Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

L’ESERCITO FARLOCCO DEL RISORGIMENTO SI DIVIDE

Posted by on Mar 16, 2019

L’ESERCITO FARLOCCO DEL RISORGIMENTO SI DIVIDE

Il movimento identitario napolitano è estremamente variegato e frammentato ed anche se ha una forza vigorosa e virile non riesce ad incidere per la grande confusione che ha dentro di se. Vediamo persone che vanno in giro con bandiere borboniche ma hanno come punto di riferimento Voltaire e seguono soggetti politici ispirati da Rosseau, allo stesso modo vediamo altre persone che si definiscono Borboniche e/o meridionaliste ma vedono in Salvini la nuova stella cometa, insomma non c’è un chiaro e preciso progetto politico e non ci sarà mai se non si individuerà una strada comune e fuori dalle logiche attuali, sempre secondo il mio modesto parere.

Gli avversari, i giacobin-savoiardi-risorgimentali che dovrebbero essere un collante per unire le forze identitarie, che da 200 anni  hanno preso il potere pur non avendo grandi capacità intellettuali e basando la propria esistenza sulla propaganda menzognera, sulla corruzione e sul tradimento, riescono a controllare la situazione sfruttando anche la confusione che impera sul nostro versante ma da qualche tempo qualcosa sta cambiando.

Fino ad ora la grande capacità trasformista della suddetta classe dirigente italiana ha permesso che si riuscisse a creare un movimento ideologico ibrido senza “capa e ne coda” ma che univa le tesi di Benedetto Croce e Antonio Gramsci. Se per esempio andate a Napoli e parlate con i giacobini figli dalla grande operazione politica nata negli anni 50 da personaggi come Marotta, Galasso e Napolitano, sono i primi nomi che mi vengono in mente, e che oggi detengono il potere, sono capaci di dirvi che sono di estrazione Gramsciana ma di formazione Crociana.

Sono convinti, fino ad assumere lo stesso atteggiamento dei seguaci di una setta, di essere depositari della verità ignorando, volutamente o inconsapevolmente, che Croce e Gramsci erano agli antipodi sotto tutti i punti di vista e sulla questione meridionale erano veramente distanti anni luce. Appaiono agli occhi del mondo come dei monoliti impenetrabili e inviolabili ma, qualche giorno fa, abbiamo assistito ad una crepa che merita attenzione.

E’ uscito, non cito autore, titolo ed editore per non dare pubblicità ad un lavoro incommentabile ma indico solo  il link http://indygesto.com/indybooks/4633-tutta-unaltra-storia-unoperazione-verita-sul-dramma-di-pontelandolfo?fbclid=IwAR2hp2fNKQZuIVFY_iQDWmFGG33GptujKGiaMz6kk_1ZzxTOA7_XFeaI9xc, un libro dove c’è una versione, basata sulle carte e sui verbali dall’esercito italiano, molto soft sui fatti di Pontelandolfo che si pone su una posizione Crociana attaccando con forza le posizioni di Pino Aprile e Gigi Di Fiore.

C’è un forte attacco ad Antonio Gramsci e sulla sua Questione Meridionale e troviamo una esaltazione del Risorgimento e della grande opera dei Piemontesi che ci hanno liberato dal fenomeno del Brigantaggio facendo passare come eroi i nostri grandi carnefici a cominciare da Cialdini.

Secondo il mio modesto parere questa è una grossa novità che andrebbe sfruttata perché se le ideologie tra loro opposte, quella di Croce e di Gramsci,  sono state fino ad ora concorrenti ma complementari per tenere in piedi questo paese apparentemente solido e forte ma con la gambe d’argilla ora hanno deciso di separarsi, dietro le quinte le cose stanno cambiando e come insegnano le tecniche di guerra se l’avversario si divide diventa più debole.

I Crociani, che nel dopoguerra furono costretti a fondersi con le ideologie Marxiste per sopravvivere, hanno deciso di separarsi perché sono convinti che per combattere il movimento identitario in forte crescita bisogna sbarazzarsi dei loro cugini nemici e tornare a stare da soli.

E’ facile poter prendere delle posizioni ambigue sull’Unità d’Italia ma questo non lo si puo fare con il 1799 e con la Repubblica da Operetta, come la chiamava il Capecelatro,  dove la marmellata è difficile da creare soprattutto per i sinistroidi, i Crociani qui sono coerenti per loro i Giacobini del “99 sono i nonni di quelli del “60, che fanno finta di non sapere che i Briganti Postunitari si sentivano gli eredi dei Lazzari e dei Sanfedisti e combattevano nel loro mito  avendo la Madonna di Loreto tatuato sul braccio.

Non sto qui a replicare quanto riportato dal testo perché gli darei troppa importanza ma rispondo con i due video e una foto di personaggi che tutto sono tranne che Borbonici e di seguito riportati.

Claudio Saltarelli 

 

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Storia della spedizione dell’ eminentissimo Cardinale D. Fabrizio Ruffo di Lucia Di Rubbio

Posted by on Feb 19, 2019

Storia della spedizione dell’ eminentissimo Cardinale D. Fabrizio Ruffo di Lucia Di Rubbio

Diario di guerra.

IL succitato libro è un vivido resoconto di una guerra santa, vinta all’ insegna della Fede e della Croce. 

Laddove non poté un esercito straniero, crudele, avido e ateo, riuscì un’ insegna bianca, e un motto: “In hoc signo vinces”; a capo, un geniale, coraggioso, visionario Cardinale, comandante di un esercito raccogliticcio, ed eterogeneo; ma fervente in amore per il proprio sovrano, la propria religione, la propria terra e identità. 

L’ esercito in oggetto, aveva un nome: “Esercito Sanfedista”, e due Patroni, uno più grande dell’ altro: Gesù e Sant’Antonio di Padova. 

Con premesse così, il risultato non poteva che essere uno: la vittoria!

I fatti narrati, a cui la storiografia ufficiale, non dà i reali meriti (così da proseguire la sua mendace, secolare narrazione), riguardano l’ eroica stagione, datata 13 Giugno 1799.

Il reporter di guerra Petromasi 

Ma chi è il narratore, e a che titolo parla?

Domenico Petromasi, medico siciliano, dalle indubbie capacità umane e professionali, ampiamente riconosciute dai dotti del suo tempo. Personaggio di notevole caratura, lasciò un’ impronta nella storia della sua città. Una figura interessante, che meriterebbe più lustro di quanto ne abbia. 

Aveva 33 anni, e si trovava a Messina a motivo della sua professione di medico. Erano i primi mesi del 1799, e il destino lo sospinse a risollevare le sorti del regno, insieme al Cardinale Ruffo e la sua Armata Sanfedista; della quale ne divenne il cronicista fedele, come un inviato di guerra ante litteram.  

L’ odio che provava per gli invasori, che il 20 gennaio 1799 ad Augusta avevano compiuto un massacro, l’ amata capitale Napoli invasa dalle truppe rivoluzionarie francesi, lo determinarono a gettar via il camice di medico, e indossare i panni di Commissario di guerra per le operazioni logistiche. Il suo amor patrio, il coraggio, e l’innata intraprendenza, gli tornarono utili nell’espletamento delle attività logistiche affidate. Inoltre, le sue preziosissime capacità di medico, diventarono determinanti, nel contribuire a portare alla vittoria un’ impresa che pareva impossibile. 

“L’ itinerario” opera letteraria e geografica di Antonino Cimbalo, funse da “scheletratura” per la ricostruzione accurata dei luoghi citati nei quaderni di guerra del Petromasi. 

Alla riconquista del Regno perduto.

1799: una stagione memorabile, affollata di personaggi indimenticabili. 

Un esercito che ingrossava le file, partendo dai feudi calabresi del Cardinale Ruffo. 

Creato e comandato da quest’ultimo, lo aveva posto agli ordini del Re.

1799- 800

Nazione: Regno di Napoli 

Esercito Corpo d’ Armata

Comandanti: 1° Re Ferdinando IV

2° Fabrizio Ruffo 

Generale e Vicario del Regno: Dionigi Ruffo (fratello del Cardinale) Duca di Bagnara 

Capitano e Comandante 1° Colonna: Abate Giuseppe Pronio detto: “Gran Diavolo”

Capitano Generale e Comandante 2° Colonna: Michele Arcangelo Pezza detto: “Fra’ Diavolo”

Composto da 25.000 unità così suddivise: Fanteria, Cavalleria, Artiglieria, Amministrazione militare, Sanità militare.

Soprannome: Esercito Sanfedista 

Patroni: Gesù e Sant’Antonio 

Colore: Bianco

Marcia: Canto Sanfedista 

Motto: ” In hoc signo vinces”

Battaglie: 2° Coalizione francese

Riconquista del regno

Assedio di Modugno

Reparti: 16° Formazione a “Massa”

7° Formazione “Mista”

16° Formazione “Militare”

13 Giugno l’ attacco.

Il 13 giugno festa di Sant’ Antonio di Padova a cui Ruffo pose la sua Armata supplicandone la protezione. 

Il Prelato puntò su Portici, da cui diresse l’attacco per liberare Napoli.

Eroici Lazzari al grido di “Viva il Re” si misero a caccia di giacobini.

“Così mercé il coraggio, e valore dell’Armata Cristiana, delle savie disposizioni di Sua Eminenza, e soprattutto della virtù della Croce per parte del Cielo, superata videsi ogni forza dei Giacobini, sicché vittoriosi all’ intutto rimasero i crocesegnati”.

Un destino irriconoscente

Portata a termine la mirabile missione, due anni dopo, 1801 Petromasi redasse il suo diario di guerra. Già nel 1805 dell’ opera cronicistica si perse la memoria, e un destino irriconoscente, immerse nell’ oblio questo carismatico personaggio, insieme alla sua opera. Del Petromasi si persero le tracce.

Un cronista di parte, certamente, ma sostanzialmente onesto; perciò questo documento è di eccezionale valore 

storico.

Un sentito ringraziamento va all’ Associazione  Identitaria Alta Terra di Lavoro e al Presidente Claudio Saltarelli che investendo risorse in questo pregevole progetto di ristampa anastatica ha consentito a chi volesse leggere questo libro (che consiglio vivamente), di ripercorrere le eroiche gesta della miracolosa impresa di guerra datata 1799; come se, insieme al Petromasi e all’ Armata Crocesignata, ci fossero anche i lettori, in presa diretta. 

Lucia Di Rubbio

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IL PRINCIPE DI CANOSA UN ESEMPIO DI ONESTÀ PER LA DILAGANTE CORRUZIONE NELL’ATTUALE VITA PUBBLICA: ERA RICCO MA È MORTO POVERO.

Posted by on Feb 11, 2019

IL PRINCIPE DI CANOSA UN ESEMPIO DI ONESTÀ PER LA DILAGANTE CORRUZIONE NELL’ATTUALE VITA PUBBLICA: ERA RICCO MA È MORTO POVERO.

Sommario: 1. – La vita e l’attività pubblicistica. 2. – Condannato dai rivoluzionari repubblicani e dal tribunale del Re. 3. – La “leggenda nera”. 4. – La complessa personalità costellata da eminenti doti. 5. – Riflessioni conclusive.

1. – La vita e l’attività pubblicistica. – Antonio Luigi Capece Minutolo, Principe di Canosa, nasce a Napoli il 5 marzo 1768(1), terzogenito dei coniugi don Fabrizio e donna Rosalia de Sangro dei Principi di San Severo (è, perciò, nipote ex matre di Raimondo, grande genio del settecento); dalla sua fede di battesimo conservata nell’Archivio di Stato di Napoli apprendiamo anche il nome della “mammana” (ostetrica): Antonia Ferrara.

Appartiene ad una antica famiglia con signoria sul feudo di Canosa ed era ascritta al primo dei Sedili di Napoli, quello di Capuana.

Nel Duomo di Napoli fa bella mostra la cappella dei Capece Minutolo, ricordata anche da Boccaccio nella novella di Andreuccio da Perugia, dove i ritratti di tredici viceré, due cardinali e una schiera di guerrieri denotano la nobiltà e onorabilità della stirpe.

Compie i suoi studi nel collegio Nazzareno di Roma, sotto la guida dei Gesuiti; successivamente viene avviato alla professione forense, dove si distingue nella trattazione delle cause penali. 2. – Condannato dai rivoluzionari repubblicani e dal tribunale del Re. – Il Principe di Canosa ha avuto il triste privilegio di aver subito la condanna a morte dai repubblicani rivoluzionari, perché incolpato di essere monarchico, ed

ugualmente una sonora condanna dal Tribunale del Re, allorché venne restaurata la monarchia, perché ritenuto colpevole di essersi posto contro l’autorità regale, rappresentata dal suo Vicario.

All’inizio del 1799, invero, nelle torbide giornate della repubblica napoletana, i giacobini lo condannarono a morte per aver organizzato la plebe ed armato i lazzari(2) che, in nome del Re, si opponevano allo straniero invasore ed ai cittadini suoi fiancheggiatori. “I lazzaroni, questi uomini meravigliosi scampati dall’esercito che era fuggito avanti a noi, chiusi in Napoli, sono degli eroi. Si combatte in tutte le strade, il territorio è disputato palmo a palmo, i lazzaroni sono comandati da capi intrepidi, il forte di S. Elmo li fulmina, la terribile baionetta li atterra, essi ripiegano, in ordine, tornando alla carica”(3).

Fortunosamente scampato alla pena capitale, ebbe a subire dolorose traversie con il ritorno di re Ferdinando IV a Napoli e la restaurazione della monarchia: uscito dal carcere repubblicano l’11 luglio 1799, a seguito della capitolazione dei rivoluzionari asserragliati nel castello di Sant’Elmo, il 1° agosto successivo venne rinchiuso nelle regie carceri.

A suo carico pesava, infatti, la contestazione del potere del “Vicario” (Francesco Pignatelli di Strongoli), lasciato come alter ego dal re quando con la corte si era trasferito in Sicilia. Si sosteneva, in proposito, che, secondo antica tradizione, in assenza del sovrano, la potestà di governare la Nazione spettasse ai “Cavalieri della Città” ed ai componenti della “Deputazione straordinaria per il buon governo e per l’interna tranquillità”, che rappresentavano la città di Napoli(4); il Vicario, al più, avrebbe dovuto agire d’intesa con i “sedili”.

In questa situazione erano inevitabili dissidi ed incertezze nel governo della città, per cui lo stesso Vicario decise di rifugiarsi in Sicilia. Peraltro, una volta restaurata la monarchia e ritornato il Re nei suoi poteri, il Canosa venne nuovamente portato in carcere e sottoposto a giudizio per il suo comportamento nei riguardi del Vicario.

Il Presidente del Tribunale della Giunta di Stato, Vincenzo Speciale, che il Canosa definisce “pazzamente feroce”, chiede per lui la somma condanna, ma il Re, sollecitato dalle famiglie dei Cavalieri della Città, decise di affidare il giudizio finale anche alla Giunta del buon Governo, presieduta dal Principe di Cassaro, persona molto equilibrata. Lo stesso Canosa così racconta la vicenda: “i membri della Giunta di Stato furono scissi tra loro nella decisione della causa. La scissura toccò tanto gli estremi, che mentre uno votò per la morte, votarono due affinché venisse fatta relazione al Monarca intorno ai meriti che contratto avea colla buona causa il supposto reo. Tra le tante sentenze strampalate si cavò quasi come media proporzionale, tra chiassi ripetuti e cachinni la condanna di cinque anni di castello”. Precisamente, alla più mite condanna si giunse per l’assoluzione dalla reità di Stato e cioè dall’accusa di aver promosso l’instaurazione di una “repubblica aristocratica”, e per il riconoscimento solo dell’insubordinazione al Vicario(5).

Tuttavia, nel 1801, a seguito del Trattato di Firenze con cui Napoleone aveva imposto una generale amnistia per i giacobini condannati, anche il Canosa, che certamente non rientrava tra costoro, riacquista la libertà.

I repubblicani rivoluzionari, dunque, lo avevano condannato perché “monarchico” ed il Tribunale del re lo condannava perché incolpato di aver voluto instaurare una sorta di repubblica aristocratica: “monarchia” e “aristocrazia”, come rileva Benedetto Croce(6), sono proprio “i due elementi che egli bensì componeva armonicamente nella sua antiquata personalità, ma che la storia aveva scissi e messi in contrasto”.

3. – La “leggenda nera”. – Il Principe di Canosa è perseguitato da una leggenda nera che l’ha dipinto a fosche tinte in vita e continua a perseguitarlo anche dopo la morte; si è giunti ad incolparlo della strage di centinaia di migliaia di “giacobini, murattisti e carbonari”, fino ad attribuire alla sua nefasta influenza presso la Corte di Modena, il supplizio di Ciro Menotti. 4

Vincenzo Gioberti lo ritiene “uomo d’infame memoria, che, dopo commesso in Napoli ogni sorta di ribellione, trovò asilo tra le braccia dei gesuiti alle sponde del Crostole”(7).

Niccolò Tommaseo lo definisce “villano di Canosa, cacciato da Napoli e dalla Toscana come uomo stolidamente torbido e vituperevolmente irrequieto”(8); “prepotente, fanatico e cieco reazionario, nemico di ognuno che aspirasse ad ordini più civili di governo”, lo considera Matteo Mazziotti(9).

Giuseppe Mazzini – dal sicuro dei suoi esili, nota S. Vitale(10) – lo raffigura “colle baionette d’intorno e il carnefice a fianco”(11).

Più astioso è il giudizio di Pietro Colletta, che, ricordando il carcere subito dopo i moti del 1821, lo taccia di essere “aristocratico per dottrina, plebeo per genio”, “diffamato per opere pessime”, “orditore sagace… di trame, ribellioni, delitti”, “cagione di mille morti, o da lui date o dall’avversa parte, per vendetta e condanne”, “doppiamente adultero, sempre ubriaco di vino e di furore”, autore di “opere inique sotto le immagini del Salvatore e dei Santi”, “tenuto malvagio nel mondo”(12).

Sono affermazioni senza alcun fondamento, di cui specialmente quelle del Colletta furono dal Canosa puntigliosamente confutate in vita nell’Epistola ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del reame di Napoli del generale Pietro Colletta, pubblicata a Capolago nel 1834 e recentemente ripubblicata dal Vitale in appendice al suo volume “Il Principe di Canosa”.

A sua volta, il Blanch, dopo un generico apprezzamento dell’umanità del Canosa, bolla le sue vedute politiche come “una idea esagerata che ha la forza di rendere nulle le migliori intenzioni e le virtù stesse”(13).

Più benevolo è il giudizio di B. Croce(14) che di fronte alle voci calunniose della polizia del Saliceti e alle tenaci difese dello stesso Canosa, dichiara di propendere per queste, osservando che “l’uomo era bensì un don Chisciotte(15) della reazione, ma non punto sanguinario, né malvagio e nemmeno ingeneroso”.

Pur dichiarando di non volersi discostare dalle considerazioni del Croce, il Maturi(16) ridimensiona alquanto il sostanzialmente positivo giudizio del Croce osservando che “Accanto al generoso cavaliere, v’è nel Canosa il settario capace per odio di parte delle più basse delazioni e delle più odiose quali l’inasprimento delle pene in materia di opinioni, gli atti più odiosi quali i processi napoletani del 1799 e i processi piemontesi del 1833”.

Il conte Clemente Solaro della Margarita, che pure come il Canosa è fedele al trono e devoto all’altare, non è tenero nei suoi confronti: gli riconosce che è “uomo onesto, devoto ai buoni principi”, ma aggiunge che è “incapace di maneggiare affari di Stato, specialmente nell’epoca difficile di una restaurazione. Più poteva in lui la passione che il senno; non aveva idee fisse; non perseveranza di condotta; voleva il bene non sapeva operarlo; fu tremendo coi carbonari della plebe, i più accorti delle classi sociali riuscirono a schermirsene”.

4. – La complessa personalità costellata da eminenti doti. – I negativi giudizi espressi sul Canosa sono unilaterali e mostrano di non considerare le qualità che il personaggio possedeva in grande misura, come il sommo disinteresse personale, la generosità d’animo non venata da rancori, la costanza dei sentimenti, lo spirito di indipendenza alieno da cortigianeria.

I suoi sentimenti non sono stati mai contaminati da venature di interesse economico: “Io, afferma il Canosa, ero il capo di una patrizia famiglia commoda bastantemente nel mio paese.

Abbandonai tutto sul fondato timore di perder tutto, ed in effetti tutto perdei fuor che il mio onore. Nel venire non ebbi presente giammai altro che il mio dovere, l’odio verso la rivoluzione”(17).

Il tornaconto personale non ha mai ispirato o condizionato la sua attività, per difendere i suoi ideali sacrificò la famiglia (giovane moglie, teneri figli, vecchi genitori), gli studi, la tranquillità ed i suoi averi, tra cui la libreria che aveva “carissima”(18). 6

E’ anche il caso di ricordare che, quando si avvicina il pericolo dell’invasione straniera, il Canosa si arruola volontario nell’esercito regio e recluta, a proprie spese, una cinquantina di uomini a difesa di Napoli e della monarchia.

Il disinteresse economico ha, perciò, costituito la nota dominante della sua attività, come viene dimostrato dal fatto che è morto povero; in un mondo in cui l’utile personale costituisce la direttiva principale per ogni azione, questa sola connotazione contribuisce ad elevare la figura del Canosa ed a farlo assurgere a modello da imitare, anziché a farlo sprofondare tra i soggetti da scansare.

Canosa era senza dubbio generoso, così come può aspettarsi da una persona, come lui, di alto lignaggio; sono significativi, in proposito, alcuni episodi, forse di no grande rilievo, che però aiutano a comprendere meglio la sua personalità.

Così, nel soggiorno in toscano (1816), incontrato un vecchio compagno d’armi che si trovava in difficoltà economiche, gli concede il suo aiuto versandogli mensilmente la somma di cento lire. Si tratta di Giuseppe Torelli che non era propriamente un amico del Canosa perché a Ponza (1807), dove era stato costituito un “punto d’appoggio”, una specie di “resistenza”, per la preparazione di un movimento anti francese a Napoli, aveva cercato di metterlo in cattiva luce con la stessa Regina; in seguito, scomparsa la Regina, il Torelli aveva chiesto inutilmente aiuto al Ministro Medici che lo scacciò in malo modo. In Toscana, dunque, avvicina il Principe che, ricordando che era stato “nemico della rivoluzione, e fedele alla grande Maria Carolina… due attributi che per me canonizzano il demonio”, dimentica precedenti contrasti e gli concede concreto sostegno(19).

Meritevole di essere segnalato è anche il comportamento tenuto nei confronti del generale A. Bergani, che aveva aderito al regime costituzionale ed era rimasto fedele fino all’ultimo a Gioacchino Murat: mosso a compassione dalla supplica della moglie del generale, lo giustificò davanti al Re, facendo richiamo all’osservanza dello spirito militare e alle materiali necessità di sopravvivenza, e lo fece rimettere in libertà(20). 7

In precedenza aveva mostrato la sua magnanimità graziando alcuni sicari inviati a Ponza per la sua eliminazione dal ministro di polizia del napoleonide Giuseppe Bonaparte.

Un altro elemento costante della sua attività è stata l’avversione senza indulgenza ai moti rivoluzionari che cozzavano profondamente con la sua profonda convinzione di legittimista. Contro lo spirito rivoluzionario sostiene che la lotta non può essere affidata ai poteri ordinari e molto meno al potere costituzionale: “il solo che può vincerlo è un dispotismo vigoroso ed estremamente attivo”(21).

Con apprensione rileva, quindi, al ritorno di Ferdinando IV sul trono di Napoli, che i murattiani continuano a mantenere alte cariche nell’amministrazione statale e nell’esercito, i beni confiscati al clero e alla nobiltà non vengono restituiti, la fedeltà dei sudditi non viene in alcun modo ricompensata.

Teme, perciò, che la politica, seguita dai ministri Medici e Tommasi, finisca per isolare il Re che si troverà senza la difesa dei nobili, i cui poteri sono stati annullati, e senza l’ausilio del clero la cui autorità religiosa viene scossa da una diffusa miscredenza.

In questa situazione, osserva il Canosa, le forze rivoluzionarie si faranno vive e finiranno con il prevalere.

Le pessimistiche considerazioni del Canosa vennero esposte nel lavoro “I Piffari di montagna”, pubblicato nel maggio del 1820 ed assunsero subito il significato di una negativa profezia, in quanto, nel luglio successivo, scoppiano i moti rivoluzionari che costringeranno il Re a cedere il potere, salvo poi l’intervento restauratore delle truppe austriache.

Ricordando quegli avvenimenti qualche tempo dopo, il Cav. Luigi Medici, principe di Ottaviano, mestamente osservava che “Quando non si possa (rimettersi la feudalità), come veramente ben che non si possa, qual altro principio vi si surrogherà? Qui Canosa vuole dispotismo puro, i liberali costituzione e rappresentanza. Gli uni e gli altri dicon male: ma sarebbe lunga diceria e non ho tempo. Dico di volo che nel quinquennio [1815-1820] credei di sciogliere il 8

problema; ma, disgraziatamente, due tenenti [Silvati e Morelli che insorsero a Nola, chiedendo la costituzione] mi provarono che ero un coglione, e tutto fu rovesciato. Ond’è che non ci penso più”(22).

Qui, dunque, il Canosa ha avuto ragione; lo ammette anche Croce nel suo interessante saggio sul Principe di Canosa(23).

Senza alcun tentennamento od ombra di dubbio, il Canosa, era convinto monarchico; del resto, in quanto nobile, riteneva fermamente che “ove non vi è Monarchia, non vi è nobiltà”. Dei nobili, però, ricordava le tradizioni di fedeltà e di eroismo a difesa del Re e si rammaricava che, all’epoca, essi si fossero ridotti da aristocratici feudali in accidiosi cortigiani, rinunciando alla propria funzione di comando e di giustizia(24).

Il Canosa, però, non ha assunto mai atteggiamenti di cortigianeria e quando si è presentata l’occasione, senza venir meno all’ossequio dovuto alla maestà del capo dello Stato, ha palesato la difformità delle sue opinioni, mostrando l’indipendenza del suo spirito e nello stesso tempo la rettitudine del suo comportamento.

E’ sintomatico l’episodio del comando impartitogli dalla regina Maria Carolina, con la quale peraltro esisteva una grande comunanza di vedute, e che il Canosa dichiarò di non poter eseguire, perché era contrario alle leggi.

La Regina gli osservò: “Ma le leggi non le facciamo noi? Ebbene noi la sospenderemo o revocheremo”; il Canosa, tuttavia, mantenne il suo rifiuto, dichiarando: “Signora giustissima… non tutte le leggi sono fatte dal Re. Ce ne sono talune che sono leggi di cui la sorgente si trova naturale, nella legge emanata da Dio, che è il Re dei Re. La legge alla quale si oppone il comando, per equivoco, datomi da Vostra Maestà, è appunto una legge universale, una legge di natura”.

L’episodio merita particolare attenzione. Il Canosa, monarchico perinde ac cadaver, non esegue l’ordine regale perentoriamente impartitogli, ma la Regina, che pur sovente ricorda di essere “figlia di Maria Teresa” e perciò abituata a farsi ubbidire senza discussioni, non dubitava della realtà del Principe ed ha accettato le sue spiegazioni. Personaggi di diversa levatura, in simili frangenti si sarebbero

comportati in altro modo e sarebbero stati lieti di appiattirsi sui superiori regii voleri. Rifulge, quindi, nel Canosa la profonda conoscenza del diritto, acquisita in gioventù con l’esercizio della professione forense, e la spiccata accortezza nell’assolvere, al di là di ogni condizionamento, il suo ruolo di consigliere, additando la via più corretta per l’espletamento dell’attività di governo.

Strenuo difensore dei diritti della nobiltà, si oppose alla richiesta, loro rivolta, dall’avvocato fiscale Nicola Vivenzio di prestare il servizio militare in tempo di guerra.

In proposito, rifacendosi al giasnaturalismo, sostenne con fermezza che lo Stato, alla stessa guisa dei privati, deve rispettare i contratti. Orbene, gli antichi feudi concessi o donati dal Re, comportavano l’obbligo del servizio militare; ma l’obbligo venne abolito da Alfonso I d’Aragona e da Ferdinando il Cattolico e convertito in donativi.

Per quanto concerne i feudi moderni, osserva che venivano acquisiti a condizioni venali, ma che tra queste non era contemplato l’obbligo del servizio militare.

Per conseguenza, il Re non poteva pretendere dai nobili il servizio militare perché non era compreso nel contratto; ma, sostiene il Canosa, quando la monarchia si trova in pericolo, i nobili devono accorrere in suo aiuto spontaneamente, fornendo denaro ed uomini contro le avverse minacce.

Coerente con le sue opinioni, quando il Re con la corte si ritira in Sicilia e sorge la necessità di rinforzare l’esercito regio con altre truppe, il Canosa, come abbiamo accennato sopra, si reca nei casali vicini a Napoli, solleva gli animi contro i francesi e raduna, a proprie spese, circa cinquanta reclute.

Ma non “s’indusse a chiedere rimunerazione alcuna dalla generosità del Sovrano, trovandosi molto contento d’aver servito S. M. (D. G.)”(25).

6. – Riflessioni conclusive. – Anche oggi, pur dopo le importanti ricerche di W. Maturi e di S. Vitale e gli interessanti studi di B. Croce che hanno esaminato più estesamente la vita e le opere del Canosa, permane una generale avversione nei 10

suoi confronti, avversione che richiama singoli e certamente secolari episodi per farne discendere giudizi assolutamente negativi e perentori.

In effetti, il Canosa, quale arguto polemista, nel suo discorrere era solito avvalersi di paradossi e di enfatizzazione per colorire meglio le sue argomentazioni e sminuire quelle dei suoi oppositori.

Chi, come il conte Monaldo Leopardi, lo aveva avuto vicino per affinità di idee e per familiarità di rapporti e, quindi, si trovava in posizione privilegiata per valutare i suoi intimi pensieri ed i suoi concreti atteggiamenti, aveva chiaramente affermato che “Egli è l’Argante del Re, e bisognerebbe avere l’animo di Giuda per negargli il diritto all’omaggio e alla riconoscenza di quanti combattono per la difesa della legittimità”; e più oltre sottolineava che “In sostanza, se Voltaire fu il Patriarca dell’empietà, La Fajette è stato il Patriarca della bugiarda libertà, è Canosa incontra stabilmente il Patriarca del realismo e della legittimità”(26).

Alla morte del Canosa, è ancora il Leopardi che unicamente ne tesse l’elogio funebre, con appropriate espressioni che lungi dal diffondersi in ipocriti elogi, come si è soliti in simili occasioni, suonano a monito degli indolenti: “… una vergogna dell’Italia il non aver alzato una voce d’encomio”; ed a coloro che non volessero intendere ricorda apparentemente enfatiche ma rispondenti pienamente alla realtà che “Canosa era un gran dotto, un gran politico, un vero galantuomo e un vero cristiano”(27).

Domenico LA MEDICA

(1) non il 6 marzo, come afferma N. Del Corno, in Gli “scritti sani”, Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all’Unità, Milano, Franco Angeli, 1992, 37; il 6 marzo è la data di battesimo. (2) Il termine “lazzaro” non si rinviene nella letteratura napoletana anteriormente alla rivolta di Masaniello (1647) e forse deriva dallo spagnolo lazaro , cencioso, pezzente, con cui i signori napoletanoi, che spagnoleggiavano nella lingua, indicavano la torma dei popolani seminudi, di cui si circondava quel capopopolo; proprio perché vestiti di stracci, richiamavano alla mente il Lazzaro resuscitato e quello cencioso dell’Evangelo. Di lazzari si torna a parlare nelle burrascose giornate del 1799, per la loro resistenza alle truppe di occupazione francesi e, successivamente, quando, sotto la guida del cardinale Ruffo, si distinsero per la lotta contro i “giacobini”.

In seguito con l’espressione lazzaro si intese quella categoria del sottoproletariato che non aveva alcuna occupazione e viveva accontentandosi del minimo, ma che non per questo aveva perso la sua spensieratezza; come ideali, poi, nutriva “in religione, il culto devoto e fanatico dei Santi protettori e, in primo luogo, di San Gennaro, e in politica, il culto del re” (Croce B., I “lazzari, in Aneddoti di varia letteratura, II, Napoli, 1942, 428 ss.; Benigno F., Trasformazioni discorsive e identità sociali, il caso dei lazzari, in Storica, 2005, 7 ss.).

(3) Così si esprimeva il gen. Championnet, nella sua relazione al Direttorio, come riporta Colletta P., Storia del reame di Napoli, libro III, cap. XXII.

(4) Il privilegio della Città di Napoli di rappresentare la Nazione e di assumerne il governo, in caso di assenza o di imbecillità del Sovrano, si fa risalire all’antico patto tra il Re e Nazione sul quale si fondava la Monarchia. Questo privilegio si sarebbe dovuto ritenere ancora in vigore, in quanto Carlo di Borbone con il manifesto del 1753 aveva conservato alla Nazione i suoi privilegi, ricevendone in cambio il giuramento di fedeltà e con l’atto di cessione del 5 ottobre 1759, aveva trasmesso al suo figlio Ferdinando IV l’obbligo di osservare quei privilegi.

Pertanto, quando il Re si era allontanato da Napoli, la nomina del Vicario venne ritenuta come abuso regio contro i diritti della Città.

In effetti, la monarchia borbonica aveva perso l’antica fisionomia di monarchia feudale temperata dai privilegi per assumere quella di monarchia assoluta, perciò le pretese della Città, più che dirette a restaurare un diritto esistente, erano sembrate che dessero adito alla instaurazione di una sorta di repubblica aristocratica (v. Maturi W., Il Principe di Canosa, Firenze, 1944, 16 ss.)

(5) Merita di essere ricordata la memoria scritta a difesa del suo operato, in cui è evidente lo spirito polemista che caratterizza il suo stile e la cultura giuridica rafforzata nell’esercizio della professione di avvocato (a Napoli, li chiamavano e li chiamano tuttora “paglietta”) precedentemente svolta: “Non v’ha dubbio alcuno, che la lettera di dimissione scritta al signor Vicario Generale fu di vari giorni posteriore all’anarchia accaduta. Dunque la lettera fu scritta quando il potere civile non esisteva nelle mani del Vicario generale, anzi quando, cessato assolutamente tra tutti, era veramente Civitas dissoluta, … Dunque, il generale Pignatelli, nel momento in cui fu scritta la lettera, non era più nel fatto Vicario generale. Dunque con la lettera non se gli venne a togliere se non ciò che aveva col fatto già perduto. Dunque non venendo ad avere alcun affetto di fatto, non poteva averlo neanche di diritto” (riportata da Maturi W., Op. cit., 33).

(6) B. CROCE, Uomini e cose della vecchia Italia, Bari, 1927, 242.

(7) GIOBERTI V., Gesuita moderno, Losanna, 1846, II, 325.

(8) TOMMASEO N., Dell’Italia, I, cap. VII.

(9) MAZZIOTTI M., L’esilio di Pietro Colletta in Austria, in Nuova Antologia, 1° gennaio 1916, 4.

(10) VITALE S., Il Principe di Canosa e l’Epistola contro Pietro Colletta, Napoli, s.d., 8

(11) MAZZINI G., La Giovane Italia, Roma, 1902, 99.

(12) Storia del reame di Napoli (1734 – 1825), Capolago, 1834, I, 314: II, 16ss-; la colpa dell’adulterio si spiega forse perché dopo aver sposato donna Teresa Galluccio, dei duchi di Toro, aveva avuto relazioni con altre due donne che, però, si conclusero, appena il Canosa rimase libero, con regolare matrimonio: precisamente, la seconda moglie, Anna Orsellini, figlia di un cenciaio di Pisa, gli diede tre figli (due femmine ed uno maschio); alla morte di questa (31 dicembre 1836), sposò a Pesaro Teresa Gabellini di Roma, anch’essa di umili origini, alla quale era legato da precedente relazione.

(13) Scritti storici, II, Nota: Il sistema del Principe di Canosa, Bari, 1945, 121 ss.

(14) Op., cit., 244.

(15) Simile definizione era stata data a Metternich dal poeta austriaco Grillparzer, come vicorda Bagger E., Francesco Giuseppe, Milano, 1935, 22.

(16) Op. cit., 281.

(17) Un dottore in filosofia e un uomo di Stato, dialogo del Principe di Canosa sulla politica amalgamatrice, 1832, 15 seg.

(18) V. Epistola, cit., 133; per necessità economiche, fu in seguito costretto a disfarsi dei suoi libri (v. Maturi W., Il principe, cit., 146 n. 3).

(19) MATURI W., Op. cit., 136 n. 3.

(20) MATURI W., Op. cit., 155 seg..

(21) I Piffari di montagna ossia cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del principe di Canosa e sopra i Carbonari, 1820, 163.

(22) Si tratta di una lettera scritta dal Medici nel 1823, di cui dà notizia B. Croce, Uomini e cose, cit., 246. 12 P

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1799 IL “VELO DELL’OBLIO” : ERRORE O COLPA DI FERDINANDO IV?

Posted by on Feb 1, 2019

1799 IL “VELO DELL’OBLIO” : ERRORE O COLPA DI FERDINANDO IV?

     Di solito, alla fine di un conflitto, sia esso una battaglia di pochi giorni che una vera e propria guerra di più lunga durata, la storia che viene tramandata ai posteri è quella che reca l’ imprimatur del vincitore.

     Invece, nel caso della parentesi gennaio-giugno 1799, che interessò il Regno di Napoli la regola fece un’ eccezione, che comportò (e comporta tuttora) una lunga serie di diatribe e di accuse, che, a distanza di duecentoventi anni, non riescono ancora né a sopirsi né a trovare una soluzione.

     Avvenne che, sebbene Ferdinando IV avesse riacquistato il Regno ad opera del Ruffo e quindi fosse da considerare a tutti gli effetti il vincitore, diede agio ai vinti di scrivere la storia della loro breve esperienza politica come meglio loro aggradava, permettendogli così di fissare in maniera indelebile quella che sarebbe divenuta “la memoria” del 1799 ; per cui – caso quasi unico nella storia dell’umanità – i traditori della patria vennero elevati al rango di “patrioti” e coloro che erano insorti per difendere la propria patria, i propri beni, , la propria religione, la propria vita vennero considerati nemici della patria e persone non degne di essere ricordate, se non con gli epiteti più offensivi. A riprova di quest’affermazione, la Piazza dei Martiri situata in uno dei quartieri più eleganti della città di Napoli non è dedicata mica ai lazzari, ai sanfedisti o ai realisti, ma ai caduti della Repubblica Napolitana del 1799 (leone morente), ai caduti dei moti carbonari del 1820 (leone ferito dalla spada), ai caduti nei moti del 1848 (leone con lo Statuto del 1848 sotto la zampa), ai caduti dell’epopea garibaldina del 1860 (leone pronto ad attaccare la preda).

     Le motivazioni di fondo che indussero Ferdinando IV a volere che su tutta la vicenda del 1799 venisse steso il “velo dell’oblio” possono essere considerate un errore solo a posteriori. All’epoca dei fatti – come avverrà nel Risorgimento con la damnatio memoriae per le popolazioni dell’ex Regno delle Due Sicilie – Ferdinando IV aveva tutte le ragioni per ritenere che, decretando il silenzio assoluto sul triste periodo della Repubblica Napolitana, facendo distruggere finanche i verbali dei processi intentati contro i giacobini, il non parlarne avrebbe favorito pian piano un assopimento degli odi, e i fratelli che pochi giorni prima si erano trovati su posizioni opposte della barricata sarebbero ritornati a convivere pacificamente, come espressamente comandato anche durante i combattimenti sia dallo stesso re che dal suo vicario generale, cardinale Ruffo, che raccomandavano di non usare violenza contro persone notoriamente compromesse a livello politico, purché disarmate e in atteggiamento di dichiarata ed evidente non-ostilità.

     L’iniziativa, invece, fu e viene ancora strumentalizzata dagli epigoni dei repubblicani, che la imputano come colpa a Ferdinando, il quale, in questo modo avrebbe voluto eliminare in via definitiva  prove compromettenti a suo carico, o, comunque, a carico degli organi  della ripristinata monarchia, passando sotto silenzio che, comunque, i repubblicani condannati a morte ebbero un regolare processo  e dimenticando, invece, come furono trattati dai repubblicani i fratelli  Gerardo e Gennaro Baccker, i fratelli Ferdinando e Giovanni La Rossa e Natale D’Angelo, con un “supplizio crudele perché nelle ultime ore del governo, senza utilità di sicurezza ed esempio”, come ammise lo stesso Colletta  dichiaratamente non simpatizzante per i Borbone. [1]

     Nelle ore successive furono fucilate anche altre “undici persone della minuta plebe” e ci sarebbe stata una carneficina se ci fosse stato più tempo. [2]

“… Si era decretato di far morire nella notte il mio caro padre, li restanti fratelli con tutti li compagni carcerati ed sterminare ancora tutte e due le nostre intiere desolate famiglie  fino alli gatti…[3] (Parole della sorella dei Baccher, Angela Rosa, al medico napoletano Domenico Cotugno).

      Non è un mistero che i Borbone fossero più inclini al perdono che alla vendetta. E di prove ne esistono a iosa. Una per tutte il caso di Guglielmo Pepe.[4]  Né sono un mistero le condanne all’ esilio comminate agli esponenti repubblicani e più tardi ai liberali più compromessi al posto della condanna a morte o all’ ergastolo : esilio poi sfruttato dai beneficiati per infangare il nome del benefattore e per continuare a tramare per la sua scomparsa.

Castrese Lucio Schiano


[1] Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli, ed. Napoli, 1970, vol. II, p. 84

[2] Domenico Ambrasi, Don Placido Baccher, Napoli, 1979, p. 37 (l’Ambrasi riporta un’affermazione del Marinelli). 

[3] Domenico Cotugno, Lettere e scritti autografi, Sezione Manoscritti della Biblioteca Nazionale di Napoli, fondo San Martino, n. 122

[4] Iscritto nella milizia della repubblica, combatté contro i sanfedisti a Portici e a Napoli. Esiliato, riparò in Francia ove entrò nella legione italiana agli ordini di Napoleone. Tornato a Napoli dopo il 1801, congiurò contro i Borbone e fu arrestato per esser poi liberato nel 1806 da Giuseppe Bonaparte. Ristabilitisi sul trono i Borbone, ottenne il comando di una divisione, ma benché spedito per reprimerli, si unì, nel 1820, ai moti carbonari. Dopo il congresso di Lubiana fu sconfitto dagli austriaci a Rieti nel 1821. Nuovo esilio. Ma, nel 1848, Ferdinando II gli affidò il comando dell’esercito spedito nel Veneto contro gli austriaci. Scoppiati a Napoli i moti del 15 maggio, essendo stato invitato dal Re a tornare a Napoli, disobbedì e fu di nuovo sconfitto dagli austriaci. (in Domenico Sacchinelli – Memorie storiche sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo – Edizioni Controcorrente 2004, nota 59 pag. XXXIX dell’Introduzione di Silvio Vitale) ifo

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PRECISAZIONE DI LUCIO CASTRESE SCHIANO

Posted by on Gen 29, 2019

PRECISAZIONE DI LUCIO CASTRESE SCHIANO

UNA DOVEROSA PRECISAZIONE

     In calce all’articolo “Ancora sul 1799” pubblicato sul nostro blog in data 15 gennaio 2019 ho omesso di citare la fonte da cui ho ricavato le notizie tra virgolette relative al modo di intendere la libertà da parte dei repubblicani (sia francesi che napolitani).

     L’omissione è dovuta unicamente al fatto che la citazione della fonte era prevista per l’ intervento successivo che doveva avere per oggetto l’Eguaglianza e la Fraternità.

     Poiché del 1799 si è presentato alla mia attenzione un nuovo aspetto, che mi farà ritardare lo esame dei due restanti elementi della triade repubblicana, provvedo a porre riparo all’omissione.

     Le citazioni sono riportate in : “ 1799 LA GRANDE INSORGENZA Lazzari e sanfedisti contro l’oppressione giacobina”, di Francesco Mario Agnoli – Ed. Controcorrente, 1999 – pag. 193.

Castrese Lucio Schiano

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