Posted by altaterradilavoro on Feb 19, 2019
Diario
di guerra.
IL
succitato libro è un vivido resoconto di una guerra santa, vinta all’ insegna
della Fede e della Croce.
Laddove
non poté un esercito straniero, crudele, avido e ateo, riuscì un’ insegna
bianca, e un motto: “In hoc signo vinces”; a capo, un geniale,
coraggioso, visionario Cardinale, comandante di un esercito raccogliticcio, ed
eterogeneo; ma fervente in amore per il proprio sovrano, la propria religione,
la propria terra e identità.
L’
esercito in oggetto, aveva un nome: “Esercito Sanfedista”, e due
Patroni, uno più grande dell’ altro: Gesù e Sant’Antonio di Padova.
Con
premesse così, il risultato non poteva che essere uno: la vittoria!
I
fatti narrati, a cui la storiografia ufficiale, non dà i reali meriti (così da
proseguire la sua mendace, secolare narrazione), riguardano l’ eroica stagione,
datata 13 Giugno 1799.
Il
reporter di guerra Petromasi
Ma
chi è il narratore, e a che titolo parla?
Domenico
Petromasi, medico siciliano, dalle indubbie capacità umane e professionali,
ampiamente riconosciute dai dotti del suo tempo. Personaggio di notevole
caratura, lasciò un’ impronta nella storia della sua città. Una figura
interessante, che meriterebbe più lustro di quanto ne abbia.
Aveva
33 anni, e si trovava a Messina a motivo della sua professione di medico. Erano
i primi mesi del 1799, e il destino lo sospinse a risollevare le sorti del
regno, insieme al Cardinale Ruffo e la sua Armata Sanfedista; della quale ne
divenne il cronicista fedele, come un inviato di guerra ante litteram.
L’
odio che provava per gli invasori, che il 20 gennaio 1799 ad Augusta avevano
compiuto un massacro, l’ amata capitale Napoli invasa dalle truppe
rivoluzionarie francesi, lo determinarono a gettar via il camice di medico, e
indossare i panni di Commissario di guerra per le operazioni logistiche. Il suo
amor patrio, il coraggio, e l’innata intraprendenza, gli tornarono utili
nell’espletamento delle attività logistiche affidate. Inoltre, le sue
preziosissime capacità di medico, diventarono determinanti, nel contribuire a
portare alla vittoria un’ impresa che pareva impossibile.
“L’
itinerario” opera letteraria e geografica di Antonino Cimbalo, funse da
“scheletratura” per la ricostruzione accurata dei luoghi citati nei
quaderni di guerra del Petromasi.
Alla
riconquista del Regno perduto.
1799:
una stagione memorabile, affollata di personaggi indimenticabili.
Un
esercito che ingrossava le file, partendo dai feudi calabresi del Cardinale
Ruffo.
Creato
e comandato da quest’ultimo, lo aveva posto agli ordini del Re.
1799-
800
Nazione:
Regno di Napoli
Esercito
Corpo d’ Armata
Comandanti:
1° Re Ferdinando IV
2°
Fabrizio Ruffo
Generale
e Vicario del Regno: Dionigi Ruffo (fratello del Cardinale) Duca di
Bagnara
Capitano
e Comandante 1° Colonna: Abate Giuseppe Pronio detto: “Gran Diavolo”
Capitano
Generale e Comandante 2° Colonna: Michele Arcangelo Pezza detto: “Fra’
Diavolo”
Composto
da 25.000 unità così suddivise: Fanteria, Cavalleria, Artiglieria,
Amministrazione militare, Sanità militare.
Soprannome:
Esercito Sanfedista
Patroni:
Gesù e Sant’Antonio
Colore:
Bianco
Marcia:
Canto Sanfedista
Motto:
” In hoc signo vinces”
Battaglie:
2° Coalizione francese
Riconquista
del regno
Assedio
di Modugno
Reparti:
16° Formazione a “Massa”
7°
Formazione “Mista”
16°
Formazione “Militare”
13
Giugno l’ attacco.
Il
13 giugno festa di Sant’ Antonio di Padova a cui Ruffo pose la sua Armata
supplicandone la protezione.
Il
Prelato puntò su Portici, da cui diresse l’attacco per liberare Napoli.
Eroici
Lazzari al grido di “Viva il Re” si misero a caccia di giacobini.
“Così
mercé il coraggio, e valore dell’Armata Cristiana, delle savie disposizioni di
Sua Eminenza, e soprattutto della virtù della Croce per parte del Cielo,
superata videsi ogni forza dei Giacobini, sicché vittoriosi all’ intutto
rimasero i crocesegnati”.
Un
destino irriconoscente
Portata
a termine la mirabile missione, due anni dopo, 1801 Petromasi redasse il suo
diario di guerra. Già nel 1805 dell’ opera cronicistica si perse la memoria, e
un destino irriconoscente, immerse nell’ oblio questo carismatico personaggio,
insieme alla sua opera. Del Petromasi si persero le tracce.
Un
cronista di parte, certamente, ma sostanzialmente onesto; perciò questo
documento è di eccezionale valore
storico.
Un sentito ringraziamento va all’ Associazione Identitaria Alta Terra di Lavoro e al Presidente Claudio Saltarelli che investendo risorse in questo pregevole progetto di ristampa anastatica ha consentito a chi volesse leggere questo libro (che consiglio vivamente), di ripercorrere le eroiche gesta della miracolosa impresa di guerra datata 1799; come se, insieme al Petromasi e all’ Armata Crocesignata, ci fossero anche i lettori, in presa diretta.
Lucia Di Rubbio
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Posted by altaterradilavoro on Feb 11, 2019
Sommario:
1. – La vita e l’attività pubblicistica. 2. – Condannato dai rivoluzionari
repubblicani e dal tribunale del Re. 3. – La “leggenda nera”. 4. – La complessa
personalità costellata da eminenti doti. 5. – Riflessioni conclusive.
1. – La vita e l’attività pubblicistica. – Antonio Luigi Capece Minutolo, Principe di Canosa, nasce a Napoli il 5 marzo 1768(1), terzogenito dei coniugi don Fabrizio e donna Rosalia de Sangro dei Principi di San Severo (è, perciò, nipote ex matre di Raimondo, grande genio del settecento); dalla sua fede di battesimo conservata nell’Archivio di Stato di Napoli apprendiamo anche il nome della “mammana” (ostetrica): Antonia Ferrara.
Appartiene
ad una antica famiglia con signoria sul feudo di Canosa ed era ascritta al
primo dei Sedili di Napoli, quello di Capuana.
Nel
Duomo di Napoli fa bella mostra la cappella dei Capece Minutolo, ricordata
anche da Boccaccio nella novella di Andreuccio da Perugia, dove i ritratti di
tredici viceré, due cardinali e una schiera di guerrieri denotano la nobiltà e
onorabilità della stirpe.
Compie i suoi studi nel collegio Nazzareno di Roma, sotto la guida dei Gesuiti; successivamente viene avviato alla professione forense, dove si distingue nella trattazione delle cause penali. 2. – Condannato dai rivoluzionari repubblicani e dal tribunale del Re. – Il Principe di Canosa ha avuto il triste privilegio di aver subito la condanna a morte dai repubblicani rivoluzionari, perché incolpato di essere monarchico, ed
ugualmente una
sonora condanna dal Tribunale del Re, allorché venne restaurata la monarchia,
perché ritenuto colpevole di essersi posto contro l’autorità regale,
rappresentata dal suo Vicario.
All’inizio del 1799, invero, nelle torbide giornate della
repubblica napoletana, i giacobini lo condannarono a morte per aver organizzato
la plebe ed armato i lazzari(2) che, in nome del Re, si opponevano allo
straniero invasore ed ai cittadini suoi fiancheggiatori. “I lazzaroni, questi
uomini meravigliosi scampati dall’esercito che era fuggito avanti a noi, chiusi
in Napoli, sono degli eroi. Si combatte in tutte le strade, il territorio è
disputato palmo a palmo, i lazzaroni sono comandati da capi intrepidi, il forte
di S. Elmo li fulmina, la terribile baionetta li atterra, essi ripiegano, in
ordine, tornando alla carica”(3).
Fortunosamente scampato alla pena capitale, ebbe a subire
dolorose traversie con il ritorno di re Ferdinando IV a Napoli e la
restaurazione della monarchia: uscito dal carcere repubblicano l’11 luglio
1799, a seguito della capitolazione dei rivoluzionari asserragliati nel
castello di Sant’Elmo, il 1° agosto successivo venne rinchiuso nelle regie
carceri.
A suo carico pesava, infatti, la contestazione del potere del
“Vicario” (Francesco Pignatelli di Strongoli), lasciato come alter ego dal
re quando con la corte si era trasferito in Sicilia. Si sosteneva, in
proposito, che, secondo antica tradizione, in assenza del sovrano, la potestà
di governare la Nazione spettasse ai “Cavalieri della Città” ed ai componenti
della “Deputazione straordinaria per il buon governo e per l’interna
tranquillità”, che rappresentavano la città di Napoli(4); il Vicario, al più,
avrebbe dovuto agire d’intesa con i “sedili”.
In questa situazione erano inevitabili dissidi ed incertezze nel governo della città, per cui lo stesso Vicario decise di rifugiarsi in Sicilia. Peraltro, una volta restaurata la monarchia e ritornato il Re nei suoi poteri, il Canosa venne nuovamente portato in carcere e sottoposto a giudizio per il suo comportamento nei riguardi del Vicario.
Il Presidente del
Tribunale della Giunta di Stato, Vincenzo Speciale, che il Canosa definisce
“pazzamente feroce”, chiede per lui la somma condanna, ma il Re, sollecitato
dalle famiglie dei Cavalieri della Città, decise di affidare il giudizio finale
anche alla Giunta del buon Governo, presieduta dal Principe di Cassaro, persona
molto equilibrata. Lo stesso Canosa così racconta la vicenda: “i membri della
Giunta di Stato furono scissi tra loro nella decisione della causa. La scissura
toccò tanto gli estremi, che mentre uno votò per la morte, votarono due
affinché venisse fatta relazione al Monarca intorno ai meriti che contratto
avea colla buona causa il supposto reo. Tra le tante sentenze strampalate si
cavò quasi come media proporzionale, tra chiassi ripetuti e cachinni la
condanna di cinque anni di castello”. Precisamente, alla più mite condanna si
giunse per l’assoluzione dalla reità di Stato e cioè dall’accusa di aver
promosso l’instaurazione di una “repubblica aristocratica”, e per il riconoscimento
solo dell’insubordinazione al Vicario(5).
Tuttavia, nel 1801, a seguito del Trattato di Firenze con cui
Napoleone aveva imposto una generale amnistia per i giacobini condannati, anche
il Canosa, che certamente non rientrava tra costoro, riacquista la libertà.
I repubblicani rivoluzionari, dunque, lo avevano condannato
perché “monarchico” ed il Tribunale del re lo condannava perché incolpato di
aver voluto instaurare una sorta di repubblica aristocratica:
“monarchia” e “aristocrazia”, come rileva Benedetto Croce(6), sono proprio “i
due elementi che egli bensì componeva armonicamente nella sua antiquata
personalità, ma che la storia aveva scissi e messi in contrasto”.
3. – La “leggenda nera”. – Il Principe di Canosa è
perseguitato da una leggenda nera che l’ha dipinto a fosche tinte in
vita e continua a perseguitarlo anche dopo la morte; si è giunti ad incolparlo
della strage di centinaia di migliaia di “giacobini, murattisti e
carbonari”, fino ad attribuire alla sua nefasta influenza presso la Corte di
Modena, il supplizio di Ciro Menotti. 4
Vincenzo Gioberti
lo ritiene “uomo d’infame memoria, che, dopo commesso in Napoli ogni sorta di
ribellione, trovò asilo tra le braccia dei gesuiti alle sponde del Crostole”(7).
Niccolò Tommaseo lo definisce “villano di Canosa, cacciato da
Napoli e dalla Toscana come uomo stolidamente torbido e vituperevolmente
irrequieto”(8); “prepotente, fanatico e cieco reazionario, nemico di ognuno che
aspirasse ad ordini più civili di governo”, lo considera Matteo Mazziotti(9).
Giuseppe Mazzini – dal sicuro dei suoi esili, nota S.
Vitale(10) – lo raffigura “colle baionette d’intorno e il carnefice a fianco”(11).
Più astioso è il giudizio di Pietro Colletta, che, ricordando
il carcere subito dopo i moti del 1821, lo taccia di essere “aristocratico per
dottrina, plebeo per genio”, “diffamato per opere pessime”, “orditore sagace…
di trame, ribellioni, delitti”, “cagione di mille morti, o da lui date o
dall’avversa parte, per vendetta e condanne”, “doppiamente adultero, sempre
ubriaco di vino e di furore”, autore di “opere inique sotto le immagini del
Salvatore e dei Santi”, “tenuto malvagio nel mondo”(12).
Sono affermazioni senza alcun fondamento, di cui specialmente
quelle del Colletta furono dal Canosa puntigliosamente confutate in vita nell’Epistola
ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del reame di Napoli del
generale Pietro Colletta, pubblicata a Capolago nel 1834 e recentemente
ripubblicata dal Vitale in appendice al suo volume “Il Principe di Canosa”.
A sua volta, il Blanch, dopo un generico apprezzamento
dell’umanità del Canosa, bolla le sue vedute politiche come “una idea esagerata
che ha la forza di rendere nulle le migliori intenzioni e le virtù stesse”(13).
Più benevolo è il giudizio di B. Croce(14) che di fronte alle voci calunniose della polizia del Saliceti e alle tenaci difese dello stesso Canosa, dichiara di propendere per queste, osservando che “l’uomo era bensì un don Chisciotte(15) della reazione, ma non punto sanguinario, né malvagio e nemmeno ingeneroso”.
Pur dichiarando di
non volersi discostare dalle considerazioni del Croce, il Maturi(16) ridimensiona
alquanto il sostanzialmente positivo giudizio del Croce osservando che “Accanto
al generoso cavaliere, v’è nel Canosa il settario capace per odio di parte
delle più basse delazioni e delle più odiose quali l’inasprimento delle pene in
materia di opinioni, gli atti più odiosi quali i processi napoletani del 1799 e
i processi piemontesi del 1833”.
Il conte Clemente Solaro della Margarita, che pure come il
Canosa è fedele al trono e devoto all’altare, non è tenero nei suoi
confronti: gli riconosce che è “uomo onesto, devoto ai buoni principi”, ma
aggiunge che è “incapace di maneggiare affari di Stato, specialmente nell’epoca
difficile di una restaurazione. Più poteva in lui la passione che il senno; non
aveva idee fisse; non perseveranza di condotta; voleva il bene non sapeva
operarlo; fu tremendo coi carbonari della plebe, i più accorti delle classi
sociali riuscirono a schermirsene”.
4. – La complessa personalità costellata da eminenti doti.
– I negativi giudizi espressi sul Canosa sono unilaterali e mostrano di non
considerare le qualità che il personaggio possedeva in grande misura, come il
sommo disinteresse personale, la generosità d’animo non venata da rancori, la
costanza dei sentimenti, lo spirito di indipendenza alieno da cortigianeria.
I suoi sentimenti non sono stati mai contaminati da venature
di interesse economico: “Io, afferma il Canosa, ero il capo di una patrizia
famiglia commoda bastantemente nel mio paese.
Abbandonai tutto sul fondato timore di perder tutto, ed in
effetti tutto perdei fuor che il mio onore. Nel venire non ebbi presente
giammai altro che il mio dovere, l’odio verso la rivoluzione”(17).
Il tornaconto personale non ha mai ispirato o condizionato la
sua attività, per difendere i suoi ideali sacrificò la famiglia (giovane
moglie, teneri figli, vecchi genitori), gli studi, la tranquillità ed i suoi
averi, tra cui la libreria che aveva “carissima”(18). 6
E’ anche il caso di
ricordare che, quando si avvicina il pericolo dell’invasione straniera, il
Canosa si arruola volontario nell’esercito regio e recluta, a proprie spese,
una cinquantina di uomini a difesa di Napoli e della monarchia.
Il disinteresse economico ha, perciò, costituito la nota
dominante della sua attività, come viene dimostrato dal fatto che è morto
povero; in un mondo in cui l’utile personale costituisce la direttiva
principale per ogni azione, questa sola connotazione contribuisce ad elevare la
figura del Canosa ed a farlo assurgere a modello da imitare, anziché a farlo
sprofondare tra i soggetti da scansare.
Canosa era senza dubbio generoso, così come può aspettarsi da
una persona, come lui, di alto lignaggio; sono significativi, in proposito, alcuni
episodi, forse di no grande rilievo, che però aiutano a comprendere meglio la
sua personalità.
Così, nel soggiorno in toscano (1816), incontrato un vecchio
compagno d’armi che si trovava in difficoltà economiche, gli concede il suo
aiuto versandogli mensilmente la somma di cento lire. Si tratta di Giuseppe
Torelli che non era propriamente un amico del Canosa perché a Ponza (1807),
dove era stato costituito un “punto d’appoggio”, una specie di “resistenza”,
per la preparazione di un movimento anti francese a Napoli, aveva cercato di
metterlo in cattiva luce con la stessa Regina; in seguito, scomparsa la Regina,
il Torelli aveva chiesto inutilmente aiuto al Ministro Medici che lo scacciò in
malo modo. In Toscana, dunque, avvicina il Principe che, ricordando che era
stato “nemico della rivoluzione, e fedele alla grande Maria Carolina… due
attributi che per me canonizzano il demonio”, dimentica precedenti contrasti e
gli concede concreto sostegno(19).
Meritevole di essere segnalato è anche il comportamento
tenuto nei confronti del generale A. Bergani, che aveva aderito al regime
costituzionale ed era rimasto fedele fino all’ultimo a Gioacchino Murat: mosso
a compassione dalla supplica della moglie del generale, lo giustificò davanti
al Re, facendo richiamo all’osservanza dello spirito militare e alle materiali
necessità di sopravvivenza, e lo fece rimettere in libertà(20). 7
In precedenza aveva
mostrato la sua magnanimità graziando alcuni sicari inviati a Ponza per la sua
eliminazione dal ministro di polizia del napoleonide Giuseppe Bonaparte.
Un altro elemento costante della sua attività è stata
l’avversione senza indulgenza ai moti rivoluzionari che cozzavano profondamente
con la sua profonda convinzione di legittimista. Contro lo spirito rivoluzionario
sostiene che la lotta non può essere affidata ai poteri ordinari e molto meno
al potere costituzionale: “il solo che può vincerlo è un dispotismo vigoroso ed
estremamente attivo”(21).
Con apprensione rileva, quindi, al ritorno di Ferdinando IV
sul trono di Napoli, che i murattiani continuano a mantenere alte cariche
nell’amministrazione statale e nell’esercito, i beni confiscati al clero e alla
nobiltà non vengono restituiti, la fedeltà dei sudditi non viene in alcun modo
ricompensata.
Teme, perciò, che la politica, seguita dai ministri Medici e
Tommasi, finisca per isolare il Re che si troverà senza la difesa dei nobili, i
cui poteri sono stati annullati, e senza l’ausilio del clero la cui autorità
religiosa viene scossa da una diffusa miscredenza.
In questa situazione, osserva il Canosa, le forze
rivoluzionarie si faranno vive e finiranno con il prevalere.
Le pessimistiche considerazioni del Canosa vennero esposte
nel lavoro “I Piffari di montagna”, pubblicato nel maggio del 1820 ed assunsero
subito il significato di una negativa profezia, in quanto, nel luglio
successivo, scoppiano i moti rivoluzionari che costringeranno il Re a cedere il
potere, salvo poi l’intervento restauratore delle truppe austriache.
Ricordando quegli avvenimenti qualche tempo dopo, il Cav.
Luigi Medici, principe di Ottaviano, mestamente osservava che “Quando non si
possa (rimettersi la feudalità), come veramente ben che non si possa, qual
altro principio vi si surrogherà? Qui Canosa vuole dispotismo puro, i liberali
costituzione e rappresentanza. Gli uni e gli altri dicon male: ma sarebbe lunga
diceria e non ho tempo. Dico di volo che nel quinquennio [1815-1820] credei di
sciogliere il 8
problema; ma,
disgraziatamente, due tenenti [Silvati e Morelli che insorsero a Nola, chiedendo
la costituzione] mi provarono che ero un coglione, e tutto fu rovesciato. Ond’è
che non ci penso più”(22).
Qui, dunque, il Canosa ha avuto ragione; lo ammette anche
Croce nel suo interessante saggio sul Principe di Canosa(23).
Senza alcun tentennamento od ombra di dubbio, il Canosa, era
convinto monarchico; del resto, in quanto nobile, riteneva fermamente che “ove
non vi è Monarchia, non vi è nobiltà”. Dei nobili, però, ricordava le
tradizioni di fedeltà e di eroismo a difesa del Re e si rammaricava che,
all’epoca, essi si fossero ridotti da aristocratici feudali in accidiosi
cortigiani, rinunciando alla propria funzione di comando e di giustizia(24).
Il Canosa, però, non ha assunto mai atteggiamenti di
cortigianeria e quando si è presentata l’occasione, senza venir meno
all’ossequio dovuto alla maestà del capo dello Stato, ha palesato la difformità
delle sue opinioni, mostrando l’indipendenza del suo spirito e nello stesso
tempo la rettitudine del suo comportamento.
E’ sintomatico l’episodio del comando impartitogli
dalla regina Maria Carolina, con la quale peraltro esisteva una grande
comunanza di vedute, e che il Canosa dichiarò di non poter eseguire, perché era
contrario alle leggi.
La Regina gli osservò: “Ma le leggi non le facciamo noi?
Ebbene noi la sospenderemo o revocheremo”; il Canosa, tuttavia, mantenne il suo
rifiuto, dichiarando: “Signora giustissima… non tutte le leggi sono fatte dal
Re. Ce ne sono talune che sono leggi di cui la sorgente si trova naturale,
nella legge emanata da Dio, che è il Re dei Re. La legge alla quale si oppone
il comando, per equivoco, datomi da Vostra Maestà, è appunto una legge
universale, una legge di natura”.
L’episodio merita particolare attenzione. Il Canosa, monarchico perinde ac cadaver, non esegue l’ordine regale perentoriamente impartitogli, ma la Regina, che pur sovente ricorda di essere “figlia di Maria Teresa” e perciò abituata a farsi ubbidire senza discussioni, non dubitava della realtà del Principe ed ha accettato le sue spiegazioni. Personaggi di diversa levatura, in simili frangenti si sarebbero
comportati in altro
modo e sarebbero stati lieti di appiattirsi sui superiori regii voleri.
Rifulge, quindi, nel Canosa la profonda conoscenza del diritto, acquisita in
gioventù con l’esercizio della professione forense, e la spiccata accortezza
nell’assolvere, al di là di ogni condizionamento, il suo ruolo di consigliere,
additando la via più corretta per l’espletamento dell’attività di governo.
Strenuo difensore dei diritti della nobiltà, si oppose alla
richiesta, loro rivolta, dall’avvocato fiscale Nicola Vivenzio di prestare il
servizio militare in tempo di guerra.
In proposito, rifacendosi al giasnaturalismo, sostenne con
fermezza che lo Stato, alla stessa guisa dei privati, deve rispettare i
contratti. Orbene, gli antichi feudi concessi o donati dal Re, comportavano
l’obbligo del servizio militare; ma l’obbligo venne abolito da Alfonso I
d’Aragona e da Ferdinando il Cattolico e convertito in donativi.
Per quanto concerne i feudi moderni, osserva che venivano
acquisiti a condizioni venali, ma che tra queste non era contemplato l’obbligo
del servizio militare.
Per conseguenza, il Re non poteva pretendere dai nobili il
servizio militare perché non era compreso nel contratto; ma, sostiene il
Canosa, quando la monarchia si trova in pericolo, i nobili devono accorrere in
suo aiuto spontaneamente, fornendo denaro ed uomini contro le avverse minacce.
Coerente con le sue opinioni, quando il Re con la corte si
ritira in Sicilia e sorge la necessità di rinforzare l’esercito regio con altre
truppe, il Canosa, come abbiamo accennato sopra, si reca nei casali vicini a
Napoli, solleva gli animi contro i francesi e raduna, a proprie spese, circa
cinquanta reclute.
Ma non “s’indusse a chiedere rimunerazione alcuna dalla
generosità del Sovrano, trovandosi molto contento d’aver servito S. M. (D. G.)”(25).
6. – Riflessioni conclusive. – Anche oggi, pur dopo le
importanti ricerche di W. Maturi e di S. Vitale e gli interessanti studi di B.
Croce che hanno esaminato più estesamente la vita e le opere del Canosa,
permane una generale avversione nei 10
suoi confronti,
avversione che richiama singoli e certamente secolari episodi per farne
discendere giudizi assolutamente negativi e perentori.
In effetti, il Canosa, quale arguto polemista, nel suo
discorrere era solito avvalersi di paradossi e di enfatizzazione per colorire
meglio le sue argomentazioni e sminuire quelle dei suoi oppositori.
Chi, come il conte Monaldo Leopardi, lo aveva avuto vicino
per affinità di idee e per familiarità di rapporti e, quindi, si trovava in
posizione privilegiata per valutare i suoi intimi pensieri ed i suoi concreti
atteggiamenti, aveva chiaramente affermato che “Egli è l’Argante del Re, e
bisognerebbe avere l’animo di Giuda per negargli il diritto all’omaggio e alla
riconoscenza di quanti combattono per la difesa della legittimità”; e più oltre
sottolineava che “In sostanza, se Voltaire fu il Patriarca dell’empietà, La
Fajette è stato il Patriarca della bugiarda libertà, è Canosa incontra
stabilmente il Patriarca del realismo e della legittimità”(26).
Alla morte del Canosa, è ancora il Leopardi che unicamente ne
tesse l’elogio funebre, con appropriate espressioni che lungi dal diffondersi
in ipocriti elogi, come si è soliti in simili occasioni, suonano a monito degli
indolenti: “… una vergogna dell’Italia il non aver alzato una voce d’encomio”; ed
a coloro che non volessero intendere ricorda apparentemente enfatiche ma
rispondenti pienamente alla realtà che “Canosa era un gran dotto, un gran
politico, un vero galantuomo e un vero cristiano”(27).
Domenico LA MEDICA
(1) non il 6 marzo, come afferma N. Del Corno, in Gli “scritti sani”, Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all’Unità, Milano, Franco Angeli, 1992, 37; il 6 marzo è la data di battesimo. (2) Il termine “lazzaro” non si rinviene nella letteratura napoletana anteriormente alla rivolta di Masaniello (1647) e forse deriva dallo spagnolo lazaro , cencioso, pezzente, con cui i signori napoletanoi, che spagnoleggiavano nella lingua, indicavano la torma dei popolani seminudi, di cui si circondava quel capopopolo; proprio perché vestiti di stracci, richiamavano alla mente il Lazzaro resuscitato e quello cencioso dell’Evangelo. Di lazzari si torna a parlare nelle burrascose giornate del 1799, per la loro resistenza alle truppe di occupazione francesi e, successivamente, quando, sotto la guida del cardinale Ruffo, si distinsero per la lotta contro i “giacobini”.
In seguito con
l’espressione lazzaro si intese quella categoria del sottoproletariato
che non aveva alcuna occupazione e viveva accontentandosi del minimo, ma che
non per questo aveva perso la sua spensieratezza; come ideali, poi, nutriva “in
religione, il culto devoto e fanatico dei Santi protettori e, in primo luogo,
di San Gennaro, e in politica, il culto del re” (Croce B., I “lazzari,
in Aneddoti di varia letteratura, II, Napoli, 1942, 428 ss.; Benigno F.,
Trasformazioni discorsive e identità sociali, il caso dei lazzari, in Storica,
2005, 7 ss.).
(3) Così si esprimeva il gen. Championnet, nella sua
relazione al Direttorio, come riporta Colletta P., Storia del reame di
Napoli, libro III, cap. XXII.
(4) Il privilegio della Città di Napoli di rappresentare la
Nazione e di assumerne il governo, in caso di assenza o di imbecillità
del Sovrano, si fa risalire all’antico patto tra il Re e Nazione sul quale
si fondava la Monarchia. Questo privilegio si sarebbe dovuto ritenere ancora in
vigore, in quanto Carlo di Borbone con il manifesto del 1753 aveva conservato
alla Nazione i suoi privilegi, ricevendone in cambio il giuramento di fedeltà e
con l’atto di cessione del 5 ottobre 1759, aveva trasmesso al suo figlio
Ferdinando IV l’obbligo di osservare quei privilegi.
Pertanto, quando il Re si era allontanato da Napoli, la
nomina del Vicario venne ritenuta come abuso regio contro i diritti della
Città.
In effetti, la monarchia borbonica aveva perso l’antica
fisionomia di monarchia feudale temperata dai privilegi per assumere quella di
monarchia assoluta, perciò le pretese della Città, più che dirette a restaurare
un diritto esistente, erano sembrate che dessero adito alla instaurazione di
una sorta di repubblica aristocratica (v. Maturi W., Il Principe di
Canosa, Firenze, 1944, 16 ss.)
(5) Merita di essere ricordata la memoria scritta a difesa
del suo operato, in cui è evidente lo spirito polemista che caratterizza il suo
stile e la cultura giuridica rafforzata nell’esercizio della professione di
avvocato (a Napoli, li chiamavano e li chiamano tuttora “paglietta”)
precedentemente svolta: “Non v’ha dubbio alcuno, che la lettera di dimissione
scritta al signor Vicario Generale fu di vari giorni posteriore all’anarchia
accaduta. Dunque la lettera fu scritta quando il potere civile non esisteva
nelle mani del Vicario generale, anzi quando, cessato assolutamente tra tutti,
era veramente Civitas dissoluta, … Dunque, il generale Pignatelli, nel
momento in cui fu scritta la lettera, non era più nel fatto Vicario generale.
Dunque con la lettera non se gli venne a togliere se non ciò che aveva col
fatto già perduto. Dunque non venendo ad avere alcun affetto di fatto, non
poteva averlo neanche di diritto” (riportata da Maturi W., Op. cit.,
33).
(6) B. CROCE, Uomini e cose della vecchia Italia,
Bari, 1927, 242.
(7) GIOBERTI V., Gesuita moderno, Losanna, 1846, II,
325.
(8) TOMMASEO N., Dell’Italia, I, cap. VII.
(9) MAZZIOTTI M., L’esilio di Pietro Colletta in Austria, in
Nuova Antologia, 1° gennaio 1916, 4.
(10) VITALE S., Il Principe di Canosa e l’Epistola contro
Pietro Colletta, Napoli, s.d., 8
(11) MAZZINI G., La Giovane Italia, Roma, 1902, 99.
(12) Storia del reame di Napoli (1734 – 1825),
Capolago, 1834, I, 314: II, 16ss-; la colpa dell’adulterio si spiega forse
perché dopo aver sposato donna Teresa Galluccio, dei duchi di Toro, aveva avuto
relazioni con altre due donne che, però, si conclusero, appena il Canosa rimase
libero, con regolare matrimonio: precisamente, la seconda moglie, Anna
Orsellini, figlia di un cenciaio di Pisa, gli diede tre figli (due femmine ed
uno maschio); alla morte di questa (31 dicembre 1836), sposò a Pesaro Teresa
Gabellini di Roma, anch’essa di umili origini, alla quale era legato da
precedente relazione.
(13) Scritti storici, II, Nota: Il sistema del
Principe di Canosa, Bari, 1945, 121 ss.
(14) Op., cit., 244.
(15) Simile definizione era stata data a Metternich dal poeta
austriaco Grillparzer, come vicorda Bagger E., Francesco Giuseppe, Milano,
1935, 22.
(16) Op. cit., 281.
(17) Un dottore in filosofia e un uomo di Stato, dialogo
del Principe di Canosa sulla politica amalgamatrice, 1832, 15 seg.
(18) V. Epistola, cit., 133; per necessità
economiche, fu in seguito costretto a disfarsi dei suoi libri (v. Maturi W., Il
principe, cit., 146 n. 3).
(19) MATURI W., Op. cit., 136 n. 3.
(20) MATURI W., Op. cit., 155 seg..
(21) I Piffari di montagna ossia cenno estemporaneo di un
cittadino imparziale sulla congiura del principe di Canosa e sopra i Carbonari,
1820, 163.
(22) Si tratta di una lettera scritta dal Medici nel 1823, di
cui dà notizia B. Croce, Uomini e cose, cit., 246. 12
P
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Posted by altaterradilavoro on Feb 1, 2019
Di solito, alla fine di un conflitto, sia esso
una battaglia di pochi giorni che una vera e propria guerra di più lunga
durata, la storia che viene tramandata ai posteri è quella che reca l’ imprimatur
del vincitore.
Invece, nel caso della parentesi
gennaio-giugno 1799, che interessò il Regno di Napoli la regola fece un’
eccezione, che comportò (e comporta tuttora) una lunga serie di diatribe e di
accuse, che, a distanza di duecentoventi anni, non riescono ancora né a sopirsi
né a trovare una soluzione.
Avvenne che, sebbene Ferdinando IV avesse
riacquistato il Regno ad opera del Ruffo e quindi fosse da considerare a tutti
gli effetti il vincitore, diede agio ai vinti di scrivere la storia della loro
breve esperienza politica come meglio loro aggradava, permettendogli così di fissare
in maniera indelebile quella che sarebbe divenuta “la memoria” del 1799 ; per
cui – caso quasi unico nella storia dell’umanità – i traditori della patria vennero
elevati al rango di “patrioti” e coloro che erano insorti per difendere la
propria patria, i propri beni, , la propria religione, la propria vita vennero
considerati nemici della patria e persone non degne di essere ricordate, se non
con gli epiteti più offensivi. A riprova di quest’affermazione, la Piazza dei
Martiri situata in uno dei quartieri più eleganti della città di Napoli non è
dedicata mica ai lazzari, ai sanfedisti o ai realisti, ma ai caduti della
Repubblica Napolitana del 1799 (leone morente), ai caduti dei moti carbonari
del 1820 (leone ferito dalla spada), ai caduti nei moti del 1848 (leone con lo
Statuto del 1848 sotto la zampa), ai caduti dell’epopea garibaldina del 1860
(leone pronto ad attaccare la preda).
Le motivazioni di fondo che indussero
Ferdinando IV a volere che su tutta la vicenda del 1799 venisse steso il “velo
dell’oblio” possono essere considerate un errore solo a posteriori. All’epoca
dei fatti – come avverrà nel Risorgimento con la damnatio memoriae per le popolazioni
dell’ex Regno delle Due Sicilie – Ferdinando IV aveva tutte le ragioni per
ritenere che, decretando il silenzio assoluto sul triste periodo della
Repubblica Napolitana, facendo distruggere finanche i verbali dei processi
intentati contro i giacobini, il non parlarne avrebbe favorito pian piano un
assopimento degli odi, e i fratelli che pochi giorni prima si erano trovati su
posizioni opposte della barricata sarebbero ritornati a convivere
pacificamente, come espressamente comandato anche durante i combattimenti sia
dallo stesso re che dal suo vicario generale, cardinale Ruffo, che
raccomandavano di non usare violenza contro persone notoriamente compromesse a
livello politico, purché disarmate e in atteggiamento di dichiarata ed evidente
non-ostilità.
L’iniziativa, invece, fu e viene ancora
strumentalizzata dagli epigoni dei repubblicani, che la imputano come colpa a
Ferdinando, il quale, in questo modo avrebbe voluto eliminare in via definitiva
prove compromettenti a suo carico, o, comunque,
a carico degli organi della ripristinata
monarchia, passando sotto silenzio che, comunque, i repubblicani condannati a
morte ebbero un regolare processo e
dimenticando, invece, come furono trattati dai repubblicani i fratelli Gerardo e Gennaro Baccker, i fratelli
Ferdinando e Giovanni La Rossa e Natale D’Angelo, con un “supplizio crudele perché nelle ultime ore del governo, senza utilità di
sicurezza ed esempio”, come ammise lo stesso Colletta dichiaratamente non simpatizzante per i
Borbone. [1]
Nelle ore successive furono fucilate anche
altre “undici persone della minuta plebe”
e ci sarebbe stata una carneficina se ci fosse stato più tempo. [2]
“… Si era decretato di far morire nella notte il mio caro
padre, li restanti fratelli con tutti li compagni carcerati ed sterminare
ancora tutte e due le nostre intiere desolate famiglie fino alli
gatti…”[3]
(Parole della sorella dei Baccher, Angela Rosa, al medico napoletano Domenico
Cotugno).
Non
è un mistero che i Borbone fossero più inclini al perdono che alla vendetta. E
di prove ne esistono a iosa. Una per tutte il caso di Guglielmo Pepe.[4]
Né sono un mistero le condanne all’
esilio comminate agli esponenti repubblicani e più tardi ai liberali più
compromessi al posto della condanna a morte o all’ ergastolo : esilio poi
sfruttato dai beneficiati per infangare il nome del benefattore e per
continuare a tramare per la sua scomparsa.
Castrese Lucio Schiano
[1] Pietro Colletta, Storia del Reame di
Napoli, ed. Napoli, 1970, vol. II, p. 84
[2] Domenico Ambrasi, Don Placido Baccher, Napoli, 1979, p. 37 (l’Ambrasi
riporta un’affermazione del Marinelli).
[3]
Domenico Cotugno, Lettere e scritti
autografi, Sezione Manoscritti della Biblioteca Nazionale di Napoli, fondo San
Martino, n. 122
[4] Iscritto nella
milizia della repubblica, combatté contro i sanfedisti a Portici e a Napoli.
Esiliato, riparò in Francia ove entrò nella legione italiana agli ordini di
Napoleone. Tornato a Napoli dopo il 1801, congiurò contro i Borbone e fu
arrestato per esser poi liberato nel 1806 da Giuseppe Bonaparte. Ristabilitisi
sul trono i Borbone, ottenne il comando di una divisione, ma benché spedito per
reprimerli, si unì, nel 1820, ai moti carbonari. Dopo il congresso di Lubiana
fu sconfitto dagli austriaci a Rieti nel 1821. Nuovo esilio. Ma, nel 1848,
Ferdinando II gli affidò il comando dell’esercito spedito nel Veneto contro gli
austriaci. Scoppiati a Napoli i moti del 15 maggio, essendo stato invitato dal
Re a tornare a Napoli, disobbedì e fu di nuovo sconfitto dagli austriaci. (in
Domenico Sacchinelli – Memorie storiche sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo
– Edizioni Controcorrente 2004, nota 59 pag. XXXIX dell’Introduzione di Silvio
Vitale)
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