Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

I Borboni nel Regno delle Due Sicilie …Di Michele de Sangro

Posted by on Set 6, 2019

I Borboni nel Regno delle Due Sicilie …Di Michele de Sangro

“…Ai miei lettori,
Implacabile odio settario non si stanca con ogni specie di calunnie di denigrare la memoria della Real Famiglia dei Borboni, e specialmente quella di Re Ferdinando II.

Né 25 anni di tomba, né sventura immeritata e tanto nobilmente sostenuta da’ suoi figli, né avergli rapito ogni fortuna, né l’essersi assisi trionfanti sulle rovina della patria e dei suoi Re, niente può calmare o diminuire quell’odio.

Se però tanto fiele e tanto veleno si ammassa negli animi di taluni sciagurati, sono tali la devozione l’affetto la gratitudine, verso quella Reale Famiglia, che per nessun sacrificio di intere fortune, di luminose carriere, di splendide prospettive, per nessun volgere di tempo, od infierire di persecuzioni, non mai si videro affievolire.

Ultimo per merito, mi faccio gloria di essere fra i più devoti a quell’illustre sventura, penso rispondere a tante infame pubblicazioni contro le anguste vittime di esse.

Potrei paragonare i 25 anni di “libertà” unitaria coi precedenti; a persona potrei opporre persona, a sbagli commessi delitti consumati, ma non lo faccio.

E’ già troppo disgraziatamente l’odio che si ammansa nelle nostre Provincie; non voglio io fomentarlo; che anzi, obliando ogni passato, in cui tutti fummo colpevoli, sarei fiero di unirmi a chiunque desidera il bene, la prosperità, l’indipendenza nostra.

Hanno cercato calunniare la vita, il Regno, la memoria di quella dinastia; dovremmo noi inchinarci, e non rispondere a tali attacchi?

Non è col silenzio che si possono combattere avversari i quali conoscono gli effetti perniciosi della calunnia. Noi li confuteremo, dimostrando quanto BENE abbiano le provincie nostre ricevuto da quella dominazione.

Il poco nostro ingegno sarà compensato dalla volontà di smascherare l’odio implacabile dei nemici, e far rifulgere la grande bontà d’animo di quei Re, che non è mai venuta meno nel travagliato loro dominio.

Non siamo tra quelli prudenti che perché si sentono deboli lasciano prevalere i nemici; non siamo di quelli che per paura di essere chiamati nemici del loro secolo tacciono quando dovrebbero parlare, dissimulano quando dovrebbero agire, tollerano quando dovrebbero invece riprendere e punire.

Non ci lasciamo né intimidire dalla resistenza, né sedurre dalle mezze concessioni, né abbattere dai rovesci. Sappiamo che le più dure prove ci vengono più facilmente non dai nostri avversari naturali, bensì da falsi amici; ma lasciamo ad essi quali che sieno la vergogna, e terremo per nostra gloria e ricompensa l’appoggio degli uomini di cuore e di fede.

Sono scorsi 25 anni dalla caduta del Regno napoletano. Quanto più mi avanzo nella vita, mi è venuta tanta più cara la fede. Né grandi dolori ho provato quanto essa valga, e nelle pubbliche sventure ho rimpianto quanti fede non hanno.

Ho sempre ammirato quanto la Provvidenza ha fatto per allontanarmi dalla disperazione ed attaccarmi invece ad un travaglio continuo dello spirito che, facendomi sopportare ogni dolore, ho dato all’animo mio tranquillità e pace benedetta. 
In questi tempi, più che in altri, il coraggio dell’obbedienza, della fermezza contro le avversità e contro le ingiustizie, che certamente è il più raro ed il più difficile di tutti, non deve mancarci.

Dobbiamo sopportare con pazienza ciò che in altre circostanze non avremmo nemmeno tollerato. Anche quando riceviamo dei grandi torti, non ci è lecito lagnarci, né pubblicarli.
E’ il merito maggiore della nostra coscienza che avrà a nostra coscienza, per la quale principalmente lottiamo e soffriamo….”

Firenze, lì 12 giugno 1884
Michele de Sangro 
Duca di Casacalenda

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LA GUERRA CIVILE NEL SALENTO – Cronaca storica della prima resistenza – Luglio e Agosto 1861 – Il Regno delle Due Sicilie è annesso al Piemonte.

Posted by on Ago 29, 2019

LA GUERRA CIVILE NEL SALENTO  – Cronaca storica della prima resistenza – Luglio e Agosto 1861 – Il Regno delle Due Sicilie è annesso al Piemonte.

Da “ capitolo del libro “Due Sicilie 1830/1880″ di Antonio Pagano“.

Le atrocità commesse dall’esercito piemontese durante la guerra di annessione del Regno delle Due Sicilie, furono contrastate per oltre un decennio da migliaia di combattenti e resistenti che vennero bollati in modo dispregiativo Briganti. In quel luglio e agosto del 1861 in Terra d’Otranto molti paesi si ribellarono all’invasore piemontese e ai loro collaborazionisti. È un intero popolo che insorge. Sono uccisi liberali, i sindaci collaborazionisti e gli ufficiali della guardia nazionale. Sono distrutti gli archivi comunali, distrutti gli stemmi sabaudi e sono liberati numerosi detenuti.

A Serracapriati in Terra d’Otranto (…) Tutti questi paesi subiscono dopo pochi giorni la repressione disumana dei piemontesi che uccidono, saccheggiano e danno alle fiamme le case. Molte centinaia di persone senza alcun motivo sono arrestate e deportate in Piemonte o in Lombardia. Mentre il 21 luglio, l’ex sergente Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle, riuniva una folta comitiva di guerriglieri nei boschi vicini (Romano dà alla sua banda una vera e propria struttura militare caratterizzata da una ferrea disciplina), lo stesso giorno, il 21 luglio 1861, si verificava uno scontro tra un reparto di guardia nazionale e un gruppo di resistenza di Cellino S. Marco. 11 sono catturati e portati a Brindisi dove sono fucilati. Il 25 luglio vi è un altro scontro a Cellino S. Marco tra guardia nazionale e insorti, di cui undici sono catturati e fucilati il giorno dopo nella piazza centrale di Brindisi. Il gruppo di resistenza comandato dal sergente Romano si concentra nel bosco Lama dei Preti. / Tutta la Puglia è un inferno di fuoco … la situazione economica continua a peggiorare: il pane è quasi introvabile ed è venduto a prezzo elevato / Numerose colonne mobili formate da reparti del 30° fanteria e squadre della guardia nazionale rastrellano le campagne intorno alla città di Bari. Il 2 Agosto 1861, Massimo D’Azeglio, invia una lettera al senatore Carlo Matteucci, pubblicata poi dai giornali, nella quale scrive : «Noi siamo proceduti innanzi dicendo che i governi non consentiti dai popoli erano illegittimi: e con questa massima, che credo e crederò sempre vera, abbiamo mandato a farsi benedire parecchi sovrani italiani; ed i loro sudditi, non avendo protestato in nessun modo, sì erano mostrati contenti del nostro operato, e da questo si è potuto scorgere che ai governi di prima non davano il loro consenso, mentre a quello succeduto lo danno. Così ì nostri atti sono stati consentanei al nostro principio, e nessuno ci può trovare da ridire. A Napoli abbiamo cacciato ugualmente il sovrano, per stabilire un governo sul consenso universale. Ma ci vogliono, e pare che non bastino, sessanta battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti e non briganti, tutti non ne vogliono sapere. Mi diranno: e il suffragio universale? Io non so niente di suffragio, ma so che di qua del Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni e di là si. Si deve dunque aver commesso qualche errore; si deve, quindi, o cambiar principi, o cambiar atti e trovare modo di sapere dai Napoletani, una buona volta, se ci vogliono si o no. Capisco che gli Italiani hanno il diritto di far la guerra a coloro che volessero mantenere i Tedeschi in Italia; ma agli Italiani che, rimanendo Italiani, non vogliono unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibugiate … perché contrari all’unità». Ma questa è la risposta personale che il presidente del Consiglio, Bettino Ricasoli, dà a D’Azeglio il 14: «Se (ì Napoletani) non consentono, più se ne fucilerà e più cresceranno il numero delle prove contro di noi: e bisognarà cercare altre vie. E mi permetterei di non accettare la tua parola “Essi rifiutano non noi, ma l’Italia”. Sarebbe vera se volessero mettersi con stranieri. Ma l’Italia si può intendere in più modi. E quantunque io l’intenda come l’intendi tu, non per questo vorrei fucilare chi la pensa altrimenti». II D’Azeglio scrive quello che moltissimi pensano, ma il governo, risponde in forma ufficiale a questa lettera, addossando allo Stato Pontificio le responsabilità del brigantaggio, che è alimentato da Francesco II con la protezione del Papa e che non si può dubitare della “legittimità” dei plebisciti. In realtà, com’è riconosciuto dalla stessa Commissione d’inchiesta, l’azione esercitata dal governo duosiciliano in esilio a Roma è del tutto trascurabile e l’aiuto prestato è limitato all’invio sporadico di qualche agente di collegamento e di scarsi soccorsi materiali. In tutte le province meridionali la guerriglia è un fenomeno di ribellione popolare del tutto spontaneo per liberarsi dagli invasori. Il generale Dalla Chiesa emana il 3 Agosto un bando con il quale invita i briganti a presentarsi, promettendo l’impunità. Alcuni, presentatisi, sono torturati per avere informazioni sui luoghi dove si erano rifugiati e in seguito sono fucilati. Il 4 Agosto a S. Paolo, nel Molise, gli insorti in uniforme dell’armata duosiciliana uccidono il sindaco liberale Antonio Capra e innalzano la bandiera delle Due Sicilie sul municipio. Sono saccheggiate le case dei collaborazionisti, compresa quella dell’arciprete Giovanni Rogati e di suo fratello. Anche a Supersano, in Puglia, i guerriglieri di Rosario Parata (detto “Sturno”) invadono il paese al grido di “Viva Francesco II”. Il 7 e l’8 Agosto i guerriglieri di Sturno, in una rapida scorribanda nel Salento, eliminano le guardie nazionali di Scorrano, di Nociglia e Surano, dove innalzano gli stemmi duosiciliani. Anche gli insorti di Carpignano, Borgagne e Martano si riuniscono e, guidati da Donato Rizzo (detto Sergente), assalgono la guardia nazionale di Carpignano, impadronendosi dei fucili. Sono inseguiti inutilmente dal sindaco Liborio Salomi, che qualche giorno dopo subisce l’incendio del suo uliveto. Il 9 Agosto, a Cancello, i soldati uccidono 29 civili che manifestavano contro gli occupanti. I guerriglieri dei La Gala assaltano un treno carico di truppe, che subiscono numerose perdite. Il giorno dopo, Ruvo del Monte, S. Giorgio, Molinara, Pago e Pietrelcina sono accerchiate dalle truppe del 31° Bersaglieri comandato dal maggiore Davide Guardi: le case sono saccheggiate, 23 persone sono uccise e confiscato il denaro delle casse comunali. L’ufficiale taglieggia anche i possidenti, dei quali ne arresta numerosi perché si erano rifiutati di pagare e li accusa di attentato alla sicurezza dello Stato. Tra questi bersaglieri sono numerosi quelli che si fanno fotografare, sorridenti, accanto ai cadaveri a cui tengono sollevata la testa tirandola per i capelli. Tra i taglieggiatori vi è anche il maggiore Du Coli del 61° fanteria. Tommaselli, capo della resistenza di Pontelandolfo, allo scopo di acquistare pane e farina per la cittadinanza, il 9 ordina di assaltare una carrozza postale che trasporta le paghe per la truppa. La carrozza è scortata, ma l’assalto è incruento: a nessuno è torto un capello e sono prelevati soltanto il denaro ed i loro preziosi. Sempre il 9 Agosto, il 43° di linea compie un rastrellamento a Borgo di Sora, catturando numerosi combattenti di Chiavone, che sono subito fucilati. A Campobasso è fucilato il comandante Antonio Nardacchione. Le guardie nazionali di Poggiardo, nelle Puglie, riescono a sorprendere la banda del Sergente Romano nel bosco del Belvedere, ma sono fermati dalla reazione degli insorti, che, invece di ucciderli, li bastonano e li lasciano poi fuggire. All’alba del 14 Agosto, Pontelandolfo è circondata. Dopo che un plotone accompagnato da De Marco ha contrassegnato le case dei liberali da salvare, entrati a Pontelandolfo, i bersaglieri fucilano chiunque capita a tiro: preti, uomini, donne, bambini. Le case sono saccheggiate e poi tutto il paese è dato alle fiamme e raso al suolo. Tra gli assassini vi sono truppe ungheresi che compiono vere e proprie atrocità. I morti sono oltre mille. Per fortuna numerosi abitanti sono riusciti a scampare a quel massacro rifugiandosi nei boschi. Nicola Biondi, un contadino di sessant’anni, è legato ad un palo della stalla da dieci bersaglieri, i quali denudano la figlia Concettina, di sedici anni e la violentano a turno. Dopo un’ora la ragazza, sanguinante, sviene per la vergogna e per il dolore. Il bersagliere che la stava violentando, quasi indispettito nel vedere quel corpo esanime, si alza e le spara. Il padre della ragazza, cercando di liberarsi dalla fune che lo teneva inchiodato al palo, è fucilato anch’egli dai bersaglieri. Le pallottole rompono anche la fune e Nicola Biondi cade carponi nei pressi della figlia. Nella casa accanto, un certo Santopietro; con il figlio in braccio, sta per scappare, ma è bloccato dai militari, che gli strappano il bambino dalle mani e lo uccidono senza misericordia. Il maggiore Rossi, con coccarda azzurra al petto, è il più esagitato. Dà ordini, grida come un ossesso, ed è talmente assetato di sangue che con la sciabola infilza ogni persona che riesce a catturare, mentre i suoi sottoposti sparano su ogni cosa che si muove. Dopo aver ammazzato i proprietari delle abitazioni, le saccheggiano: oro, argento, soldi, catenine, bracciali, orecchini, oggetti di valore, orologi, pentole e piatti. Angiolo De Witt, del 36° fanteria bersaglieri (Maggiore Angiolo De Witt, Comandante di una colonna mobile del 36° bersaglieri nelle Puglie) così ha descritto quell’episodio: «… il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l’incendio e lo sterminio dell’intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari del giorno prima, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere perla via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro. Molti mordevano il terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò un “intera giornata: il castigo fu tremendo…» Il 16 Agosto inizia, alle assise di Torino, il processo Cibolla. L’imputato, un ladro ed assassino, ha indicato in un funzionario piemontese, Filippo Curletti, collaboratore di Cavour, la persona che gli aveva permesso impunemente di compiere i suoi delitti. Uno dei complici del Cibolla è morto misteriosamente in carcere prima del processo ed anche il Cibolla si salva a stento da un misterioso malessere. Il Curletti è fatto scarcerare da Cavour e si rifugia in Svizzera, dove dopo qualche mese farà stampare un libro in cui sono descritte ruberie di Cavour, di Vittorio Emanuele, di Garibaldi, dei vari generali piemontesi e dei brogli del Plebiscito. Denunciava, inoltre, che nel Napoletano i piemontesi compivano estorsioni per fare o non fare incarcerare, per fare o non fare fucilare, si spartivano i proventi dei saccheggi e compivano ricatti. Il generale Cialdini rassegna per telegrafo le dimissioni, ma il governo non le accetta. Il 17 Agosto gli insorgenti di Castrignano de’ Greci, di Guagnano, Ginosa, Laterza e Castellaneta, assaltano la guardia nazionale appropriandosi delle armi e bruciando il tricolore e i ritratti di Vittorio Emanuele e di Garibaldi.

fonte http://belsalento.altervista.org/la-guerra-civile-nel-salento-cronaca-storica-della-prima-resistenza-nel-salento-luglio-e-agosto-1861-il-regno-delle-due-sicilie-e-annesso-al-piemonte/?fbclid=IwAR26mEDtotG6fTFiTBZ0ncDQWlmREyuiVpbG-QReKBQ3Wz5tInBo1K6h4ng

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Nota dell’effemeride di corte, in « Annali civili del Regno delle Due Sicilie», Napoli 1833, vol. I, fasc. II, p. XIII.

Posted by on Ago 23, 2019

Nota dell’effemeride di corte, in « Annali civili del Regno delle Due Sicilie», Napoli 1833, vol. I, fasc. II, p. XIII.

IL PONTE DI FERRO SUL GARIGLIANO (1833)

II re radunava a Sessa numerose milizie per esercitarle nelle armi. Il dì dieci maggio andava al Garigliano ove voleva sperimentare la saldezza del nuovo ponte su quel fiume sospeso a catene di ferro. Fermatosi nel mezzo, faceva passare sopra di esso a gran trotto due squadre di lancieri e sedici grossi carri di artiglieria.


Soddisfatto della riuscita di quella prova, esaminava tutte le parti dell’opera, ne commendava l’artificio, la solidità, il decoro, e lodavane l’ispettore di ponti e strade cavalier Luigi Giura il quale, eletto a dirigere la costruzione del primo ponte che l’Italia abbia sospeso a catene di ferro, con felici trovati migliorava i sistemi altrove finora seguiti.

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Dagli  « Annali civili del Regno delle Due Sicilie », Napoli 1839,  XXI, pp. 54-55, 57

LA PRIMA LINEA FERROVIARIA (1839)

Era il dì 3 di ottobre dell’anno 1839. La popolazione della città di Napoli e delle terre vicine sapeva, per avvisi fatti pubblici, che seguirebbe con solennità l’aprimento della strada ferrata: accorreva in grandissimo numero, come ad uno spettami nuovo.


Tutte le deliziose ville traversate dalla strada s’andavan riempiendo di gentiluomini e di dame vestite come in giorno di festa; nei campi e nelle vie pubbliche, dove queste sono intersecate dalle rotaie di ferro, erasi gittata sin dalle prime ore del mattino una folla di gente d’ogni condizione e stato venuta dalla città o dalle vicinanze del contado: la quale ad ogni istante cresceva per nuovo popolo sopravveniente; bramosi essendo tutti di vedere per quelle piagge, state dianzi si quete stanze degli agricoltori, la straordinaria macchina mossa dal vapore camminar sola e trarsi dietro un seguito lungo di carrozze o carri.


Fino sulle onde del mare, che furono placidissime in quel dì, vedevi gran numero di barche cariche di uomini e donne remigare e farsi presso alla marina, nelle parti dove la via ferrata scopre il destro lato al lido.


Chi conosce lo spirito pronto, la immaginativa e la fantasia potente del popol napolitano, non dee maravigliare che con tanto entusiasmo traesse d’ogni parte sulla nuova strada, e giunto colà facesse allegrezza grande come per faustissimo avvenimento Non si può con parole descrivere come si commova e ratto s’infiammi una gran moltitudine all’aspetto di cosa nuova, grata e maravigliosa: ed in verità, sur un sentiero apparecchiato prestamente in un breve anno venia, mirabil cosa, a mostrarsi la locomotrice, non come già si mostrò agl’inglesi e francesi, sorta a poco a poco in maggior perfezione dopo cento e cento tentativi ed esperimenti, ma già tutta elegante di forme, pronta, perfetta e velocissima a un corso, che oltrepassa i venti.


Intanto, presso al Granatello, là sopra il ponte che unisce le due rupi su cui ora si riman divisa la villa Carrione, era preparato un gran padiglione addobbato splendidamente di arazzi e velluti cremisini per la maestà del re e per la sua real famiglia: al fianco gli sorgeva un devoto altare. Quel ponte è a capo della lunga linea retta della strada, la quale d’ivi si discopre al guardo per 3823 metri, pari a 2 miglia e 1/6. Da un lato era altra tenda per ambasciadori e ministri di potentati stranieri, pe’ capi della real corte del re, pe’ suoi ministri segretari di Stato: una terza tenda ci avea pe’ generali dell’esercito e dell’armata, per primari ufiziali del Regno civili e militari e per altre persone ancora invitate.


Di sotto il ponte, sulla sponda sinistra della strada, destinavasi un luogo ricinto ai soci della Compagnia e ad altri gentiluomini ancora; e da ultimo, in un altro spartimento sorto per cure della città di Napoli, il sindaco avea raccolto gran numero di nobili e di persone altre invitate. Le milizie d’infanteria e di cavalleria tutte in armi ed in arredo eran disposte da un capo all’altro della strada, e principalmente alla villa Carrione, alle stazioni, ai 67 siti ove son ponti od aquidotti, e ne’ luoghi dove le rotaie intersecano le vie pubbliche: né di tanto numero di soldati potea farsi di manco, se si volea esser sicuri che nessun sinistro accidente venisse a turbare l’allegrezza del giorno; mentre la calca popolare impaziente e bramosissima di tutto vedere pressava d’ogni banda e facea le viste di voler invadere gli steccati della stra per farsi luogo sin presso le rotaie di ferro.


La Compagnia, che ha sua sede in Parigi per l’impresa di questa nostra strada, fin d’allora che seppe il primo tratto esser vicino a compiersi, mandava qui in Napoli suo commessario il sig. L. Teofilo Dubois, affinchè insieme al gerente ed ingegnere signor Armando Bayard ed al signor Clemente Falcon, che già trovavasi commessario tra’ soci residenti in Napoli, avessero tutti uniti fatto ossequio alla maestà del re nel giorno che le piacesse intervenire all’apertura del cammino ferrato. (…)


Finito il parlare del re, un segnale fu dato di sopra il padiglione, cui risposero immantinente gli spari delle artiglierie de’ forti del Granatello e del Carmine. E ratto dalla stazione di Napoli mosse velocemente la locomotrice seguita da nove grandi carri, in cui erano 258 uffiziali dell’esercito, dell’armata e delle regie segreterie di Stato.


Sopra uno di que’ carri, scoperto, dava fiato alle trombe una compagnia militare; sopra un altro, una mano di soldati agitava a dimostrazion di giubilo alcune aste con banderuole in cima. In nove minuti e mezzo la macchina giunse da Napoli al Granatello: e di là anco velocemente sen tornò quivi d’onde era partita. Allora il vescovo, vestito de’ suoi abiti pontificali, recitò le preghiere, indi benedisse la nuova strada ferrata: e intantochè tutti gli astanti si prostravano ginocchioni, le artiglierie facevano rimbombar l’aere d’una salva festiva.


Ed ecco giungere un’altra volta la locomotrice col seguito de’ suoi carri, nel mezzo de’ quali vedevi una carrozza ornata pel re ed altra per la sua regal corte. La macchina s’arrestò di sotto il ponte Carrione; ed il re colla sua regal famiglia per una scala a posta fatta discese sulla via ferrata.

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Da un articolo del barone Durini in “ Annali civili del Regno delle Due Sicilie”, Napoli 1839, vol. XIX, pp. 13-18.

ECONOMIA E INDUSTRIA NEL REGNO DI NAPOLI (1839)

Ma questi non furono che avviamenti e principi delle alte i sulle quali Ferdinando II vide per sua opera sorgere in i anni il colosso dell’industria presente. Si moltiplicarono le fabbriche, s’ingrandirono i lavori: in ogni manifattura si contarono a più centinaia i lavoratori; si videro fonderie di ferro, cartiere, zucchero di barbabietole: le seterie di S. Leucio quelle del signor Matera, i panni di Sava, di Polsinelli, di Zino’ le bambagine di Egg, di Scafati, dell’Imo; i cuoi, i guanti noti solo bastarono al nostro bisogno, ma ne vendemmo a’ forestieri. (…)


Spiegata una carta dell’Italia, vedremo che il Regno di Napoli stassi come un capo che largamente avanzasi ne’ mari Adriatico, Ionio e Tirreno, che formano parte del Mediterraneo; che da un sol lato attaccasi al rimanente d’Europa, e ne forma come un ramo distaccato che avanzasi ad oriente ed a mezzogiorno. Il mare dunque ne cinge quasi per ogni dove, e dopo questo non largo mare incontransi l’Albania, l’Illirio, la Grecia, il lido dell’Asia e le coste dell’Africa, Schiavoni, Turchi, Beduini.


Siamo dunque a’ confini del mondo incivilito, e dopo noi vengono popoli o incolti o barbari che sicuramente non vorranno de’ nostri squisiti lavori, contenti di grossolani e vili, e che dal solo basso prezzo lasciansi allettare. In tal situazione a chi venderemo le nostre manifatture?


E potremo sperare che quelle nazioni che son già potenti nelle arti vorranno comprar da noi ciò che esse vendono a tutto il mondo? (…) Per siffatte ragioni vedesi apertamente quali insuperabili ostacoli si oppongano all’ingrandimento delle nostre manifatture e come saremo forzati di rinunciare a quelle lusinghiere speranze di cercare in esse e ricchezza e potenza.


Non vorremo però iscoraggiar ne avvilire. Se le nostre manifatture non sapranno direttamente arricchirci, potranno ben farlo con francarci di pagare agli esteri il nostro oro, e cosi col risparmio accrescere le nostre ricchezze, che il risparmio è la più facile strada di arricchire sicuramente, e noi con esso conserveremo quelle dovizie delle quali tanto ci fu generosa natura.


Supplire a’ nostri bisogni, francarci di comprare dagli esteri, tale debb’essere lo scopo delle arti nostre. Indi è che le grandiose e magnifiche fabbriche male a noi si convengano; anzi, veramente più vantaggiose ci saranno le modeste ed economiche. Che se pure alcune grandiose ne vorremo, non sapremmo consigliarne altre che quelle della seta e del cotone» perché noi siamo ricchi di tali generi, ed invece di estra» grezzi, potremmo farne di bei lavori che, per il basso prezzo  delle materie prime sostenendo la concorrenza colle forestiere, non saran per recarne utilità e vantaggio.


S’ingrandiscano esse sole dunque, e le altre tengansi a livello delle necessità nostre, nulla sperando dagli esteri. La copia del nostro olio potrebbe consigliare ancora d’ingrandire le saponerie, siccome l’uso di uccidere gli agnelli e capretti di estender l’arte de’ guanti e delle corde di minugia che già vendiamo a’ forestieri. Dunque moderazione, giudizio, convenienza deggiono esser le guide e le norme delle nostre manifatture, se vorremo per esse acquistare ricchezze.


Or dall’industria volgendo il discorso all’agricoltura, ad altre considerazioni essa ci chiama. La natura, negandoci l’oro e l’argento delle miniere, ci fu larghissima in feracità di terre, in dolce temperatura di clima ed in ordinato corso di stagioni. (…) La verità però ne costringe a confessare che, a paragone delle manifatture, trovasi molto al disotto la coltivazione de’ nostri campi. Né vorremo maravigliarcene.


La vita rustica, i lavori faticosi della campagna, le cure agrarie, gli stenti della vita de’ pastori, non hanno certo quegli allettamenti che ci chiamano ad abitar le città: gli agi, le distrazioni, i piaceri delle numerose Società fanno aborrire quel viver solitario e stentato; vediamo quindi a folla i nostri villici abbandonar le campagne per correre alle arti, a’ mestieri, ed anche alla servitù domestica; e quindi insuperbire del novello stato come più nobile e dignitoso, e credersi così da più del contadino che rimanesi avvilito e disprezzato. E questo stato di avvilimento e disprezzo in cui vediamo starsi l’uom di contado è un male gravissimo, anzi il maggior torto che possa farsi alla buona agricoltura ed alle sue produzioni.


Pur non ostante tutto ciò, lieti osserviamo quanto in pochi anni siasi la nostra agricoltura migliorata. Già scorgiamo sorgere novelli boschi, moltiplicarsi l’olivo ed il gelso, introdotta la grossa coltivazione della robbia e del guado, la barbabietola, ia medica, la sulla estese a vasti campi; ma pur confesseremo Qo non accadere nell’universale del Regno. Alcuni luoghi e ran mostrano tal progresso; ma, nella gran parte, o poco ne scorgi o nessuno. Non diciamo de’ contorni di questa metropoli né di Terra di Lavoro; dove la numerosa popolazione, immenso consumo, la feracità del suolo, la copia degl’ingrassi, concorrono a far di esse terre il modello di ogni coltura. (…)


Conchiudiamo questa ormai lunga diceria. Si è veduto di quanto la protezione e gl’incoraggiamenti abbian migliorate 1e nostre arti e manifatture; facciamo lo stesso per l’agricoltura che a miglior ragione e con utilità maggiore il faremo, e pronte ne saranno e non lievi le conseguenze e piene ancora di alte speranze avvenire. Le nostre Società economiche pongano studio particolare ne’ miglioramenti agrari più acconci a ciascuna provincia, e non con le sterili dottrine, ma dando l’esempio e l’istruzione a’ loro concittadini. Nelle esposizioni annuali che celebransi in ogni capoluogo, non altro si mostrino che prodotti di coltivazione e di pastorizia, e non altri che questi siano premiati e lodati. Le stesse Società s’incarichino di acquistate le semente più utili, ed i loro orti addivengano semenzai e vivai di belle pianticelle.


Sono questi i mezzi provinciali. Lasciamo al governo in ogni anno dispensare premi maggiori e dare incoraggiamenti ed onorificenze al miglior agricoltore, all’ottimo pastore. In fine si onori in qualche maniera la professione del contadino, ed il pubblico disprezzo non insulti alle sue miserie ed alla sua ignoranza. Ricordiamo che il pane delle nostre mense, le vesti che ci difendono dal rigido inverno, quel lino che conserva la nostra nettezza, tutto il dobbiamo al sudore ed agli stenti di quei miseri che ce ne sono generosi. Ricordiamo in fine che se essi non fossero, noi, selvaggi feroci miserabili, ci nutriremmo ancora di ghiande, e sudice pelli coprirebbero la nudità nostra.

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Memorandum di F. Lattari al congresso scientifico di Napoli in  « II  progresso  delle  scienze,  lettere  ed  arti »,  Napoli  1846, XXXIX, pp.  119-21.

PROGETTO PER UNA ESPOSIZIONE DEI PRODOTTI  DELL’INDUSTRIA (1845)

Verso il principio del secolo XVI, l’industria italiana cadeva dalla grandezza a cui si era innalzata ne’ cinque secoli antecedenti. Principali cause di questa decadenza furono, come ognun sa, le scoverte di America e del Capo di Buona Speranza. La prima di queste scoverte rivolse il commercio europeo dall’Oriente verso l’Occidente; la seconda fe’ cader tra le mani delle nazioni situate sull’Oceano il commercio rimasto tra l’Europa e l’Asia:  l’Italia, per le sue condizioni geografici.


Or in quest’ultimo periodo sociale sono avvenuti due fatti he han cangiato nuovamente la direzione del commercio europeo ed han rimessa l’Italia nella sua posizione primitiva riguardo A movimento industriale del globo. Il primo di tali fatti si è l’emancipazione delle colonie americane dalle loro metropoli; emancipazione che, distrutto ogni interesse speciale del vecchio sul nuovo mondo, ha rivolto di bel nuovo l’azione dell’Europa verso l’Oriente. Il secondo fatto si è l’abbandono della strada che mena verso l’Oriente pel Capo di Buona Speranza, perché troppo lunga e dispendiosa, e la ripigliata dell’antica strada per l’Egitto e pel Mar Rosso.


Questi due avvenimenti hanno innalzato l’Oriente ed il Mediterraneo alla più alta importanza, e li han renduti il soggetto di tutte le ambizioni europee, il nodo di tutte le difficoltà internazionali, il problema dell’avvenire del continente.

In tal condizione di cose, una novella èra si apre all’industria italiana. Qual paese, infatti, trovasi collocato più favorevolmente del nostro sul Mediterraneo in faccia all’Oriente? Qual tempo adunque più opportuno del presente per rialzar la sua industria e farla entrare a parte della lotta economico-politica che oggidì forma la vita delle grandi nazioni di Europa? (…)

[La proposta di Lattari era di organizzare un’esposizione dei prodotti dell’industria, di cui individuava i vantaggi nei seguenti punti:

1.  Accomunamento delle idee industriali de’ diversi produttori italiani, e trionfo delle più sulle meno perfette, ossia, tendenza generale ad una unità miglioratrice dell’industria della penisola.

2.  Riunione delle voci tecniche adoperate dalle diverse provincie d’Italia,  epperò grande agevolazion materiale per la compilazione del Dizionario tecnologico del nostro paese.

3. Precauzione utilissima che tutti i produttori usereb-et0 nel lavorìo delle proprie fatture, conoscendo anticipatamente di dover essere giudicate da tutta Italia, ed importanza «lana che acquisterebbero i primi e le seconde.

4.  Emulazione che nascerebbe tra i produttori ed i governi della penisola per offrire in mostra migliori prodotti

5.  Sommissione di tutti gli oggetti dell’industria peninsulare agli occhi di tutti gli scienziati d’Italia, e salutari consigli che questi potrebbero dirigere nello stesso momento tutti i produttori del nostro paese.

6.  Maggior conoscenza che l’Italia acquisterebbe di tutte le proprie produzioni, e perciò maggiore smercio di esse nell’interno e nell’esterno della penisola.

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Dagli Atti della ottava riunione degli scienziati italiani tenutasi in Genova dal 14 al 29 settembre 1846, Genova 1847, pp. 122-2

ISTRUZIONE TECNICA (1846)

II sig. Mariano D’Ayala conviene coi voti espressi dalla commissione sul bene che promuove l’educazione elementare e teorica della quale dice esser già ricca l’Italia, ma osserva esser essa ancora poverissima di istituzioni che tendano alla più elevata istruzione delle classi fabbrili. Nota come entrando nelle officine vi si veggano per direttori persone d’altri paesi: esser questa una umiliazione per gli italiani in cui pur tanto risplende la scintilla di Dio, la sapienza: esservi urgente bisogno che ne’ mestieri discenda la luce de’ principi scientifici: che la scienza guidi la mano, il concetto regga l’opera.


Nota le varie professioni industriali in cui sono necessari certi studi scientifici, come sarebbero quelli della geometria descrittiva, sferometria, stereometria e meccanica. Essere argomento massimo di studio per questa sezione l’avvisare anche ai migliori programmi di istruzione per la classe degli artieri e meccanici. Doversi all’istituto esordiente di Napoli il consolante frutto di trovare da artefici italiani costrutte già trenta macchine locomotive, e macchinisti italiani che le governano.


Essere pertanto urgente di proclamare la necessità di buone scuole tecnologiche le quali rinnovino per noi quelle pagine memorande della nostra storia, quando nell’antichità e nel medio evo le industrie nostre erano le più acclamate fra tutto il mondo civile; e quando le arti della lana e della seta trovavano seggio nel reggimento degli Stati.

fonte https://www.eleaml.org/sud/den_spada/annali2s01.html

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