Mangiare
pasta a cena fa bene, rilassa, facilita il sonno e non fa ingrassare, anzi fa
dimagrire. Ecco lo studio pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet
Public Health
La pasta di sera fa ingrassare? La scienza dice che non è vero. Siamo il Paese della pasta, ma solo un piatto di spaghetti su tre viene servito a cena. I quasi 12 milioni di italiani che non la consumano di sera per paura di ingrassare o di compromettere il sonno dovrebbero però ricredersi. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet Public Health ha infatti dimostrato che mangiare pasta a cena migliora il riposo notturno, e non fa ingrassare.
Il museo napoletano tira fuori dal suo deposito una serie di opere per una storia dell’arte ancora da scrivere, ripudiata dalla “moda” e dalla politica. Che riavvampa con gusto
La mostra “Depositi di Capodimonte. Storie ancora
da scrivere”, in esposizione al Museo di Capodimonte di Napoli fino al 15
maggio 2019, è uno sballo, una sfida e una scommessa. Che sia anche un
importante avvenimento lo si capiva già dai tanti giornalisti che affollavano
la conferenza stampa nella magnifica Sala degli Arazzi, quelli che narrano
della battaglia di Pavia del 1525. Di quando Napoli era capitale spagnola e il
napoletano Francesco d’Avalos vinceva le truppe di Francesco I, quel re di
Francia che aveva pianto il suo amico Leonardo (da Vinci) sul letto di morte.
Anche questi arazzi sono stati per un po’ nella polvere di un deposito. Fin
quando, nel 1998, non furono restaurati. Ora a Capodimonte, c’è, quale
direttore, un altro francese amante dell’arte italiana, Sylvain Bellenger, che
ha voluto questa mostra di opere tratte dai depositi del museo.
Già l’apertura di questi depositi è stato un fatto
eclatante. Infatti, erano rimasti chiusi anche a lungo e si racconta che un
tempo, con il successore del sovrintendente Raffaello Causa, ne fu vietato
l’accesso finanche agli studiosi e all’ANISA-Associazione Nazionale Insegnanti
Storia dell’Arte, dando adito a sospettosi perché. Ora finalmente sono
visitabili. È c’è anche un video di presentazione, caricato su Youtube, in cui
un uomo con un grande mazzo di chiavi avanza verso i depositi e li apre, come
per liberare le opere, le vite, le storie che vi sono prigioniere. Il 20% di
queste opere – e ne sono più di 1200 – costituisce la mostra. La sua preparazione
ha coinvolto tutto il personale del museo, dai funzionari, ai restauratori,
agli uomini di fatica. Si è lavorato tanto, fino all’ultimo momento. La mattina
della conferenza stampa, c’erano ancora delle scope in un angolo e, su un
tavolo, i bigliettini delle didascalie che sarebbero stati al proprio posto per
l’inaugurazione nel pomeriggio. Nell’aria, grande entusiasmo. Soddisfatti i
curatori, Carmine Romano e Maria Tamajo, sorridenti insieme ai loro
collaboratori. Come Linda Martino che, vivace, leggera, quasi saltava di gioia.
E più leggera era anche Aurora Giglio, la vivacissima presidente di
MusiCapodimonte, l’associazione di promozione della musica popolare napoletana,
(altra iniziativa osé del direttore Bellenger).
Ma quello che di straordinario, dirompente,
“sballante” c’è in questa mostra intelligente è l’affermazione della
libertà di pensiero, che si esprime nell’apparente disordine secondo il quale
sono state collocate le opere. Che non seguono il filo di una logica
progressiva, per esempio non sono state messe secondo un ordine cronologico del
prima e del dopo. Qui si invita il visitatore a uscire dagli schemi già dati,
lo si incita all’attenta osservazione della realtà e a usare una logica fondata
su di essa, una logica analogica. E gli si suggerisce di lasciarsi guidare
dalle suggestioni delle analogie. Che possono essere tante. Qui si sfida il
visitatore a trovarle e magari, in base a queste, ad assemblare dei gruppi di
opere e scoprirne gli sconosciuti autori. E si può accostare un’opera a un’altra
per un’affinità nascosta, per il carattere dei personaggi rappresentati, per la
forza dei loro sguardi, per l’espressività di questo o quel sentimento, per la
costruzione degli spazi, per l’omogeneità del colore e così via. È una sfida e
una scommessa. E può essere un test divertente, che rivela le capacità di
ciascun visitatore. Da qui, da queste opere, tante idee, tante vite, tante
storie. Ancora tutte da scrivere. I cataloghi, infatti, saranno pubblicati
soltanto alla chiusura della mostra, arricchiti dalle osservazioni dei
visitatori.
Ma come nascono i depositi dei musei?
A volte allo stesso modo con cui noi abbandoniamo,
magari in fondo a un cassone, qualche vestito che ci è venuto in uggia o che
non è più di moda ma potrebbe tornarvi e chi lo sa. Così un’opera museale vien
messa in deposito non solo per mancanza di spazio, per un cattivo stato di
conservazione e in attesa di restauro come gli arazzi d’Avalos ma, soprattutto,
per un cambiamento del gusto di un’epoca, ha spiegato il Direttore. E anche,
aggiungerei, per motivi politici. Capodimonte è diventato museo nazionale negli
anni Cinquanta del Novecento. Molte sculture ottocentesche all’epoca furono
messe da parte: la scultura non era più di moda. Perché, mentre la pittura si
era evoluta, la scultura era rimasta ancorata ai vecchi schemi. Inoltre, dopo
il referendum “monarchia o repubblica?” del ’46, le opere sfacciatamente
savoiarde erano state confinate nei depositi. Da cui ora sono stati tirati
fuori i busti di un compassato Umberto I e di un Vittorio Emanuele II dalla
faccia assatanata. Nella stessa sala, accanto a questi busti, vi sono le
sculture eseguite da Leopoldo di Borbone, le quali, per il 1860, dormivano nei
depositi: c’è l’Angelo della Carità in gesso, di un dolcissimo sentimentalismo
ottocentesco ma incorniciato dal curvo disegno, accentuato in senso astratto,
di due grandi ali imponenti.
C’è, tra le sculture, anche un divertente tacchino
perfettamente eseguito. È assurdamente seduto su un porco e attrae lo sguardo
per l’originale composizione cui dà luogo. Molti sono i capolavori da scoprire
in questa mostra, che vanta preziose porcellane e opere di Battistello
Caracciolo, Bernardo Cavallino, Mattia Preti e anche di Luca Giordano che –
notizia in anteprima – quest’autunno partirà, insieme a Vincenzo Gemito, per
Parigi, dove alloggerà al Musée du Petit Palais.
Molto interesse suscitano anche gli oggetti in mostra
portati in Europa dal Capitano James Cook e poi donati al re di Napoli
Ferdinando IV da Lord Hamilton, ambasciatore inglese presso la Corte Borbonica.
Sono armi e altri oggetti provenienti dall’Oceania, che testimoniano la civiltà
e il senso della bellezza e dell’arte di un popolo ritenuto selvaggio. Un
popolo allora dignitoso e libero perché era diverso dagli altri ma certo non
era diverso da sé. Ammiriamo, tra l’altro, un aggraziato copricapo, dei
bracciali e delle cavigliere femminili. Appartenevano a una principessa? Dov’è
ora questa principessa che, regalmente, danzava muovendo le piume infilate nei
bracciali e nelle cavigliere? Vola leggera nel cielo? Il suo popolo, camuffato
dagli abiti occidentali, non esiste più. Nella stessa sala, statuette in
terracotta riprendono precisamente le figure di popoli esotici vestiti nei loro
abiti tradizionali. Sono riproduzioni perfette ma senz’anima. In occasione
della mostra, altre novità: la Flagellazione caravaggesca è circondata da un
cornice coeva. Mentre tante lampadine a led, imitando molto bene il brillante
luccichio delle candele di un tempo, illuminano la favolosa Sala delle Feste.
E c’è anche un’altra novità: parte da questa mostra il
progetto di digitalizzazione delle opere di Capodimonte, con l’uso
dell’ultimissima tecnica della Art Camera «Per la quale si potrà distinguere
anche il filo della tela di un dipinto. È perfetta più dell’occhio umano», dice
il Direttore, entusiasta. Ma c’è chi dice di preferire conoscere l’opera nella
sua realtà, sentire il suo magnetismo e di provare a volte il desiderio
peccaminoso di toccare la ruvidezza di una tela, la profondità del legno di una
tavola dipinta, di accarezzare le curve levigate di un marmo. E considera con
raccapriccio la fotografia dell’opera un’astrazione, un suo avatar. Ma «Non vi
potrebbe essere un manuale di storia dell’arte senza fotografie e sarebbe
bello, ma non è pensabile, vedere tutte le opere d’arte in originale» dice
Bellenger. E ha ragione.
Nel corso degli ultimi
500 milioni di anni, si sono verificate ben cinque estinzioni di massa, le
cosiddette Big Five.
Si tratta di
periodi geologicamente molto brevi, nel corso dei quali si ha una grande
perdita di biodiversità, con scomparsa di un grande numero di specie.
Già nel 2003, un grande
esperto di biodiversità, Edward O. Wilson, aveva stimato in 30.000 il numero di
specie che, attualmente, si estinguono ogni anno1.
Altre stime
parlano di 11.000-58.000 specie perse annualmente.
Che sia una
vera e propria estinzione di massa, la sesta a partire dall’Ordoviciano2, o una più contenuta “defaunazione
dell’Antropocene”3, resta da
stabilire quali ne siano le cause.
<<Seguendo
il modello del team di Gerta Keller di Princeton, riguardo i molteplici fattori
convergenti che causarono l’estinzione alla fine del Cretaceo, una teoria per
le estinzioni di massa si basa sull’idea che questi eventi macroevolutivi
potrebbero essere non prodotti da una sola causa catastrofica, ma
da un mix di condizioni diverse e simultanee (*). Secondo tali
modelli un’estinzione di massa avviene quando vi è una sinergia tra eventi non
usuali>>4; si veda il modello
HIPPO, proposto da E.O.Wilson5,
recentemente modificato in HIPPOC.
Tutto ciò
premesso, mi è balzato agli occhi (pur non essendo io un esperto della materia)
l’articolo, apparso sul numero di dicembre gennaio del magazine bio’s,
edito dall’Ordine Nazionale dei Biologi, dal titolo Il clima. Benvenuti nella sesta
estinzione di massa, di Luca Mercalli.
Il titolo, e
il breve riassunto dell’articolo in cui si parla di Accordi di Parigi
disattesi, sembrano legare la sesta estinzione di massa ad una sola causa, in
contrasto con quanto previsto dai modelli degli specialisti del “settore vita”:
il cambiamento climatico.
Nel corpo
dell’articolo, per la verità, si può leggere … <<tra pressioni climatiche
e delle
altre attività umane(*) ormai sappiamo
di essere entrati nella “sesta estinzione di massa” della storia geologica
planetaria>> in parte così smentendo titolo e “abstract”. Subito dopo,
però, si legge << E questo è soltanto un effetto dell’aumento di
temperatura di circa 1,5 °C registrato in Italia nell’ultimo secolo…>>
(!?), il che sembra riportare tutta la questione della perdita di biodiversità
all’aumento della temperatura (a sua volta attribuita, nello stesso articolo,
alle emissioni di <<CO2
fossile>> ) <<individuato già nel 1896 [..] e poi successivamente
sempre confermato fino ai consensi scientificisanciti(*)
dai rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate
Change>>.
Titolo,
riassunto e corpo dell’articolo sembrano, quindi, sostenere, suggerire la tesi
della responsabilità del cambiamento climatico quale unica causa della sesta
estinzione di massa. Ma lo studio delle possibili cause è molto più complesso
di quanto viene riportato nell’articolo di Mercalli.
Un po’ come
quando sentiamo dire o leggiamo che (per esempio) … “le temperature di luglio
sono le più alte mai registrate” suggerendo ad un lettore superficiale, perché
poco interessato all’argomento, che a luglio del tal anno ci sono state le
temperature più alte di sempre. La parola su cui soffermarsi, per non travisare
il contenuto della frase, è “registrate”: da quando stiamo registrando le
temperature? Cento, centocinquanta anni!? Allora vuol dire che a luglio
dell’anno in questione, si è registrata la temperatura più alta degli ultimi
100-150 anni, ridimensionando di molto la cosa e riconducendola nell’alveo
corretto riportato negli studi (non “negazionisti”, ma semplicemente
scientifici di altro segno) riassunti nei grafici riportati nel sito di Pierre
L. Gosselin6.
Dunque: un
esempio, forse, di comunicazione non proprio precisissima della scienza al
grande pubblico o, quanto meno, al pubblico non specializzato.
Nell’articolo,
oltretutto, legando l’aumento della temperatura ad una sola causa, l’emissione
di CO2 fossile di cui
si asserisce il <<continuo aumento di circa 2-3 ppm all’anno>>,
discende che <<gli scenari che abbiamo di fronte sono tutti volti al
riscaldamento>>. Anche su questo (responsabilità, aumento continuo e
scenari futuri) c’è chi, sfidando il rischio di vedersi affibbiare la taccia
mediatica di “negazionista”, la “pensa”, dati scientifici alla mano, in maniera
opposta.
Vorremmo
soltanto che, sui media, questi ultimi avessero lo stesso spazio degli
ortodossi, canonici sostenitori mediatici della CO2 e del riscaldamento mai così rapido o mai
avvenuto prima d’ora.
Oggi concludiamo la serie dei relatori che sono intervenuti domenica mattina agli “Incurabili” al convegno dedicato a Fra Diavolo pubblicando l’intervento di un erede diretto del mitico eroe Laborino di Itri che porta il suo stesso nome, Michele Pezza. L’emozione è stata forte nell’ascoltare il Dr. Pezza e se a distanza di 2 secoli il suo nome ancora riecheggia nei cieli del Regno di Napoli è soprattutto per merito della famiglia Pezza che con orgoglio, amore e passione tengono sempre viva la fiamma sacra che tiene vivo la figura di Fra Diavolo.
I concetti di Sanità Pubblica, Pubblica Assistenza e Sicurezza Sanitaria, così come oggi intesi sono di una lenta armonizzazione e di un progressivo ampliamento delle conoscenze, acquisite nel corso di secoli di sperimentazioni, volti al miglioramento delle condizioni di vita dei popoli. Volendo analizzarne l’evoluzione, appare chiaro che fino al XVIII secolo circa, il concetto di “assistenza” in ambito sanitario è strettamente legato a quello di “carità”, con gli Ospedali e le Opere Pie che cercano di porre rimedio alle mancanze dei governi.