Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

MASSONERIA E SATANISMO NELLA STORIA DI ALBERT PIKE

Posted by on Set 16, 2019

MASSONERIA E SATANISMO NELLA STORIA DI ALBERT PIKE

Il “PAPA” DEI MASSONI AMERICANI
CHE FONDO’ IL KU KLUX KLAN
E CREO’ IL PALLADISMO CON MAZZINI
OGGI NEGLI USA HA UN MONUMENTO!

“In coscienza e sinceramente credo che l’Ordine massonico sia, se non il più grande, uno dei più grandi mali morale e politici che grava su tutta l’Unione”
John Quincy Adams, VI presidente degli Stati Uniti d’America
Letters on Freemasonry «Lettere sulla Massoneria», 1833

“La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”
San Paolo – Lettera agli Efesini – 6,12

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Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (V)

Posted by on Ago 21, 2019

Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (V)

Parte quinta: L’Età Giolittiana (1898-1921)

L’impronta di Giovanni Giolitti nella politica italiana è stata innegabilmente importante, tanto che questo periodo politico passò alla storia come “Età Giolittiana”. Furono gli anni delle concentrazioni industriali, delle formazioni delle masse popolari socialiste e cattoliche, dell’attività coloniale italiana in Eritrea, Libia e Dodecaneso, delle rivolte per il pane e della nascita del Partito Fascista.

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Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (IV)

Posted by on Ago 20, 2019

Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (IV)

Mentre il nord, dopo gli avvenimenti del 1898 mette le ali, il sud diventa sempre più sud e la Sicilia sempre più Sicilia. (1898-1900)

Il quadro generale degli avvenimenti nel Regno d’Italia

Dopo le dimissioni di Crispi, avvenute nel 1896, fu gioco forza per il Parlamento orientarsi verso una soluzione di destra: infatti, una parte della sinistra costituzionale, facente capo al senatore Giuseppe Saracco, si era troppo compromessa, appoggiando l’ultima, squalificata ed impopolare esperienza governativa di Crispi, mentre l’altra componente, guidata da Zanardelli e Giolitti, oltre ad essere malvista dal Re, era bloccata dal veto incrociato della destra democratica e della sinistra crispina. La presidenza del Consiglio toccò alla fine ad un altro siciliano, Antonio di Rudinì, che possiamo definire un “moderato di centro”, non particolarmente vicino alla corona, la cui dote politica più importante consisteva nell’essere un avversario di Crispi. Di Rudinì impostò la propria azione di governo su una linea di “raccoglimento e di economia”. Tentò di porre un freno all’avventura coloniale, di varare una politica prudente e di realizzare qualche forma di pacificazione sociale, concedendo l’amnistia ai condannati politici.

Il modello sociale cui si ispirava era quello di una “democrazia conservatrice” a base agraria, in cui fossero garantiti sia la supremazia della grande proprietà terriera nella politica locale, attraverso l’attuazione del cosiddetto “decentramento conservatore” (una riforma dell’ammi-nistrazione comunale che prevedeva l’elettività del sindaco anche nei comuni minori), sia il primato del potere esecutivo su quello legislativo. Furono altresì varate una serie di riforme, come l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni nell’industria e l’istituzione della Cassa Nazionale di Previdenza per l’Invalidità e la Vecchiaia.

Al progetto Di Rudinì se ne contrapponeva un altro, più autoritario, diretto a provocare una vera e propria riforma del sistema costituzionale, proposto da Sonnino in un articolo pubblicato nel 1897, dal titolo Torniamo allo Statuto: in esso si suggeriva di salvare l’integrità dello Stato, minacciato secondo l’autore dall’azione convergente dei socialisti (i “rossi”) e dei cattolici (i “neri”), sottraendo prerogative al Parlamento e tornando ad affidare il pieno potere al re, secondo il modello imperiale tedesco.

In realtà, la linea politica proposta dal Sonnino, una vera e propria svolta autoritaria, mirava a rassicurare la classe dominante dalla preoccupazione di non riuscire più a controllare le tensioni emergenti nella società italiana.

L’avanzata dell’estrema sinistra alle elezioni del marzo 1897, le violente agitazioni sociali della primavera del 1898, i moti contro il carovita, e in particolare contro l’aumento del prezzo del pane provocato dai cattivi raccolti del 1897, avevano infatti segnato una vera e propria frattura nella vicenda politica di fine secolo.

Le masse contadine vennero a trovarsi in una spaventosa condizione di miseria e ben presto si unirono alle proteste delle classe industriale urbana, acquistando un carattere sempre più politico. Iniziati nel centro-sud e in Sicilia con le rivolte di Troina e Modica, i moti dilagarono in tutto il paese tra marzo e maggio del 1898 quando, per effetto dell’aumento dei noli marittimi in conseguenza della guerra ispano-americana, il prezzo del pane salì alle stelle.

Ovunque forni, mulini, magazzini del grano furono presi d’assalto e furono organizzate manifestazioni di protesta sotto i palazzi dei Comuni, le esattorie, i tribunali e le abitazioni degli aristocratici e dei grandi proprietari. Si richiedeva a gran voce l’abolizione del dazio del grano e la gestione municipale dei forni. Il culmine si raggiunse a Milano, il 6 maggio 1898, quando la protesta assunse decisamente carattere politico. Fu allora che l’intero fronte conservatore, con la scusa di sedare i tumulti, decise di ricorrere alla repressione dura contro ogni forma di opposizione organizzata, vuoi dagli anarchici o dai socialisti, come dai radicali o dagli stessi cattolici. Di Rudinì, non esitò, il Re consenziente, a inviare a Milano il generale Bava Beccaris, che le represse nel sangue, usando i cannoni contro la folla, e che per questo fu insignito da Umberto I di una medaglia e nominato senatore.

Contemporaneamente Di Rudinì cercava di mantenere in vita il governo, in crisi per il rifiuto dell’assemblea dei deputati a rendere permanenti i provvedimenti repressevi assunti in via provvisoria. Di Rudinì propose al re lo scioglimento della camera e l’esecutività del nuovo bilancio per decreto regio. Se il re avesse accettato, si sarebbe trattato di un vero e proprio “colpo di stato” e si sarebbe compiuto il progetto di rifondazione autoritaria delle istituzioni, vagheggiato da Sonnino, e sostenuto da buona parte della classe dirigente.

Ma il re, dissuaso da Farini, non osò sfidare apertamente la legalità costituzionale, per cui Di Rudinì fu costretto alle dimissioni e il 29 giugno 1898, il generale Luigi Pelloux fu incaricato di costituire il nuovo governo. Il re intendeva tuttavia continuare di fatto la precedente politica. Infatti, il generale continuò l’azione repressiva, senza però suscitare particolare clamore. Quando però tentò di dare veste legislativa alle restrizioni delle libertà statutarie e di ripristinare, in pratica, i “provvedimenti politici” già approvati dal Di Rudinì, si scontrò con l’opposizione della sinistra parlamentare (socialisti e repubblicani), contraria all’ipotesi di un governo forte sostenuto dalla Destra, dal centro sonniniano e dalla sinistra crispina, mentre i liberali di Giolitti assunsero un atteggiamento di prudente attesa.

Lo scontro divenne aspro quando l’estrema sinistra passò all’ostruzionismo, prolungando all’infinito il dibattito parlamentare con interventi lunghissimi e paralizzando in tal modo l’attività legislativa. Pelloux, per tutta risposta fece promulgare, con provvedimento illegale e lesivo delle prerogative del Parlamento, il “decreto del 22 giugno” che limitava pesantemente la libertà di stampa e di manifestazione. La lotta per le libertà costituzionali divenne allora il fatto preminente della politica italiana, finché il 6 aprile 1900 il governo fu costretto a ritirare il decreto e pochi giorni dopo, sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. Il Pelloux era stato indebolito anche dagli errori commessi in politica estera, come l’inutile tentativo espansionistico perseguito dalla diplomazia italiana in Cina, e dalla nascita, all’interno del blocco dominante, di una componente più moderna e dinamica, in polemica con le forze più conservatrici del fronte, costituito, come al solito, dalla proprietà terriera meridionale e dall’industria pesante del nord.

Il risultato elettorale del giugno 1900, fu un grande successo per l’estrema sinistra. Tale rafforzamento convinse la componente più avanzata della borghesia della necessità di dare una svolta radicale alla politica italiana. Pelloux dovette dimettersi nel giugno 1900, si aprì una fase travagliata e il governo fu affidato, provvisoriamente a Giuseppe Saracco. Nel frattempo, il 29 luglio, venne ucciso, a Monza, il re Umberto I dall’anarchico Bresci che voleva vendicare i morti di Milano. Salì al trono Vittorio Emanuele III. A Genova venne sciolta la Camera del Lavoro, ma poi Saracco revocò lo scioglimento e si dimise. Il re a questo punto affidò il governo a Zanardelli che prese con sé Giolitti, rimasto in prudente attesa per tutto questo tempo.

Questo il quadro generale degli avvenimenti nel Regno d’Italia in quell’ ultimo scorcio del secolo XIX.

Il Regio Commissario Civile Straordinario per la Sicilia

Intanto in Sicilia fin dal 5 aprile 1896, per decreto, era stato inviato il Regio Commissario Civile Straordinario per la Sicilia nella persona di Giovanni Codronchi-Argeli. Il Commissario Civile (così chiamato per distinguerlo dal Commissario militare voluto da Crispi) venne investito dei “poteri politici e amministrativi che spettavano ai Ministeri dell’Interno, delle Finanze, dei Lavori Pubblici, dell’Istruzione, dell’Agricoltura, dell’Industria e Commercio”.Con il Commissario si cercò di superare la militarizzazione voluta da Crispi in risposta alle lotte operaie e contadine e, contemporaneamente di salvaguardare gli interessi delle classi sociali dominanti, sostituendo lo strumento militare con un più efficiente governo delle istituzioni locali. La speranza era di risanare e riordinare le finanze locali mantenendole però sotto il controllo del governo di Roma.

I poteri del Commissario erano teoricamente molto vasti sul piano dell’autorità e della rappresentatività dello Stato, ma limitati sul piano finanziario. Il che vuol dire che, in pratica, il potere era molto limitato. Le eventuali spese, infatti, dovevano essere autorizzate per decreto dal governo centrale. Inoltre, la nomina del commissario era a tempo determinato tempo: solo per un anno, troppo poco per realizzare qualunque riforma. Non si trattava quindi, come avevano sperato i socialisti, di un decentramento del potere statale.

Dopo aver affossato il progetto di Riforma Agraria pensato dal Crispi, Di Rudinì si preoccupò soprattutto di mantenere da una parte una politica repressiva nei confronti del movimento sindacale siciliano, vietando la ricostituzione dei Fasci siciliani, e dall’altra di risanare i bilanci delle amministrazioni locali, considerati la fonte principale del malcontento. Infatti, per soddisfare le loro “clientele”, i comuni continuavano da un lato ad elargire prebende ai notabili e dall’altro imponevano crescenti tributi alle classi meno abbienti.

Il compito di Codronchi non era facile. La repressione crispina aveva accentuato il malcontento non solo nei ceti lavoratori, ma anche nei ceti medi e piccolo borghesi delle città e delle campagne, rovinati dallo sviluppo del capitalismo settentrionale e dalla politica protezionistica del governo centrale.

Non poco, inoltre, influì sull’impoverimento l’errata progettazione ed esecuzione della rete ferroviaria. Palermo, ad esempio, non fu collegata con Messina se non dopo il 1895. Lo sviluppo di estesissime contrade della Sicilia centro-occidentale fu privato del concorso ferroviario. Malumore e insoddisfazione colpirono i settori più disparati: dai braccianti ai sarti, dai fornai ai minatori delle zolfatare.

Nella città di Palermo all’incertezza ed alle inquietudini di una massa artigiana che si impoveriva sempre più, si aggiunse il problema della disoccupazione. Da questa necessità nacque il progetto, caldeggiato da Ignazio Florio, di costruire un cantiere navale e non soltanto di ampliare il bacino di carenaggio. [1] Codronchi ne coglie immediatamente l’importanza per le conseguenze sociali e politiche di cui può essere foriera. Ma, come vedremo, questo grande progetto non riuscirà a risollevare le sorti della Sicilia, quasi l’isola soffrisse di un deficit politico e morale che, come un cancro, rodesse (e che ancora oggi corrode) la dirigenza politica municipale e provinciale. Codronchi aprì una serie di inchieste, segnalò i guasti ma non pose alcun rimedio, né poteva farlo. Allo scadere del mandato il Commissario lasciò la Sicilia e tutto tornò come prima.

L’inizio dell’emigrazione di massa

È in questo periodo che inizia l’emigrazione transoceanica,che coinvolse tutte le regioni meridionali, divenendo il fenomeno più imponente della condizione del Mezzogiorno. Nel giro di pochi anni più di un milione di siciliani abbandonò l’isola, più di due milioni di meridionali “continentali” erano andati a cercar fortuna in America. Una volta messa in crisi la sinistra come forza di governo, cessò lo sviluppo virtuoso che vi si era accompagnato o che, almeno, si era tentato di intraprendere (come, ad esempio, nel caso dei feudi dei conti di Modica dati in enfiteusi ai contadini). Sembrò che la Sicilia ed il Meridione avessero raggiunto il punto di saturazione demografica che le strutture economiche-sociali potessero consentire. Secondo Napoleone Colajanni, l’emigrazione siciliana “è il prodotto di una densità eccessiva (114 abitanti per km quadrato) della popolazione e delle sue cattive condizioni economiche e riesce perciò benefica anche astraendo dalla elevazione dei salari e dal beneficio grande delle rimesse… Naturalmente in tema di emigrazione, come del resto in tutti i fenomeni sociali, il bene si trasforma in male al di là di certi limiti.” (N. Colajanni, Prefazione a Giuseppe Brucculeri, La Sicilia di oggi. Appunti economici. Roma, Atheneum, 1923).

Il fenomeno della grande emigrazione contribuì all’affermarsi di una potentissima realtà: la formazione di una mafia intercontinentale. Il milione di emigranti siciliani concorse a modernizzare la mafia ed a renderla più efficiente come delinquenza organizzata. A discolpa dei siciliani e dei luoghi comuni che vogliono sia stata l’emigrazione a portare la mafia in America, dobbiamo ricordare che il crimine organizzato per diffondersi e affermarsi negli USA non aveva certo atteso l’arrivo dei mafiosi siciliani o dei camorristi napoletani. Molti storici americani collocano la nascita delle organizzazioni criminali attorno al 1830 e altri ancora prima, con il prosperare della tratta degli schiavi, a dispetto dell’abolizione formale avvenuta nel 1808, e che coinvolgeva addetti alle dogane del sud e marittimi del nord. Non fu pertanto l’Italia ad esportare la mafia, ma indubbiamente vi fu un fondersi e un proficuo (per loro) scambio di esperienze e di metodi.

Questione meridionale

A cavallo tra i due secoli la situazione del Meridione si era già tanto deteriorata da indurre il Parlamento a costituire una commissione parlamentare di inchiesta, che si limitò a constatare l’insufficienza della azione governativa. Nel 1903 Francesco Saverio Nitti sostenne che la necessità di evitare la deindustrializzazione di Napoli, presentando alla Camera un programma di interventi. Non se ne fece nulla. Nel 1908 i deputati Porzio e De Nicola cercarono di insistere perché fossero affrontate le questioni più urgenti di Napoli, ma appartenendo alla destra governativa, dovettero rientrare nei ranghi e conformarsi alla politica liberista, che ormai aveva il suo radicamento nel capitalismo del nord. In quel periodo, infatti, il nord fece un decisivo passo in avanti, sia nella modernizzazione che nell’industrializzazione, potendo contare anche sul completo reinvestimento delle rimesse in valuta degli emigranti. Già allora infatti, gli istituti di credito applicavano tassi di interesse agevolati solo al nord.

Così, i politici meridionali di destra assunsero una posizione subordinata al potere capitalistico anche quando ebbero incarichi – talvolta importanti – a livello governativo. Per questioni ideologiche, non sostennero l’azione dei socialisti e del blocco popolare, che anzi trovò nei monarchici e nei cattolici i più feroci avversari. La sinistra continuò da sola la battaglia per il sud: Antonio Labriola, e poi Arturo Labriola, per esempio, si impegnarono a fondo per affrontare i problemi, ottenendo un qualche risultato non solo nella industrializzazione, ma anche nel campo dell’istruzione popolare, delle abitazioni e della riforma giudiziaria. La responsabilità storica, se tali risultati non compensavano il divario nord-sud che si stava creando, ricade pertanto in buona parte sui politici meridionali della destra allora al governo, che non seppero né vollero fare gli interessi dei territori che li avevano espressi quali propri rappresentanti in Parlamento.

Il declino di Napoli

Agli albori del XX secolo, la popolazione di Napoli era in aumento, cominciava a fiorire una nuova industria culturale, quella del cinema, di cui la città divenne la principale protagonista italiana, almeno fino a quando non sarà stroncata dal “romanismo” di Mussolini. Ma circa due terzi della popolazione viveva nella miseria, con il costo della vita che si era triplicato negli ultimi 10 anni. Anche da Napoli l’emigrazione diventò notevole.

Il Meridione era diventato “una immane colonia di sfruttamento umano, dove nuovi negrieri razziavano ogni anno, non più africani ma un crescente contingente di disperati bianchi il cui numero salì progressivamente da 107 mila – media annua del periodo 1876-1880 a 310 mila – media annua del periodo 1896-1900; 554 mila – media annua del periodo 1901-1905; 651I mila – media annua del periodo I906-191O; 711 mila – media dell’anno 19I2; 872 mila – nell’anno I913, anno di vigilia della prima guerra mondiale, che troncò questa tratta; sino alla fine delle ostilità  per fornire carne da cannone in abbondanza alle offensive, negazione della strategia […]. Nessun documento meglio di queste cifre potrebbe illustrare i risultati economici e sociali della politica della borghesia italiana “liberale” di quegli anni”.[2]

Fara Misuraca e Alfonso Grasso

Note

[1] L’anno 1897 è anche l’anno in cui il “football” arriva a Palermo grazie ai marinai dei mercantili inglesi. Si ingaggiano vere e proprie sfide con i portuali nello spiazzale fangoso del porto di Palermo. Solo tre anni dopo tuttavia, il primo novembre 1900, nasce l’Anglo Panormitan Athletic and Football Club, fondato da Ignazio Majo Pagano. I primi colori sociali sono il rosso e il blu nel pieno rispetto delle linee cromatiche della bandiera britannica. La prima uscita ufficiale della squadra è datata 30 dicembre, giorno in cui l’Anglo Panormitan Athletic and Football Club, in via Emanuele Notabartolo al giardino Inglese, affronta una formazione inglese. Il match, diretto dal cavalier Ignazio Majo Pagano, finisce 5-0 in favore degli Inglesi.

[2] Ritter F., La via mala, Milano, 1973, p. 13 e seguenti.


Bibliografia aggiuntiva della parte quarta

Di Matteo, F., Storia della Sicilia, Edizioni Arbor, 2006

Lupo Salvatore, Quando la Mafia trovò l’America, Einaudi 2008

Mack Smith, D., Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, 1971

Renda Francesco Storia della Sicilia, Sellerio Editore 2003

Betocchi A., L’evoluzione nel socialismo, Napoli, 1891.

Ritter F., La via mala, Milano, 1973.

Pozzuoli fine 800

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IL 24 AGOSTO, ALLA GRANCIA: NASCE L’AZIONE POLITICA MERIDIONALE

Posted by on Ago 19, 2019

IL 24 AGOSTO, ALLA GRANCIA: NASCE L’AZIONE POLITICA MERIDIONALE

CONTRO I DIRITTI DIFFERENZIATI E PER L’EQUITÀ. PER TUTTI

Il 24 agosto ci si trova, quanti vorranno, alla Grancia (Potenza), per far nascere una iniziativa politica di emergenza democratica. Chi c’è c’è (astenersi razzisti), per formare una alternativa per le prossime elezioni, sbarrare la strada a Salvini e capovolgere il sistema che ha retto finora questo Paese: sottrarre a una parte, accusandola pure di essere mantenuta, per mantenere e arricchire l’altra.

Salvini e la Lega sono solo l’ultima e peggiore manifestazione della bulimia di risorse pubbliche che dota il Nord e il Centro di infrastrutture decenti o persino all’avanguardia, treni ad alta velocità, autostrade, anche inutili e dannose, come la Brebemi o le pedemontane lombardo-venete, istituti di ricerca pagati da tutti ma rigorosamente padani, eccetera; mentre in circa metà del Paese è quasi o del tutto impossibile raggiungere un posto in treno o con una strada che non sia dissestata, piena di buche, mezzo franata. E se il tempo è un costo fra i maggiori, questo uccide l’economia del Sud.

LA QUESTIONE MERIDIONALE È FRUTTO DI SCELTE POLITICHE RAZZISTE E IMPOSTA CON LE ARMI UN SECOLO E MEZZO FA

Tale Paese doppio, uno europeo e uno men che nordafricano, è il risultato di scelte politiche nazionali da un secolo e mezzo, con l’appoggio di ben remunerate classi dirigenti locali (è così nelle colonie: sono favoriti e sostenuti i complici e avversati quanti vi si oppongono, a volte pure a danno della loro vita; la selezione non esclude nessun mezzo per fermare sindacalisti, amministratori, magistrati e politici non collusi).

In questo, non c’è quasi mai stata vera distinzione partitica: quando si tratta di monopolizzare risorse pubbliche, il Nord ha agito e agisce in blocco. La vicenda dell’Autonomia differenziata per togliere altri soldi al Sud ne è la prova più recente: dalla Lega al Pd, incluso M5S del Nord, Forza Italia e Fratelli d’Italia del Nord, insieme per disegnare un Paese a diritti calanti per latitudine, geograficamente, e pretendere risorse crescenti con la ricchezza dei territori. In tal modo, si innesca un meccanismo che si auto-alimenta, leva sempre più ai poveri e dà sempre più ai ricchi (tali, in gran parte, per aver preso di più dalla cassa comune, a spese di altri: basti guardare la differenza di infrastrutture oubbliche, che vuol dire pagate da tutti e godute da pochi).

Non è, come pure potrebbe sembrare, una rivendicazione meridionalista: un Paese che non riconosce a tutti i suoi cittadini uguali diritti non è un Paese, ma un sistema malato. In tal senso, l’Italia non è mai stata unita, ma divisa. Un Paese così fatto genera disaffezione, distacco, risentimenti e persino odio (la Lega si nutre di quello ed è nata sfruttando il razzismo contro i meridionali). Sino all’apparente assurdità (ma psicologia e psico-sociologia spiegano il fenomeno) di tanti meridionali che votano Lega e Salvini, che per decenni li hanno insultati e ancora li privano (complici i “paramount chief” colonizzati) di diritti elementari: alla salute, all’istruzione, alla mobilità; persino al rispetto. Un Paese così era, esasperando le differenze, il Sud Africa, prima di abolire l’Apartheid che di fatto c’è sempre stata in Italia, e ora si vuole blindare per legge.

Questa situazione è entrata nelle coscienze e persino chi ne è vittima la giustifica incolpandosene (sempre quei meccanismi psicologici: la donna violentata spesso si sente sporca e si vergogna, diviene succube del violento e la stessa società cerca le colpe della vittima: “Lo ha provocato…”). E non ci si accorge nemmeno più di quanto sia oppressiva e mortifichi la dignità di un terzo degli italiani la Questione meridionale sorta con un’invasione armata, salvo retrodatarla per assolvere chi la impose e addossarla a chi la subisce.

NON DEVONO ESSERCI CITTADINI DI SERIE B. O NON HA SENSO UN PAESE COMUNE

Ma l’azione politica che si vuol far nascere per correggere queste storture non è, ripeto, una pura rivendicazione meridionale: i valori sono universali, o non sono tali. Se a una città viene negato il treno, poco importa che sia Matera o Sondrio: ci sono degli italiani ritenuti di serie B e il cui diritto ad avere il necessario viene dopo il superfluo da aggiungere a chi già ha (cioè, mai). Ovunque ci sia un nostro simile la cui qualità umana viene ridotta, la nostra qualità umana è in pericolo (da uno si comincia, poi tocca agli altri…).

Quindi, un’azione politica risanatrice non può avere come valore un territorio o i suoi abitanti (questo lo fanno i razzisti), ma il principio che cittadini di uno stesso Stato debbano avere diritti, possibilità e trattamenti uguali o quello Stato non merita di esistere. Per quanto possa suonare male: l’equità è il valore, non il Sud o altro riferimento geografico, etnico. La denuncia diviene (appare) meridionale, perché il Mezzogiorno e i suoi abitanti sono stati discriminati e deprivati.

Ora la misura è stracolma. Mai, nei quasi 160 anni di finta unità a mano armata, il divario fra Nord e Sud è stato così ampio; ed è voluto, costruito. Il Mezzogiorno è in calo demografico, come avvenuto soltanto per le stragi risorgimentali dei piemontesi e per la più assassina epidemia della storia dell’umanità: la “spagnola”, dopo la prima guerra mondiale. E il futuro del Sud se ne va con i giovani, costretti a cercarne uno in giro per il mondo. Le nostre regioni, che mai, in millenni, erano state terra di emigrazione, si stanno riducendo a un gerontocomio in fase di svuotamento.

Non c’è altro tempo per reagire. I segni di un Sud che vuol farlo, e da protagonista (nonostante le succubi, ma instabili orde salvinian-terroniche), sono ormai colti da tutti. Si annuncia (vero? Falso?) un partito “sudista” con a capo Giuseppe Conte. E già le parole usate mostrano quanta improvvisazione vi sia in questo “fiondarsi a Mezzogiorno”: “sudista” è un termine dispregiativo coniato e usato dai nemici del neo-meridionalismo, di solito accoppiato ad altri quali “nostalgici”, “revanscisti”, neoborbonici… (a ogni cosa della storia dei vinti non iscritta in quella dei vincitori sono date connotazioni negative). Fa niente, verrebbe da commentare: se vuol dire che cominciano a capire, va bene lo stesso! E il presidente campano Vincenzo De Luca si propone a guida di un soggetto politico meridionale, a difesa dei diritti finora calpestati. Benvenuto! Il dissidente di Forza Italia, Giovanni Toti, cerca di sfilare il partito a Berlusconi e, forse sulle orme di Salvini che ha fatto vendemmia a Sud, partirà con il suo progetto da Matera, il 2 settembre. Furbo.

LA POLITICA DI LORSIGNOSI SI È ACCORTA CHE IL SUD REAGISCE E VUOLE GUIDARLO, A SUO VANTAGGIO (COME AL SOLITO)

Tardi ma ci arrivano… E lo fanno a loro modo, cercando di intestarsi qualcosa cui sono estranei, ma conta; ed essendo informe e senza guida, mirano a usarlo a proprio vantaggio. Ora sanno che il Mezzogiorno non è più un corpo morto e, sia pur confusamente, qualcosa fa e riesce determinante; ripeto, è un dato di fatto, ormai: vince chi vince al Sud. Nel 2015, alle regionali, il Pd fece il pieno e prese il governo di tutte le regioni meridionali. Letta, Renzi e Gentiloni provvidero a far pentire chi li aveva votati a Sud. Alle politiche 2018, quei voti migrarono in blocco sui cinquestelle, che divennero, grazie a ciò, il primo partito italiano. Per allearsi con la Lega e veder svanire in pochi mesi il capitale di consensi; ereditato in parte proprio dal partito sorto dal razzismo contro i terroni.

Senza rifare tutto l’elenco, questo mostra un Mezzogiorno forse un po’ ballerino, ma che non è più patrimonio inerte di nessuno: si muove da soggetto politico unitario e detta l’agenda ai partiti, non avendone uno proprio. La vicenda dell’Autonomia differenziata è stata uno choc, per l’Italia di lorsignori: era cosa fatta; si erano messi d’accordo, con l’ammucchiata di Lega, Pd, FI e FdI del Nord, a scopo di rapina contro i meridionali. La campagna di informazione condotta da un gruppo di cittadini, docenti, scrittori, meridionalisti, ha reso pubblico quello che si teneva nascosto (il furto del secolo), ha raccolto in pochissimi giorni 60mila adesioni, indotto il M5S (va riconosciuto) a far le pulci all’alleato e a frenare lo scempio programmnato.

Quel mondo abituato a fare a suo piacimento, nel silenzio complice della classe dirigente del Sud (e chi non tace è segato), ha scoperto di non avere più le mani libere, che il Mezzogiorno può fare la differenza. E la fa. La sorpresa li ha disorientati. E quando è arrivata una cosettina (ma proprio una cosarella, giusto per far capire quale direzione prende il risveglio del Sud), il boicottaggio del prosecco veneto, da parte di bar e ristoranti meridionali, si è sparso il panico in campo subalpino. Sì, la feritina al portafogli bene non fa, ma quello che fa sbarellare è l’idea che il tressette del potere nazionale non sia più con il morto, rivelatosi un giocatore che sa di avere carte, come gli altri, e intende giocarle come dice lui, non limitarsi a tenerle in mano per calare quelle che gli dicono.

È finito un tempo.

SE SI SBAGLIA ADESSO, NON CI SARÀ UN’ALTRA OCCASIONE

E questo è il momento più delicato, in cui tutto si può perdere e quanto costruito sinora finire, per impreparazione, indecisione, nelle mani di qualche Jack Lo Svelto che, privo di remore e carico solo di interessi di parte e magari luridi, si improvvisa paladino del Sud, pronto a mettersi al timone, per venderlo al miglior offerente (lo abbiamo appena visto, nel campo della comunicazione e della politica locale). Quindi (mentre Forza Italia si professa presidio del Sud, nel centrodestra, e avvisa la Lega; Salvini e il Pd di Zingaretti vorrebbero elezioni subito, per spartirsi le spoglie del M5S che resteranno sul campo; il M5S cerca di recuperare il tesoro dilapidato), ora ci tocca. E tocca a tutti: ci sono movimenti e partiti, comitati che in tutto il Mezzogiorno hanno fatto cose egregie, ma sono piccoli e scollegati (talvolta, reciprocamente ostili, ma non è la norma); ci sono parlamentari, pochi ma preziosi, in ogni partito, che hanno operato con coerenza, in difesa del diritto del Mezzogiorno all’equità e qualcuno ne ha dovuto pagare il prezzo (ma può guardarsi allo specchio senza vergogna) e ce ne sono pronti a uscire dai loro gruppi politici, per poter sostenere, senza più freni di parte, la battaglia per il Sud: non dobbiamo perderli; ci sono docenti universitari, scrittori, giornalisti che hanno combattuto una dura, entusiasmante battaglia di civiltà contro i razzisti dell’Autonomia e non possiamo permetterci di rinunciare al loro valore (il mondo accademico è terribile e per esporsi, ci vogliono le palle. È stato bello vedere tanti docenti mettere la competenza e la faccia in una impresa difficile ma doverosa); ci sono associazioni meritorie che da decenni lavorano, perdendoci tempo, soldi, salute e pezzi di fegato, al recupero della verità storica che ci è stata negata e da cui trae alimento la ricostruzione della nostra identità; ci sono giornalisti che hanno fatto e fanno un lavoro faticosissimo, per scoprire come e quanto il potere Nord-centrico toglie a Sud, con mille trucchi, colpi di mano (e non è una attività che ti fa far carriera nei giornali…); ci sono persone che si uniscono per combattere (e si rischia forte) contro gli avvelenatori della propria terra e della propria gente, da Taranto alla Terra dei Fuochi, da Augusta, Gela, Priolo alla morte petrolifera di Basilicata, pur taciuta da tante “voci potenti per il vaffanculo”, della politica, della cultura, della società civile, mute perché non si parla a bocca piena; ci sono esperienze meravigliose di economia dal basso, con forze minime, idee grandi e risultati sorprendenti; ci sono imprenditori che stanno dicendosi di non poter limitare il loro compito nella società al darle qualche decimale di pil in più; ci sono sindaci che non accettano più acriticamente, o per sudditanza partitica, o per ignoranza (le cose le fanno di nascosto e non sempre sai come ti stanno fottendo), di vedere i propri Comuni derubati dallo Stato e fanno causa, a decine, dimostrando che il loro primo dovere è pretendere diritti e rispetto per i concittadini discriminati; ci sono amministratori, gruppi parrocchiali, centri sociali che inventano e praticano forme di accoglienza inclusiva che distruggono la paura, generano civiltà, ci fanno “restare umani” (un reato, da quando il ministro dell’odio usa la polizia per rimuovere striscioni evangelici); ci sono…

Ci sono, ma quasi sempre non sanno che ci sono anche gli altri. Lo ripeto: «Siamo tanti, ma non lo sappiamo», diceva don Paolo Capobianco, figlio dell’ultimo nato duosiciliano, mentre Gaeta si arrendeva alle bombe dei fratelli carnefici d’Italia.

TUTTI ALLA GRANCIA PER COSTRUIRE UN PAESE PIÙ GIUSTO

E vorrei poter dire, alla Grancia, il 24 agosto (ci si vede alle 9,30): “Ci siamo!”. Decideremo lì, insieme, il nome e la forma di quel che nascerà. Sarà una creatura che avrà anime solitamente incompatibili e dovrà accordarsi su un programma minimo e condiviso (razzisti esclusi). Dovremo tener conto solo di quello che unisce, visto che da troppo tempo riusciamo a dividerci sul dettaglio, pur avendo tanto in comune. Molte barriere sono state superate e la lotta alla Secessione dei ricchi ne è prova. Ora possiamo fare quello che forse prima sarebbe stato prematuro; e dobbiamo farlo, perché è l’ultimo momento utile. Non limitiamoci a esserci, ma coinvolgiamo quanti possano essere utili: se non sarà una cosa di popolo, sarà meno di quel che deve essere.

Potremo candidare persone di valore, che sono sempre rimaste ai margini, per incompatibilità di opinioni e, diciamolo…, per prudenza. Ma ora in molti son disposti a turarsi il naso, se necessario, e fare muro, perché quando i barbari tentano l’ultimo assalto, ogni contesa interna viene accantonata, per affrontare il pericolo maggiore e comune. Non possiamo permetterci di sprecare niente.

Non ci sono patti preconfezionati, soluzioni già in tasca. C’è qualche idea e altre ne arriveranno. Ci vediamo alla Grancia, il 24 agosto, alle 9,30. Il Sud riparte da sé, avendo qualcosa da dire e tanto da fare, non contro, ma per tutti. L’equità non può essere parziale: o tutela tutti allo stesso modo o non è.

Punto primo: il tempo della discriminazione, del meridionale “meno” (diritti, infrastrutture…) comincia a scadere il 24 agosto prossimo. È durato troppo. Ma ora ce ne siamo accorti.

Pino Aprile

fonte https://pinoaprile.me/il-24-agosto-alla-grancia-nasce-lazione-politica-meridionale/?fbclid=IwAR09O4CsZqtcSiQRW-GXF3y4DZpTBtbdZYbe7g_ZqX3JxkUnNgwr2Gnu8TA

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Mafia e Unità d’Italia, Casarrubea:”La mafia è alle radici del Risorgimento”

Posted by on Ago 11, 2019

Mafia e Unità d’Italia, Casarrubea:”La mafia è alle radici del Risorgimento”

Come un fiume carsico, di tanto in tanto torna in superficie un dibattito che infiamma gli animi: la mafia esisteva prima dell’Unità d’Italia o ha fatto la sua comparsa dopo? L’argomento, al di là delle discussioni sui social network che testimoniano un interesse sempre vivo e che coincidono che il revisionismo storico che negli ultimi anni ha portato il Sud Italia ad andare al di là delle verità ufficiali sul periodo del Risorgimento, è stato oggetto di studio da parte di molti storici e intellettuali siciliani.

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