Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

La pasta di sera combatte insonnia, stress e non fa ingrassare: la scienza sfata un mito

Posted by on Apr 5, 2019

La pasta di sera combatte insonnia, stress e non fa ingrassare: la scienza sfata un mito

Mangiare pasta a cena fa bene, rilassa, facilita il sonno e non fa ingrassare, anzi fa dimagrire. Ecco lo studio pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet Public Health

La pasta di sera fa ingrassare? La scienza dice che non è vero. Siamo il Paese della pasta, ma solo un piatto di spaghetti su tre viene servito a cena. I quasi 12 milioni di italiani che non la consumano di sera per paura di ingrassare o di compromettere il sonno dovrebbero però ricredersi. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet Public Health ha infatti dimostrato che mangiare pasta a cena migliora il riposo notturno, e non fa ingrassare.

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Capodimonte è uno sballo di Adriana Dragoni

Posted by on Feb 17, 2019

Capodimonte è uno sballo di Adriana Dragoni

Il museo napoletano tira fuori dal suo deposito una serie di opere per una storia dell’arte ancora da scrivere, ripudiata dalla “moda” e dalla politica. Che riavvampa con gusto

La mostra “Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere”, in esposizione al Museo di Capodimonte di Napoli fino al 15 maggio 2019, è uno sballo, una sfida e una scommessa. Che sia anche un importante avvenimento lo si capiva già dai tanti giornalisti che affollavano la conferenza stampa nella magnifica Sala degli Arazzi, quelli che narrano della battaglia di Pavia del 1525. Di quando Napoli era capitale spagnola e il napoletano Francesco d’Avalos vinceva le truppe di Francesco I, quel re di Francia che aveva pianto il suo amico Leonardo (da Vinci) sul letto di morte. Anche questi arazzi sono stati per un po’ nella polvere di un deposito. Fin quando, nel 1998, non furono restaurati. Ora a Capodimonte, c’è, quale direttore, un altro francese amante dell’arte italiana, Sylvain Bellenger, che ha voluto questa mostra di opere tratte dai depositi del museo.

Già l’apertura di questi depositi è stato un fatto eclatante. Infatti, erano rimasti chiusi anche a lungo e si racconta che un tempo, con il successore del sovrintendente Raffaello Causa, ne fu vietato l’accesso finanche agli studiosi e all’ANISA-Associazione Nazionale Insegnanti Storia dell’Arte, dando adito a sospettosi perché. Ora finalmente sono visitabili. È c’è anche un video di presentazione, caricato su Youtube, in cui un uomo con un grande mazzo di chiavi avanza verso i depositi e li apre, come per liberare le opere, le vite, le storie che vi sono prigioniere. Il 20% di queste opere – e ne sono più di 1200 – costituisce la mostra. La sua preparazione ha coinvolto tutto il personale del museo, dai funzionari, ai restauratori, agli uomini di fatica. Si è lavorato tanto, fino all’ultimo momento. La mattina della conferenza stampa, c’erano ancora delle scope in un angolo e, su un tavolo, i bigliettini delle didascalie che sarebbero stati al proprio posto per l’inaugurazione nel pomeriggio. Nell’aria, grande entusiasmo. Soddisfatti i curatori, Carmine Romano e Maria Tamajo, sorridenti insieme ai loro collaboratori. Come Linda Martino che, vivace, leggera, quasi saltava di gioia. E più leggera era anche Aurora Giglio, la vivacissima presidente di MusiCapodimonte, l’associazione di promozione della musica popolare napoletana, (altra iniziativa osé del direttore Bellenger).

Ma quello che di straordinario, dirompente, “sballante” c’è in questa mostra intelligente è l’affermazione della libertà di pensiero, che si esprime nell’apparente disordine secondo il quale sono state collocate le opere. Che non seguono il filo di una logica progressiva, per esempio non sono state messe secondo un ordine cronologico del prima e del dopo. Qui si invita il visitatore a uscire dagli schemi già dati, lo si incita all’attenta osservazione della realtà e a usare una logica fondata su di essa, una logica analogica. E gli si suggerisce di lasciarsi guidare dalle suggestioni delle analogie. Che possono essere tante. Qui si sfida il visitatore a trovarle e magari, in base a queste, ad assemblare dei gruppi di opere e scoprirne gli sconosciuti autori. E si può accostare un’opera a un’altra per un’affinità nascosta, per il carattere dei personaggi rappresentati, per la forza dei loro sguardi, per l’espressività di questo o quel sentimento, per la costruzione degli spazi, per l’omogeneità del colore e così via. È una sfida e una scommessa. E può essere un test divertente, che rivela le capacità di ciascun visitatore. Da qui, da queste opere, tante idee, tante vite, tante storie. Ancora tutte da scrivere. I cataloghi, infatti, saranno pubblicati soltanto alla chiusura della mostra, arricchiti dalle osservazioni dei visitatori.

Ma come nascono i depositi dei musei?

A volte allo stesso modo con cui noi abbandoniamo, magari in fondo a un cassone, qualche vestito che ci è venuto in uggia o che non è più di moda ma potrebbe tornarvi e chi lo sa. Così un’opera museale vien messa in deposito non solo per mancanza di spazio, per un cattivo stato di conservazione e in attesa di restauro come gli arazzi d’Avalos ma, soprattutto, per un cambiamento del gusto di un’epoca, ha spiegato il Direttore. E anche, aggiungerei, per motivi politici. Capodimonte è diventato museo nazionale negli anni Cinquanta del Novecento. Molte sculture ottocentesche all’epoca furono messe da parte: la scultura non era più di moda. Perché, mentre la pittura si era evoluta, la scultura era rimasta ancorata ai vecchi schemi. Inoltre, dopo il referendum “monarchia o repubblica?” del ’46, le opere sfacciatamente savoiarde erano state confinate nei depositi. Da cui ora sono stati tirati fuori i busti di un compassato Umberto I e di un Vittorio Emanuele II dalla faccia assatanata. Nella stessa sala, accanto a questi busti, vi sono le sculture eseguite da Leopoldo di Borbone, le quali, per il 1860, dormivano nei depositi: c’è l’Angelo della Carità in gesso, di un dolcissimo sentimentalismo ottocentesco ma incorniciato dal curvo disegno, accentuato in senso astratto, di due grandi ali imponenti.

C’è, tra le sculture, anche un divertente tacchino perfettamente eseguito. È assurdamente seduto su un porco e attrae lo sguardo per l’originale composizione cui dà luogo. Molti sono i capolavori da scoprire in questa mostra, che vanta preziose porcellane e opere di Battistello Caracciolo, Bernardo Cavallino, Mattia Preti e anche di Luca Giordano che – notizia in anteprima – quest’autunno partirà, insieme a Vincenzo Gemito, per Parigi, dove alloggerà al Musée du Petit Palais.

Molto interesse suscitano anche gli oggetti in mostra portati in Europa dal Capitano James Cook e poi donati al re di Napoli Ferdinando IV da Lord Hamilton, ambasciatore inglese presso la Corte Borbonica. Sono armi e altri oggetti provenienti dall’Oceania, che testimoniano la civiltà e il senso della bellezza e dell’arte di un popolo ritenuto selvaggio. Un popolo allora dignitoso e libero perché era diverso dagli altri ma certo non era diverso da sé. Ammiriamo, tra l’altro, un aggraziato copricapo, dei bracciali e delle cavigliere femminili. Appartenevano a una principessa? Dov’è ora questa principessa che, regalmente, danzava muovendo le piume infilate nei bracciali e nelle cavigliere? Vola leggera nel cielo? Il suo popolo, camuffato dagli abiti occidentali, non esiste più. Nella stessa sala, statuette in terracotta riprendono precisamente le figure di popoli esotici vestiti nei loro abiti tradizionali. Sono riproduzioni perfette ma senz’anima. In occasione della mostra, altre novità: la Flagellazione caravaggesca è circondata da un cornice coeva. Mentre tante lampadine a led, imitando molto bene il brillante luccichio delle candele di un tempo, illuminano la favolosa Sala delle Feste.

E c’è anche un’altra novità: parte da questa mostra il progetto di digitalizzazione delle opere di Capodimonte, con l’uso dell’ultimissima tecnica della Art Camera «Per la quale si potrà distinguere anche il filo della tela di un dipinto. È perfetta più dell’occhio umano», dice il Direttore, entusiasta. Ma c’è chi dice di preferire conoscere l’opera nella sua realtà, sentire il suo magnetismo e di provare a volte il desiderio peccaminoso di toccare la ruvidezza di una tela, la profondità del legno di una tavola dipinta, di accarezzare le curve levigate di un marmo. E considera con raccapriccio la fotografia dell’opera un’astrazione, un suo avatar. Ma «Non vi potrebbe essere un manuale di storia dell’arte senza fotografie e sarebbe bello, ma non è pensabile, vedere tutte le opere d’arte in originale» dice Bellenger. E ha ragione.

Adriana Dragoni

fonte http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=61207&IDCategoria=1


Giuseppe Casciaro, Paesaggio (Napoli da Posillipo)

Annibale Carracci (copia da?), Due giovani che ridono (1584/85 ca)
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La sesta estinzione di massa e il clima di Fiorentino Bevilacqua

Posted by on Gen 28, 2019

La sesta estinzione di massa e il clima di Fiorentino Bevilacqua

Nel corso degli ultimi 500 milioni di anni, si sono verificate ben cinque estinzioni di massa, le cosiddette Big Five.

Si tratta di periodi geologicamente molto brevi, nel corso dei quali si ha una grande perdita di biodiversità, con scomparsa di un grande numero di specie.

Già nel 2003, un grande esperto di biodiversità, Edward O. Wilson, aveva stimato in 30.000 il numero di specie che, attualmente, si estinguono ogni anno1.

Altre stime parlano di 11.000-58.000 specie perse annualmente.

Che sia una vera e propria estinzione di massa, la sesta a partire dall’Ordoviciano2, o una più contenuta “defaunazione dell’Antropocene”3, resta da stabilire quali ne siano le cause.

<<Seguendo il modello del team di Gerta Keller di Princeton, riguardo i molteplici fattori convergenti che causarono l’estinzione alla fine del Cretaceo, una teoria per le estinzioni di massa si basa sull’idea che questi eventi macroevolutivi potrebbero essere non prodotti da una sola causa catastrofica, ma da un mix di condizioni diverse e simultanee (*). Secondo tali modelli un’estinzione di massa avviene quando vi è una sinergia tra eventi non usuali>>4; si veda il modello HIPPO, proposto da E.O.Wilson5, recentemente modificato in HIPPOC.

Tutto ciò premesso, mi è balzato agli occhi (pur non essendo io un esperto della materia) l’articolo, apparso sul numero di dicembre gennaio del magazine bio’s, edito dall’Ordine Nazionale dei Biologi, dal titolo Il clima. Benvenuti nella sesta estinzione di massa, di Luca Mercalli.

Il titolo, e il breve riassunto dell’articolo in cui si parla di Accordi di Parigi disattesi, sembrano legare la sesta estinzione di massa ad una sola causa, in contrasto con quanto previsto dai modelli degli specialisti del “settore vita”: il cambiamento climatico.

Nel corpo dell’articolo, per la verità, si può leggere … <<tra pressioni climatiche e delle altre attività umane (*) ormai sappiamo di essere entrati nella “sesta estinzione di massa” della storia geologica planetaria>> in parte così smentendo titolo e “abstract”. Subito dopo, però, si legge << E questo è soltanto un effetto dell’aumento di temperatura di circa 1,5 °C registrato in Italia nell’ultimo secolo…>> (!?), il che sembra riportare tutta la questione della perdita di biodiversità all’aumento della temperatura (a sua volta attribuita, nello stesso articolo, alle emissioni di <<CO2 fossile>> ) <<individuato già nel 1896 [..] e poi successivamente sempre confermato fino ai consensi scientifici sanciti (*) dai rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change>>.

Titolo, riassunto e corpo dell’articolo sembrano, quindi, sostenere, suggerire la tesi della responsabilità del cambiamento climatico quale unica causa della sesta estinzione di massa. Ma lo studio delle possibili cause è molto più complesso di quanto viene riportato nell’articolo di Mercalli.

Un po’ come quando sentiamo dire o leggiamo che (per esempio) … “le temperature di luglio sono le più alte mai registrate” suggerendo ad un lettore superficiale, perché poco interessato all’argomento, che a luglio del tal anno ci sono state le temperature più alte di sempre. La parola su cui soffermarsi, per non travisare il contenuto della frase, è “registrate”: da quando stiamo registrando le temperature? Cento, centocinquanta anni!? Allora vuol dire che a luglio dell’anno in questione, si è registrata la temperatura più alta degli ultimi 100-150 anni, ridimensionando di molto la cosa e riconducendola nell’alveo corretto riportato negli studi (non “negazionisti”, ma semplicemente scientifici di altro segno) riassunti nei grafici riportati nel sito di Pierre L. Gosselin6.

Dunque: un esempio, forse, di comunicazione non proprio precisissima della scienza al grande pubblico o, quanto meno, al pubblico non specializzato.

Nell’articolo, oltretutto, legando l’aumento della temperatura ad una sola causa, l’emissione di CO2 fossile di cui si asserisce il <<continuo aumento di circa 2-3 ppm all’anno>>, discende che <<gli scenari che abbiamo di fronte sono tutti volti al riscaldamento>>. Anche su questo (responsabilità, aumento continuo e scenari futuri) c’è chi, sfidando il rischio di vedersi affibbiare la taccia mediatica di “negazionista”, la “pensa”, dati scientifici alla mano, in maniera opposta.

Vorremmo soltanto che, sui media, questi ultimi avessero lo stesso spazio degli ortodossi, canonici sostenitori mediatici della CO2 e del riscaldamento mai così rapido o mai avvenuto prima d’ora.

Fiorentino Bevilacqua 

fonte

La sesta estinzione di massa e il clima (di Fiorentino Bevilacqua)

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11 novembre 2018 Michele Pezza ricorda Michele Pezza alias Fra’ Diavolo (IV Parte)

Posted by on Nov 14, 2018

11 novembre 2018 Michele Pezza ricorda Michele Pezza alias Fra’ Diavolo (IV Parte)

Oggi concludiamo la serie dei relatori che sono intervenuti domenica mattina agli “Incurabili” al convegno dedicato a Fra Diavolo pubblicando l’intervento di un erede diretto del mitico eroe Laborino di Itri che porta il suo stesso nome, Michele Pezza. L’emozione è stata forte nell’ascoltare il Dr. Pezza e se a distanza di 2 secoli il suo nome ancora riecheggia nei cieli del Regno di Napoli è soprattutto per merito della famiglia Pezza che con orgoglio, amore e passione tengono sempre viva la fiamma sacra che tiene vivo la figura di Fra Diavolo.

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La Sanità nel periodo borbonico

Posted by on Set 14, 2018

La Sanità nel periodo borbonico

I concetti di Sanità Pubblica, Pubblica Assistenza e Sicurezza Sanitaria, così come oggi intesi sono di una lenta armonizzazione e di un progressivo ampliamento delle conoscenze, acquisite nel corso di secoli di sperimentazioni, volti al miglioramento delle condizioni di vita dei popoli. Volendo analizzarne l’evoluzione, appare chiaro che fino al XVIII secolo circa, il concetto di “assistenza” in ambito sanitario è strettamente legato a quello di “carità”, con gli Ospedali e le Opere Pie che cercano di porre rimedio alle mancanze dei governi.

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