e avanzò verso Salerno non trovando alcuna seria resistenza ad eccezione delle truppe comandate da Von Mechel e dal colonnello siciliano Beneventano del Bosco.

A Napoli il generale Nunziante, che aveva fatto carriera e accumulato ricchezze sotto i Borbone, prezzolato da Cavour stilò una vergognosa “Proclamazione” per esortare i soldati fedeli al re alla diserzione: Compagni d’arme!

Già è pochi dì, lasciandovi l’addio, vi esortavo ad essere forti contro i nemici d’Italia dar prove di militari virtù nella via aperta dalla Provvidenza a tutti i figli della patria comune… forte mi sono convinto non esservi altra via di salute per voi e per cotesta bella parte d’Italia che l’unirci sotto il glorioso scettro di V. Emanuele: di questo ammirevole monarca dall’eroico Garibaldi annunziato alla Sicilia, e scelto da Dio per costituire a grande nazione la nostra patria…

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