Posted by altaterradilavoro on Giu 10, 2019
Padre Sale della Civiltà Cattolica (quad. 3848)
ricorda che sessanta vescovi — uno di essi, mons. Felice Romano (1793-1872), di
Ischia (Napoli), è quello che vedete effigiato — delle regioni meridionali
furono cacciati dalle rispettive diocesi nel 1860 perché legittimisti
filo-borbonici. Strano, no? In genere i vescovi si situano al di sopra delle
parti, accettano i buon grado i cambiamenti, convinti della provvidenzialità
di tutto quanto accade nella storia dell’uomo e, sempre disponibili a
contentarsi del bene comune possibile in ciascun singolo frangente storico.
Eppure allora no. C’è solo un altro caso di legittimismo, però in senso
opposto: il rifiuto della Repubblica e l’adesione al movimento nacional
dei vescovi spagnoli nel 1937-1939: ma allora il problema era la violenza
comunista perpetrata dietro lo schermo delle istituzioni di facciata legittime.
Evidentemente davanti
alle modalità con cui si era instaurato il nuovo dominio nelle terre del
Mezzogiorno, scattarono meccanismi psicologici o valutazioni analoghe.
Obiettivamente il governo piemontese non può essere confrontato con gli orrori
del bolscevismo staliniano. Ciononostante, se si tiene anche conto che i
sessanta non furono i soli — il vescovo di Spoleto, il ligure mons. Giovanni
Battista Arnaldi (1806-1867) — nel 1863 finirà in galera per aver difeso il
potere temporale del Pontefice — qualcosa di “forte”, di inusitato,
di così grave, almeno tanto grave da far abbandonare a presuli cattolici il
loro consueto aplomb, dovette allora succedere.
Padre Sale sottolinea
lo shock da fine di “regime di cristianità” che accolse
l’entrata in vigore delle “leggi Siccardi” in tutte le province
conquistate dai Savoia. Giusto. Shock psicologico, ma soprattutto orrore
e sdegno nel vedere chiudere i conventi, confiscare le chiese, disperdere i
religiosi fra mille soprusi e violenze, mandare alla malora patrimoni inestimabili
di cultura oppure buttare sul mercato arredi, libri, dipinti, statue, beni
delle abbazie, terreni, edifici. Dilapidare cioè un capitale che la Chiesa
aveva accumulato nei secoli grazie al contributo del popolo fedele e al genio e
alla munificenza dei suoi dirigenti: cardinali, vescovi, prelati, capitoli,
abati, collegi, priori, arcipreti…
Di solito non si
riflette su questo aspetto: quello che la Chiesa possedeva non era suo. Non
l’aveva prodotto lei, perché la sua missione non è di coltivare e di produrre
ma di celebrare il culto e di evangelizzare. Lo aveva ricevuto nei secoli da
uomini e donne che avevano liberamente e piamente ritenuto di mettere parte dei
loro beni lasciati sulla terra alla loro dipartita al servizio dei poveri
attraverso il curato o il vescovo. Già: i beni ecclesiastici servivano per il
culto e per sostenere i meno abbienti, per far studiare i più svantaggiati, per
curare chi, come tutti allora, non aveva la mutua, per mandare in missione un
religioso, per creare un orfanotrofio o un oratorio. E non pensiamo solo ai
beni di diritto privato. Al pontefice come sovrano temporale si affidavano in
feudo terre, città, principati. L’ostinazione di Pio IX a non voler cedere il
potere temporale fu dovuta sì alla necessità di un presidio politico della
Cattedra di Pietro, ma anche e soprattutto al dovere di tutelare diritti su
cose e persone che non erano originariamente della Santa Sede ma a lei si erano
affidati e non potevano essere alienati né si poteva venissero espropriati senza
il consenso del datore, ovvero non potevano esserlo in assoluto essendo costui
o costei defunto magari trecento anni prima!
A fianco di questa
esperienza diretta si può credere che i vescovi del Mezzogiorno vedessero o
sapessero che cos’era l’insorgenza popolare della Lucania e delle Calabrie,
cioè con quanta crudeltà venisse condotta la guerriglia contadina e quanto
violenta fosse la risposta a essa, come conducevano cioè le operazioni di
controguerriglia i soldati “piemontesi”, fucilando senza pietà veri e
presunti briganti, violentandone le donne, mutilandone i corpi, abbandonandone
i cadaveri o facendosi fotografare a fianco dei loro corpi messi in posa, in
piedi o seduti, con gli occhi tenuti aperti apposta, oppure con le loro teste
ai piedi, come se i poveri cafoni in armi fossero bestie selvagge uccise
durante una “caccia grossa”.
Ma tutto questo non
basta. Quello che i vescovi non digerivano allora era la soppressione manu
militari di un regno, del loro regno, l’esilio coatto di una
dinastia cattolica con la quale avevano avuto frizioni e scontri, ma tutt’altro
che indegna. Non è possibile non capire che cosa significasse per uomini di
quel tempo e in quel ruolo vedere applicare al regno borbonico criteri che
neppure uno Stato coloniale avrebbe applicato contro un popolo asservito.
Francesco II viene sconfitto, e come sono andate le cose si sa: corruzione, oro
inglese a fiumi, promesse di fulgide carriere militari e diplomatiche nel regno
unificato, tradimenti di massa, diserzione dei propri doveri istituzionali e
morali. Ma un nemico sconfitto a metà secolo XIX — non siamo ancora ai tempi di
Varsavia oppure di Dresda e di Amburgo o di Hiroshima e Nagasaki, né di Carlo
d’Austria — distruggendone e deportandone l’esercito, appropriandosi delle sue
navi, confiscando il suo tesoro e i suoi averi privati. Solo i giacobini e
Napoleone avevano avuto il coraggio di giocare con i regni e i sovrani come a
un tavolo di Monòpoli.
Pensando o facendo
credere d’incarnare il principio di nazionalità, di fare la volontà dei —
potenzialmente — ventisei milioni d’italiani di allora, i sabaudi e i
garibaldini pensavano — e agivano di conseguenza — di potersi permettere,
maramaldescamente, qualunque “disinvoltura”. Certo la caduta di
Napoli non si può paragonare alla caduta di Saigon, né il Lager di
Fenestrelle ai campi di lavoro dove per decenni hanno faticato fino alla morte
i fame o di malattia migliaia di dirigenti e quadri politici e militari del
governo vietnamita libero, almeno quelli non fucilati nei giorni della vittoria
del Nord. Comunque, il modo con il quale l’antico regno normanno — e non solo
esso — è stato “liberato” viola ogni regola di rapporti fra Stati. E
l’uomo di Chiesa non deve mai rendersi prono alla minima violazione dei diritti
fondamentali degli uomini e delle entità collettive.
Oggi una resistenza come quella dei vescovi napoletani è semplicemente impensabile, perché i nemici del Sud non hanno più bisogno né di tagliare teste — le teste i meridionali se le tagliano virtualmente da soli omologandosi al politicamente corretto –, né di svuotare i conventi perché questi si svuotano da soli e quelli che restano spesso hanno solo l’apparenza di cenobi.
Oscar Sanguinetti
http://www.identitanazionale.it/riso_3007.php
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Posted by altaterradilavoro on Apr 22, 2019
È noto al pubblico
come quello dei quadri scuri. Perché Caravaggio è un pittore che dipinge il buio. Il buio del
dubbio, del peccato, del rimorso e anche quello delle strade che lui percorre
di notte, per cercare la vita tra la gente, della gente, dei loro corpi.
L’attraggono soprattutto i corpi, violati, dei ragazzini di strada, quelli degli uomini
nerboruti, quelli delle popolane e delle prostitute. E sono questi i personaggi
che ricoprono il ruolo degli angeli, dei santi e delle madonne nei dipinti che
gli vengono commissionati.
Addirittura, nel suo quadro “Morte
della Vergine”, ora al Louvre, si dice sia dipinta una prostituta
affogata nel Tevere. Così, in questo modo, Michelangelo Merisi (1571/1610),
detto Caravaggio dal suo paese natio, afferma che ognuno,
per quanto misero e peccatore, è sacro. D’altronde, per tanti
suoi contemporanei, non era forse un delinquente, un fuorilegge, un impostore,
e non era stato riconosciuto come tale, e perciò condannato dalla
giustizia, autorizzata dal legale governo imperiale romano, anche lo stesso
Gesù?
Anche il Merisi fu un fuorilegge, un delinquente. Si trovava a
Roma già da qualche anno ed era diventato un pittore molto apprezzato, che
aveva successo e molti notabili committenti. Ma, gran frequentatore di bettole,
iroso e attaccabrighe, in una rissa aveva, di coltello, ucciso un uomo. Era
diventato un assassino. Condannato a morte, era scappato dalla Roma papalina.
È settembre del 1606. Caravaggio si rifugia a Napoli, la bella
capitale spagnola, “città nobilissima”
la dicono le carte. E’ agitato, shockato dall’omicidio commesso e dalla
condanna a morte sul suo capo. Napoli lo accoglie, lo sostiene, lo fa lavorare.
Lui ha di nuovo speranza nel futuro e infine partirà, nel luglio 1607, per
Malta, sperando di ottenere successo. Ma anche lì si farà dei nemici. E torna,
è il 1609, di nuovo a rifugiarsi a Napoli. Vi rimarrà fino al 1610, l’anno
della sua morte. Trovata su una spiaggia di Porto Ercole. Dopo una fuga
affannosa, fatta per sfuggire a un misterioso killer. Era il 31 luglio. Non
aveva ancora compiuto trentasette anni.
Ora, fino al 14
luglio, possiamo ammirare, nella Reggia-Museo di Capodimonte, la mostra “Caravaggio
– Napoli”, che ha sei opere sue, dipinte a Napoli, e
altre ventidue degli artisti che qui lo hanno incontrato. Una mostra di grande
impatto. Le opere non sono collocate, come accade di solito, nelle normali sale
di un museo. Una scenografia geniale, teatrale, ci fa immaginare il
pittore percorrere, di notte, vicoli oscuri che svoltano in altri vicoli.
E possiamo guardare, da finestre costruite ad
hoc, la gente che lui e i suoi amici pittori rendono viva. Sono
quadri che danno forti emozioni. La luce che li illumina si
avvale della più moderna tecnologia e accentua quella dipinta. La famosa “Flagellazione”
di Caravaggio, che abbiamo vista posizionata e illuminata con molta perizia
nella stessa Reggia-Museo di Capodimonte, in una sala tutta per lei, qui ora,
acquistando una luminosità straordinaria, appare ancora più bella.
C’era bisogno di
un’altra mostra su Caravaggio? Si domanda, nel presentarla in un saggio, il
direttore del Museo e del Real Bosco di Capodimonte Sylvain
Bellenger, che, insieme a Cristina Terzaghi,
ne è stato il curatore. Lui ha più volte detto che una mostra vale se ha un
valore scientifico, se aggiunge qualcosa di nuovo alla conoscenza, se dà uno
sguardo diverso sulle opere, il loro autore e il suo contesto storico, magari
anche messo in relazione con quello attuale. La mostra oggi a Capodimonte
costituisce senz’altro una svolta nella considerazione del pittore e
dell’ambiente cittadino e pittorico napoletano
dell’epoca.
Non tutti sanno
che,dopo il successo che ebbe in vita, Caravaggio fu dapprima contestato dai
critici classicisti, poi fu rapidamente, completamente dimenticato.
Fin quando, nel 1911,
un ragazzo che si chiama Roberto Longhi non
ne fa la sua tesi di laurea e poi, innamorato del personaggio, gli dedica, da
uomo maturo, una lunga serie di articoli e per di più, nel 1951, una mostra
personale. Il Longhi è un critico influente. La critica longhiana esalta
l’identità caravaggesca.
Come conseguenza dell’azione promozionale di Longhi, Caravaggio
è popolarmente visto soprattutto come il pittore della povera gente,
quello che ha avuto il coraggio di mettere in primo piano dei piedi sporchi, e
la sua pittura come una sorta di rivendicazione sindacale e di
affermazione dell’Italia patriottica che ha salvato Napoli dalla povertà
vissuta durante la tirannia spagnola (e poi borbonica).
Altri disprezzano quel
periodo dei quadri scuri napoletani come oscurantista, e la Napoli capitale
spagnola, con 350.000 abitanti la più popolosa di Europa dopo Parigi, come una
povera cittadina provinciale. Poi i film, i romanzi e gli stessi scritti
critici dipingono Caravaggio come il pittore maledetto:
per il pubblico un’attrazione fatale.
È da Roberto Longhi in
poi che viene definita “la maniera” caravaggesca e si afferma che questa ha
influenzato la storia dell’arte seicentesca, particolarmente quella napoletana.
Si tende a cancellare l’individualità dei pittori napoletani, tanto che questi
si chiameranno caravaggeschi e, per alcuni critici, sarebbero dei semplici
copisti di Caravaggio. Per la critica dotta, l’influenza caravaggesca dura fino
ad esondare, giungendo ai primi anni del Settecento, nella pittura chiarissima,
immaginifica e spesso festosa e gaudente, del napoletanissimo Luca
Giordano (1634/1705). La mostra odierna
ridimensiona questa influenza riconoscendo, anche nei pittori che a Napoli
conoscono Caravaggio, una propria personalità.
Già il titolo “paritario” “Caravaggio-Napoli”
suggerisce che l’apporto è reciproco. Certo c’è una consentaneità tra
Caravaggio e Napoli, che questa mostra napoletana mette in
evidenza. Una consentaneità che nasce anche dall’assorbire,
vivendola, lo spirito di questa città dalla personalità forte e antica, che
suggerisce sentimenti, situazioni, facce espressive segnate dall’esperienza. La
prima opera che Caravaggio dipinge al suo arrivo a Napoli è “Sette
opere di misericordia”, un’opera rivoluzionaria, che rivoluziona
anche la pittura dello stesso Caravaggio.
ome riporta in un
bell’articolo sull’Alfiere (maggio 2006) Edoardo Vitale, “il
fatidico 7 maggio 1607, al cadere dei veli davanti alla grande icona delle “Sette
opere di misericordia”, Napoli non vive solo un folgorante momento
di emozione artistica ma soprattutto l’esperienza sconvolgente di uno sguardo
sulla propria anima”.
Nel quadro vi è un vicolo di Napoli e vi sono le facce dei
napoletani. Anche la Madonna è una di loro, è una bella popolana che ha un
bambino in braccio, e c’è un distinto signore che, come i signori napoletani
d’un tempo, non ha albagia e si mischia con la folla. Ricchi
e poveri insieme in una società omogenea, unita da una forte
fede in Dio, nei santi, nella Madonna e nell’umanità.
Caravaggio e Napoli entrambi hanno spiriti ribelli. Eretici.
Come tale, Caravaggio
è stato da alcuni critici considerato, probabilmente sbagliando, un
protestante. Ma non sembra facciano parte del mondo protestante la sua fede nei
santi e nella salvezza raggiunta con le opere di misericordia. Caravaggio e
Napoli sono soprattutto ribelli al modo di pensare canonico, razionale,
obbediente a regole fisse. E, qui a Napoli, ora Caravaggio è libero anche dai
limiti posti dalla sua formazione artistica all’immaginazione.La
sua pittura esce, svicolando, dallo spazio canonico, rigida scatola fissa a tre
dimensioni, per il quale già ha affermato la propria insofferenza dipingendo,
nella “Sepoltura di Cristo”
(ora nella Pinacoteca Vaticana), il sepolcro in obliquo,
mettendone in primo piano uno spigolo.
Ora, ispirata da Napoli stessa, già nelle in questa sua prima
opera napoletana, ha la possibilità di immaginare uno spazio libero da regole,
formato dagli stessi movimenti della gente di questa città vitale e
popolosa. Non c’è bisogno di contestare lo spazio canonico
criticandolo. Basta crearne un altro.
Già Antonello da
Messina (1430/1479), allievo del napoletanissimo Colantuono,
aveva usato il fondo nero per la sua Annunciata di Palazzo Abatellis e a Napoli
si era continuato ad usare il fondo d’oro ancora nel Cinquecento con Cicino da
Caiazzo e l’anonimo, fortissimo, Maestro di
Sanseverino, che perciò vengono considerati arretrati. Mentre Francesco
Curia (1538/1610) esprime, a modo suo, un libero spazio
ricco di movimento e dolci sentimenti, ammaestrando a questo anche il fiammingo Teodoro
d’Errico (1544/ 1618).
Caravaggio e Napoli
hanno sentimenti appassionati, una sensibilità accesa. Non c’è bisogno, per
spiegare l’animo umano, di ricorrere allo studio accademico, alla sociologia,
alla psicologia o alle analisi freudiane. Caravaggio e i suoi amici in questa
mostra entrano
nei cunicoli della sensibilità umana e in vicoli
oscuri, vitalizzati da bagliori improvvisi, che ci fanno comprendere di colpo
la verità della vita.
P.S. Malauguratamente l’opera “Sette opere di
misericordia” è ancora al Pio Monte
Adriana Dragoni
fonte http://agenziaradicale.com/index.php/cultura-e-spettacoli/mostre/5804-caravaggio-napoli-due-sentimenti-appassionati-ribelli-al-modo-di-pensare-canonico
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