Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Partito Separatista delle Due Sicilie

Posted by on Apr 25, 2019

Partito Separatista delle Due Sicilie

“La separazione d’Italia è inutile discutere di rinascita del meridione, sono più momenti meno infelici, momenti più infelici, ma la risoluzione del problema di un meridione economicamente, umanamente, culturalmente socialmente libero non c’è, lo vediamo anche dalle Il processo unitario è un atto di brutalità, di malafede, di inganni, di interventi stranieri, di Garibaldi, di Vittorio Emanuele II. Quindi culturalmente anche, non c’è possibilità di riscatto se non si crea una retorica interna al proprio paese, se il proprio paese non si rivaluta agli occhi dei propri cittadini. 

Nicola Zitara 

LI CHIAMAVANO BRIGANTI …… .. E INVECE ERANO EROI
“Per quei vieni la violenza è un diritto, per tanti vieni la violenza è un delitto .. Voi potete rubare, violentare, uccidere, e nessuno vi condannerà.”.      
Il 1861 è un anno che ogni UOMO al mondo sta pensando, non per la pseudo unità di Italia imposta con la forza, ma perché è il Savoia iniziarono il massacro del Sud. 
Il Brigantaggio è un grande movimento rivoluzionario e di massa, più di un secolo e mezzo, ben 157 anni, in cui bugie, menzogne ​​e verità nascoste, hanno azionato quel subdolo meccanismo di denigrazione della popolazione meridionale, talmente oliato un dovere da aver coinvolto anche alcune persone abitanti del Sud. 
La storia o meglio gli “illustri” storiografi che l’hanno riportato e pubblicato sui libri di scuola, ha sempre raccontato l’unico colpevole dei problemi del Meridione, è stato il Regno Borbonico e il governo dei Borboni, era supportato dal carattere superficiale e indolente dei suoi sudditi Che con la filosofia della vita “bast che ce sta ‘o sol”,
La disoccupazione era praticamente nulla nel Regno delle Due Sicilie quando fu annesso al Regno di Sardegna. Sembra impossibile immaginare il Regno delle Due Sicilie, studiato nelle scuole italiane come luogo naturale dell’oscurantismo, del burocratismo, dell’arretratezza tardo feudale (borbonico sinonimo di lento, fiacco, arretrato), sia stato invece premiato, nel 1856, per sviluppo industriale . 
Le ferrovie napoletane non sono il “balocco del Re” per raggiungere la sua casa di vacanze, bensì di un’oculata politica di marketing e sviluppo industriale. I Borbone non sono stato provato dai locomotori da qualche grande azienda teutonica, come anzi oggi faremmo: le fabbricano … con un indotto industriale che in pochi anni è lavoro per migliaia di giovani meridionali.
Nel meridione si ebbe la prima repubblica socialista del mondo con San Leucio: ottanta ettari di terreno su cui Re Ferdinando fece sorgere la più famosa serie di tutti i tempi. 
Quella che oggi è Terra di Camorra, allora era, davvero, Terra di Lavoro. 
Di tutt’altro segno e spessore i dati inerenti il ​​Regno dei Savoia, negli stessi anni. Nel 1860 il debito pubblico del Piemonte ammontava più di un milione di anni: una montagna di denaro, una voragine spaventosa che 4 milioni di abitanti non sono quotati a cento anni per l’arretratezza della sua economia montanara. 
E allora cosa è successo di così determinante da sovvertire le sorti del Meridione?
Successe che al Piemonte non interessava per niente l’Unità d’Italia. Al Piemonte interessava la conquista delle ricchezze del Sud, delle sue riserve auree, delle sue fabbriche. Dal 1860 al 1870 i nuovi pirati, vieni piemontesi, si quali disponibili in tutti i paesi, quelle dei poveri contadini, quelle delle comunità religiose, dei conventi; saccheggiarono le chiese e le campagne; smontarono i macchinari delle fabbriche per montarli al Nord; rubarono opere d’arte di valore inestimabile, quadri, vassoi, statue. Le miniere di ferro, il laboratorio metallurgico della Mongiana in Calabria; le industrie tessili dell’alta Terra di Lavoro; le manifatture di Terra di Lavoro; i cantieri navali sparsi per tutto il Mezzogiorno; la magnifica fabbrica di Pietrarsa, i monti frumentari,
Cannoni contro città indifese; baionette conficcate nelle carni di giovani, preti, contadini; donne violentate e sgozzate; vecchi e bambini trucidati. Case e chiese saccheggiate, monumenti abbattuti, libri bruciati, scuole chiuse. La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. Dal 1861 al 1871, un milione di contadini furono abbattuti; anche se governi piemontesi su questo massacro non fornivano dati, perché nessuno dovrebbe sapere.
Col termine Briganti, ha detto volontariamente mortificare tutta quella parte di popolo, che è stata ribellata, ancora una volta, all’invasore: “Combattemmo, nella nostra terra, una guerra legittima di liberazione e di resistenza contro una società e un popolo straniero, un palmo a palmo, un caso, terre e famiglie da una rivoluzione che non sono stati uccidemmo e morìmo io e tanti eroi di una contro-rivoluzione che ci aveva già visto combattere e morire in Francia o in Spagna, nel 1799 nel 1820, nel 1848 nel 1860.  

Ecco chi erano i BRIGANTI.
Ma le mortificazioni non erano finite: 5212 condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Queste le cifre della repressione consumata all’indomani dell’Unità d’Italia dai Savoia. Minghetti del 15 agosto 1863 “… per la repressione del brigantaggio nel Meridione

Questi sono concentrati nei depositi di Napoli o nelle carceri, poi trasferiti in veri e propri lager: i prigionieri, appena coperti da cenci di tela, si consumano una sozza brodaglia con un po ‘di pane nero raffermo, sottende dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisico e morale. Per oltre dieci anni, sono stati voluti uccisi per fama, stenti.

Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei.
La liberazione avveniva con la morte ed i corpi (non sono ancora in uso i forni crematori) è disciolti nella vita viva collocata in una grande vasca nel retro della chiesa che sorgeva all’ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, su un muro è ancora visibile l’iscrizione: “Ognuno vale in quanto è ma in quanto produce”. (ricorda molto la scritta dei lager nazisti)
E anche in questo caso, chi ha scritto la storia, ha voluto umiliare ancora una volta il popolo del Sud. SCANDALOSO museo di Cesare Lombroso fondato a Torino, dove sono esposti, come fenomeni da baraccone, i corpi e le teste mozzate, sono considerati dei criminali perchè osavano difendere la propria terra. Corpi straziati, mutilati e umiliati, mai restituiti alle famiglie che non hanno potuto dar loro, degna sepoltura. 
Ecco chi erano i BRIGANTI 

La guerra è chiusa nel sud del mondo, a cui si aggiunge oltre il 65% della popolazione. Le lotte per la terra, verso il risultato elettoralistico. Con la fine dei contadini, è finita anche l’alternativa o briganti o emigranti.
In assenza di uno Stato indipendente che affrontasse i problemi connessi a nuove forme di produzione, il processo di superamento della servitù contadina è la forma di emigrazione di massa. Né la prima delle due grandi migrazioni meridionali – quella tra il 1880 e il 1914 – né la seconda – quella tra il 1948 e il 1973 – servirono a fondare uno stato, oa inserire il Sud come componente paritaria dello Stato nazionale. Il mondo contadino sopravvissuto alla prima e sarebbe sopravvissuto anche alla seconda, se l’area padana non fosse vissuta, un racconto importante, avrei bisogno di inarcare l’economia del sud con lo smercio delle sue produzioni. Nei due periodi indicati, la penetrazione delle merci di massa è stata coniata diversa. Al tempo della prima, l’industria padana non era ancora nata, e tranne lo zucchero, il tabacco, il grano importato e poche altre mercanzie, il Nord era ben poco da vendere al Sud. In questo periodo le risorse sono risucchiate attraverso altre vie, principalmente il fisco, l’ufficio italiano cambi, il sistema bancario, che accetta di essere emesso carta, e al solo costo di stampa comprava al sud prodotti veri. Inoltre la produzione meridionale è venduta all’estero. Un risvolto decisivo ai fini del sottosviluppo sudico. È stato preso una truffa, un ordine artefatti, agli industriali cavourristi, che sono serviti per pagare le materie prime, e agli importatori genovesi, che lo abbiamo visto per speculare patriotticamnete sul prezzo del grano. Eppure, non è tanto il drenaggio delle risorse che porta il sud alla completa rovina – malgrado tutto l’agricoltura continua a produrne – quanto l’insipienza, l ‘ estraneità e la malvagità della classe dirigente. Al tempo della seconda guerra, con gli aiuti americani e la partigianeria dello Stato seducente nazionale, l’apparato industriale padano decollò e di conseguenza ebbe un impellente bisogno di clienti. E quale cliente più addomesticato del Sud? L’offerta di merci – si sa – crea i consumatori di merci. Però le merci importate e si pagano con la produzione e l’esportazione di uguale valore (Antonio Serra, economista del 1600). L’assetto coloniale del Sud non è all’esportazione, perché i prezzi sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde. con gli aiuti americani e la partigianeria dello stato seducente nazionale, l’apparato industriale padano decollò e di conseguenza ebbe un impellente bisogno di clienti. E quale cliente più addomesticato del Sud? L’offerta di merci – si sa – crea i consumatori di merci. Però le merci importate e si pagano con la produzione e l’esportazione di uguale valore (Antonio Serra, economista del 1600). L’assetto coloniale del Sud non è all’esportazione, perché i prezzi sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde. E quale cliente più addomesticato del Sud? L’offerta di merci – si sa – crea i consumatori di merci. Però le merci importate e si pagano con la produzione e l’esportazione di uguale valore (Antonio Serra, economista del 1600). L’assetto coloniale del Sud non è all’esportazione, perché i prezzi sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde. perché io sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde. perché io sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde.

fonte https://www.partito-separatista-delle-due-sicilie.it/?fbclid=IwAR3YlR2bCzDBy6m_z_j4RIK01jwyvXeSKcZdsEK79LiRSLokqyC8zchAX0M

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La vera storia dell’impresa dei Mille: tutto quello che i libri di storia continuano a nascondere

Posted by on Apr 14, 2019

La vera storia dell’impresa dei Mille: tutto quello che i libri di storia continuano a nascondere

Cominciamo oggi la pubblicazione a puntate di un saggio scritto da Giuseppe ‘Pippo Scianò, figura storica dell’Indipendentismo siciliano. Libro dal titolo emblematico: “e nel maggio del 1860 LA SICILIA DIVENTO’ COLONIA” (Pitti edizioni Palermo, 18,50 euro). Titolo che sintetizza in modo efficace la storia di un volgare imbroglio, contrabbandato come grande impresa epica. In realtà, come leggerete in questo volume – ricco di citazioni originali e di fatti nascosti dalla storiografia ufficiale – nell’impresa non di Garibaldi, ma degli inglesi che lo foraggiavano e gli impartivano ordini, non c’è proprio nulla di eroico.

Non vogliamo anticiparvi quello che leggerete, sicuramente con interesse, anche divertendovi, perché nell’operetta oscena dell’impresa dei Mille non mancarono gli aspetti tragicomici.

Due cose, però, le vogliamo dire.

La prima cosa è che quella che è passata alla storia come ‘L’impresa dei Mille’ fu, in verità, un’operazione di immane corruzione morale ed economica.

Senza la corruzione operata dagli inglesi e dai piemontesi e, soprattutto, senza il tradimento di generali, ammiragli e alti ufficiali del Regno delle Due Sicilie Garibaldi e i suoi ‘Mille’ non avrebbero nemmeno messo piede in Sicilia.

La seconda cosa – legata sempre alla corruzione – è il ruolo esercitato dalla criminalità organizzata del Sud. In questo volume Scianò parla solo della Sicilia e, per ciò che riguarda i criminali, della mafia siciliana, allora già attiva, anche se legata al feudo. 

Per i nostri lettori non si tratta di una novità. Nelle dieci puntare della ‘Controstoria dell’impresa del Mille’ pubblicata su questo blog (QUI TROVATE LE DIECI PUNTATE DELLA CONTROSTORIA DELL’IMPRESA DEI MILLE) abbiamo già raccontato del ruolo attivo svolto dalla mafia nelle ‘imprese’ garibaldine in Sicilia.

Nel saggio di Scianò l’argomento viene trattato in modo molto dettagliato. E questo è importante, perché è solo approfondendo la storia di quei giorni – quando comincia quella che lo scrittore Carlo Alianello definisce ‘La conquista del Sud’ – che si comincia a capire perché l’Italia di oggi è così brutta.

Del resto, lo stesso Indro Montanelli – che dell’impresa del Mille ha raccontato poco o nulla – ammette che il ‘mastice’ con il quale, nel Risorgimento, è stata fatta l’Italia era debole. Perché, aggiunge, il Risorgimento fu un fatto che riguardò pochi, lasciando fuori il popolo, che l’unità d’Italia la subì. 

La prima cosa è che quella che è passata alla storia come ‘L’impresa dei Mille’ fu, in verità, un’operazione di immane corruzione morale ed economica.

Senza la corruzione operata dagli inglesi e dai piemontesi e, soprattutto, senza il tradimento di generali, ammiragli e alti ufficiali del Regno delle Due Sicilie Garibaldi e i suoi ‘Mille’ non avrebbero nemmeno messo piede in Sicilia.

La seconda cosa – legata sempre alla corruzione – è il ruolo esercitato dalla criminalità organizzata del Sud. In questo volume Scianò parla solo della Sicilia e, per ciò che riguarda i criminali, della mafia siciliana, allora già attiva, anche se legata al feudo. 

Per i nostri lettori non si tratta di una novità. Nelle dieci puntare della ‘Controstoria dell’impresa del Mille’ pubblicata su questo blog (QUI TROVATE LE DIECI PUNTATE DELLA CONTROSTORIA DELL’IMPRESA DEI MILLE) abbiamo già raccontato del ruolo attivo svolto dalla mafia nelle ‘imprese’ garibaldine in Sicilia.

Nel saggio di Scianò l’argomento viene trattato in modo molto dettagliato. E questo è importante, perché è solo approfondendo la storia di quei giorni – quando comincia quella che lo scrittore Carlo Alianello definisce ‘La conquista del Sud’ – che si comincia a capire perché l’Italia di oggi è così brutta.

Del resto, lo stesso Indro Montanelli – che dell’impresa del Mille ha raccontato poco o nulla – ammette che il ‘mastice’ con il quale, nel Risorgimento, è stata fatta l’Italia era debole. Perché, aggiunge, il Risorgimento fu un fatto che riguardò pochi, lasciando fuori il popolo, che l’unità d’Italia la subì. 

Regno delle Due Sicilie, che ancora era uno Stato libero ed indipendente.

Paradossalmente avviene che la sola ipotesi di un eventuale Stato Siciliano

sovrano – proprio per la posizione strategica della Sicilia nel Mediterraneo -venga vista con diffidenza dal Governo di Londra. Ciò nonostante la tradizionale amicizia ed i trascorsi sostanzialmente filo-inglesi di gran parte di Indipendentisti Siciliani ancora presenti sulla scena politica.

La Sicilia, insomma, viene considerata dal Gabinetto di Londra come un fattore di instabilità e di pericolo proprio per la pax britannica. Vale a dire proprio per quel progetto più grande di nuovo ordine che la stessa Inghilterra, maggiore potenza del mondo in quel momento, vuole instaura- re nel Mediterraneo ed in Europa.

La conquista della Sicilia diventa, pertanto, il primo obiettivo da rag- giungere, senza darle alcuna via di scampo. Ovviamente facendola ingloba- re nello Stato sardo-piemontese saldamente in mano a Vittorio Emanuele
II. Il tutto con l’inganno, con la violenza e… soprattutto manu militari. Ed a prescindere dalla volontà e dalle aspirazioni del Popolo Siciliano.

Il premier inglese Lord Palmerston, leader dei Whigs, peraltro forte di un fresco successo elettorale è, infatti, da sempre sostenitore dell’utilità di quel grande Stato Italiano, da costruire, facendolo estendere, come abbiamo già detto, dalle Alpi al centro del Mediterraneo. E che diventi forte e credibile fagocitando due realtà statuali importantissime: lo Stato Pontificio ed il Regno delle Due Sicilie. Da aggiungere alle altre realtà geopolitiche del Centro e del Nord-Italia, già fagocitate e che ci permettiamo di definire minori (rispettosamente), soprattutto in rapporto all’incidenza sulla grande strategia imperialista della Gran Bretagna.

Il Governo Inglese ha un suo ben definito programma che vuole attuare al più presto. Teme, infatti, che quel facilista di Napoleone III, Imperatore dei Francesi, si accorga prima o poi del ginepraio nel quale si è cacciato. E teme altresì che l’Impero Austro-Ungarico e la Russia decidano a loro volta di raggiungere una intesa per attivare qualche contromossa.

Occorre, dunque, far presto e dare a tutta l’operazione una parvenza di legittimità rivoluzionaria interna al Regno delle Due Sicilie, per ingannare meglio l’opinione pubblica internazionale. Occorrerà ovviamente fornire alle varie diplomazie, che non volessero né vedere né capire, una buona giustificazione per continuare, appunto, a non vedere e a non capire.

La rappresentazione della tragi-commedia dell’Unità d’Italia, a queste condizioni, può andare in scena.

Gli attori in Italia non mancano ed i ragazzi del coro neppure, alcuni di rango altissimo. Il copione lo ha in tasca da tempo lo stesso Lord Palmerston. Non è affatto segreto, soprattutto a Londra. Ed è condiviso dalla maggior parte degli uomini politici britannici e dalla stessa Regina Vittoria.
Occorre, però, aggiornare i programmi ed organizzare e dare attuazione ad una nuova e definitiva rivoluzione anti-borbonica e filo-italiana in Sicilia. La miccia della millantata rivoluzione la dovranno accendere quei Mille volontari forti e puri, che da Genova andranno a dare soccorso ai ribelli Siciliani e che proseguiranno, subito dopo, verso il «Continente» per dare soccorso ai ribelli Napoletani…

Fatte queste premesse illustreremo gli altri contenuti del copione, seguendone, sin da questo momento e passo dopo passo, l’esecuzione, mettendo a confronto le testimonianze e le descrizioni dell’impresa, dai suoi molteplici punti di vista. La prima parte del copione prevede, come sappia mo, che la Spedizione dei volontari, con alla testa Garibaldi, parta dalla Liguria alla volta della Sicilia. Lo scopo dichiarato: dare sostegno alla immaginata ed immaginaria grandissima rivoluzione in pieno svolgimento in tutta la Sicilia. E della quale la stampa internazionale è stata informata. E continuerà ad essere informata e coinvolta, con grande abilità.

Ovviamente il tutto dovrà avvenire senza compromettere ufficialmente il Governo Piemontese (che pure vi collaborerà a tempo pieno ed attiva- mente). Si dovranno, prima di ogni altra cosa, procurare o, per meglio dire, catturare (fingendo di sottrarli furtivamente), i due grossi piroscafi ‘Lombardo’ e ‘Piemonte’, di proprietà della Società di Navigazione Rubattino di Genova, e portarli al punto di partenza della Spedizione che sarà la borgata marinara genovese di Quarto (a sinistra, foto tratta da trentoincina.it)

I Garibaldini dovranno fare una sosta a Talamone, dove, con un finto colpo di mano, preleveranno le armi. Queste sceneggiate, pur se di qualità scadente, saranno utili a convincere l’opinione pubblica internazionale della spontaneità dell’iniziativa di Garibaldi (che comunque sarà rifornito di ottime armi, successivamente, in Sicilia). Da Talamone, inoltre, staccandosi dal grosso, una piccola colonna di Garibaldini fingerà addirittura di operare un’aggressione allo Stato Pontificio. Ciò per continuare ad ingannare l’opinione pubblica internazionale sulle reali finalità della Spedizione dei Mille.

Ed infine le navi degli eroi potranno puntare le loro prue alla volta della Sicilia, dove tutto è già predisposto per la sorpresa. Non si andrà, tuttavia, a casaccio. La méta prescelta è proprio Marsala, la cittadina dove maggiore è la presenza di cittadini Inglesi, di ogni tipo. È notevole, in particolare, la presenza di grossi imprenditori, che hanno investito capitali ed energie nel prestigioso vino liquoroso denominato, appunto, ‘Marsala’. E che possono vantare, in città, ed in tutta la Sicilia, una certa leadership commerciale e finanziaria. Nel porto di Marsala è peraltro un via vai continuo di navi commerciali britanniche, intensificatosi in modo sospetto negli ultimi tempi.

Per non fare correre alcun rischio ai prodi Garibaldini, è stato previsto che alcune navi da guerra della flotta militare piemontese li seguano senza perderli mai di vista. Lo scopo dichiarato sarà quello di inseguire i pirati che avranno intanto rubato i due piroscafi. Ovviamente la scorta dovrà mantenersi a debita distanza in maniera tale da non raggiungerli, ma, nel contempo, di essere nella condizione di intervenire, in loro difesa, nel caso in cui qualche nave della marina militare del Regno delle Due Sicilie intercettasse e cercasse di fermare la Spedizione.

Tutto previsto, compreso il supporto dell’esercito mercenario Ungherese, che sbarcherà in Sicilia dopo qualche settimana. Si reciterà sul mare, insomma. Ed anche sulla terra. In Sicilia e nel Napoletano, intanto, la massoneria, la mafia (1) e le benemerite Fratellanze di tradizione carbonara, nonché ’ndrangheta e camorra, e tante autorità ed alti gradi dell’esercito e dell’Amministrazione Statale Borbonica, sono stati mobilitati dai servizi segreti di Sua Maestà britanni- ca per rendere tutto più facile all’Eroe dei Due Mondi.

Andiamo, però, con ordine, per non sciupare lo spettacolo… Non privo di sorprendenti aspetti comici. Ma che non ci farà affatto ridere, in quanto foriero di sventure. Anzi causa principale di uno dei più grandi traumi che il popolo Siciliano abbia mai vissuto.(2)

Il copione prevede che la caduta del Regno delle Due Sicilie e la successiva annessione al Regno Sabaudo siano presentati come fatti rivoluzionari, interni allo stesso Regno delle Due Sicilie. Una copertura sottile, ma da non sottovalutare. Per portare a buon fine la conquista, nella realtà gli Inglesi hanno previsto e predisposto l’ingaggio e l’utilizzazione di truppe mercenarie straniere. La più potente delle quali è la Legione Ungherese, della quale avremo modo di parlare più ampiamente.

I mercenari saranno numerosi e, ovviamente, posti al servizio di Garibaldi, con laute ricompense e con ampie possibilità di saccheggio. Figureranno, però, come volontari e come generosi benefattori improvvisamente folgorati, anch’essi, dall’ideale di fare l’Unità d’Italia con a capo, come Re, quel galantuomo di Vittorio Emanuele II di Savoia.

Insomma: tutti Italiani per l’occasione e tutti in aiuto… della Sicilia e della «sua» rivoluzione immaginaria. Con l’impegno – ovviamente – di liberare anche la Napolitania. La parte continentale, cioè, del Regno delle Due Sicilie, Napoli compresa.

(Fine prima puntata/ continua)

(1) Anticipiamo alcune osservazioni su una protagonista, la mafia, che ritroveremo spesso sul nostro cammino. Prima del 1848 ed anche prima del 1860, questa era pressoché inesistente e viveva ai margini estremi della società siciliana. La parola mafia (o meglio maffia, come si è detto e scritto fino alla metà del secolo XX), come termine che indicasse una vera organizzazione illegale, non esisteva ancora nei documenti ufficiali, né nel linguaggio letterario. Il suo ruolo e la sua potenza sarebbero cresciuti enormemente nell’ambito del progetto inglese di fare l’Unità d’Italia. I picciotti di mafia, le loro squadre (al servizio di nobili senza scrupoli, di agrari e di notabili, che avevano paura delle riforme che il Governo indipendentista del 1848 aveva fatto intravedere), fanno da supporto alla politica unitaria ed in particolare all’impresa garibaldina

del 1860. Questi reazionari temevano, altresì, le riforme che il Regno delle Due Sicilie avrebbe varato con il ritorno alla normalità. Da qui la scelta di accettare le offerte ed i compromessi che il  mondo degli unitari offriva. Già dal 1849 sembra che i picciotti delle squadre fossero regolar- mente stipendiati. Ma nel 1860 avviene il salto di qualità dei voltagabbana e del fenomeno mafioso: la mafia entrerà nelle strutture e nel sistema del nuovo Stato unitario, il quale ne avrà estremo bisogno per ridurre più facilmente la Sicilia a colonia di sfruttamento. Il ruolo della mafia, che appesta la vita pubblica e l’economia in Sicilia, è soprattutto quello di contrastare il nazionalismo
Siciliano, prima e dopo il 1860. La mafia sarà strumento della conquista della Sicilia e collaborerà con i partiti dominanti per perpetuare l’asservimento della Sicilia agli interessi del Centro-Nord Italia. Non agirà mai con il popolo Siciliano e per il popolo Siciliano, ma per se stessa.
Anche contro il popolo Siciliano ed i suoi interessi vitali, i suoi valori, il suo diritto alla libertà.

(2) Le conseguenze di quella conquista sono ancora oggi visibili nel degrado della vita pubblica, nella compressione dell’economia, nella deculturazione, nella complicata vita di ogni giorno, nella subordinazione, pressoché totale, agli interessi settentrionali, nelle carenze di ogni genere. E nella vocazione ascarica di non pochi fra i partiti politici dominanti ed i loro uomini in Sicilia.

Fonte

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Il “Meridionalismo” di Gigi Di Fiore

Posted by on Mar 18, 2019

Il “Meridionalismo” di Gigi Di Fiore

(intervista di Fiore Marro) Gigi Di Fiore non è un cronista di storie borboniche ma Il Cronista, colui che ha dato da sempre voce alle Storie dei Vinti del Risorgimento come recita un suo libro. Giornalista attento sia sul fronte duosiciliano che quello della malavita definita camorra, è uno dei punti di riferimento del cosmo meridionalista, si può azzardare sia parte integrante dell’intellighenzia partenopea che da anni racconta in maniera limpida e sempre documentata le storie accadute nelle nostre contrade. 

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L’Inno borbonico scritto da Giuseppe Verdi

Posted by on Mar 7, 2019

L’Inno borbonico scritto da Giuseppe Verdi

“Padania” e Regno delle Due Sicilie hanno solo una cosa in comune: l’autore dell’inno nazionale.
Certo, è una battuta provocatoria. Ma le cose diventano ancora più paradossali se si pensa che l’autore delle musiche in questione è Giuseppe Verdi, uno dei padri dell’Unità d’Italia.

Chissà cosa direbbero i nostalgici della Lega Lombarda se sapessero che proprio Verdi, nel 1848, scrisse un inno chiamato “La Patria – dedicato a Ferdinando II di Borbone“: avrebbe dovuto sostituire lo storico inno di Giovanni aisiello.

Re Ferdinando è salutato come padre della patria ed il testo finisce con un coro di “Viva il Re!“.

Bisogna contestualizzare la situazione storica: l’inno fu scritto dopo le rivolte del 1848, quando tutta Europa si sollevò contro le monarchie. Anche a Napoli ci furono numerose manifestazioni contro Ferdinando II, tanto da costringerlo ad emanare una costituzione (che poi fu revocata l’anno dopo).

In tempi di rinnovamento, probabilmente, si pensò che anche l’inno storico scritto sotto Ferdinando IV dovesse essere cambiato.
Ed ecco che quindi le musiche dell’Ernani, un’opera composta pochi anni prima da Verdi, furono arricchite con le parole di Michele Cucciniello:

Bella Patria del sangue versato
se fumanti rosseggian le
impronte

non più spine ti strazian la
fronte
il martirio la palma fruttò
Viva il Re!
Viva il Re!
Viva il Re!

L’inno fu però presto dimenticato in quanto, per tradizione, rimase ufficiale la musica di Paisiello. Il lavoro di Verdi fu ritrovato solo nel 1973, più di cento anni dopo dalla caduta del Regno, per mano del maestro Roberto de Simone, che scavò negli immensi archivi del Conservatorio di San Pietro a Majella e studiò le origini di questa storia, che altrimenti avremmo dimenticato.

Verdi era borbonico?

I conti non tornano: Verdi fu uno dei più appassionati sostenitori dell’Unità d’Italia, oggi sono dedicate a lui piazze, strade e monumenti. Com’è possibile che vent’anni prima dell’unità sosteneva la monarchia di Napoli?

Alcuni autorevoli studiosi, fra cui l’istituto di Studi Verdiani, credono che l’inno “La Patria” sia un plagio clandestino di un testo mai autorizzato. È effettivamente strano che Verdi, forte sostenitore di Mazzini, abbia appoggiato la politica borbonica. Oltretutto il compositore si trovava a Parigi nel 1848.

Michele Coccia, invece, affermò di aver trovato anche le carte in cui si poteva leggere chiaramente il consenso del compositore per la diffusione della sua opera, di fatto riconoscendola come originale. E se anche non ci fossero stati riconoscimenti, l’inno di Verdi era sicuramente molto conosciuto a Napoli.
Oltretutto, quando il compositore di Busseto diventò senatore, si batté molto per promuovere leggi sul diritto d’autore e per tutelarsi dai numerosissimi plagi che aveva subito nella sua carriera. Se anche l’inno borbonico fosse stato fra questi, probabilmente, Verdi ne avrebbe in qualche modo parlato.

Ci sono anche quelli che, come lo storico Pasquale Galasso ed il maestro De Simone, vedono in Verdi un “opportunismo”: l’Italia stava per cominciare il suo processo di unificazione e tutti gli intellettuali del paese si sarebbero affidati a qualunque monarca disposto a compiere l’impresa. E Verdi provò ad ingraziarsi anche il re di Napoli.
In effetti, ancor prima che cominciasse il processo unitario, a Ferdinando II fu proposto di unificare l’Italia, ma il monarca non prese mai in considerazione questa ipotesi per evitare conflitti con Roma.

E così, in un duello fra immaginazione e storia, Lega Nord e Regno di Napoli hanno avuto in comune l’autore dei propri inni.
Per l’immaginaria Padania, ovviamente, il discorso è un po’ diverso: l’aria del “Va, pensiero” fu adottata da Bossi quando il buon Giuseppe Verdi era morto da ben ottant’anni.

Federico Quagliuolo

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Due Sicilie: chi difende il busto di Cialdini

Posted by on Mar 5, 2019

Due Sicilie: chi difende il busto di Cialdini

Con una intera pagina messa a disposizione dall’edizione di Napoli del quotidiano “la Repubblica” (23.2.2019), il presidente della Società Napoletana di Storia Patria, Renata De Lorenzo e diverse associazioni di docenti universitari di Storia attaccano la Camera di Commercio di Napoli per la decisione di spostare il busto del generale piemontese Enrico Cialdini (1811-1892), responsabile del bombardamento di Gaeta durante l’assedio del 1860-61, dei massacri di Pontelandolfo e Casalduni (14 Agosto 1861) e di migliaia di fucilazioni, saccheggi e distruzioni di paesi del Sud durante la repressione dell’insurrezione definita brigantaggio successiva all’unificazione.

Il salone di rappresentanza dell’Ente, nel Palazzo della Borsa, ospita un grande busto in marmo di Cialdini, che la Giunta della Camera di Commercio, su proposta del vicepresidente vicario Fabrizio Luongo, ha deciso all’unanimità di spostare in altro luogo. “A noi piacerebbe  – ha detto Fabrizio Luongosostituirlo col volto di Angelina Romano, bimba di 9 anni che Cialdini fece fucilare” (“la Repubblica-Napoli”, 23.2.2019).

Diverse città del Sud tra le quali Palermo, Catania, Barletta e Lametia Terme, hanno cambiato negli anni scorsi la denominazione di strade e piazze intitolate all’autore delle stragi di civili meridionali. Anche Mestre ha deciso di cambiare il nome del piazzale che porta il nome del generale piemontese, mentre Vicenza ha cambiato la denominazione della piazza intitolata al colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, luogotenente di Cialdini che guidò i bersaglieri nella strage di Pontelandolfo, e l’ha ridenominata Piazza Pontelandolfo.

A Napoli, invece il tentativo di spostare un simbolo della violenza con la quale l’unificazione fu imposta all’ex Regno delle Due Sicilie provoca la mobilitazione della stampa radical-chic, delle vestali del Risorgimento, di giornalisti e docenti dietro i quali si muovono i poteri forti che presidiano la narrazione mitica dell’unificazione.

Secondo la De Lorenzoi comportamenti dei Gruppi dirigenti locali” sono da “contestualizzare in base ad una valutazione del clima complessivo che dettò scelte a suo tempo condivise”.

Gli atti di Cialdini e dei suoi uomini, quindi, non andrebbero valutati per il loro contenuto oggettivo (il massacro di inermi, donne, bambini) ma giustificati dall’ideologia dominante (il liberalismo risorgimentale) e dal consenso politico che esso raccoglieva tra i “gruppi dirigenti”.

Per la De Lorenzo, peraltro, i massacri di Pontelandolfo e Casalduni sono solo “presunti eccidi”, anche se perfino il socialista Giuliano Amato, presidente del Comitato per le celebrazioni per i 150 anni dell’unificazione, chiese ufficialmente scusa, a nome dello Stato italiano, ai discendenti delle vittime dei massacri.

Il presidente della Società Napoletana di Storia Patria, il cui metodo di ricerca storica è lo stesso degli autori delle fiction televisive, aggiunge che “la repressione del brigantaggio ebbe manifestazioni crudeli da entrambe le parti in lotta (…) con episodi di cannibalismo [sic!] e altre aberrazioni” da parte di questi ultimi, e mette sullo stesso piano “la distruzione del villaggio di Bosco”, ordinata dopo i moti liberali del 1828 dal Governo Borbonico, che avvenne – come scrive il liberale Luigi Settembrini – quando il villaggio era “già vuoto di abitanti”, e le stragi di civili inermi compiute dai piemontesi, per concludere che è su questa base che “la Società Napoletana di Storia Patria si è espressa contro una visione del passato che stravolge gli spazi e il loro portato simbolico, disancorandoli dalle motivazioni che le hanno plasmate.

Torna il concetto che “la motivazione” può giustificare un atto, indipendentemente dal suo contenuto. Con la stessa logica (la tesi dell’“accerchiamento delle potenze capitalistiche”) sono stati giustificate dai comunisti le epurazioni di massa di Stalin, lo sterminio dei kulaki, i Gulag sovietici… Quanto al “portato simbolico”, bisogna effettivamente chiedersi, se i contadini arsi vivi insieme alle loro donne ed ai bambini, nel Beneventano, non siano il simbolo migliore dell’unificazione italiana.

Contro lo spostamento del busto di Cialdini, la De Lorenzo ha promosso anche un appello di docenti universitari di Storia, ospitato senza alcuna replica da “la Repubblica-Napoli” (23.2.2019).

Negli ultimi anni – scrivono i docenti universitari – si sono moltiplicati i segnali di una certa conflittualità nella produzione di memorie collettive “ e citano “l’istituzione di una giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia. Quanto alla decisione della Camera di Commercio di spostare il busto di Cialdini, si tratterebbe di un episodio di “bonifica storica.

Le “memorie collettive” si producono, secondo questi docenti di Storia, e “negli ultimi anni” la loro “produzione“ sarebbe diventata “conflittuale. Forse vogliono dire che una nuova generazione di studiosi, in gran parte non accademici, ha cominciato, sulla base di fatti e documenti storici e non di costruzioni ideologiche, a mettere in discussione il “rito antico ed accettato” del Risorgimento del quale sono i guardiani.

Renata De Lorenzo è un’allieva del prof. Alfonso Scirocco (1924-2009), titolare della cattedra di Storia del Risorgimento all’Università Federico II, poi collaboratrice di Giuseppe Galasso. Il suo libro su Murat, personaggio del quale il presidente di Storia Patria è un’ammiratrice, è stato presentato in anteprima a Roma, l’8 luglio 2011, nella sede del Grande Oriente d’Italia, nel corso di una serata conclusa dal “Gran MaestroGustavo Raffi.

Le cattedre di “Storia del Risorgimento” furono create nelle Università italiane per costruire la memoria storica di un evento che vide come protagonisti gruppi ristrettissimi in ciascuno degli Stati pre-unitari dell’Italia. Un bilancio della loro attività può essere fatto guardando alla produzione. In occasione dei 150 anni dell’unificazione (2011), dalla parte risorgimentalista non è stato prodotto nessun contributo scientifico di rilievo, mentre la divulgazione ha sfornato biografie di personaggi risorgimentali firmate da giornalisti e compilatori, saccheggiando la bibliografia già esistente, mentre gli studiosi critici del Risorgimento hanno prodotto contributi originali corredati da documenti. Basti citare gli studi di Antonella Grippo, Angela Pellicciari, Gennaro De Crescenzo.

Ma perché i cultori della leggenda risorgimentale non producono nulla di serio? Perché se ci si mettesse a studiare davvero che cosa fu quello che è stato definito Risorgimento, emergerebbero non solo le stragi, di meridionali di cui Pontelandolofo e Casalduni sono solo un esempio, ma anche la totale mancanza di legittimazione dei suoi “gruppi dirigenti. Come si svolsero i plebisciti, non solo nel Regno delle Due Sicilie, ma nel Granducato di Toscana, nelle Legazioni Pontificie, in Veneto? Da dove provenivano i “patrioti” e quali legami avevano con le sette, con potenze straniere come l’Inghilterra? Che ruolo ebbero la camorra e la mafia nella gestione dell’ordine pubblico a Napoli e nell’avanzata di Garibaldi in Sicilia?

A queste ed altre domande è pericoloso rispondere. Si incrinerebbe definitivamente la ricostruzione affabulatoria dell’unificazione italiana. Meglio continuare a difendere i busti di Cialdini e di altri “eroi” del Risorgimento come lui, per impedire che vengano trasferiti in appositi Musei storici con targhette che rechino scritto: “criminale di guerra. (LN132/19)

Lettera Napoletana

fonte http://www.editorialeilgiglio.it/due-sicilie-chi-difende-il-busto-di-cialdini/

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