Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Il Brigantaggio post unitario IL BRIGANTAGGIO POSTUNITARIO NEL VULTURE-MELFESE

Posted by on Lug 26, 2019

Il Brigantaggio post unitario IL BRIGANTAGGIO POSTUNITARIO NEL VULTURE-MELFESE

Il brigantaggio postunitario fu, assieme alla “Questione Romana” e alla “Questione Veneta”, uno dei principali problemi che il governo di Torino si trovò ad affrontare all’indomani dell’Unità.
I moderati italiani non solo consideravano il brigantaggio un problema secondario, mentre la “Questione Romana” e l’armamento nazionale costituivano i problemi di massima urgenza da risolvere,1 ma avevano di esso una conoscenza approssimativa. Vi furono addirittura ufficiali dell’esercito italiano, inviati nel Mezzogiorno per combattere il brigantaggio, che non conoscevano il territorio su cui agivano, confondendo la Basilicata con l’Irpinia.2

Read More

Appunti sul Risorgimento /1

Posted by on Giu 10, 2019

Appunti sul Risorgimento /1

Padre Sale della Civiltà Cattolica (quad. 3848) ricorda che sessanta vescovi — uno di essi, mons. Felice Romano (1793-1872), di Ischia (Napoli), è quello che vedete effigiato — delle regioni meridionali furono cacciati dalle rispettive diocesi nel 1860 perché legittimisti filo-borbonici. Strano, no? In genere i vescovi si situano al di sopra delle parti, accettano i buon grado i cambia­menti, convinti della provvidenzialità di tutto quanto accade nella storia dell’uomo e, sempre disponibili a contentarsi del bene comune possibile in ciascun singolo frangente storico. Eppure allora no. C’è solo un altro caso di legittimismo, però in senso opposto: il rifiuto della Repubblica e l’adesione al movimento nacional dei vescovi spagnoli nel 1937-1939: ma allora il problema era la violenza comunista perpetrata dietro lo schermo delle istituzioni di facciata legittime.

Evidentemente davanti alle modalità con cui si era instaurato il nuovo dominio nelle terre del Mezzogiorno, scattarono meccanismi psicologici o valutazioni analoghe. Obiettivamente il governo piemontese non può essere confrontato con gli orrori del bolscevismo staliniano. Ciononostante, se si tiene anche conto che i sessanta non furono i soli — il vescovo di Spoleto, il ligure mons. Giovanni Battista Arnaldi (1806-1867) — nel 1863 finirà in galera per aver difeso il potere temporale del Pontefice — qualcosa di “forte”, di inusitato, di così grave, almeno tanto grave da far abbandonare a presuli cattolici il loro consueto aplomb, dovette allora succedere.

Padre Sale sottolinea lo shock da fine di “regime di cristianità” che accolse l’entrata in vigore delle “leggi Siccardi” in tutte le province conquistate dai Savoia. Giusto. Shock psicologico, ma soprattutto orrore e sdegno nel vedere chiudere i conventi, confiscare le chiese, disperdere i religiosi fra mille soprusi e violenze, mandare alla malora patrimoni inestimabili di cultura oppure buttare sul mercato arredi, libri, dipinti, statue, beni delle abbazie, terreni, edifici. Dilapidare cioè un capitale che la Chiesa aveva accumulato nei secoli grazie al contributo del popolo fedele e al genio e alla munificenza dei suoi dirigenti: cardinali, vescovi, prelati, capitoli, abati, collegi, priori, arcipreti…

Di solito non si riflette su questo aspetto: quello che la Chiesa possedeva non era suo. Non l’aveva prodotto lei, perché la sua missione non è di coltivare e di produrre ma di celebrare il culto e di evangelizzare. Lo aveva ricevuto nei secoli da uomini e donne che avevano liberamente e piamente ritenuto di mettere parte dei loro beni lasciati sulla terra alla loro dipartita al servizio dei poveri attraverso il curato o il vescovo. Già: i beni ecclesiastici servivano per il culto e per sostenere i meno abbienti, per far studiare i più svantaggiati, per curare chi, come tutti allora, non aveva la mutua, per mandare in missione un religioso, per creare un orfanotrofio o un oratorio. E non pensiamo solo ai beni di diritto privato. Al pontefice come sovrano temporale si affidavano in feudo terre, città, principati. L’ostinazione di Pio IX a non voler cedere il potere temporale fu dovuta sì alla necessità di un presidio politico della Cattedra di Pietro, ma anche e soprattutto al dovere di tutelare diritti su cose e persone che non erano originariamente della Santa Sede ma a lei si erano affidati e non potevano essere alienati né si poteva venissero espropriati senza il consenso del datore, ovvero non potevano esserlo in assoluto essendo costui o costei defunto magari trecento anni prima!

A fianco di questa esperienza diretta si può credere che i vescovi del Mezzogiorno vedessero o sapessero che cos’era l’insorgenza popolare della Lucania e delle Calabrie, cioè con quanta crudeltà venisse condotta la guerriglia contadina e quanto violenta fosse la risposta a essa, come conducevano cioè le operazioni di controguerriglia i soldati “piemontesi”, fucilando senza pietà veri e presunti briganti, violentandone le donne, mutilandone i corpi, abbandonandone i cadaveri o facendosi fotografare a fianco dei loro corpi messi in posa, in piedi o seduti, con gli occhi tenuti aperti apposta, oppure con le loro teste ai piedi, come se i poveri cafoni in armi fossero bestie selvagge uccise durante una “caccia grossa”.

Ma tutto questo non basta. Quello che i vescovi non digerivano allora era la soppressione manu militari di un regno, del loro regno, l’esilio coatto di una dinastia cattolica con la quale avevano avuto frizioni e scontri, ma tutt’altro che indegna. Non è possibile non capire che cosa significasse per uomini di quel tempo e in quel ruolo vedere applicare al regno borbonico criteri che neppure uno Stato coloniale avrebbe applicato contro un popolo asservito. Francesco II viene sconfitto, e come sono andate le cose si sa: corruzione, oro inglese a fiumi, promesse di fulgide carriere militari e diplomatiche nel regno unificato, tradimenti di massa, diserzione dei propri doveri istituzionali e morali. Ma un nemico sconfitto a metà secolo XIX — non siamo ancora ai tempi di Varsavia oppure di Dresda e di Amburgo o di Hiroshima e Nagasaki, né di Carlo d’Austria — distruggendone e deportandone l’esercito, appropriandosi delle sue navi, confiscando il suo tesoro e i suoi averi privati. Solo i giacobini e Napoleone avevano avuto il coraggio di giocare con i regni e i sovrani come a un tavolo di Monòpoli.

Pensando o facendo credere d’incarnare il principio di nazionalità, di fare la volontà dei — potenzialmente — ventisei milioni d’italiani di allora, i sabaudi e i garibaldini pensavano — e agivano di conseguenza — di potersi permettere, maramaldescamente, qualunque “disinvoltura”. Certo la caduta di Napoli non si può paragonare alla caduta di Saigon, né il Lager di Fenestrelle ai campi di lavoro dove per decenni hanno faticato fino alla morte i fame o di malattia migliaia di dirigenti e quadri politici e militari del governo vietnamita libero, almeno quelli non fucilati nei giorni della vittoria del Nord. Comunque, il modo con il quale l’antico regno normanno — e non solo esso — è stato “liberato” viola ogni regola di rapporti fra Stati. E l’uomo di Chiesa non deve mai rendersi prono alla minima violazione dei diritti fondamentali degli uomini e delle entità collettive.

Oggi una resistenza come quella dei vescovi napoletani è semplicemente impensabile, perché i nemici del Sud non hanno più bisogno né di tagliare teste — le teste i meridionali se le tagliano virtualmente da soli omologandosi al politicamente corretto –, né di svuotare i conventi perché questi si svuotano da soli e quelli che restano spesso hanno solo l’apparenza di cenobi.

Oscar Sanguinetti

http://www.identitanazionale.it/riso_3007.php

Read More

L’Insorgenza come categoria storico-politica

Posted by on Mag 17, 2019

L’Insorgenza come categoria storico-politica

Nota del 17 novembre 2018
In occasione del Capitolo Nazionale di Alleanza Cattolica svoltosi oggi a Piacenza Francesco Pappalardo ha svolto una relazione dal titolo «L’Insorgenza come categoria politica nell’intuizione e nel pensiero di Giovanni Cantoni». Riproponiamo qui lo scritto del fondatore di Alleanza Cattolica che espone il suo pensiero sull’argomento.

Read More

Caravaggio-Napoli: due sentimenti appassionati, ribelli al modo di pensare canonico di Adriana Dragoni

Posted by on Apr 22, 2019

Caravaggio-Napoli: due sentimenti appassionati, ribelli al modo di pensare canonico di Adriana Dragoni

È noto al pubblico come quello dei quadri scuri. Perché Caravaggio è un pittore che dipinge il buio. Il buio del dubbio, del peccato, del rimorso e anche quello delle strade che lui percorre di notte, per cercare la vita tra la gente, della gente, dei loro corpi.

L’attraggono soprattutto i corpi, violati, dei ragazzini di strada, quelli degli uomini nerboruti, quelli delle popolane e delle prostitute. E sono questi i personaggi che ricoprono il ruolo degli angeli, dei santi e delle madonne nei dipinti che gli vengono commissionati.

Addirittura, nel suo quadro “Morte della Vergine”, ora al Louvre, si dice sia dipinta una prostituta affogata nel Tevere. Così, in questo modo, Michelangelo Merisi (1571/1610), detto Caravaggio dal suo paese natio, afferma che ognuno, per quanto misero e peccatore, è sacro. D’altronde, per tanti suoi contemporanei, non era forse un delinquente, un fuorilegge, un impostore, e non era stato riconosciuto come tale, e perciò condannato dalla giustizia, autorizzata dal legale governo imperiale romano, anche lo stesso Gesù?

Anche il Merisi fu un fuorilegge, un delinquente. Si trovava a Roma già da qualche anno ed era diventato un pittore molto apprezzato, che aveva successo e molti notabili committenti. Ma, gran frequentatore di bettole, iroso e attaccabrighe, in una rissa aveva, di coltello, ucciso un uomo. Era diventato un assassino. Condannato a morte, era scappato dalla Roma papalina.

È settembre del 1606. Caravaggio si rifugia a Napoli, la bella capitale spagnola, “città nobilissima” la dicono le carte. E’ agitato, shockato dall’omicidio commesso e dalla condanna a morte sul suo capo. Napoli lo accoglie, lo sostiene, lo fa lavorare. Lui ha di nuovo speranza nel futuro e infine partirà, nel luglio 1607, per Malta, sperando di ottenere successo. Ma anche lì si farà dei nemici. E torna, è il 1609, di nuovo a rifugiarsi a Napoli. Vi rimarrà fino al 1610, l’anno della sua morte. Trovata su una spiaggia di Porto Ercole. Dopo una fuga affannosa, fatta per sfuggire a un misterioso killer. Era il 31 luglio. Non aveva ancora compiuto trentasette anni.

Ora, fino al 14 luglio, possiamo ammirare, nella Reggia-Museo di Capodimonte, la mostra “Caravaggio – Napoli”, che ha sei opere sue, dipinte a Napoli, e altre ventidue degli artisti che qui lo hanno incontrato. Una mostra di grande impatto. Le opere non sono collocate, come accade di solito, nelle normali sale di un museo. Una  scenografia geniale, teatrale, ci fa immaginare il pittore percorrere, di notte, vicoli oscuri che svoltano in altri vicoli.

E possiamo guardare, da finestre costruite ad hoc, la gente che lui e i suoi amici pittori rendono viva. Sono quadri che danno forti emozioni. La luce che li illumina si avvale della più moderna tecnologia e accentua quella dipinta. La famosa “Flagellazione” di Caravaggio, che abbiamo vista posizionata e illuminata con molta perizia nella stessa Reggia-Museo di Capodimonte, in una sala tutta per lei, qui ora, acquistando una luminosità straordinaria, appare ancora più bella.

C’era bisogno di un’altra mostra su Caravaggio? Si domanda, nel presentarla in un saggio, il direttore del Museo e del Real Bosco di Capodimonte Sylvain Bellenger, che, insieme a Cristina Terzaghi, ne è stato il curatore. Lui ha più volte detto che una mostra vale se ha un valore scientifico, se aggiunge qualcosa di nuovo alla conoscenza, se dà uno sguardo diverso sulle opere, il loro autore e il suo contesto storico, magari anche messo in relazione con quello attuale. La mostra oggi a Capodimonte costituisce senz’altro una svolta nella considerazione del pittore e dell’ambiente cittadino e pittorico napoletano dell’epoca.

Non tutti sanno che,dopo il successo che ebbe in vita, Caravaggio fu dapprima contestato dai critici classicisti, poi fu rapidamente, completamente dimenticato.

Fin quando, nel 1911, un ragazzo che si chiama Roberto Longhi non ne fa la sua tesi di laurea e poi, innamorato del personaggio, gli dedica, da uomo maturo, una lunga serie di articoli e per di più, nel 1951, una mostra personale. Il Longhi è un critico influente. La critica longhiana esalta l’identità caravaggesca.  

Come conseguenza dell’azione promozionale di Longhi, Caravaggio è popolarmente visto soprattutto come il pittore della povera gente, quello che ha avuto il coraggio di mettere in primo piano dei piedi sporchi, e la sua pittura come una sorta di rivendicazione sindacale e di affermazione dell’Italia patriottica che ha salvato Napoli dalla povertà vissuta durante la tirannia spagnola (e poi borbonica).

Altri disprezzano quel periodo dei quadri scuri napoletani come oscurantista, e la Napoli capitale spagnola, con 350.000 abitanti la più popolosa di Europa dopo Parigi, come una povera cittadina provinciale. Poi i film, i romanzi e gli stessi scritti critici dipingono Caravaggio come il pittore maledetto: per il pubblico un’attrazione fatale. 

È da Roberto Longhi in poi che viene definita “la maniera” caravaggesca e si afferma che questa ha influenzato la storia dell’arte seicentesca, particolarmente quella napoletana. Si tende a cancellare l’individualità dei pittori napoletani, tanto che questi si chiameranno caravaggeschi e, per alcuni critici, sarebbero dei semplici copisti di Caravaggio. Per la critica dotta, l’influenza caravaggesca dura fino ad esondare, giungendo ai primi anni del Settecento, nella pittura chiarissima, immaginifica e spesso festosa e gaudente, del napoletanissimo Luca Giordano (1634/1705).  La mostra odierna ridimensiona questa influenza riconoscendo, anche nei pittori che a Napoli conoscono Caravaggio, una propria personalità.

Già il titolo “paritario” “Caravaggio-Napoli” suggerisce che l’apporto è reciproco. Certo c’è una consentaneità tra Caravaggio e Napoli, che questa mostra napoletana mette in evidenza. Una consentaneità che nasce anche dall’assorbire, vivendola, lo spirito di questa città dalla personalità forte e antica, che suggerisce sentimenti, situazioni, facce espressive segnate dall’esperienza. La prima opera che Caravaggio dipinge al suo arrivo a Napoli è “Sette opere di misericordia”, un’opera rivoluzionaria, che rivoluziona anche la pittura dello stesso Caravaggio. 

ome riporta in un bell’articolo sull’Alfiere (maggio 2006) Edoardo Vitale, “il fatidico 7 maggio 1607, al cadere dei veli davanti alla grande icona delle “Sette opere di misericordia”, Napoli non vive solo un folgorante momento di emozione artistica ma soprattutto l’esperienza sconvolgente di uno sguardo sulla propria anima”.

Nel quadro vi è un vicolo di Napoli e vi sono le facce dei napoletani. Anche la Madonna è una di loro, è una bella popolana che ha un bambino in braccio, e c’è un distinto signore che, come i signori napoletani d’un tempo, non ha albagia e si mischia con la folla. Ricchi e poveri insieme in una società omogenea, unita da una forte fede in Dio, nei santi, nella Madonna e nell’umanità.  

Caravaggio e Napoli entrambi hanno spiriti ribelli. Eretici. 

Come tale, Caravaggio è stato da alcuni critici considerato, probabilmente sbagliando, un protestante. Ma non sembra facciano parte del mondo protestante la sua fede nei santi e nella salvezza raggiunta con le opere di misericordia. Caravaggio e Napoli sono soprattutto ribelli al modo di pensare canonico, razionale, obbediente a regole fisse. E, qui a Napoli, ora Caravaggio è libero anche dai limiti posti dalla sua formazione artistica all’immaginazione.La sua pittura esce, svicolando, dallo spazio canonico, rigida scatola fissa a tre dimensioni, per il quale già ha affermato la propria insofferenza dipingendo, nella “Sepoltura di Cristo” (ora nella Pinacoteca Vaticana), il sepolcro in obliquo, mettendone in primo piano uno spigolo.

Ora, ispirata da Napoli stessa, già nelle in questa sua prima opera napoletana, ha la possibilità di immaginare uno spazio libero da regole, formato dagli stessi movimenti della gente di questa città vitale e popolosa.  Non c’è bisogno di contestare lo spazio canonico criticandolo. Basta crearne un altro.

Già Antonello da Messina (1430/1479), allievo del napoletanissimo Colantuono, aveva usato il fondo nero per la sua Annunciata di Palazzo Abatellis e a Napoli si era continuato ad usare il fondo d’oro ancora nel Cinquecento  con Cicino da Caiazzo e l’anonimo, fortissimo, Maestro di Sanseverino, che perciò vengono considerati arretrati. Mentre Francesco Curia (1538/1610) esprime, a modo suo, un libero spazio ricco di movimento e dolci sentimenti, ammaestrando a questo anche il fiammingo Teodoro d’Errico (1544/ 1618).

Caravaggio e Napoli hanno sentimenti appassionati, una sensibilità accesa. Non c’è bisogno, per spiegare l’animo umano, di ricorrere allo studio accademico, alla sociologia, alla psicologia o alle analisi freudiane. Caravaggio e i suoi amici in questa mostra entrano nei cunicoli della sensibilità umana e in vicoli oscuri, vitalizzati da bagliori improvvisi, che ci fanno comprendere di colpo la verità della vita. 

P.S. Malauguratamente l’opera “Sette opere di misericordia” è ancora al Pio Monte

Adriana Dragoni

fonte http://agenziaradicale.com/index.php/cultura-e-spettacoli/mostre/5804-caravaggio-napoli-due-sentimenti-appassionati-ribelli-al-modo-di-pensare-canonico

Read More