Alta Terra di Lavoro

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Le cause della fine del Regno delle Due Sicilie

Posted by on Ott 27, 2019

Le cause della fine del Regno delle Due Sicilie

È necessario innanzitutto precisare che il “risorgimento” italiano, nei riguardi del Regno delle Due Sicilie, è stato ed è un grande falso storico oltre che un grandissimo crimine. Il cosiddetto “risorgimento” fu una martellante propaganda di guerra e rappresenta il classico esempio che la storia viene sempre scritta dal vincitore. Esso non è stato in realtà che un capitolo della storia dell’imperialismo inglese. La mistica risorgimentale ci ha abituato a considerare Cavour come un grande statista, un genio della politica. In realtà la maggior parte delle sue decisioni non furono altro che esecuzioni dei “suggerimenti” che venivano orchestrati da Londra. La politica imperiale inglese si è sempre basata su due fattori cardini: il mantenimento di una grande potenza navale (the sllent power of sea) e l’alimentazione di disordini all’interno degli altri Stati, che venivano così distolti dalla politica estera. L’Inghilterra, per quanto riguarda in particolare il Mediterraneo, perseguì una sua complessa strategia politica che si sviluppò attraverso varie fasi. Iniziò con l’impossessamento di Gibilterra e, nel 1800, di Malta, che apparteneva alle Due Sicilie, approfittando dei disordini causati dalle guerre di Napoleone. Poi, intorno al 1850, in previsione dell’apertura del canale di Suez, per essa divenne vitale possedere il dominio dei Mediterraneo per potersi collegare facilmente con le sue colonie. Per questo i suoi obiettivi principali furono l’eliminazione della Russia dal Mediterraneo, contro la quale scatenò la vittoriosa guerra di Crimea nel 1853, e il ridimensionamento dell’influenza politica della Francia nel Mediterraneo. Il fattore determinante che spinse l’Inghilterra a dare inizio alle modifiche dell’assetto politico della penisola italiana furono gli accordi commerciali tra le Due Sicilie e l’Impero Russo, che aveva iniziato a far navigare la sua flotta nel Mediterraneo, avendo come base di appoggio i porti delle Due Sicilie. La Francia, a sua volta, voleva rafforzare la sua influenza sulla penisola italiana, sia con un suo protettorato sullo Stato Pontificio, sia con un suo progetto di mettere un principe francese nelle Due Sicilie. Per raggiungere questi obiettivi le due potenze si servirono del piccolo Stato savoiardo che, non avendo risorse economiche e militari per fare le sue guerre, dovette vendere alla Francia Nizza e la Savoia, ed era in procinto di vendere anche la Sardegna se non fosse stato fermato dall’Inghilterra che temeva un più forte dominio della Francia nel bacino mediterraneo. In Piemonte, infatti, il sistema sociale ed economico era ben povera cosa. Vi erano solo alcune Casse di risparmio e le istituzioni più attive erano i Monti di Pietà. Insomma esistevano solo delle piccole banche e banchieri privati, generalmente d’origine straniera, che assicuravano il cambio delle monete al ridotto mercato piemontese. In Lombardia non c’era alcuna banca di emissione e le attività commerciali riuscivano ad andare avanti solo perché operava la banca austriaca. E tutto questo già da solo dovrebbe rendere evidente che prima dell’invasione del Sud, al nord non potevano esserci vere industrie, nè vi poteva essere un grande commercio, nè i suoi abitanti erano ricchi ed evoluti, come afferma la storiografia ufficiale. Per il Piemonte, dunque, il problema più urgente era quello di evitare il collasso economico, dato il suo disastroso bilancio, e l’unico modo per venirne fuori era quello offertogli da Inghilterra e Francia che gli promettevano il loro appoggio per l’annessione dei prosperi e ricchi territori delle Due Sicilie e degli altri piccoli Stati della penisola italiana. Il mezzo con cui l’Inghilterra diede esecuzione a questo disegno fu innanzitutto la propaganda delle idee sul nazionalismo dei popoli e critiche sul “dispotismo oppressivo” dei governi di Austria, Russia e Due Sicilie. A proposito di “Nazione“, bisogna dire che si tratta di un concetto in termini giuridico-politici elaborato a partire dalla Rivoluzione Francese e sviluppatosi soprattutto nell’800. Questo concetto è stato un’autentica invenzione di un’ideologia molto coinvolgente ed emotiva che è servita, e serve ancora, per tenere insieme le parti e gli interessi di uno Stato. In tal modo si preparavano psicologicamente le masse a “giustificare” le sommosse popolari poi artatamente sollevate da sovversivi prezzolati, i quali istigavano anche ingenui idealisti, suggestionati da idee libertarie. Quando poi questi moti scoppiavano, si predicava il principio del “non intervento“, spacciandole per “faccende interne” di uno Stato. Quelli che furono chiamati “moti liberali” venivano fatti scoppiare continuamente ad opera delle sette massoniche, che raggiungevano così numerosi scopi: la dimostrazione concreta che i governi erano oppressivi e che il popolo “spontaneamente” si ribellava al dispotismo. Inoltre, queste sommosse, facendo scatenare la necessaria reazione di quei governi, aggravavano e rendevano verosimili le menzogne propagandate. Per quanto riguarda le Due Sicilie i moti più gravi furono quelli del 1820 e del 1848, a cui vanno aggiunti gli episodi degli attentati del 17 dicembre 1856 (scoppio deposito polveri a Napoli con 17 morti) e del 4 gennaio 1857 (nel porto di Napoli saltò in aria la fregata Carlo III con 38 morti), quello del 25giugno 1857 con lo sbarco di Pisacane e poi le rivolte di Palermo precedenti lo sbarco dì Garibaldi. La regia di queste azioni era del Mazzinicollegato direttamente con Londra, il cui governo aveva affidato anche al Cavourl’incarico di far scoppiare sommosse in tutti gli altri Stati italiani, con l’evidente scopo di legittimare l’intervento del Piemonte per sedare i “disordini“. Molti furono i disordini causati, tra l’altro, coll’invio di carabinieri in borghese. Nel frattempo, in preparazione allo sbarco del Garibaldi, erano stati formati nelle Due Sicilie alcuni centri sovversivi, che assoldavano molti delinquenti per le sommosse e corrompevano alte personalità duosiciliane per agevolare l’avanzata del pirata.

fonte http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/RegnoDueSicilie/Storia%20Regno%20DueSicilie.htm#ause

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L’importanza degli ingegneri (e quindi delle opere pubbliche) nel Regno delle Due Sicilie

Posted by on Ott 17, 2019

L’importanza degli ingegneri (e quindi delle opere pubbliche) nel Regno delle Due Sicilie

Schegge di storia 20/ L’importanza degli ingegneri (e quindi delle opere pubbliche) nel Regno delle Due Sicilie – I Nuovi Vespri Per ridurre un popolo in schiavitù – che poi è quello che ha fatto e continua a fare l’Italia con il Sud – bisogna in primo luogo cancellare la memoria. Noi invece stiamo provando a ricostruire la memoria del Sud Italia e della Sicilia prima della disgraziata quanto ‘presunta’ unificazione italiana. Oggi proveremo a illustrare quanto fossero importanti le opere pubbliche durante gli anni del regno delle Due Sicilie. E quanto fosse importante non sprecare il denaro pubblico!  

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La Marina Mercantile del Regno delle Due Sicilie

Posted by on Ott 11, 2019

La Marina Mercantile del Regno delle Due Sicilie

Quicampania riporta in questa pagina ampi stralci di un interessantssimo articolo pubblicato dalla Rivista “L’Alfiere”, a firma di Arturo Faraone, avente per oggetto la Marina Mercantile del Regno delle Due Sicilie.

Vi sono diversi punti trattati nell’articolo che mettono in risalto alcuni aspetti poco noti della storia e dell’economia del Regno delle Due Sicilie.

Nella prima parte dell’articolo il Faraone ricorda alcuni “record” della Marina Borbonica: il primo vapore, la prima Compagnia di Navigazione a vapore del Mediterraneo, la prima crociera turistica.

A questo punto si potrebbe obiettare che, come anche in altri campi, il governo del Regno delle Due Sicilie si distinse nell’arrivare per primo a proporre innovazioni all’avanguardia, per poi non far seguire a tali “record” nulla di organizzativamente ed economicamente valido.

In questo articolo si dimostra che, nel caso della Marina Mercantile, il governo borbonico fece seguire ai tanti “record” un’organizzazione complessiva della marineria tale da portarla ad essere all’avanguardia in Europa: leggeremo quindi del livello eccezionalmente elevato del nostro sistema portuale e logistico, della nostra cantieristica navale, delle decine di migliaia di occupati nel settore, del tonnellaggio complessivo della nostra flotta, talmente elevato da renderla terza in Europa.

Ecco l’articolo di Arturo Faraone.

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In effetti, la Marina Mercantile delle Due Sicilie vantava una tradizione secolare che, per traffici, attività cantieristiche e qualità della flotta, al momento del trapasso unitario, aveva pochi eguali nel vecchio continente.

Il primo bastimento a vapore

Non solo, ma è napoletano il piroscafo “Ferdinando I”, consegnato alla storia come il primo bastimento con propulsore a vapore per la navigazione marittima, che fu varato il 24 giugno 1818 e salpò per il suo viaggio inaugurale il 27 settembre dello stesso anno. Fu a Napoli che iniziò così la navigazione a vapore d’altura, allorché questo sistema pionieristico di solcare i mari non era stato neppure messo in pratica in Francia ed in altri Paesi europei ad eccezione dell’Inghilterra ove era stato adottato per la navigazione fluviale.

La prima Compagnia di navigazione a vapore del Mediterraneo

Fu parimenti napoletana la prima Compagnia di navigazione a vapore del Mediterraneo, che assunse il nome di “Amministrazione Privilegiata dei pacchetti a vapore delle Due Sicilie”, con un servizio regolare di linea, fornendo anche il primo esempio di convenzione marittima in Italia, poiché assunse dal Governo di S.M. Siciliana la concessione in privativa del trasporto della corrispondenza postale.

La prima crociera turistica

Fu napoletana anche la prima crociera turistica della storia preparata nel 1833 con il piroscafo “Francesco I” ed antesignana di oltre mezzo secolo rispetto ad analoghe iniziative intraprese in seguito da altri Paesi industrializzati; una crociera cui parteciparono i più bei nomi dell’aristocrazia europea e che, in poco più di tre mesi, toccò alcuni tra i più suggestivi porti del Mediterraneo fino ad Istanbul, sbalordendo il mondo civile per accuratezza ed efficienza organizzativa.

Il codice marittimo

Fu altresì napoletano il primo tentativo di codificare il diritto marittimo, dapprima con Carlo III di Borbone, che preannunciò un codice nella Prammatica “De nautis et portibus”, e successivamente con Ferdinando IV, che dette incarico al giurista Michele De Jorio di redigere un codice della navigazione di respiro internazionale, destinato a divenire una pietra angolare della legislazione regolante il commercio marittimo e tutti i rapporti privatistici e pubblicistici ad esso inerenti. L’opera fu realizzata nel 1781 con il titolo provvisorio di “Codice Ferdinando”, ma purtroppo rimase inattuata poiché travolta dai gravi sconvolgimenti politici di fine secolo. Ciò nonostante l’opera resta un cardine della scienza giuridica in materia.

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La politica fiscale dei Borbone a sostegno della Marina Mercantile

Del resto, la citazione di alcuni primati della Marina Mercantile delle Due Sicilie, lungi dall’essere un esercizio di narcisismo storico fine a se stesso, può giovare a dimostrare quanto il governo borbonico avesse in peculiare considerazione la prosperità delle attività marittime, come nutrici e sostegno di ogni ramo dell’industria, e quanto fosse crescente e continuo l’impulso che i sovrani napoletani dettero alla marineria meridionale ed alle sue nobili tradizioni. Ferdinando I incoraggiò la formazione di una vera e propria classe armatoriale, stabilendo premi e sovvenzioni da attribuire agli armatori per ogni tonnellata di naviglio costruito e dette impulso ai traffici commerciali non solo di cabotaggio, riducendo tasse di tonnellaggio ed accordando esenzioni di dazio, ma anche oltreoceanici, incoraggiando la costruzione di bastimenti con dislocamento superiore alle duecento tonnellate grazie a sostanziosi finanziamenti statali. I risultati di questa politica economica portarono all’investimento dei capitali dei cosiddetti “padroni” in armamento mercantile, nonché a forme di libero associazionismo: nel 1824 furono costruite, per esempio, ben 290 navi nuove. Con le accresciute dimensioni delle navi, aumentarono anche il raggio d’azione e l’intraprendenza degli equipaggi, che dettero vita a proficui e sistematici collegamenti con le Americhe e con il Nord Europa, grazie anche alla sovrana determinazione di accordare una riduzione del 20% del dazio sulle merci importate nel Regno dalle Americhe e dal Baltico.

Nel 1839 le Due Sicilie vantavano una flotta mercantile di 9.174 navi con 122.677 marinai impiegati, terza Marina europea per tonnellaggio complessivo (243.192 tonnellate), primato che avrebbe conservato fino all’unità.

I porti

Non meno saggia e proficua fu la politica di potenziamento tecnico dei porti condotta dai Borboni. Come esempio di previdenza e lungimiranza ricordiamo l’Ordinanza generale del 1° ottobre 1818 con la quale fra i doveri dei Capitani di Porto, si ritiene meritevole quello di curare la migliore conservazione dei rispettivi porti e di rimettere al Sopraintendente Generale “un prospetto dello stato dei porti e delle macchine che vi esistono per i lavori ordinari come pure delle riattivazioni necessarie, onde provocarsi dallo stesso le nostre sovrane determinazioni”. E’ da mettere qui in rilievo l’interesse per la manutenzione ed il funzionamento degli arredi e dei macchinari portuali, tenendo conto che anche nei porti nei quali verso la fine dell’800, in epoche ampiamente successive all’unità, si cominciarono ad introdurre apparecchi meccanici di sollevamento, quindi idraulici e poi elettrici, se ne vincolò l’impiego con rigorose limitazioni di tariffa, di orario e di tassi di discarica e persino con la corresponsione di diritti proporzionali alle maestranze portuali. La diversa strategia di politica portuale balza con evidenza agli occhi: l’ordinanza ferdinandea contiene in embrione una prodigiosa anticipazione della concezione moderna di competitività portuale, ispirata a filosofie privatistiche in cui l’interesse statale alla conservazione dell’efficienza delle “macchine” dell’azienda-porto , coincide con l’interesse privato della liberistica fruizione della struttura pubblica gratuita e deve il funzionario dello Stato assume veste “manageriale” di responsabile dell’efficienza e della produttività. Altrettanto stupefacente, stavolta per miopia ed insipienza, appare la politica portuale del nuovo Stato unitario, laddove, al contrario, il macchinario portuale è considerato soprattutto in chiave di strumento fiscale, come espediente per ulteriori balzelli e dove il funzionario dello Stato assume il ruolo di burocrate e di esattore, facendo collassare l’iniziativa imprenditoriale ed aprendo comode strade alla concorrenza dei porti esteri. I porti delle Due Sicilie erano distinti in quattro classi e divisi in circondari marittimi. Gli unici porti di prima classe erano Napoli, Messina e Palermo: porti di seconda classe erano Castellammare, Gaeta, Pozzuoli, Siracusa, Augusta e Trapani; porti di terza classe erano Precida, Ponza, Salerno, Crotone, Taranto, Gallipoli, Brindisi, Barletta, Manfredonia, Girgenti; porti di quarta classe erano Maratea, Pizzo, Reggio Calabria, Ótranto, Bari, Tremiti, Pescara, Milazzo, Catania, Cefalù, Marsala, Lipari e Pantelleria. …………

La cantieristica

Gaeta vantava una tradizione di eccellenti marinai e di ottimi costruttori di imbarcazioni mercantili e da pesca. Invero la marineria meridionale era una delle poche nel Mediterraneo che poteva vantare un vasto assortimento di imbarcazioni minori costruite ed impiegate in tutto lo Stato. Tali mezzi erano di vitale importanza nell’economia del Regno, in quanto la loro costruzione ed il loro impiego producevano lavoro e ricchezza, anche indotti, se si pensa a tutte le attività complementari legate alla produzione di accessori e di utensili indispensabili per la navigazione ed il commercio. II borgo di Gaeta era uno dei più importanti poli di attività della cantieristica minore del medio e basso Tirreno. Le costruzioni navali avvenivano sugli arenili del borgo e nulla era fisso. Scalo ed avanscalo erano “volanti” e quello spazio che d’estate era occupato da una struttura pullulante di attività, d’inverno ridiventava spiaggia libera. Del resto solo a Napoli, Palermo,  Messina e Casitellammare, dove dal 1852 esisteva il primo bacino di carenaggio in Italia, vi erano apprestamenti industriali stabili di proprietà statale adibiti permanentemente alla cantieristica navale. A Gaeta, come in altre località costiere dedite alla cantieristica minore, i maestri d’ascia e i carpentieri, con attrezzi realizzati artigianalmente, realizzavano sull’arenile le barche o i bastimenti di piccolo e medio tonnellaggio che erano stati loro commissionati.

Le scuole nautiche

Gaeta vantava, inoltre, una delle quattordici scuole nautiche che il Regno possedeva all’atto del trapasso unitario. Ben consapevole della “necessità della istruzione delle popolazioni marittime”, come si legge in un Decreto Reale 28 ottobre 1831 che riformava il sistema amministrativo e disciplinare di alcune scuole nautiche, il governo napoletano fu particolarmente sensibile nel promuovere una costante crescita qualitativa degli Istituti Nautici. Tra questi, giustamente famosa oltre i confini nazionali, era la prima scuola in Italia di allievi macchinisti istituita a Pietrarsa accanto al celebre opificio, colosso dell’industria metalmeccanica, che vantava il maggior impiego di manodopera in Italia, quasi mille operai altamente specializzati, il doppio numerico rispetto all’Ansaldo di Sampierdarena. Nel momento in cui Francesco II da sovrano del Regno delle Due Sicilie fu costretto a diventare il “Montezuma di Gaeta”, mutuando una immaginifica descrizione di A. Ghirelli, la marina mercantile napoletana era ancora in espansione: con una flotta di oltre diecimila legni, aveva continuato ad aumentare la sua consistenza, mentre i noli marittimi coprivano largamente il disavanzo commerciale tra esportazioni ed importazioni. Questa continua espansione economica è confermata da una significativa statistica contenuta in una relazione del 1865, in cui viene riportata la crescita del movimento “import-export” relativo al commercio marittimo delle Due Sicilie. Si passa dai 27 milioni di ducati del quadriennio 1840-44, ai 29 milioni del quadriennio successivo, ai 31 milioni del 1850-54, sino ai 34 milioni e 355 mila ducati del quadriennio 1855-59. Cifre che vanno ancor più rivalutate nella considerazione del ribasso dei prezzi di mercato dal 1840 al ’59, con un unità monetaria che non conosceva tassi inflattivi. Ma, come tante attività meridionali, anche la Marina fu sacrificata all’unità.

fonte http://www.quicampania.it/ilregno/marina-mercantile-delle-due-sicilie.html

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La laurea facile? Comincia con i garibaldini come ‘premio’ per la conquista del Regno delle Due Sicilie

Posted by on Ott 11, 2019

La laurea facile? Comincia con i garibaldini come ‘premio’ per la conquista del Regno delle Due Sicilie

I ‘diplomifici’ da Garibaldi ai nostri giorni. Non ci dobbiamo meravigliare se oggi la laurea regalata ai potenti e ai figli dei potenti è una pratica molto diffusa. ‘Scavando’ tra i documenti dell’impresa del ‘mille’, Ignazio Coppola ha scoperto che tante giovani ‘camicie rosse’, a Napoli, diventarono ingegneri e matematici per meriti sul campo… Lauree facili in cambio della partecipazione alla colonizzazione del Sud

Lauree facili, lauree regalate e lauree comprate Scandali all’ordine del giorno del cerchio magico leghista che qualche anno fa hanno riempito ignominiosamente e boccaccescamente, con buona pace del popolo padano, le cronache di tutte le testate giornalistiche e televisive nazionali e non solo. Questo delle lauree e dei titoli di studio “facilitati” è indubbiamente una prerogativa di molti politici del Nord e riguarda anche quelli non solamente di pura “razza” padana. Altro che “barbari sognanti”, come amano definirsi certi leghisti, sarebbe più giusto appunto che costoro, alla costante ricerca di lauree da comprare, si fregiassero del “titolo”, questo sì, di “barbari ignoranti”.

Tutto questo, infatti, è la risultante di una sottocultura e scarsa preparazione che evidentemente caratterizza molti politici settentrionali. Mediocrità culturale che, non garantendo loro la sicurezza e la consapevolezza della acquisizione di un titolo di studio “regolamentare”, li spinge a cercare scorciatoie e pratiche poco ortodosse per ottenerlo.

Emblematico, in tal senso, il caso dell’ex ministro alla “pubblica (d)’istruzione” Mariastella Gelmini che, nel 2001, conseguì a Reggio Calabria, perché nella sua Brescia, a causa della propria scarsa preparazione era, per sua stessa ammissione, per lei impossibile ottenere, l’abilitazione alla professione di avvocato. Per poi passare all’ex senatore leghista Claudio Regis, che si fregiava di una laurea in ingegneria che non aveva mai conseguito. Millanteria che gli aveva permesso, con apposito decreto dell’allora governo Berlusconi, di accedere indebitamente alla prestigiosa carica di vice commissario dell’ENEA. Scoperto e denunziato si era poi dovuto dimettere.

E per giungere infine alle boccaccesche vicende per cui tempo addietro, con i soldi dei contribuenti, i dirigenti del partito di Salvini, permeati da alto senso morale ed etico, oltre che comprare lingotti e diamanti, facevano incetta di lauree e diplomi a destra e a manca. Così la laurea, comprata a Tirana del “Trota”, al secolo Renzo Bossi e quelle di Rosi Mauro e del suo gigolò e “guardia del corpo” (nel senso più letterale della parola), Pietro Moscagiuro.

Tutti costoro possono però rivendicare, a buon diritto, e di conseguenza trovare una parziale giustificazione che questa prerogativa di comprare ed ottenere facili lauree e diplomi compiacenti era una caratteristica dei loro antenati “padani” e garibaldini che 156 fa conquistarono, invasero e depredarono il Regno delle Due Sicilie.

A ben vedere, infatti, questa delle lauree facili ha una radice ben lontana agli albori dell’Unità d’Italia e nel contesto della stessa spedizione dei Mille ad alcuni dei quali, per meriti di guerra, come vedremo, vennero regalati, a suo tempo, da cattedratici compiacenti con disponibilità e irrisoria facilità, qualificati titoli accademici.

E’ singolare e significativo a proposito quanto avvenne, ad esempio, a Giuseppe Rebuschini, un garibaldino originario di Dongo, studente in ingegneria che, come tanti lombardi costituiva la colonia “padana” più numerosa al seguito di Garibaldi alla conquista del Sud. Al culmine dell’impresa dei Mille, dopo la battaglia di Capua, il giovane Rebuschini, che allora aveva 21 anni, il 6 ottobre del 1860 così testualmente scriveva ai propri genitori:

”Carissimi, sono a darvi una notizia che se non vi farà stare di sasso, sono certo però che vi farà aprire tanto di bocca dalla meraviglia. Per dirla in breve, sapete cosa è successo? Da un’ora sono nientemeno che dottore in matematica. Ecco che voi vorreste quasi dubitare, ma fortunatamente è proprio così. Sì, o signor Gerolamo, sì, signora Maddalena, il vostro quartogenito, battezzato nella chiesa parrocchiale di Dongo coi bellissimi nomi di Giuseppe Gaspare Ferdinando presentemente aiutante maggiore e diciamolo pure aspirante al gradi di capitano, oggi, giorno 6 ottobre 1860, nella Regia Università di Napoli riceve il diploma di Ingegnare-Architetto. Ma come, direte voi, senza attestati, né certificato alcuno? Il come non lo so neppure io.

“Io so solamente che ieri, colpito da luminosa idea di diventare dottore – prosegue il giovane Rebuschini – in men che non si dica, mi recai all’Università e mi presentai al Rettore. Signor Rettore, dissi io, io ero laureando in matematica. La prima spedizione in Sicilia venne a togliermi dai severi calcoli per gettarmi framezzo alle armi. Ora desidererei assicurarmi quella interrotta carriera e però vorrei prendere la laurea. Fosse la camicia rossa, fosse lo squadrone, fatto sta che il signor Rettore mi fece un bellissimo sorriso e senz’altro domandare di documenti, mi stabilì l’esame a questa mattina alle otto. All’ora stabilita, io fui lì, feci un simulacro di esame ed appena terminata questa lettera, andrò a prendere il diploma previo beninteso lo sborso di ducati 15 quale tassa di laurea. Così non mi restano che gli esami di pratica per essere un ingegnare in perfetta regola. Vedete bene che, senza contare un centinaio d franchi, sono perlomeno un paio d’anni risparmiati”.

La lettera del giovane Rebuschini è la lampante testimonianza di come con il “fascino” della camicia rossa si potesse ottenere facilmente a buon prezzo un dottorato d’ingegneria. Del resto, da quanto ci è dato di sapere in quei frangenti della spedizione garibaldina, il Rebuschini non fu il solo ad esser beneficato e gratificato con molta generosità e facilità del titolo accademico. Analoga benevola sorte toccò per meriti di guerra e di riconoscimento, come atto dovuto alle camice rosse, agli increduli studenti Giuseppe Peroni originario di Soresina (Cremona) e al pavese Arturo Termanini anch’essi nominati ingegneri con analoghe e “spicce” procedure dal Rettore dell’Università di Napoli.

Alla luce da quanto documentalmente provato possiamo parzialmente consolarci per il fatto che il malcostume delle lauree facili e regalate non è un fenomeno esclusivo dei nostri giorni, di cui hanno beneficiato a suo tempo Claudio Regis, Renzo Bossi, Francesco Belsito, Rosi Mauro, il suo amico Piero Moscagiuro e tanti altri, ma ha le sue profonde origini e le sue ben salde radici al tempo delle camice rosse, dell’impresa dei Mille e agli albori dell’Unità d’Italia.

Purtroppo dopo 156 anni nulla è cambiato

fonte https://www.inuovivespri.it/2017/07/01/la-laurea-facile-comincia-con-i-garibaldini-come-premio-per-la-conquista-del-regno-delle-due-sicilie/

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