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Torino, 1864: tutti i retroscena della prima strage di Stato

Posted by on Mag 31, 2019

Torino, 1864: tutti i retroscena della prima strage di Stato

Una delle più gravi “macchie” sul Risorgimento, uno dei passi più oscuri e inquietanti della storia d’Italia, riguarda la doppia strage di Torino del 21 e del 22 settembre 1864. Un episodio che, a distanza di oltre 150 anni, continua ad interrogare i (pochi) storici che hanno deciso di indagare su questi fatti. Perché l’uccisione di 55

(almeno) cittadini che manifestavano pacificamente contro lo spostamento della capitale a Firenze non può passare sotto silenzio: i libri di storia non ne parlano quasi mai, e se lo fanno dedicano all’avvenimento un accenno assolutamente secondario. Invece, si tratta di cosa di primaria importanza per capire il modus operandi del Risorgimento italiano: che, lungi dall’essere una radiosa storia di liberazione di popoli, come normalmente viene dipinta dalla storiografia ufficiale, rappresentò la ghiotta occasione per pochi di arricchirsi e di gettare la base di longeve fortune politiche, e per molti segnò la caduta in mano ad un regime dalle forme ambigue, che non esitava ad eliminare i suoi figli per altri e non certamente nobili interessi.

Il massacro di Torino rappresenta un chiaro esempio della politica messa in atto dal nuovo stato italiano. Stato che nasceva, come noto, con le macchinazioni segrete di Cavour con Napoleone III, e che continuava a procedere con la stessa linea anche dopo la morte del Tessitore. Il trasferimento della capitale da Torino, infatti, era contenuto una clausola segreta della Convenzione con la Francia stipulata il 15 settembre 1864 dal governo Minghetti. A firmarla furono, per l’Italia, l’ex braccio destro di Cavour e ambasciatore a Parigi Costantino Nigra e il barone Gioacchino Napoleone Pepoli, grande ideatore del trasferimento della capitale da Torino in qualunque altra città d’Italia. Tutte, purché non Torino.

Non è d’altronde una sorpresa, a chi analizza la storia senza paraocchi, che vi fossero allora (e vi sono tutt’oggi) forti acredini nei confronti del Piemonte: all’epoca, in buona parte d’Italia esso era visto dal popolo come un conquistatore straniero, mentre dall’aristocrazia e dalla buona borghesia schierate per l’unità della penisola si guardava alla regione sotto le Alpi come ad una colonizzatrice burocratica, poiché tutto il potere era nelle mani dei piemontesi. Era dunque preciso interesse delle altre regioni d’Italia fermare quanto prima la piemontesizzazione d’Italia; intervento che riuscì proprio in occasione della Convenzione stipulata con Napoleone III.

«Mettersi in tasca le chiavi della città capitale voleva dire esser padroni del centro propulsore della nuova Italia – ha giustamente osservato Roberto Gremmo, lo studioso contemporaneo che maggiormente ha approfondito i fatti del 1864 – in seguito, si cercò di presentare la controversa decisione come una “imposizione” francese, per “scusare” i politici coinvolti e nascondere le loro manovre. Invece, non vi sono dubbi sul fatto che l’operazione anti-torinese non venne partorita dall’imperatore d’Oltr’Alpe»[1].

Lo spostamento non fu voluto da Napoleone III

Per oltre un secolo e mezzo, i libri di scuola hanno ripetuto che lo spostamento della capitale fu voluto da Napoleone III. Sarebbe stata, in pratica, una sorta di “garanzia” che, in questo modo, l’Italia avrebbe rinunciato a Roma capitale. Per quale motivo la garanzia dovesse essere lo spostamento della capitale da Torino in una città terza, è mistero che non viene mai spiegato. È evidente che dietro un atto così importante non potesse esserci il capriccio di un sovrano straniero, che si divertiva a cambiare le capitali straniere come le dame ad un gran ballo; e se ciò è evidente oggi, lo era ancor più all’epoca. Lo spostamento della capitale, infatti, fu deciso dal ministro dell’Interno Ubaldino Peruzzi, dal sottosegretario all’interno Silvio Spaventa e dal barone Gioachino Napoleone Pepoli, che lo mise nero su bianco. Il tutto, ovviamente, di concerto con il capo del governo, Marco Minghetti.

Sulla spregiudicatezza del Peruzzi, toscano, basti ricordare che, sotto i Lorena, era direttore della Ferrovia Leopolda. Cioè, era pagato dalla Toscana perché servisse la cosa pubblica del granducato, mentre lui lavorava per guadagnarsi un posto nel nuovo Stato italiano e, al momento del “referendum” per l’annessione, diramò una circolare interna facendo propaganda elettorale per i Savoia. Abusando, cioè, della sua posizione. Peruzzi sapeva di restare impunito, così come sapeva di restare impunito “don” Silvio Spaventa. Discutibile ministro di Polizia a Napoli nel corso del governo luogotenenziale di Garibaldi, uomo dalle amicizie ambigue (leggasi: la Camorra) e abituato alle macchinazioni politiche, Spaventa aveva trovato nel Peruzzi un buon amico. Ma sia Minghetti che Pepoli che Peruzzi che Spaventa erano accomunati da un innato risentimento verso il Piemonte, e intesi a guadagnare dalla particolare contingenza storica il più possibile.

La Convenzione con la Francia era infatti l’occasione giusta per concretizzare un progetto che probabilmente risaliva ai primissimi mesi del regno d’Italia. D’altronde, che la capitale non dovesse restare a Torino in eterno non era mistero: già Cavour intendeva portarla a Roma; e Nigra, che di Cavour era il braccio destro, non aveva idee differenti. A farsi portavoce del trasferimento della capitale fu dunque Gioachino Napoleone Pepoli e Napoleone III accettò. Che le cose fossero andate così era risaputo, tant’è che se ne discusse perfino nella tesissima seduta del consiglio comunale di Torino la sera del 22 settembre (per voce del consigliere Scolpis, come si apprende dalla Gazzetta del Popolo di quel giorno).

Dunque, alla Convenzione fu aggiunta una clausola segreta e volutamente ambigua: «La Convenzione diventerà esecutiva sol quando il Re d’Italia avrà decretato il trasferimento della Capitale del Regno in quel luogo, che sarà susseguentemente stabilito da Sua Maestà. Il trasferimento sarà effettuato nel termine di sei mesi dalla data della Convenzione».

Il ministero dell’Interno contro Torino

Già si sapeva che la capitale sarebbe stata portata a Firenze? Probabilmente sì. Benché inizialmente fosse stata vagliata l’ipotesi di Napoli, caldamente sostenuta da Silvio Spaventa, Firenze sembrò più pratica per la collocazione geografica e per i convergenti interessi di Pepoli e di Ubaldino Peruzzi. Non a caso, fu proprio quest’ultimo (che, ricordiamo, all’epoca ministro dell’Interno) che diramò ai prefetti dell’Italia una circolare cifrata nella quale si invitava a promuovere dimostrazioni popolari in favore della Convenzione e del trasporto della capitale. «Dimostrazioni che ebbero luogo infatti dovunque in Lombardia ed in Toscana, a Bologna, nell’Italia meridionale, ed a cui il livore antipiemontese, diffuso specialmente nella classe media, finì per conferire un aspetto di vera spontaneità e di gioia sincera, che non poteva non offendere Torino e il Piemonte man mano che ne avessero notizia, provocando ivi una legittima reazione»[2].

Questa reazione, come è facile immaginare, ci fu. Anche se era ben prevista e sobillata ad arte da chi, in questo modo, intendeva dimostrare a tutta Italia che Torino non era città degna di mantenere il titolo di capitale. Il deputato Pier Carlo Boggio, a tal proposito, consegnò le sue riflessioni in un acceso dialogo con un amico, nel quale affermò: «Escandescenze, chiassate, tumulti, per metterci noi dalla parte del torto, e provocare in tutta Italia una reazione in favor del Ministero? Non vedi che questo appunto vorrebbero i signori ministri? Non vedi che hanno bisogno di un po’ di scandalo, per coprire con questo la vergogna propria?»[3].

A provocare furono anche i giornali, in primis la Gazzetta di Torino che si rivelò più governativa del governo stesso. Anche l’Opinione sposò la linea fiorentina.

Per giustificare lo spostamento, si disse che Torino era troppo vicina alla Francia e che sarebbe stata facilmente attaccata in caso di guerra. «Come? – annotò nuovamente Boggio – Facciamo un trattato colla Francia, un trattato il quale, secondo voi, restringe e rassoda i vincoli dell’alleanza italo-franca; un trattato per il quale la Francia ci favorisce fino a prometterci di abbandonare Roma, il Papa e il potere temporale… ed una delle clausole di questo trattato di amicizia colla Francia, sarà che la capitale si porti a Firenze, perché è a temere che la Francia – l’amica Francia – invada ed occupi Torino!!! Signori ministri, voi le sballate troppo grosse!»[4].

Due giorni di sangue

La dinamica degli eventi di piazza Castello, il 21 settembre, e di piazza San Carlo, il 22, è nota e qui sarà soltanto brevemente riassunta. Il 21 i disordini iniziarono davanti alla tipografia della Gazzetta di Torino, in piazza San Carlo: qui, la folla si accalcò davanti al giornale, accusato di essere palesemente menzognero e di aver offeso l’orgoglio cittadino plaudendo allo spostamento della capitale a Firenze. Immediatamente, giunse un nutrito numero di energumeni che iniziarono a picchiare i presenti; pochi attimi dopo, ecco giungere le guardie di Pubblica Sicurezza con le daghe sguainate. Sguainare la daga non era cosa da poco: si usava come ultima spiaggia, non per sedare una scazzottata in piazza. La notizia, come è logico, suscitò lo sdegno della cittadinanza: era considerato un insulto verso Torino e i torinesi.

Se proprio avessero voluto sedare dei moti violenti, i questurini potevano usare altri metodi. Addirittura, poteva essere chiamata la Guardia Nazionale che, essendo composta dai classici “padri di famiglia” era molto rispettata a Torino, più incline a risolvere le cose con metodi gentili e senza dubbio aveva l’unanime rispetto della cittadinanza. Così non era per la Questura, che già aveva rivelato la sua corruzione nella gestione del caso Cibolla [vedi l’articolo su Altrastoria.it].

La Guardia Nazionale, però, non fu mobilitata. Come e perché nessuno ritenne di farla intervenire in quei giorni confusi è un enigma mai risolto. Invece, furono chiamati i Carabinieri a dar man forte alla Questura. Ma non Carabinieri qualunque, bensì gli allievi. Impreparati. Inesperti. Con il senno di poi, è facile pensare che si fosse preparato il capro espiatorio per il parapiglia che puntualmente accadde. Infatti, la sera del 21, furono proprio loro a sparare sulla folla che in piazza Castello si era radunata numerosa.

Perché spararono? Si disse che la folla minacciava l’Arma, ma in realtà così non fu. Numerosi testimoni affermarono di aver udito distintamente un colpo isolato, pochi istanti prima della sparatoria in piazza. Da dove proveniva? «L’avvocato barone Chionio, presente in piazza, ove, data la sua posizione, s’era ben guardato dal mischiarsi a quella turba vociante, fece un’affermazione gravissima che, data la fonte, rappresenta un duro atto di accusa. A suo dire, quel colpo isolato era stato sparato “dalla linea dei carabinieri, ma più facilmente dietro questa linea, e forse anche dal Ministero dell’Interno”. Sarebbe stato una sorta di segnale […]»[5].

L’indomani, in piazza San Carlo si ripeté il massacro, in misura ancora maggiore. È di grande impatto la descrizione che ne fece la Gazzetta del Popolo, il 23 settembre: «Verso le nove in circa entrano nella piazza a migliaia di dimostranti. Alcuni, cioè i provocatori, tirano contro gli allievi carabinieri sassate e due colpi di fuoco. Allora alla sfilata e senza ordine gli allievi carabinieri escono dalla Questura e si dispongono sulla piazza facendo fuoco senza intimazione, tenendovisi autorizzati dai colpi avuti. Sopra una folla compatta ogni colpo fa una vittima ma l’orrore si accresce per un caso inaspettato. Gli allievi carabinieri s’erano ordinati in modo che parte obliquamente mirava ai portici a levante, parte a quelli di ponente. Ciò fa sì che mentre le palle tirate più a basso colpiscono cittadini, altre o più alte o passando nei vani vanno a ferire di qua di là i soldati, e atterrano tra gli altri il colonnello del 17° di fanteria colpito mortalmente sotto un orecchio. I soldati credendosi colpiti anch’essi prendono l’armi e sparano alla loro volta sopra la moltitudine presa da tre parti. Ma essendo essi schierati a fronte gli uni degli altri si feriscono anche tra loro! L’atroce spettacolo che allora presenta Piazza S. Carlo si può meglio immaginare che scrivere. La folla inerme fugge ma 27 cadaveri (oltre a quelli dei soldati) lasciando lunga e sanguinosa traccia. Il numero dei feriti più o meno gravemente è in proporzione. I calcoli più bassi accennano ad una sessantina. La piazza ha l’aspetto d’un macello di carne umana. I cadaveri dopo essere stati lasciati qua e là alcun tempo, vengono ammucchiati parte contro il monumento (nuovo piedistallo) parte altrove, e solo più tardi vengono trasferiti all’ospedale. Lo stesso de’ feriti. Alcuni debbono aspettare i soccorsi per impossibilità di muoversi. Ma non c’è pensato a preparare ambulanze e i soccorsi non vengono che tardi»[6].

Per due volte in due giorni, l’ordine di far fuoco sulla folla non fu dato da nessuno. Può tutto ciò essere frutto di sola impreparazione? Sì, secondo uno dei principali protagonisti di quei giorni, Marco Minghetti. Il ministro dell’Interno, senza esitazione, affermò che «i fatti di piazza Castello furono in parte effetto dell’inesperienza degli allievi carabinieri […] quanto poi ai fatti di piazza S. Carlo, io non ho mai saputo spiegarmene la origine»[7].

Agitatori e provocatori prezzolati

Perché accadde ciò che accadde? I torinesi non spararono né provocarono la reazione armata. Reazione, è bene ripeterlo, smisurata. Invece, fin da subito fu chiaro che in città, in quei giorni, giravano dei provocatori molti dei quali evidentemente non piemontesi, con lo scopo di stimolare la reazione delle guardie di Pubblica Sicurezza e degli allievi carabinieri. Testimoni «soggiungevano essersi visto andar attorno certe faccie di bravacci, nerboruti, robusti, risoluti; e qualche deputato di là, avendo riconosciute alcune ciere di antichi sgherri dello ex-reame [di Napoli, n.d.a.] averli interrogati del come e del perché fossero in Torino ed esserglisi risposto averli qui chiamati Don Silvio Spaventa. E si dicea che in mezzo alla folla inerme, e per nulla minacciosa ed ostile, eransi notati alcuni agenti provocatori che soffiavano nel fuoco della pubblica commozione, e cercavano spingere le cose là dove non era nei desideri del popolo congregato che andassero»[8], riferì il deputato Boggio, che impegnò praticamente i suoi ultimi due anni di vita (morì nel 1866) per ottenere giustizia e sapere la verità. Di alcuni di questi «bravacci» abbiamo anche il nome: sarebbero tali Alessandro Ribotta e Francesco Gauthier[9], feriti in piazza (Gauthier morì poco dopo), che ammisero di essere degli «agenti di polizia», termine che all’epoca era usato sia per le spie che per gli agitatori politici. Anzi: come abbiamo già avuto modo di osservare narrando i retroscena del caso Curletti [Leggi l’articolo pubblicato su Atrastoria.it], la polizia politica cavourriana si serviva diffusamente di questi provocatori che dovevano manifestare “a comando”, per spingere le piazze a comportarsi in un modo o in un altro.

Gremmo riferisce, nel suo studio, della presenza a Torino, in quei giorni, di tal Giuseppe Luciani, di origine romana: un ex volontario garibaldino, nota “testa calda”. Anni dopo, fu accusato di aver freddato il giornalista Raffaele Sonzogno e, nel corso del processo, venne alla luce il suo passato di “patriota” di giorno e delinquente di notte. Si scoprì che, proprio nei giorni del massacro di Torino, Luciani era in città «e non si limitava ad infiammare le riunioni dei liberali ma se la faceva con una banda di delinquenti che si davano convegno nella sordida stamberga di un calzolaio, certo Cecconi. […] Date le caratteristiche dei personaggi che ruotavano attorno al Luciani (gente di fuori, malvestiti, “fegatacci” pronti a tutto) non si dev’esser lontani dal vero nel sospettare che “qualcuno” abbia trovato fra loro la manovalanza che diede principio agli scontri»[10].

I provocatori prezzolati erano d’altronde numerosi, in quei giorni di sangue: chi altri potevano essere gli energumeni che inscenarono una scazzottata in piazza San Carlo per far intervenire le guardie di P.S. con la daga sguainata? E chi erano gli avventurieri, capaci di rischiare in primis la propria vita, che si mescolarono tra la folla per provocare la tragica reazione delle forze dell’ordine? Gente così non doveva aver niente da perdere.

Che il pandemonio di Torino non fosse un caso e che i torbidi rispondessero ad ordini precisi, trova spazio in numerosi cronisti contemporanei stranieri (dunque, più imparziali degli italiani). In particolare, il francese Charles de La Varenne merita un approfondimento, poiché questo coraggioso autore dedicò ampie pagine alla strage di Torino e, esattamente come il deputato piemontese Boggio, trovò rapida morte nel volgere di nemmeno un paio d’anni. Dell’interessamento di La Varenne e del suo caso daremo notizia in un ulteriore articolo (Leggi l’articolo su Altrastoria.it).

Le colpe delle Guardie di P.S. e degli allievi Carabinieri

A questo punto, merita spendere due parole riguardo alle mancanze e alle gravi colpe delle forze dell’ordine. Infatti, otre ai provocatori, la colpa fu decisamente anche delle guardie di P.S. e degli allievi Carabinieri. «Già nei primordi della sera [del 21, n.d.a.] il contegno di alcuni carabinieri fra quelli che erano in piazza S. Carlo avea dato luogo a gravi apprensioni. A più riprese essi aveano inve stito, coi fucili abbassati e baionette in canna, alcuni gruppi di cittadini inoffensivi […] gli allievi carabinieri schierati in piazza Castello aveano nel loro contegno un non so che di provocante, che facea presentire che dovea andr a finir male»[11].

Alcune spontanee domande: perché gli allievi carabinieri spararono senza ricevere un ordine chiaro? Perché questo atteggiamento deliberatamente violento, visto, annotato e denunciato da tanti testimoni? I sospetti che la strage non sia stata il frutto di una avventatezza, magari dalla scellerata paura che invase le forze dell’ordine facendo loro sparare per legittima difesa, ma che fu cercata a tutti i costi per preciso ordine ministeriale, sono forti e non possono essere cancellati dal modesto comunicato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale:

«Gravi disordini perturbarono ieri la tranquillità della città di Torino. verso le due pomeridiane vari assembramenti si vennero formando in alcuni punti della città. Essendo stata tentata un’aggressione all’ufficio della Gazzetta di Torino in piazza San Carlo, un drappello di guardie di P.S. disperse l’assembramento facendo uso delle sciabole. Per questo fatto deplorevole il Governo ha immediatamente ordinato un’inchiesta giudiziaria sulla condotta degli agenti di P.S.

Più tardi il tumulto in quella piazza divenne minaccioso contro l’ufficio della Questura che ivi siede. Oltre a parecchi soldati e tre ufficiali feriti a colpi di pietra si avevano già a deplorare tre uccisioni di due supposti agenti e di una guardia di P.S. quando sventuratamente una folla di persone armate di bastoni, di sassi ed alcune di pistola, avendo voluto forzare uno squadrone di allievi carabinieri situato fin dal principio della sera in piazza Castello, tentando di disarmarli, ed investendoli violentemente, questi fecero per propria difesa e senza comando una scarica di fila per le loro armi. La folla si disperse immediatamente. Si rinvennero dieci morti e vari feriti tra i cittadini. Vari carabinieri erano stati feriti con bastoni e pietre, fra i quali cinque gravemente. Finalmente la calma si ristabilì dopo la mezzanotte, anche col concorso di alcune pattuglie e di un drappello di Guardia Nazionale, che fu lasciato a difesa della Questura»[12].

Fu dunque detto che gli allievi carabinieri spararono per difesa, quando invece la cronistoria della giornata rivela notevoli abusi da parte delle forze dell’ordine. E la Guardia Nazionale? Come detto, non fu schierata. Di più: dopo i fatti del 21 settembre fu allontanata. «Il Municipio di Torino propose al Ministero dell’Interno di sostituire la truppa nel servizio interno della città con la Guardia Nazionale ma, più tardi, per accordi tra il generale Della Rocca e il Ministro Peruzzi, si decise il ritiro della Guardia Nazionale e il servizio d’ordine rimase affidato unicamente all’esercito e alla Polizia»[13]. Errori su errori. Il tutto, in una città tradizionalmente tranquilla, che mai si era ribellata, e dove dunque il buon senso avrebbe consigliato ben altra reazione.

Le indagini insabbiate e la conclusione: fu una Strage di Stato

Il re, che in tutta questa vicenda fu totalmente assente, in seguito ai gravi fatti di Torino ebbe la determinazione di sciogliere il governo. Tutto si sarebbe risolto così se non fosse stata richiesta a più voci un’inchiesta approfondita sull’eccidio. Nessuno pagò: nel 1865, tutti gli arrestati furono liberati da un’amnistia.

Quando Rosso e Gabotto, a inizio Novecento, vollero cercare qualcosa di più sugli avvenimenti del settembre 1864, ebbero l’amara sorpresa di scoprire che gli otto volumi dell’inchiesta giudiziaria, ampiamente citati negli anni immediatamente successivi alla strage, erano… scomparsi dagli archivi della Camera.

Riproponendoci di verificare di persona, resta la sensazione che le due giornate di Torino non siano state il frutto del caso, bensì siano state pensate e cercate affinché si dimostrasse all’Italia e all’Europa che a Torino non poteva restare la capitale d’Italia. Non in una città violenta, in piena sommossa popolare, che aggredisce le guardie e che dimostra tutto il suo livore campanilistico. Sappiamo che non fu così e che le manifestazioni di piazza furono fatte degenerare ricorrendo ai criminali soliti noti che la Questura di Torino conosceva bene, oltre ad un certo numero di forestieri. Che si trattasse di un’azione sordida, volta a privare Torino del ruolo di capitale ed arricchire i cospiratori, era d’altronde ben noto anche ai contemporanei più onesti. Bastino le durissime le parole de L’Armonia, foglio cattolicissimo e che, a rigor di logica, avrebbe dovuto tessere gli elogi di un accordo italo-francese che salvaguardava l’integrità degli Stati del Papa grazie ad uno spostamento della capitale: «La Convenzione colla Francia è un tradimento che invano si cerca di coprire coll’apparato ingannatore di ragioni di Stato […] è un insulto al Piemonte, uno sfregio insolentissimo e beffardo, che quattro scherani venuti dai covi massonici lanciano sul viso del nostro popolo»[14].

Un tradimento pagato con il sangue dei civili. Non si sa nemmeno quanti furono esattamente: i numeri variano a seconda dei testi consultati. Di certo, furono almeno 55 più un centinaio di feriti, molti gravi. Poveracci che pagarono con la vita il desiderio di una masnada di cospiratori che vollero così giustificare la necessità che l’Italia cambiasse capitale.

Note:

[1] R. Gremmo, La prima strage di stato, le giornate di sangue di Torino del 21 e 22 settembre 1864, Storia Ribelle, Biella, 1999, p. 44.

[2] P.C. Boggio, Firenze è Roma? Agenzia Compaire Editrice, Torino, 864, p. 16. Consultabile qui.

[3] Ivi, p. 20.

[4] Ivi, p. 26.

[5] R. Gremmo, op. cit., p. 72.

[6] Gazzetta del Popolo, 23 settembre 1864. Consultabile qui.

[7] Cit. in: AA.VV. Emanuele Luserna di Rorà, la famiglia e il suo tempo da Bene Vagienna a Torino all’Italia, Atti del convegno di Studi Torino-Bene Vagienna 4-5 maggio 2007, Centro Studi Piemontesi, 2008, p. 191.

[8] P. C. Boggio, Lettere ad Emilio Oliver, Tipografia Favale, Torino, 1864, p. 60. Consultabile qui.

[9] R. Gremmo, op. cit., p. 89.

[10] Ivi, pp. 94-95.

[11] P. C. Boggio, Lettere ad Emilio Oliver, op. cit., p. 61.

Giorgio Enrico Cavallo

Fonte

read:http://www.altrastoria.it/2018/09/19/strage-torino-1864/

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Liberali meridionali e deformazione della storia (prima parte)

Posted by on Mag 11, 2019

Liberali meridionali e deformazione della storia (prima parte)

Loreto Giovannone considera Francesco De Sanctis, uno dei protagonisti della transumanza ideologica fatta insieme a tanti altri borghesi meridionali dopo il 1860

La mistificazione. Un esempio di propaganda risorgimentale, un classico del darwinismo sociale che pervade, non solo tutta la società settentrionale ma tutti gli storici che discriminano il meridione preunitario ed esaltano il preteso “progresso” post unitario, è facilmente leggibile nella voce De Sanctis del dizionario biografico degli italiani Treccani messo in rete.

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La vera storia dell’impresa dei mille 10/ Ma quali eroi! Garibaldi e i garibaldini andavano a braccetto con i baroni e con i picciotti armati di lupara

Posted by on Mag 7, 2019

La vera storia dell’impresa dei mille 10/ Ma quali eroi! Garibaldi e i garibaldini andavano a braccetto con i baroni e con i picciotti armati di lupara

In questa decima puntata del libro di Giuseppe Scianò “… e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò Colonia” l’autore, lasciando parlare i testimoni dell’epoca (anche Giuseppe Cesare Abba, il cantore di Garibaldi, che da buon ligure non si rende conto, in certi passi, di smentire se stesso), ci dà la misura del ruolo centrale svolto dalla mafia durante la cosiddetta impresa dei mille 

3.1. Garibaldi a Salemi: di bene in meglio... – A Salemi il primo applauso, ma non certamente spontaneo. Il Barone Sant’Anna ed i suoi amici avevano fatto un buon lavoro. Una delegazione di cittadini di Salemi va infatti incontro festosamente a Garibaldi e gli mostra il tricolore che sventola sul castello, fatto costruire nel XIII secolo da Federico II, imperatore del Sacro Romano Impero e Re di Sicilia. È la prima volta che il tricolore precede l’arrivo dei Garibaldini. Soltanto di qualche ora, presumiamo.
Maggiori i festeggiamenti in città dove la gente grida: «Morte al barbone!» (e non «al Borbone», come sottolinea il Bandi che non perdona ai Siciliani la scarsa conoscenza e la pessima pronunzia della lingua italiana in quelle pochissime occasioni in cui la usano). Mentre Garibaldi con i baroni Mistretta, Torralta e soprattutto Sant’Anna fa alta politica (e di ciò parleremo ampiamente).

Il Bandi intanto ci spiega ciò che fanno gli altri Garibaldini:

«Tutto quel primo giorno di fermata a Salemi fu speso nel fare apparecchi, si tolsero due cannoni dai vecchi ed inutili affusti, per farne loro dei nuovi, ai quali si adattarono ruote da carrozze, si dié mano a fabbricar delle lance; si requisirono i cavalli, e si aprirono gli arruolamenti pei villani, che in buon numero erano accorsi in città».(8)

Dopo avere parlato della grande meraviglia dei villani (ma non erano quelli gli insorti ed i guerriglieri che si battevano per l’Unità d’Italia ancor prima dello sbarco dei Mille, come afferma la storiografia risorgimentale?), il Bandi ci dice che i villani stessi si mostrano veramente convinti che, con quei portentosi argomenti, i Garibaldini avrebbero sconfitto in prima battuta i Barbone, i Napoletani e gli sguizzeri.

Insomma il Bandi non ci sta a fare passare per insorti quei poveri villani, mandati lì magari dai galantuomini, dai quali dipendono. E non sospetta però che quei villani possano, con ammirazione ostentata, fare buon viso a cattiva sorte e farsi beffe di lui.

In qualche modo gli siamo grati tuttavia per il fatto che non parli di folle inneggianti all’Unità d’Italia ed a Vittorio Emanuele. Quello che invece non apprezziamo è il tono di superiorità che mostrerà sempre nei confronti dei Siciliani e l’ironia, talvolta eccessivamente cattiva, e persino razzista, con cui descrive, sempre o quasi, i suoi interlocutori locali.

Ecco, ad esempio, il commento che l’aiutante di campo di Garibaldi fa alla meraviglia di quei villani:

«Nel vedere quella gran curiosità de’ villani, io rammentavo i racconti di que’ viaggiatori, che ci dipinsero i selvaggi (sic!) stupiti e trasecolati dinanzi a’ coltelli e ai fucili e ai gingilli di vetro, che loro si mostravano per allettarli, e ne facevo gran festa».(9)

Poco dopo definirà, ancora una volta, Siciliani beduini i cosiddetti volontari. (10)

Necessaria, al riguardo, una riflessione. Il fatto che i collaborazionisti non vengano quasi mai stimati dal nemico (con il quale, appunto, collaborano) è notorio. Ma il Bandi, con il suo razzismo, ironico e graffiante, ci dimostra ancora una volta che i fratelli d’Italia, che nel maggio del 1860 avevano invaso la Sicilia, non erano affatto fratelli dei Siciliani. E che egli stesso, ufficiale addetto alla persona del generalissimo Garibaldi, era dopotutto prevalentemente un gran maleducato.

Un’ultima esperienza del bravo Bandi a Salemi. Ad un certo punto, nella piazza principale della città di Salemi, il Bandi vede campeggiare sul portone di un palazzo un grosso stemma dei Borbone. E chiede alla piccola folla che lo circonda:

«O Siciliani… che si tarda a buttar giù quella vergognosa insegna. La folla – continua il toscanaccio – mi ascoltò in silenzio; nessuno voleva essere il primo a fare atto di ribellione o a dir bravo! a chi lo proponeva».

Insomma il tenente Bandi non nutre, neppure per un attimo, il dubbio che l’impresa dei Mille possa non essere affatto condivisa da quelle persone che, dopotutto, sono pur sempre capaci di intendere e di volere più di quanto i Garibaldini non pensino. Racconta ancora:

«Ad un certo punto si fece dinanzi un uomo di belle forme e dall’aria risolutissima, che seppi essere uno dei fratelli Sant’Anna. Costui gridò: “Sì, sì, abbasso quell’arme!” e avventò contro l’arme una grossa mazza che aveva in mano». (11)

Il raccontino si conclude con il coraggioso gesto del Bandi che, salito su una scala, che intanto quei villani gli hanno portato, stacca lo stemma (di legno o di gesso probabilmente), lo getta a terra e lo dà in pasto alla folla che inizia a calpestarlo, a farlo a pezzi ed a bruciarlo, su suggerimento del vecchio Giusmaroli, che aveva raccomandato al Bandi «briusel, briu- sel», cioè brucialo.

Abbiamo riportato, pressoché integralmente, un episodio secondario che erò ci dà tante conferme importanti.

Come mai in una Salemi che festeggia, oltre ogni dire, l’ingresso
dell’Eroe, non esiste quel minimo di politicizzazione che faccia applicare la regola rivoluzionaria di abbattere le insegne dell’odiata dinastia dei Borbone? Che razza di insorti sono mai quelli di Salemi e che razza di rivoluzione hanno fatto? Cosa pensano realmente i cittadini di Salemi?

C’è di più, se stiamo bene attenti e riflettiamo su ciò che ha scritto il Bandi.
Nonostante le imprecazioni e le esortazioni del tenente garibaldino, la folla infatti non si era mossa. Si muoverà quando – e soltanto quando – uno dei fratelli del barone Sant’Anna darà l’imbeccata. Anzi darà un ordine ben preciso, come si addice al fratello del Capo, «dall’aria resolutissima». Come dire: «A Salemi non si muove foglia che il Barone Sant’Anna non voglia». Ma non solo in quanto barone, ma piuttosto come grande mas- sone o probabile, sempre più probabile, «pezzo da novanta» o comunque persona di rispetto, schierata dalla parte giusta.

La gente è condotta da gentiluomini…

A Salemi, ovviamente, arriva anche Cesare Abba, che, stanco per avere dovuto fare a piedi la salita scomunicata, ha il conforto – stando a quanto scriverà – di assistere ad un vero e proprio tripudio per Garibaldi.

«Quando giunse il Generale, fu proprio un delirio. La banda si arrabbiava a suonare; non si vedevano che braccia alzate e armi brandite; chi giurava; chi s’inginocchiava; chi benediceva: la piazza, le vie, i vicoli erano stipati; ci volle del bello prima che gli facessero un po’ di largo. Ed egli, paziente e lieto, salutava ed aspettava sorridendo».(12)

Dopo questa descrizione della gioia popolare, che esiste soprattutto nella sua fantasia, lo scrittore garibaldino torna ai fatti più terreni e così ci descrive la città di Salemi.

«L’hanno piantata quassù che una casa si regge sull’altra, e tutte paiono incamminate per discendere giù da oggi a domani. Avessero pur voglia di sbarcare i Saraceni, Salemi era al sicuro. Vasta, popolosa, Sudicia, le sue vie somigliano (a) colatoi. Si pensa a tenersi diritti; si cerca un’osteria e si trova una tana. Ed aggiunge: ‘ Ma i frati, oh! I frati gli avevano belli i conventi’, e questo dov’è la mia compagnia è anche netto. Essi se ne sono andati».(13)
I baroni, però, aggiungiamo questa volta noi, sono rimasti a Salemi per ricevere ed aiutare Garibaldi. Strano. Ma è così…

Va anche detto che i conventi vengono, quando servono, requisiti dai Garibaldini e che i frati, solitamente, ne vengono cacciati. Anche con la forza ove occorra.

L’Abba continua regalandoci qualche piccola ammissione:

«Gli abitanti non sono scortesi, sembrano impacciati se facciamo loro qualche domanda. Non sanno nulla, si stringono nelle spalle, o rispondono a cenni, a smorfie, chi capisce è bravo».(14)

Solita domanda, senza astio: se è vero che questi abitanti non sanno nulla (sarebbe stato più corretto dire: «fanno finta di non sapere nulla») o se rispondono a cenni e se… «Chi ci capisce è bravo», come si fa a dire che erano insorti e che volevano ad ogni costo l’Unità d’Italia e Vittorio Emanuele? E come avrebbe fatto di lì a poco Garibaldi a dire che lo volevano Dittatore?

L’Abba, sia pure con qualche puzza sotto il naso, deve riconoscere tuttavia il grande senso di ospitalità dei Siciliani e ci racconta:

«Entrai stanco in una taverna, profonda quattro o cinque scalini dalla via. V’era una brigata di amici, che mangiavano allegramente i maccheroni in certe ciotole di legno che… (forse: facevano schifo, n.d.A.). Eppure ne mangiai anch’io. E bevemmo e chiacchierammo, e c’eravamo quasi dimenticati d’essere qui a questi passi, quando…».(15)

Insomma proprio quando il buon ligure comincia a gustare il vino ed i maccheroni Siciliani, sarebbe stato avvertito che un «grosso corpo di Napo- letani» era stato avvistato a poche miglia da Salemi. Si torna quindi – nel diario dell’Abba – a parlare e a scrivere ufficialmente. Ed è così che si tirano fuori altri trionfi ed ovazioni di folla per Garibaldi, a piedi o a cavallo che appaia.

Ma un altro sprazzo di sincerità sfugge al nostro scrittore che, dopo avere parlato di squadre di insorti che arrivano da ogni parte, ci rende partecipi dell’impressione che gli hanno fatto questi volontari. Egli scrive:

«Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistola. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota».(16)

A parte la descrizione della conformazione fisica dei nuovi arrivati, che non sembrano certamente delle persone affidabili, è importante il fatto che l’Abba ci confermi quello che già abbiamo compreso dalle altre testimonianze. I picciotti, cioè, non hanno né avranno alcuna disciplina militare, perché obbediscono devoti soltanto ai gentiluomini dai quali sono condotti.

Per la mafia, che sta per fare il salto di qualità, si aprono grandi prospettive.(17) Mala tempora in vista, invece, per il Popolo Siciliano, per la Nazione Siciliana.

Garibaldi è ben visto dalla mamma – Secondo Giancarlo Fusco il merito principale delle accoglienze, con i baroni Mistretta, Torralta e soprattutto Sant’Anna fa alta politica (e di ciò parleremo ampiamente).

Il Bandi intanto ci spiega ciò che fanno gli altri Garibaldini:

«Tutto quel primo giorno di fermata a Salemi fu speso nel fare apparecchi, si tolsero due cannoni dai vecchi ed inutili affusti, per farne loro dei nuovi, ai quali si adattarono ruote da carrozze, si dié mano a fabbricar delle lance; si requisirono i cavalli, e si aprirono gli arruolamenti pei villani, che in buon numero erano accorsi in città».(8)

Dopo avere parlato della grande meraviglia dei villani (ma non erano quelli gli insorti ed i guerriglieri che si battevano per l’Unità d’Italia ancor prima dello sbarco dei Mille, come afferma la storiografia risorgimentale?), il Bandi ci dice che i villani stessi si mostrano veramente convinti che, con quei portentosi argomenti, i Garibaldini avrebbero sconfitto in prima battuta i Barbone, i Napoletani e gli sguizzeri.

Insomma il Bandi non ci sta a fare passare per insorti quei poveri villani, mandati lì magari dai galantuomini, dai quali dipendono. E non sospetta però che quei villani possano, con ammirazione ostentata, fare buon viso a cattiva sorte e farsi beffe di lui.

In qualche modo gli siamo grati tuttavia per il fatto che non parli di folle inneggianti all’Unità d’Italia ed a Vittorio Emanuele. Quello che invece non apprezziamo è il tono di superiorità che mostrerà sempre nei confronti dei Siciliani e l’ironia, talvolta eccessivamente cattiva, e persino razzista, con cui descrive, sempre o quasi, i suoi interlocutori locali.

Ecco, ad esempio, il commento che l’aiutante di campo di Garibaldi fa alla meraviglia di quei villani:

«Nel vedere quella gran curiosità de’ villani, io rammentavo i racconti di que’ viaggiatori, che ci dipinsero i selvaggi (sic!) stupiti e trasecolati dinanzi a’ coltelli e ai fucili e ai gingilli di vetro, che loro si mostravano per allettarli, e ne facevo gran festa».(9)

Poco dopo definirà, ancora una volta, Siciliani beduini i cosiddetti volontari. (10)

Necessaria, al riguardo, una riflessione. Il fatto che i collaborazionisti non vengano quasi mai stimati dal nemico (con il quale, appunto, collaborano) è notorio. Ma il Bandi, con il suo razzismo, ironico e graffiante, ci dimostra ancora una volta che i fratelli d’Italia, che nel maggio del 1860 avevano invaso la Sicilia, non erano affatto fratelli dei Siciliani. E che egli stesso, ufficiale addetto alla persona del generalissimo Garibaldi, era dopotutto prevalentemente un gran maleducato.

Un’ultima esperienza del bravo Bandi a Salemi. Ad un certo punto, nella piazza principale della città di Salemi, il Bandi vede campeggiare sul portone di un palazzo un grosso stemma dei Borbone. E chiede alla piccola folla che lo circonda:

«O Siciliani… che si tarda a buttar giù quella vergognosa insegna. La folla – continua il toscanaccio – mi ascoltò in silenzio; nessuno voleva essere il primo a fare atto di ribellione o a dir bravo! a chi lo proponeva».

Insomma il tenente Bandi non nutre, neppure per un attimo, il dubbio che l’impresa dei Mille possa non essere affatto condivisa da quelle persone che, dopotutto, sono pur sempre capaci di intendere e di volere più di quanto i Garibaldini non pensino. Racconta ancora:

«Ad un certo punto si fece dinanzi un uomo di belle forme e dall’aria risolutissima, che seppi essere uno dei fratelli Sant’Anna. Costui gridò: “Sì, sì, abbasso quell’arme!” e avventò contro l’arme una grossa mazza che aveva in mano». (11)

Il raccontino si conclude con il coraggioso gesto del Bandi che, salito su una scala, che intanto quei villani gli hanno portato, stacca lo stemma (di legno o di gesso probabilmente), lo getta a terra e lo dà in pasto alla folla che inizia a calpestarlo, a farlo a pezzi ed a bruciarlo, su suggerimento del vecchio Giusmaroli, che aveva raccomandato al Bandi «briusel, briu- sel», cioè brucialo.

Abbiamo riportato, pressoché integralmente, un episodio secondario che erò ci dà tante conferme importanti.

Come mai in una Salemi che festeggia, oltre ogni dire, l’ingresso
dell’Eroe, non esiste quel minimo di politicizzazione che faccia applicare la regola rivoluzionaria di abbattere le insegne dell’odiata dinastia dei Borbone? Che razza di insorti sono mai quelli di Salemi e che razza di rivoluzione hanno fatto? Cosa pensano realmente i cittadini di Salemi?

C’è di più, se stiamo bene attenti e riflettiamo su ciò che ha scritto il Bandi.
Nonostante le imprecazioni e le esortazioni del tenente garibaldino, la folla infatti non si era mossa. Si muoverà quando – e soltanto quando – uno dei fratelli del barone Sant’Anna darà l’imbeccata. Anzi darà un ordine ben preciso, come si addice al fratello del Capo, «dall’aria resolutissima». Come dire: «A Salemi non si muove foglia che il Barone Sant’Anna non voglia». Ma non solo in quanto barone, ma piuttosto come grande mas- sone o probabile, sempre più probabile, «pezzo da novanta» o comunque persona di rispetto, schierata dalla parte giusta.

La gente è condotta da gentiluomini…

A Salemi, ovviamente, arriva anche Cesare Abba, che, stanco per avere dovuto fare a piedi la salita scomunicata, ha il conforto – stando a quanto scriverà – di assistere ad un vero e proprio tripudio per Garibaldi.

«Quando giunse il Generale, fu proprio un delirio. La banda si arrabbiava a suonare; non si vedevano che braccia alzate e armi brandite; chi giurava; chi s’inginocchiava; chi benediceva: la piazza, le vie, i vicoli erano stipati; ci volle del bello prima che gli facessero un po’ di largo. Ed egli, paziente e lieto, salutava ed aspettava sorridendo».(12)

Dopo questa descrizione della gioia popolare, che esiste soprattutto nella sua fantasia, lo scrittore garibaldino torna ai fatti più terreni e così ci descrive la città di Salemi.

«L’hanno piantata quassù che una casa si regge sull’altra, e tutte paiono incamminate per discendere giù da oggi a domani. Avessero pur voglia di sbarcare i Saraceni, Salemi era al sicuro. Vasta, popolosa, Sudicia, le sue vie somigliano (a) colatoi. Si pensa a tenersi diritti; si cerca un’osteria e si trova una tana. Ed aggiunge: ‘ Ma i frati, oh! I frati gli avevano belli i conventi’, e questo dov’è la mia compagnia è anche netto. Essi se ne sono andati».(13)
I baroni, però, aggiungiamo questa volta noi, sono rimasti a Salemi per ricevere ed aiutare Garibaldi. Strano. Ma è così…

Va anche detto che i conventi vengono, quando servono, requisiti dai Garibaldini e che i frati, solitamente, ne vengono cacciati. Anche con la forza ove occorra.

L’Abba continua regalandoci qualche piccola ammissione:

«Gli abitanti non sono scortesi, sembrano impacciati se facciamo loro qualche domanda. Non sanno nulla, si stringono nelle spalle, o rispondono a cenni, a smorfie, chi capisce è bravo».(14)

Solita domanda, senza astio: se è vero che questi abitanti non sanno nulla (sarebbe stato più corretto dire: «fanno finta di non sapere nulla») o se rispondono a cenni e se… «Chi ci capisce è bravo», come si fa a dire che erano insorti e che volevano ad ogni costo l’Unità d’Italia e Vittorio Emanuele? E come avrebbe fatto di lì a poco Garibaldi a dire che lo volevano Dittatore?

L’Abba, sia pure con qualche puzza sotto il naso, deve riconoscere tuttavia il grande senso di ospitalità dei Siciliani e ci racconta:

«Entrai stanco in una taverna, profonda quattro o cinque scalini dalla via. V’era una brigata di amici, che mangiavano allegramente i maccheroni in certe ciotole di legno che… (forse: facevano schifo, n.d.A.). Eppure ne mangiai anch’io. E bevemmo e chiacchierammo, e c’eravamo quasi dimenticati d’essere qui a questi passi, quando…».(15)

Insomma proprio quando il buon ligure comincia a gustare il vino ed i maccheroni Siciliani, sarebbe stato avvertito che un «grosso corpo di Napo- letani» era stato avvistato a poche miglia da Salemi. Si torna quindi – nel diario dell’Abba – a parlare e a scrivere ufficialmente. Ed è così che si tirano fuori altri trionfi ed ovazioni di folla per Garibaldi, a piedi o a cavallo che appaia.

Ma un altro sprazzo di sincerità sfugge al nostro scrittore che, dopo avere parlato di squadre di insorti che arrivano da ogni parte, ci rende partecipi dell’impressione che gli hanno fatto questi volontari. Egli scrive:

«Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistola. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota».(16)

A parte la descrizione della conformazione fisica dei nuovi arrivati, che non sembrano certamente delle persone affidabili, è importante il fatto che l’Abba ci confermi quello che già abbiamo compreso dalle altre testimonianze. I picciotti, cioè, non hanno né avranno alcuna disciplina militare, perché obbediscono devoti soltanto ai gentiluomini dai quali sono condotti.

Per la mafia, che sta per fare il salto di qualità, si aprono grandi prospettive.(17) Mala tempora in vista, invece, per il Popolo Siciliano, per la Nazione Siciliana.

Garibaldi è ben visto dalla mamma – Secondo Giancarlo Fusco il merito principale delle accoglienze, quando – e soltanto quando – uno dei fratelli del barone Sant’Anna darà l’imbeccata. Anzi darà un ordine ben preciso, come si addice al fratello del Capo, «dall’aria resolutissima». Come dire: «A Salemi non si muove foglia che il Barone Sant’Anna non voglia». Ma non solo in quanto barone, ma piuttosto come grande mas- sone o probabile, sempre più probabile, «pezzo da novanta» o comunque persona di rispetto, schierata dalla parte giusta.

La gente è condotta da gentiluomini…

A Salemi, ovviamente, arriva anche Cesare Abba, che, stanco per avere dovuto fare a piedi la salita scomunicata, ha il conforto – stando a quanto scriverà – di assistere ad un vero e proprio tripudio per Garibaldi.

«Quando giunse il Generale, fu proprio un delirio. La banda si arrabbiava a suonare; non si vedevano che braccia alzate e armi brandite; chi giurava; chi s’inginocchiava; chi benediceva: la piazza, le vie, i vicoli erano stipati; ci volle del bello prima che gli facessero un po’ di largo. Ed egli, paziente e lieto, salutava ed aspettava sorridendo».(12)

Dopo questa descrizione della gioia popolare, che esiste soprattutto nella sua fantasia, lo scrittore garibaldino torna ai fatti più terreni e così ci descrive la città di Salemi.

«L’hanno piantata quassù che una casa si regge sull’altra, e tutte paiono incamminate per discendere giù da oggi a domani. Avessero pur voglia di sbarcare i Saraceni, Salemi era al sicuro. Vasta, popolosa, Sudicia, le sue vie somigliano (a) colatoi. Si pensa a tenersi diritti; si cerca un’osteria e si trova una tana. Ed aggiunge: ‘ Ma i frati, oh! I frati gli avevano belli i conventi’, e questo dov’è la mia compagnia è anche netto. Essi se ne sono andati».(13)
I baroni, però, aggiungiamo questa volta noi, sono rimasti a Salemi per ricevere ed aiutare Garibaldi. Strano. Ma è così…

Va anche detto che i conventi vengono, quando servono, requisiti dai Garibaldini e che i frati, solitamente, ne vengono cacciati. Anche con la forza ove occorra.

L’Abba continua regalandoci qualche piccola ammissione:

«Gli abitanti non sono scortesi, sembrano impacciati se facciamo loro qualche domanda. Non sanno nulla, si stringono nelle spalle, o rispondono a cenni, a smorfie, chi capisce è bravo».(14)

Solita domanda, senza astio: se è vero che questi abitanti non sanno nulla (sarebbe stato più corretto dire: «fanno finta di non sapere nulla») o se rispondono a cenni e se… «Chi ci capisce è bravo», come si fa a dire che erano insorti e che volevano ad ogni costo l’Unità d’Italia e Vittorio Emanuele? E come avrebbe fatto di lì a poco Garibaldi a dire che lo volevano Dittatore?

L’Abba, sia pure con qualche puzza sotto il naso, deve riconoscere tuttavia il grande senso di ospitalità dei Siciliani e ci racconta:

«Entrai stanco in una taverna, profonda quattro o cinque scalini dalla via. V’era una brigata di amici, che mangiavano allegramente i maccheroni in certe ciotole di legno che… (forse: facevano schifo, n.d.A.). Eppure ne mangiai anch’io. E bevemmo e chiacchierammo, e c’eravamo quasi dimenticati d’essere qui a questi passi, quando…».(15)

Insomma proprio quando il buon ligure comincia a gustare il vino ed i maccheroni Siciliani, sarebbe stato avvertito che un «grosso corpo di Napo- letani» era stato avvistato a poche miglia da Salemi. Si torna quindi – nel diario dell’Abba – a parlare e a scrivere ufficialmente. Ed è così che si tirano fuori altri trionfi ed ovazioni di folla per Garibaldi, a piedi o a cavallo che appaia.

Ma un altro sprazzo di sincerità sfugge al nostro scrittore che, dopo avere parlato di squadre di insorti che arrivano da ogni parte, ci rende partecipi dell’impressione che gli hanno fatto questi volontari. Egli scrive:

«Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistola. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota».(16)

A parte la descrizione della conformazione fisica dei nuovi arrivati, che non sembrano certamente delle persone affidabili, è importante il fatto che l’Abba ci confermi quello che già abbiamo compreso dalle altre testimonianze. I picciotti, cioè, non hanno né avranno alcuna disciplina militare, perché obbediscono devoti soltanto ai gentiluomini dai quali sono condotti.

Per la mafia, che sta per fare il salto di qualità, si aprono grandi prospettive.(17) Mala tempora in vista, invece, per il Popolo Siciliano, per la Nazione Siciliana.

Garibaldi è ben visto dalla mamma – Secondo Giancarlo Fusco il merito principale delle accoglienze, c’eravamo quasi dimenticati d’essere qui a questi passi, quando…».(15)

Insomma proprio quando il buon ligure comincia a gustare il vino ed i maccheroni Siciliani, sarebbe stato avvertito che un «grosso corpo di Napo- letani» era stato avvistato a poche miglia da Salemi. Si torna quindi – nel diario dell’Abba – a parlare e a scrivere ufficialmente. Ed è così che si tirano fuori altri trionfi ed ovazioni di folla per Garibaldi, a piedi o a cavallo che appaia.

Ma un altro sprazzo di sincerità sfugge al nostro scrittore che, dopo avere parlato di squadre di insorti che arrivano da ogni parte, ci rende partecipi dell’impressione che gli hanno fatto questi volontari. Egli scrive:

«Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistola. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota».(16)

A parte la descrizione della conformazione fisica dei nuovi arrivati, che non sembrano certamente delle persone affidabili, è importante il fatto che l’Abba ci confermi quello che già abbiamo compreso dalle altre testimonianze. I picciotti, cioè, non hanno né avranno alcuna disciplina militare, perché obbediscono devoti soltanto ai gentiluomini dai quali sono condotti.

Per la mafia, che sta per fare il salto di qualità, si aprono grandi prospettive.(17) Mala tempora in vista, invece, per il Popolo Siciliano, per la Nazione Siciliana.

Garibaldi è ben visto dalla mamma – Secondo Giancarlo Fusco il merito principale delle accoglienze, riservate dalla cittadinanza di Salemi a Garibaldi ed ai

suoi Mille, va attribuito a Giuseppe La Masa. In parte è vero. Ma il La Masa operava in un terreno già predisposto in tal senso dai fratelli Sant’Anna.

Riportiamo, tuttavia un passo della narrazione del Fusco perché, pur non dicendoci niente di nuovo, ci dà bene l’idea del clima e dell’ambiente che si erano creati a Salemi.

«La Masa ha lavorato bene!, mormora Garibaldi, piegato sulla sella, rivolgendosi a Sirtori. Il “fierissimo” Giuseppe La Masa, palermitano, spadaccino formidabile e oratore travolgente, ha preceduto la colonna di quasi 24 ore, per illustrare ai maggiorenti di Salemi le intenzioni di Garibaldi, convincerli a dargli man forte e prepararli all’entrata dei volontari. Il sindaco e i consiglieri comunali, i cosiddetti “decurioni”, per quanto meno restii di quelli di Marsala, lo avevano accolto con palese diffidenza. Ma alla fine, i suoi ragionamenti, favoriti dal dialetto, avevano fatto breccia.

E ora mentre la cavalla bianca del Generale si avvicina alla piazza principale, sospesa come un’ala bruna sugli ultimi uliveti, ecco che quel diavolo di La Masa esce dal palazzo comunale tirandosi dietro tutti i “pezzi grossi” locali: il barone Mistretta in elegante completo di velluto marrone, il sindaco Tommaso Terranova, gli esponenti più autorevoli del “Comitato di Liberazione”, costituitosi, ufficialmente, appena mezz’ora prima; il dottor Ignazio Lampiasi, l’avvocato Luigi Corleo, il notaio Luigi Torres… Tutti hanno in petto vistose coccarde tricolori. Tutti agitano i cappelli verso il cielo di smalto azzurro».(18)

Dopo avere descritto qualche altro episodio della giornata dei Mille a Salemi, compreso l’incontro con fra’ Pantaleo, francescano sui generis, il Fusco ci dà un elenco degli approvvigionamenti che il La Masa procura ai Garibaldini. Si tratta di generi acquistati con i soldi del Municipio e non certamente di offerte spontanee della cittadinanza.

«Garibaldi ha la dimostrazione tangibile di quanto sia stato efficiente La Masa nel preparare il terreno. Infatti, il sindaco Terranova consegna all’intendente Bovi una considerevole quantità di vettovaglie: 2000 razioni di carne, 4000 di pasta e di riso, 4000 di vino, 30 chili di caffè, 80 chili di zucchero, 200 chili d’olio, 40 di sale e un quintale di candelotti. Per mettere insieme 4000 pagnotte il sindaco, non essendo sufficienti i forni del paese, ha mobilitato, durante la notte del 13 anche i panettieri di Santa Ninfa. Paga il Comune. Ma Sirtori, per regolarità amministrativa, rilascia una ricevuta. Volendo, potrebbe anche provvedere a un immediato rimborso, giacché nella cassetta di ferro affidata a Bovi vi sono lire 92 mila e centesimi 75. Ma è meglio tenersi stretto quel danaro, finché è possibile. Visto che i Mille hanno bisogno di tutto: scarpe, vestiario, medicinali, armi, muli, cavalli…».(19)

Il Fusco, prescindendo dal tono ironico e dal fatto che analisi di carattere generale non ne vuole affrontare molte, ci fornisce uno spaccato, breve ma efficace, delle componenti sociali che in concreto forniscono il loro aiuto a Garibaldi.

Le masse contadine, delle quali parla la storiografia ufficiale, non si vedono. Si vede invece il «trasformismo» della classe politica, si vede la mafia, si vedono i baroni e le forze più retrive della società siciliana dell’epoca.

A proposito dell’apporto mafioso, sul quale torneremo continuamente, dobbiamo dire che per la verità questo si era già intravisto, ma molto di sfuggita in alcuni autori. Ci riferiamo all’Abba, al Nievo, allo stesso Bandi. Con Giancarlo Fusco – così come avviene per Denis Mack Smith – il riferimento alla mafia è abbastanza esplicito. Gli ridiamo la parola:

«Il sindaco Terranova, in cuor suo, è di tendenze piuttosto borboniche. Anche cinque o sei dei suoi consiglieri nell’intimo, sono devoti a Franceschiello. Ma, così come stanno le cose, è meglio mettersi sul petto grosse coccarde tricolori. A parte l’aria decisa di Garibaldi e dei suoi seguaci, anche i patrioti locali sono tipi notoriamente risoluti. Nei fuciloni dei “picciotti” vi sono, ben pressati, pallettoni grossi come ceci, impazienti di avventarsi contro i “signuri”. E poi, ieri sera, il barone Alberto Maria Mistretta, al cui passaggio tutti gli uomini si cavano rapidamente la “coppola”, mormorando il sacramentale “voscienza benedica”, ha parlato chiaro: “Garibaldi è ben visto dalla mamma. Quindi, bisogna dargli una manuzza!”. Tutti sanno di che “mamma” si tratta. È una “mamma” che ha migliaia di “figghiuzzi”, sparsi in tutta la Sicilia occidentale, pronti ad obbedirle ciecamente, senza discutere. Giacché anche la più piccola disobbedienza può costare una scarica di “lupara”. “E un sasso in bocca”».(20)

Ringraziamo il Fusco per questa testimonianza. Ma c’è ben poco da scherzare, soprattutto per i Siciliani. Anche perché la mafia era ed è estesa a tutta quanta la Sicilia.

E non solo…

Foto tratta da Radio Spada

Fine decima puntata / Continua

(8) G. Bandi, op. cit., pagg. 82 e 83.

(9) G. Bandi, op. cit., pag. 83.

(10) G. Bandi, op. cit., pag. 86.

(11) G. Bandi, ibidem.

(12) G. C. Abba, op. cit., pag. 60.

(13) G. C. Abba, op. cit., pag. 61.

(14) G. C. Abba, ibidem.

(15) G. C. Abba, op. cit., pagg. 61 e 62.

(16) G. C. Abba, op. cit., pag. 63.

(17) La mafia, come abbiamo avuto modo di chiarire in altra sede, di fatto nel 1860 in Sicilia esiste già. Ma è molto diversa da quella che si sarebbe affermata fra la fine del secolo diciannovesimo e di tutto il secolo ventesimo. È più che una grande organizzazione a sé stante, una specie di sottoproletario della camorra. La parola mafia è un neologismo ed è poco usata. Non è ancora entrata ufficialmente nelle cronache giudiziarie e letterarie. Lo farà dopo appena un biennio, con una commedia di grande successo popolare (I mafiosi della vicaria). Va ricordato che mafia, camorra e ’ndrangheta nelle rispettive realtà (Sicilia, Campania e Calabria) ed altre aggregazioni malavitose esistenti in tutto il Sud Italia avrebbero fatto uno storico salto di qualità proprio collaborando con Piemontesi, Inglesi e Garibaldini nella conquista del Regno delle Due Sicilie e nella successiva opera di sottomissione delle popolazioni ribelli.

(19) G. Fusco, op. cit., pag. 39.

Fonte

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La vera storia dell’impresa dei mille 7/ La disinformazione: gli inglesi inventano le ‘rivolte’ contro i Borbone

Posted by on Mag 3, 2019

La vera storia dell’impresa dei mille 7/ La disinformazione: gli inglesi inventano le ‘rivolte’ contro i Borbone

Oggi cominciamo a entrare nel cuore di quel grande imbroglio passato alla storia come ‘impresa dei Mille’. Quando i Mille sbarcano a Marsala non c’era alcuna rivolta contro il regno del Borbone. Ma i giornali internazionali – guidati dai disinformatori inglesi (quelli del ‘giornalismo anglosassone’…) – raccontavano un sacco di frottole. Un po’ come oggi certi giornali scrivono le panzane per denigrare il Movimento 5 Stelle. O come la disinformazione sulle stragi di Stato

di Giuseppe Scianò

Va avanti la realizzazione del progetto Inglese di unificare l’Italia dalle Alpi al Mediterraneo – Il Rosada pone un quesito a proposito dello sbarco dei Mille a Marsala dell’11 maggio 1860:

“Il dilemma in cui lo sbarco di Marsala aveva posto il Gabinetto britannico non era invero di facile soluzione. Era più conveniente agli interessi europei e mediterranei dell’Inghilterra favorire con l’unificazione dell’intera penisola, la formazione di un forte Stato nazionale, in grado di emanciparsi gradualmente dall’influenza francese, o difendere l’autonomia del Mezzogiorno con le consuete armi di un’aggressiva ‘Gunboat diplomacy’, sperimentata ancora una volta all’inizio dell’anno nella guerra Ispano-Marocchina, per ottenere a suo tempo da un indebolito e più docile Governo di Napoli l’assenso al distacco più o meno larvato della Sicilia dal Regno e al suo passaggio nella sfera d’influenza inglese?”.

Il Rosada stesso risponde:

“L’Inghilterra, com’è noto, scelse la prima strada, timorosa che sul trono di Napoli potesse salire il candidato ‘in pectore’ di Napoleone III, Luciano Murat; ciò che avrebbe riportato i rapporti di forza in Mediterraneo al punto in cui si trovavano nel 1808, all’apogeo dell’Impero napoleonico” (7).

Insomma il Rosada conferma in toto – e ne dimostra la fondatezza e l’attualità – l’esistenza di un pericolo francese che tende a minacciare la supremazia britannica nel Mediterraneo. Conferma così anche le previsioni del Ministro di Francesco II, Carlo Filangieri di Satriano, che però nutriva soprattutto la preoccupazione che l’Inghilterra brigasse molto per restituire alla Sicilia la propria indipendenza, attraverso il distacco dal Regno delle Due Sicilie.

Il Filangieri, infatti, aveva scritto a Francesco II, qualche tempo prima, riferendogli del suo colloquio con il Cien Roguet, inviato personale dell’Imperatore dei francesi Napoleone III, la lettera datata 1 ottobre 1859, della quale il Rosada ha riportato il passo essenziale.

“…Mi chiese poi notizie della Sicilia, ed io senza misteri gli accennai gli scandalosi intrighi degli Inglesi, che fomentavano in tutta l’isola i disordini ed il malcontento contro il provvido Governo di V.M. per promuovervi una esplosione, come quella del 1848, tendente alla separazione dell’isola dal Reame di Napoli nel che riuscendo manovrerebbero in modo da farla cadere sotto il protettorato o almeno sotto l’esclusiva loro influenza, ed allora scoppiando una guerra fra i due colossi occidentali il Mediterraneo, invece di essere un lago francese, come lo vollero Luigi XIV ed i suoi successori, diventerebbe un lago inglese, protetto da Gibilterra, Malta, Corfù, Messina, Augusta, Siracusa, che sono i più belli porti d’Europa…» (8).

Il Rosada, dopo aver riportato la lettera e fatto una panoramica dei tentativi di «Napoleone il piccolo» (la definizione non è nostra, ma di Victor Hugo) di inserirsi nella Penisola italiana, in contemporanea con la sottrazione di quest’area all’influenza austriaca, aggiunge:

“Nel marzo del ’60, la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, necessario compenso per l’acquiescenza di Napoleone III alle annessioni nell’Italia centrale, ridestava in Palmerston la vecchia diffidenza per i nebulosi sogni di Renovatio Imperi del nipote del grande Napoleone, appena sopita dalla stipula del trattato di commercio franco-inglese del 23 gennaio precedente”.

E dopo qualche altra osservazione, altrettanto acuta, il Rosada afferma:

“Di qui la seconda missione siciliana del Mundy, il cui tipico carattere politico-militare l’Ammiraglio cerca invano di velare con lo stesso ripetuto pretesto della protezione a proprietà britanniche, che nessuno minacciava. […] Nelle acque siciliane tra il Mundy e il suo collega francese, Barbier De Tinan, come dodici anni prima tra i loro predecessori, Parker e Baudin, si riaccendeva il vecchio contrasto franco-inglese per la supremazia nel Mediterraneo, di cui l’isola costituiva una posizione chiave” (9).

In verità – ci permettiamo di dire – la flotta francese fece poco e niente: creò false illusioni e lasciò tutta l’iniziativa agli Inglesi. Cosa, questa, che vedremo assieme fra non molto.

Il Governo di Londra non improvvisa: ha già deciso e calcolato tutto.
Un momento di approfondimento…

Apprezziamo le osservazioni del Rosada, ma crediamo che egli abbia collocato nel maggio 1860 la decisione inglese di sciogliere ogni riserva e di passare decisamente alla costituzione di un grande Stato Italiano esteso dalle Alpi al Mediterraneo, nel quale fossero fagocitati ed inglobati, al più presto (anche a costo di intervenire con la forza), tutto il territorio del Regno delle Due Sicilie e le popolazioni che lo costituivano. Insomma, ci è sembrato che il Rosada sostenga che la spedizione dei Mille e lo sbarco di Marsala abbia fatto precipitare in senso unitario ed italo-sabaudo le scelte politiche della Gran Bretagna.

Il dubbio ci obbliga a esporre, con chiarezza, quella che invece è la nostra opinione. Per sostenere la quale non mancheremo di avvalerci anche della rappresentazione contestuale, puntuale e fornisce lo stesso Rosada.

Riteniamo, infatti, che il Gabinetto Inglese avesse già preso, da tempo, ogni decisione in proposito. Ancora prima cioè che l’idea della Spedizione avesse preso corpo. Un’idea alla quale l’Inghilterra dava sin dall’inizio il proprio contributo. Si pensi alla «patente per Malta» della quale ci ha parlato il Cantù (10).

I sintomi sono moltissimi. Ne citiamo alcuni relativi proprio alla Spedizione dei Mille. Intanto la Spedizione fu etichettata, fin dall’inizio, con il motto Italia e Vittorio Emanuele. E non certo per lasciare contento il Re Sabaudo, beneficiario del tutto, ma per dichiarare esplicitamente l’obbedienza al disegno inglese, senza lasciare spazio ad equivoci o ad imprevisti. Va considerato, infatti, che Garibaldi, nello stesso momento in cui partiva la Spedizione, aveva già inviato il seguente messaggio, probabilmente costruito dalla diplomazia anglo-piemontese, al Re di Sardegna (Piemonte), futuro Re d’Italia, Vittorio Emanuele II.

“Sire! Il grido di aiuto che parte dalla Sicilia ha toccato il mio cuore e quello di parecchie centinaia di miei antichi soldati. Io non ho consigliata l’insurrezione dei miei fratelli di Sicilia, ma dacché essi si son levati in nome dell’unità d’Italia rappresentata in nome di V. M., contro la più vergognosa tirannia dei nostri tempi, io non ho esitato a farmi capo della spedizione. So che l’impresa in cui mi metto è pericolosa; ma io confido in Dio e nel coraggio e nella devozione dei compagni. Il nostro grido di guerra sarà sempre: ‘Viva l’Italia, Viva Vittorio Emanuele suo primo e più prode soldato!’ Ove noi avessimo a soccombere, io spero che l’Italia e l’Europa libera non dimenticheranno che quest’impresa è stata ispirata dal più generoso sentimento di patriottismo. Se vinceremo io avrò il vanto di adornare la Corona di V. M. d’un nuovo e forse più splendido gioiello, a sola condizione però che Ella non permetterà che i suoi consiglieri lo trasmettano agli stranieri, come hanno fatto della mia città natale. Non ho comunicato il mio progetto a V. M. perché temevo che la grande devozione che io sento per Lei, mi avesse persuaso ad abbandonarlo. G. Garibaldi”.

Certamente fu messa in moto la consueta manfrina con la quale, offendendo l’intelligenza dei contemporanei e dei posteri, si volle far credere che Vittorio Emanuele II ed il Governo Cavour fossero, poveretti, all’oscuro di tutto. Se fosse stato vero, sarebbero stati gli unici di quel regno.

E anche questa fu una finezza britannica, recitata male in italiano. Ma di fatto millantata ed opportunamente strumentalizzata.

Rimane comunque evidente la caratterizzazione in senso unitario e monarchico della spedizione, così come pretendeva il Gabinetto Palmerston.
Anche la notizia (che venne ripetuta ad ogni piè sospinto e che avrebbe fatto indignare, per la sua falsità, financo due Garibaldini come il Bandi ed il Nievo) secondo la quale i Siciliani sarebbero stati in piena rivolta (perché impazienti di ottenere l’Unità d’Italia con il suo Re Vittorio Emanuele), rientrava nella particolare attenzione che l’Inghilterra, come sempre, dedicava agli umori dell’opinione pubblica, non solo di casa propria.

Non mancò, infine – e questa, sì, tipicamente italiana – quella dichiarazione, apparentemente ruffianesca, già sopra riportata, con la quale l’Eroe Nizzardo dichiarava di volere adornare di un nuovo e splendido
gioiello la corona del Re Galantuomo…

Di fatto Garibaldi riproponeva la centralità del suo ruolo personale
nell’operazione Conquista del Sud. Non si contentava infatti della parte di mosca cocchiera tra mosche cocchiere. Era infatti lui, Peppino Garibaldi, che avrebbe donato al Re Sabaudo l’ex Regno delle Due Sicilie e che voleva essere il protagonista principale dell’impresa in corso.

Il Governo Britannico e l’opinione pubblica internazionale – Ribadiamo che gli Inglesi avevano preparato lungamente il terreno. Senza questa preparazione la Spedizione non avrebbe avuto la benché minima speranza di successo.

Si pensi alla corruzione degli alti gradi dell’Esercito e della Marina del Regno delle Due Sicilie. Si pensi ai contatti con la mafia, la ’ndrangheta, la camorra. Si pensi al lavorìo, più raffinato, della Massoneria. Si pensi alle truppe mercenarie che alla data del 5 maggio 1860 (ed anche da prima) erano state nella stragrande maggioranza finanziate, addestrate e mobilitate in varie località dell’Europa e probabilmente dell’Africa.

Tutte cose che non si possono preparare dall’oggi al domani. E non parliamo della messa in riga dei repubblicani, i quali non sono certamente quella decina di sprovveduti della bassa forza, che avrebbero protestato nel momento iniziale della spedizione. Ci riferiamo ai repubblicani illustri, che erano stati già ospitati – e forse foraggiati – per anni ed anni, in Inghilterra.
E che ora non potevano dire di no.

Non parliamo neppure dei giornali, dei finanziamenti, delle congiure, delle sommosse e delle rivolte, incoraggiate tramite servizi segreti e persone di fiducia. Rivolte spesso inconsistenti, ma sempre utili per la propaganda.
Non solo: proprio in questo momento delicato davano preziosi frutti le campagne di stampa e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica contro quelle belve dei Borbone, spergiuri, tiranni, vampiri ed assassini.

Campagne propagandistiche preparate nel tempo dagli Inglesi. Il Governo di Londra peraltro continuava a fare pubblicare giornali e libri che esaltavano i regnanti di Casa Savoia come angioletti benefattori. Gli Inglesi mentivano nell’uno e nell’altro caso. Dobbiamo peraltro dire che, se qualche grossa accusa di spergiuro (nei confronti della Sicilia, soprattutto, e della sua Costituzione) si poteva rivolgere ai Borbone, senza dubbio maggiori erano le accuse che si sarebbero dovute rivolgere ai Savoia, già dal primo momento dell’operazione Conquista della Sicilia.

Ma queste cose l’opinione pubblica internazionale non aveva modo di conoscerle, se non approssimativamente. Vinceva la disinformazione accuratamente pilotata dal Governo di Londra per coinvolgere l’opinione pubblica internazionale a favore di una conquista militare che mirava ad occupare, a conquistare, a distruggere, a colonizzare, a depredare e a denazionalizzare il Regno delle Due Sicilie ed i Popoli del Sud. Quello Siciliano soprattutto anche per la centralità geografica nel Mediterraneo della stessa Sicilia.

Il ‘padre della Patria siciliana’, Ruggero Settimo, dov’era? – Ben pochi pensano o sanno – a proposito di disinformazione – che Ruggero Settimo, il leader carismatico dell’Indipendentismo Siciliano, era formalmente un rifugiato politico nell’isola di Malta, sotto tutela della Gran Bretagna. In verità era stato letteralmente congelato per non disturbare i lavori in corso.

Eppure, il 26 settembre 1849, poco dopo la conclusione della tragica, sfortunata, ma gloriosa rivoluzione indipendentistica e della breve ma significativa vita dello Stato Siciliano (11 gennaio 1848 – 15 maggio 1849), Ruggero Settimo era stato accolto, a La Valletta, con gli onori dovuti ad un Capo di Stato. E come tale fu trattato. Fatto, questo, che è ben conosciuto da coloro che hanno studiato le vicende siciliane del biennio 1848-1849.

Ma nel 1860 Ruggero Settimo era diventato a poco a poco un prigioniero – seppure in gabbia dorata – del Governo Inglese. Il quale ormai non voleva sentire più parlare di indipendenza siciliana ed era amico soltanto di coloro che erano disposti a lavorare per l’annessione della Sicilia al futuro Regno d’Italia.

Kermesse britannica? Sì, ma per scoraggiare gli altri Stati – Certamente, dopo lo Sbarco dei Mille – uno sbarco impasticciato dal piroscafo garibaldino ‘Lombardo’, che si sarebbe addirittura incagliato da solo nel basso fondale – gli Inglesi capirono che dovevano stare con gli occhi bene aperti. Dovevano infatti condurre manu manuzza, come si dice in Sicilia, tutta l’operazione conquista del Sud. Non bastava avere preparato le condizioni necessarie, bisognava intervenire più direttamente. Non solo nello Sbarco e nel dopo Sbarco, ma in tutta l’operazione Unità d’Italia.

Sarebbe stato, quindi, dominante il sistema delle interferenze britanniche, che erano una garanzia di costante ed autorevole protezione. Ad ogni costo e a tempo pieno. Il tutto mentre le ‘mosche cocchiere’ si accingevano a diventare Padri della Patria italiana.

Ciò, senza nulla togliere ai veri idealisti unitari, che pure vi furono (ma non nella misura e nella qualità dei colleghi dell’Italia centro-settentrionale). Pensiamo ad esempio ai fratelli Cairoli, dei quali, nelle vicende risorgimentali, ne morirono quattro su cinque. Tutti eroi (11). E senza pericolo di confonderli con le ‘mosche cocchiere’ che, spesso, non ebbero neppure l’onestà di svolgere con la dovuta professionalità e con correttezza il loro ruolo. Queste, peraltro, avrebbero ricevuto molto di più, di quello che avrebbero meritato, in termini morali e materiali.

Come distruggere le aspettative indipendentiste dei Siciliani – I fatti successivi dimostreranno ulteriormente la esattezza della tesi, secondo la quale, dall’inizio alla fine, l’operazione Unità d’Italia del 1860 era il risultato di un lavoro avviato da diversi decenni dagli Inglesi. E l’operazione, proprio per la esigenza di creare un unico grande Stato Italiano, escludeva a priori qualsiasi altro progetto che rispettasse le esigenze della Nazione Siciliana, del Popolo Siciliano. Nessuna speranza di sopravvivenza o di rinascita del Regno di Sicilia (o del Regno di Napoli e, neppure, del Regno delle Due Sicilie). Insomma: Regnum utriusque Siciliae delendum est.

L’Inghilterra impone le proprie scelte in campo internazionale –
Poniamo un altro interrogativo:

“A parte il Papa Pio IX, chi realmente si opponeva al disegno Inglese?”.

Di fatto nessuno, soprattutto dal punto di vista militare. Neppure i Paesi che avevano interessi contrastanti con quelli dell’Impero della Regina Vittoria. Questi Stati non avevano in quel momento le forze, i mezzi ed il coraggio sufficienti a neutralizzare le azioni del Leone Britannico.

L’opposizione del Papa, inoltre, sul piano militare era inconsistente. Pio IX, infatti, senza l’appoggio di guarnigioni straniere, non poteva neppure salvaguardare i confini del proprio Stato, che infatti erano stati già nel 1860, ed anche prima, pesantemente violati ed anche spostati, ad ogni piè sospinto, soprattutto per opera del Governo Sabaudo di Torino.

Sostanzialmente contrari all’egemonia ed all’espansionismo britannico erano soprattutto, oltre alla Francia (della quale il Rosada ha parlato ampiamente), Prussia, Austria e Russia. Paesi verso i quali il Regno delle Due Sicilie, a prescindere dalle simpatie politiche e dalle affinità ideologico-culturali dei rispettivi governanti, aveva in corso una serie di trattati commerciali e di scambi destinati a svilupparsi ulteriormente. Ovviamente se lasciati indisturbati. Fossero rimasti o no i Borbone sul trono di Napoli.

All’Inghilterra tutto ciò dava fastidio, perché vedeva minacciati i propri monopoli e sapeva bene che, dietro i commerci, sarebbe potuta crescere l’influenza politica. Si pensi al fatto che in Sicilia erano presenti alcuni Consolati Russi, tanti erano i rapporti commerciali e gli scambi di ogni tipo.

Purtroppo i Paesi – contro i quali pure si muoveva pesantemente la strategia dell’Inghilterra – avevano preferito la linea morbida, pensando a torto di imbuonire la Potenza Britannica non contrariandola troppo apertamente. Ed avevano anche agito ciascuno per conto proprio, senza neppure tentare una strategia comune. Il terrore di subire ritorsioni da parte del Leone Britannico aveva bloccato e continuava a ‘bloccare’ tutti.

Ammettiamo, quindi, senza timore di smentita, che nell’Europa e nel mondo, nel 1860, solo l’Inghilterra era nelle condizioni di dettare legge e di ridisegnare confini ed equilibri internazionali. E per il Regno d’Italia aveva già disegnato, appunto, uno Stato monolitico ed accentratore ed un territorio che andasse dalle Alpi al cuore del Mediterraneo, isole comprese. Povera Sicilia!

Torino. Numerosi «esuli Siciliani» vengono strumentalizzati e coinvolti nella strategia dell’occupazione della Sicilia, abbandonando spesso gli ideali che avevano animato la lotta per l’indipendenza della Sicilia nel biennio 1848-1849.

Una volta che tutto il Regno delle Due Sicilie fosse stato sacrificato a favore del costituendo Regno d’Italia ed una volta che quest’ultimo fosse rimasto legato all’Inghilterra da vincoli di gratitudine, di amicizia e, soprattutto, di interessi (e ne fosse diventato quasi uno stato vassallo), che motivazioni sarebbero più esistite per il Governo Britannico per agevolare
– o solamente per non ostacolare – l’indipendenza della Sicilia?

Risposta: ‘Nessuna!’.

Piuttosto esisteva tutto l’interesse per fare l’esatto contrario. E cioè: impedirne l’indipendenza. Ed accorpare la Sicilia allo Stivale. Da questa situazione sarebbe partita anche l’operazione di travasare nelle manovre per realizzare l’Unità d’Italia gli esuli Siciliani, che, a seguito della restaurazione borbonica del 1849, si erano trasferiti nel Regno Sabaudo. Qui, tutti o quasi, quegli esuli avevano ricevuto onori, incarichi prestigiosi e prebende di vario tipo. Era avvenuto così, che buona parte degli esuli Siciliani fosse diventata unitaria e filo-sabauda. Una pagina nera per l’Indipendentismo Siciliano, che però non coinvolse proprio tutti gli esuli. Alcuni di questi rifiutarono, infatti, incarichi e prebende e, seppure con prudenza, continuarono a difendere le ragioni e i diritti della Nazione Siciliana. Senza fortuna.

L’Imperatore Napoleone III, da parte sua, capì troppo tardi quanto stava accadendo in Italia e che il progetto inglese mirava, sì, a distruggere la dinastia borbonica e le sue ramificazioni, ma mirava, nel tempo, a distruggere anche la dinastia dei Bonaparte ed il rinato nazionalismo francese.

Dice Giorgio Dell’Arti: “I francesi temevano nuovi ingrandimenti territoriali del Piemonte e la formazione di un Regno d’Italia talmente forte che sarebbe stato impossibile influenzarlo. Tentarono di convincere gli Inglesi a fare causa comune per evitare annessioni. Ma Palmerston voleva un Regno d’Italia forte a quel modo» (12) che danneggiasse con la sua esistenza anche la Francia… (n.d.A.).

Napoleone III, come abbiamo visto, era un grande ammiratore dell’operato del Governo di Londra, ma non aveva ancora ben capito che l’Inghilterra lo detestava. Né aveva mai nutrito il sospetto che quando e se (dopo meno di dieci anni da quei fatti) il suo Impero fosse stato mandato a gambe all’aria dalla Prussia, gli Inglesi avrebbero provveduto a fare altrettanto, se non peggio, proprio con il discendente di Bonaparte. Ed in modo molto più scientifico.

L’ingenuità di Napoleone III fu tale e tanta che la collaborazione con la Gran Bretagna, seppure con qualche riserva mentale, sarebbe continuata a lungo e si sarebbe estesa anche al Medio e lontano Oriente. A tutto vantaggio della furba Albione, ovviamente.

E le navi straniere nel porto di Palermo… stanno a guardare! – 
Subito dopo lo sbarco di Marsala, Turchia, Francia, Austria, Piemonte, Portogallo, Spagna, Stati Uniti d’America, ed altri Stati avrebbero mandato navi militari in Sicilia, soprattutto nei porti di Palermo e di Messina. Il pretesto ufficiale era che queste dovevano vigilare sulla sicurezza personale e sui beni dei rispettivi cittadini, che nessuno minacciava. Lasciavano, cioè, libera l’Inghilterra di fare ciò che voleva.

E a Palermo si sarebbe recato anche il Contrammiraglio britannico
George Rodney Mundy a bordo dell’Ammiraglia Hannibal, scortato da
altre navi da guerra. Il Mundy era in assoluto l’Ammiraglio più importante e più rispettato fra i tanti comandanti di navi presenti. E, fra l’altro, continuava a giocare in casa, considerato che la Mediterranean Fleet di S.M. Britannica – fra le flotte che stazionavano in quel momento nel Mediterraneo – era la più potente. E la più presente nelle acque siciliane.

Fine della settima puntata/continua

(7) In G. R. Mundy, op. cit., introd. a cura di A. Rosada, pagg. 14 e 15.

(8) In G. R. Mundy, op. cit., pag. 13.

(9) In G. R. Mundy, op. cit., pagg. 14-15.

(10) C. Cantù, in Vittorio Casentino di Rondè, op. cit., pag. 183.

(11) I fratelli Cairoli erano cinque: Benedetto, Ernesto, Luigi, Enrico e Giovanni. Tutti parte- ciparono alle lotte per l’unità d’Italia. Il più grande, Benedetto (nato a Pavia nel 1825), sarebbe diventato Presidente del Consiglio dei Ministri nel 1878. Fu un ottimo combattente. Partecipò all’impresa dei Mille e fu ferito a Palermo. Come politico fu mediocre. Sopravvisse ai quattro fratelli morti, molto giovani, o in combattimento o a seguito di ferite o di malattie provocate dalla guerra. Benedetto, nel 1889, morì di morte naturale, a Capodimonte. Ernesto (nato nel 1832) si arruolò nei Cacciatori delle Alpi. Morì in combattimento nel corso della seconda guerra d’indipendenza a Biumo Inferiore nel 1859, a soli ventisette anni. Luigi, nato nel 1838, era topografo, matematico ed ufficiale dell’esercito piemontese. Partecipò all’impresa garibaldina con il Generale Coseni (seconda spedizione). Morì di tifo a Cosenza, stremato dalle fatiche del- la guerra di occupazione del Sud, nel 1860. Aveva ventotto anni. Enrico, nato nel 1840, studen- te in medicina, seguì i fratelli fra i Cacciatori delle Alpi e fra i Mille. Anch’egli fu ferito a Pa- lermo nel 1860. Partecipò a tutte le campagne di Garibaldi. Morì nel fallito tentativo di conqui- stare Roma, nel 1867, nello scontro di Villa Glori. Aveva appena ventisette anni. Giovanni fu il più giovane dei fratelli Cairoli, essendo nato

Fonte

https://www.inuovivespri.it/2019/01/19/la-vera-storia-dellimpresa-dei-mille-7-la-disinformazione-gli-inglesi-inventano-le-rivolte-contro-i-borbone/

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